A sussulti e ondate, Genova 2001 non fa che tornare.
Pochi giorni fa, la Cassazione ha condannato in via definitiva alcuni dei dirigenti di PS che diressero l’irruzione nella scuola Diaz e il pestaggio di chi ci dormiva dentro, dopodiché per coprire quello scempio mentirono, falsificarono, calunniarono le loro vittime.
Tra pochi giorni, il 13 luglio, sempre la Cassazione deciderà la sorte degli ultimi dieci manifestanti sotto processo, accusati di devastazione e saccheggio. Sono i classici “rimasti col cerino acceso in mano”. I loro co-imputati sono stati assolti in appello nel 2009: agirono per legittima difesa dopo la violentissima carica di polizia in via Tolemaide, carica che il tribunale ha riconosciuto illegittima.
I dieci rischiano un secolo di carcere, ecco perché la campagna in loro sostegno si chiama “10 x 100”. Pene enormi, fino a 16 anni di galera, per aver colpito – va sempre ricordato – delle cose, non delle persone. Le forze dell’ordine, intanto, spaccavano teste e arti, avvelenavano la gente con sostanze tossiche vietate, sequestravano persone per torturarle, seminavano il terrore, uccidevano.
Comunque vada, l’anniversario del 20 e 21 luglio sarà segnato da queste sentenze. In questo momento è la Cassazione a scrivere il copione e indirizzare la memoria pubblica.
Nei giorni scorsi ci siamo chiesti quale contributo significativo avremmo potuto dare, qui su Giap, alla vigilia – nel senso originario di “veglia”, del restare vigili, del non addormentarsi – per la sentenza del 13.
Non abbiamo dovuto pensarci troppo: eccovi la registrazione finora inedita di una declamazione di Marco Philopat su Genova. Il brano proviene da una serata multiautore (con Wu Ming 2, Vasco Brondi e altri) intitolata “Anni di merda. Radiodramma degli ultimi trent’anni”, svoltasi al Locomotiv Club di Bologna il 6 novembre 2009.
Philopat non è “solo” uno scrittore, un motore di editoria “altra” e uno storico del punk e delle controculture italiane, ma anche uno dei migliori “lettori pubblici” in circolazione, un vero “animale da reading”. Qui lo accompagnano Egle Sommacal e Stefano Pilia, ovvero le chitarre dei Massimo Volume.
Questo brano è una delle cose più belle e al tempo stesso esatte scritte su Genova 2001. Buon ascolto.
MARCO PHILOPAT – GENOVA 2001 – 8’43”
Per me, per quelli come me, Genova non passerà mai.
Quelli come me siamo reduci per forza di un merdoso vietnam metropolitano che serviva per anticiparne ben altri dove non avremmo contato un cazzo.
Quelli come me siamo iscritti a una fottuta ANPI immaginaria senza medaglie, senza gagliardetti, senza sezioni e un solo appuntamento, se ce la fai. Il 20 o il 21 Luglio, piazza alimonda. Più vecchi, meno capelli, meno sorrisi, più acciacchi, più vuoti, molti meno e molto più.
Io sono nato il 21 Luglio. E di 21 Luglio sono morto.
Quelli come me non erano giovani, a Genova.
Quelli come me non erano i pischelli.
Quelli come me ce li avevano portati, i pischelli.
A Genova.
Ho provato la paralisi. Il crampo.
Non mi sono mai ripreso davvero, da allora.
Non avevo più niente da riprendermi.
Quelli come me a Genova, non hanno perso nè l’innocenza nè la giovinezza.
Quelli come me a Genova, hanno vinto il desiderio di oblio, di sè stessi. Dell’aver consentito. Dell’aver reso possibile.
Cacciateci nel culo le ultime sentenze.
Liberate gli ultimi ostaggi.
Poi andate a fare in culo per sempre.
L.
Bonus: Wu Ming 2, “Manifestazione fascista”
Lettura dagli Appunti 125, “Manifestazione fascista”, e 126, “Manifestazione fascista (seguito)”, da Petrolio di Pier Paolo Pasolini.
Locomotiv Club, Bologna, 06/11/2009, reading multi-autore “Anni di merda: radiodramma degli ultimi trent’anni”.
Ieri il brano di Philopat è stato ascoltato/scaricato 3094 volte. In giro per social network abbiamo letto commenti commossi – talvolta impacciati, mezzi afasici, come se Marco avesse “tolto le parole di bocca” a molti.
E’ importante dire che “Genova è tutto quel che è successo”, dirlo con quella forza di racconto, ribadire questa semplice e dirompente verità nei giorni in cui si cerca di isolare dal contesto l’agire e la nuda vita degli ultimi dieci “violenti” (che, come ha scritto Checchino Antonini, sembrano “pescati a caso” fra i trecentomila che riempirono le strade di Genova).
Qui su Giap, però, c’è molto silenzio. Sarà anche “rispettoso” silenzio, sarà dovuto al pudore, alla difficoltà di raccogliere le idee perché Genova brucia dentro, alla sensazione che si sia parlato fin troppo (ma spesso senza *dire* granché), alla canicola… Nondimeno, vi invitiamo a esprimervi, crediamo che anche a Philopat farebbe piacere se le sue parole ne richiamassero altre.
prometto di provare a raccogliere le idee, nelle prossime ore.
Genova mi sembra ieri, anzi oggi.
Le parole di Luca mi sembrano dire molto di quello che avrei scritto anch’io…
Il brano è tratto da Roma k.o., il romanzo d’amore droga e lotta di classe del Duka e Marco Philopat (Agenzia X, 2008). “Dai finiamoli ’sti racconti, Gerardo, resta solo un pezzo ancora…”
Hai ragione, ci siamo scordati di scriverlo. Qui lo si può comprare e/o scaricare in pdf:
http://www.agenziax.it/oc_main.php?pid=22&sid=30
Invece il video linkato alle parole “animale da reading” è il reading bolognese del libro successivo di Duka & Philopat, “Rumble Bee” (2011)
http://www.agenziax.it/oc_main.php?pid=51&sid=30
Tecnicamente, poi, è Philopat che mette in scrittura i ricordi del Duka. La persona che dice “Io” nel racconto è il Duka. La versione del reading è un montaggio di due diversi blocchi del libro, con alcune modifiche.
Questo reading non restituisce cosa è stato per me Genova, ne cosa è nato dalle infinite rielaborazioni che ne sono seguite.
È rimasta forte la sensazione di una distanza – da un certo tipo di risposta che molti hanno voluto dare , all’assurda aggressione che lo stato ha scatenato a Genova.
Se penso ai dieci capri espiatori; ai dieci esempi presi a caso (davvero con il cerino in mano), davvero tutto questo passa in secondo piano; ma ha Genova io non sono stato un sol uomo con la folla, questo lo ricordo distintamente.
Nel delirio di domenica 22, completamente dispersi nel caos, trascinando un amico semi svenuto a causa dei lacrimogeni, ricordo di aver urlato contro un Ragazzo intento a sfasciare a bastonate una cabina del telefono.
Di quell’isterico scambio di insulti rimane la traccia, insieme alle cento occasioni che ho avuto di essere “uno” con gli altri, a Genova.
Questo non mi restituisce il reading, questa sensazione che torna sempre quando Genova riaffiora, periodicamente, nella mia vita.
Non sono stato chiaro, è faccio davvero difficolta a fare ordine in testa, come da dieci anni a questa parte, d’altronde…
Non mi arrischio a commentare la ragione per cui a questo post non siano seguiti commenti, anche se penso che un significato ci sia, una difficoltà, un certo smarrimento (mi sbilancio e chiedo se non possa essere una difficoltà che ha le sue ragioni nell’oggi, più che in quel che successe undici anni fa). Certo, è difficile parlarne, almeno per me. Personalmente ho ascoltato tutto di un fiato la lettura di Marco, ne sono uscito con una commozione trattenuta, una commozione che percepisco come esteriorizzazione di un’incazzatura mai risolta; ho lasciato scendere questa emozione, ho lasciato ancora una volta mescolarsi i ricordi personali di quelle giornate con le mille narrazioni in cui negli anni mi sono imbattuto. Poi sono tornato e ho trovato le parole di Luca, una sentenza senza giri e sprechi di parole, e di nuovo in me una sospensione, la necessità di prendersi del tempo per ripensare a quel Luglio 2001.
“Giorni d’amore e di odio” dice Marco a un certo punto della lettura, “quanto ho pianto, quanto ho pianto”… piansi anche io il venerdì dell’assassinio di Carlo, sugli spalti del Carlini, mentre guardavo i volti dei miei compagni e cercavo nei loro occhi una visione, qualcosa che mi aiutasse a recuperare la sensazione di avere il controllo della situazione. Inutilmente, e non sarebbe potuto essere diverso.
Ho sempre pensato a Genova 2001 come alla “linea d’ombra”, quella linea oltre la quale “non saremo più” e – più passa il tempo, sempre in questa metafora – anche nel senso di “non saremo mai”. Le guardie erano state aizzate ad annichilirci, non ci sorprese, se non nell’intensità, nella spregiudicatezza e nella sfacciataggine del potere che guidò una rivolta delle guardie in divisa blu. Ma ancora non siamo tornati tutti a casa, questo ora è l’importante: “Liberate gli ultimi ostaggi”.
WuMing, qua su giap ci obbligate a pensare, a ricordare. E citando Luca che diceva “certo fate un gran bene alla salute”, anche voi fate un gran bene alla salute ma questo bene passa spesso attraverso un dolore che non è solo personale, ma nemmeno sempre collettivo.
Io sono di quelli che a Genova non c’erano – ero quei cinque o sei anni più “vecchia” per trovarmi già in una fase diversa della vita, quella dei figli piccoli, piccolissimi. Io Genova l’ho vista attraverso i titoli dei giornali, l’ho vista negli spezzoni dei telegiornali dalla tv accese nei bar, nelle telefonate a casa, dai miei genitori che mi raccontavano increduli, l’ho sentita nelle parole sconclusionate di un vicino nel posto di mare dov’ero che mi urlava hanno ammazzato un ragazzo quei bastardi, e io da Genova ho smesso di capire. Ho allontanato da me l’immagine di quello che vedevo, semplicemente non volevo guardare, vedevo i miei figli che imparavano a camminare – letteralmente, eh, nel luglio di quell’anno mia figlia ha mosso i primi passi sulla sabbia dell’Elba – e confusamente mi dicevo non capisco, questo paese non lo capisco più, non capisco berlusconi, non capisco questo modo da Pinochet, non capisco perché questa macelleria. E pensavo ai miei studenti, a uno in particolare, uno studente con cui avevo discusso l’anno prima, si parlava delle potenzialità della rete, dei movimenti, e io ero – non dico dubbiosa, ma come dire, in attesa. E questo studente mi diceva prof guarda avanti, senza la rete alcune cose avrebbero avuto un impatto minore, prof se non usi la rete non capisci un cazzo di Seattle. E pensavo che quel ragazzo era a Genova, che io non capivo un cazzo di questo paese, che Genova era una prova generale di qualcosa che sarebbe arrivato ma non sapevo cosa, e che mentre i miei figli imparavano a camminare, io avrei dovuto insegnargli le parole per vivere con dignità in un paese dove succedevano quelle robe da americalatina. Adesso loro camminano, alcune parole mi sa che le hanno imparate, e Genova è un punto di non ritorno anche per chi non c’era. E si, comunque c’è un certo pudore, da parte di chi non c’era, nel mettersi a raccontare e commentare – ci si sente in colpa, ecco.
Faccio mio il pudore di Paola Signorino; è condivisibile. Non ero a Genova o meglio, non di persona. Per tre giorni consecutivi sono rimasta incollata davanti alla tv (da mattina a sera, letteralmente). Allibita. Rammento bene le sensazioni provate in quei momenti: oscillavano tra un greve senso di colpa (per non essere lì) e un pavido senso di leggerezza per lo scampato pericolo. In fondo, sono stata una spettatrice dinnanzi a un diaframma tecnologico – lo schermo televisivo – che mi ha protetto. Tuttavia, ciò che ho osservato per ore in quei frangenti non potrà più essere cancellato dalla memoria: è un patrimonio vicario di sofferenze altrui divenuto parte di me; per sempre.
Non mi sento di aggiungere altro.
ciao. Mi permetto di segnalare questo articolo di Fabrizio, che fa una bella e dura riflessione su tutto quello che è seguito, e che non è seguito, al dopo Genova da parte del movimento, http://www.zeroviolenzadonne.it/index.php?option=com_content&view=article&id=20390:genova-2001-uno-straordinario-fallimento-&catid=34&Itemid=54
“Non toccate le proprietà. Una vetrina di una banca o di un supermercato, conta più del corpo o della dignità di una persona. Questa è la vera lezione di Genova, 11 anni dopo.”
Questo è il punto, la verità alla base di tutte le schifezze che ci stanno imponendo. Ed è sconsigliatissimo criticare (“Taci, lo spread ti ascolta”).
“The country was founded on the principle that the primary role of government is to protect property from the majority, and so it remains.”
Noam Chomski, citato in questa splendida canzone, che mi permetto di riportare.
http://www.youtube.com/watch?v=2Vi7kCxMBTY
(Chomsky, m’è partito il reply prima di finire il post…)
Io a Genova non c’ero, per una serie di fatalità (benevole, dico a posteriori), ma c’era lì tutto il mio universo: amici, compagni, fratelli (anche in senso genetico). Nonostante non abbia vissuto sulla mia pelle l’orrore, il trauma c’è comunque stato e forte, perché ogni racconto di ognuna delle persone che sono corso ad abbracciare, unito al ricordo diretto di quello che m’ero vissuto a Napoli qualche mese prima, si stratificava orribilmente nella mia mente e mi sono ritrovato, lentamente e inconsapevolmente, ad allontanarmi via via dai movimenti. Complici, va detto, anche certi atteggiamenti agghiaccianti di pezzi di “movimento” subito pronti alle dicotomie buoni e cattivi, bianchi e neri. Quest’ultimo è un aspetto sul quale probabilmente di dovrebbe tornare, perché, con tutto il mio disappunto rispetto alle dinamiche del 15 ottobre, le ho viste riproporsi pari pari. Che a tentare di spezzarmi le gambe, sia fisicamente che moralmente, sia il mio nemico naturale, ci sta; che siano persone con le quali ero fianco a fianco molto meno…
Silenzio. Molte delle persone che erano a Genova non erano preparate ad affrontare il Male. Molte non lo hanno nemmeno visto, se non negli occhi di un compagno “ripassato” in uno dei lager che era diventata Genova. Una costellazione di lager, vie che la attraversavano come scie di sangue di un dinosauro ferito a morte.
Alcune di queste persone non sono ancora riuscite ad adattare a tutto questo il proprio orizzonte cognitivo, e pensano ancora che sia possibile manifestare senza prima essersi assicurati una qualche rete di protezione.
Io penso a Genova g8 come a una grande costruzione di Lego, sotto la quale c’è una specie di Gotham City fatta di sbirri e sbirre bastard*, ragazzetti in motorino, e sopra gli elicotteri della NATO, e mi sento come se fosse stata il nostro Sand Creek. Abbiamo lanciato la freccia verso il cielo ed è tornata bruciata, e io non posso pensare a quei giorni perché il mio cuore si riempie di odio per quello che sono riusciti a fare a tutti noi.
E questo odio semplicemente non lo posso sopportare, è come un cancro estraneo che mi hanno impiantato dentro e del quale forse non riuscirò mai a liberarmi.
Bastardi.
Grazie per il post, per il reading e per tutto il vostro lavoro. Ero a Genova il venerdì per la giornata delle “azioni dirette” (fa una certa impressione chiamarle così oggi, ma allora faceva molto “nuovo movimento”) e il sabato per la manifestazione. Vorrei ricordare anche le iniziative dei primi giorni di quella settimana, lo sbattimento e la fatica di tanti compagni, la splendida manifestazione dei migranti il giovedì.
Eravamo pronti, la mattina presto del venerdì sui pullman da Firenze, a partire per una guerra. In fondo lo sapevamo che poteva finire male, dopo Praga, Goteborg, ce l’avevano detto i compagni più grandi alle riunioni: “raga è sicuro stiamo attenti, a Genova ci scappa il morto”. C’era stato il Global Forum a Napoli solo tre o quattro mesi prima ed era finita male. Un compagno che aveva una conoscenza in polizia ci aveva detto che a Genova si stava preparando qualcosa di grosso e che alcuni poliziotti per loro stessa ammissione riconoscevano di non aver mai avuto così tanto mano libera (e pesante) come nei cinque anni di governi di centrosinistra.
Ma quello che più contava per me, che nel 2001 avevo la stessa età di Carlo Giuliani, era il fatto politico del “contro-G8”. Il lavoro dei mesi precedenti, l’informazione sugli organismi sovranazionali. L’illegittimità del G8, del WTO, i dibattiti, le iniziative, i corsi universitari che discutevano delle istanze del movimento di Seattle. I collettivi studenteschi non parlavano d’altro, le tute bianche sfruttate come fenomeno modaiolo su “Musica!” di Repubblica. Nascevano associazioni, quelle vecchie resuscitavano per l’ultima volta. Marxisti Leninisti a braccetto coi cattolici della Rete di Lilliput…Al G8 eravamo riusciti a portarci tutti!
Ecco, mi fermo qui. Per certi versi, anche se non sarebbe possibile né giusto, dovremmo provare a “congelare”, ad archiviare in una parte del cervello il ricordo di quelle due giornate di venerdì e sabato. Riavvolgere il nastro e ri-registrarci sopra. In fondo sono LORO ad essere tutto quel disastro. E noi, con lo slogan “Voi G8, noi 6 miliardi” e quello di dieci anni dopo “Siamo il 99%”, non c’eravamo andati troppo lontano. E se siamo ancora qui a discuterne dopo 11 anni non sarà solo per commentare delle sentenze del cazzo ma perché, per parafrasare Fortini “fummo vinti e vinceremo”!
A rileggere ora quel che si diceva e si scriveva ad inizio secolo, anche se abbiamo sbagliato molto per quel che riguarda come organizzare una lotta efficace, avevamo sostanzialmente ragione su tutto.
Credo che sia questo il delitto che vogliono farci pagare.
[…] Stanotte i muri di Milano si sono riempiti di manifesti a sostegno della campagna 10X100, Genova non è finita. Come sapete il 13 luglio la Cassazione […]
Io a Genova c’ero… e per anni non ho potuto sentire un elicottero senza provare un terrore sordo, senza ripensare al pomeriggio del 19 al Carlini assediato e la certezza che in quei giorni avrebbero potuto farci di tutto…
Dopo nulla è stato più come prima: quella moltitudine che aveva sfilato in quei giorni si è lentamente dispersa, cercando ognuno per proprio conto le ragioni della sconfitta, individuandole spesso in altre compomenti del movimento. E la voglia di parlarne, di tentare un’analisi degli avvenimenti delle strategie messe in campo dalla repressione a livello europeo, alla luce dei fatti di Goteborg, Napoli, ecc., svaniva contestualmente al rispuntare di servizi d’ordine anti black blok, al’idea che fossero loro i responsabili della repressione…
Quello che dice Philopat restituisce la pienezza di quei giorni e restituisce la gioia, la rabbia e il dolore, restituisce dignità alle scelte del GSF di essere includente, restituisce la distanza tra rompere una vetrina, bruciare un auto, un cassonetto e sfasciare teste, torturare, ammazzare…
sono passati più di dieci anni ma quando sento parlare di genova l’effetto è sempre lo stesso, lo stomaco si stringe e le lacrime bagnano gli occhi.
E’ l’effetto che mi fa l’ingiustizia quando si manifesta. Ed è il motivo per cui sono stato e sempre sarò, schierato.
Genova è un solco che ha tagliato a metà la realtà.
Ha spazzato e spezzettato ogni forma di lotta e di aggregazione. Uno shok da cui non ci siamo mai ripresi.
Io volevo condividere le mie sensazioni per capire se anche voi condividete questo pensiero :
io li Sentivo la possibilità di un cambiamento globale. Il movimento era la cosa che più si avvicinava a una rivoluzione a cui io abbia mai partecipato.
Da allora ogni nuova espressione di rifiuto e cambiamento (penso all’ultimo occupy) si copre di grigio, di inutile, di energia sprecata. Manca oggi qualcosa di sufficientemente potente e coinvolgente da coinvogliare il disagio comune e contrastare quella macchina perfetta che è l’elite del nostro secolo.
A Genova siamo stati forti perché loro G8 noi 6 miliardi, ma anche incredibilmente deboli. Disorganizzati. Proni ai leaderismi del momento. Impreparati tatticamente. Incapaci di reggere mediaticamente davanti alle farneticazioni di giornali, tivù e politica istituzionale. Ed è questo che continuiamo a pagare, o almeno, che io continuo a pagare personalmente ogni giorno, oltre a portarmi dentro il senso di sconfitta ed il dolore bruciante per l’ingiustizia. Era un movimento che poteva esprimere tanto, che poteva cambiare il modo di rapportarsi individualmente e collettivamente alla politica. Invece siamo finiti senza fiatare su un palcoscenico in cui il copione era già stabilito, e di sicuro non l’avevamo scritto noi.
Certo che eravamo deboli e impreparati a Genova. Non eravamo abbastanza organizzati e forse ci piaceva anche così (il “movimento dei movimenti” piaceva a tutti ma già di per sé trasmetteva un’idea un po’ confusa). Per alcuni era il prezzo da pagare all’unità del movimento e del GSF in particolare.
Era chiaro che a Genova non si andava per “prendere la Bastiglia” ma per partecipare ad una rivoluzione di un altro tipo che poteva iniziare in quegli anni e che aveva avuto un’avvisaglia a Seattle nel ’99. Il movimento però non è finito a Genova. Non è stato più lo stesso ma ha attraversato con una certa vivacità almeno il 2002 e il 2003. Ci sono stati un paio di Social forum europei decenti a Firenze e a Londra, il Brasile e buona parte del Sud America sono usciti da anni di dittature liberiste proprio in quegli anni, il movimento contro la guerra in Iraq è andato vicino a diventare una potenza globale. Poi è stato come il ritirarsi graduale di una marea.
Non so se ci sia qualcosa in comune tra Occupy, gli Indignados e il movimento altermondialista o no global (a proposito, che peccato non essere riusciti a definirci un po’ meglio invece di subire tutte queste etichette dai media). Secondo alcuni, questi movimenti sono anche più importanti perché nati come risposta ad una crisi più profonda. Sento dire anche che Occupy ha il merito di riproporre in qualche modo il concetto di lotta di classe, che in effetti restava un po’ offuscato nelle discussioni di dieci-dodici anni fa. Vedremo…Di certo, stavolta in Italia siamo più indietro, complice una serie di disastri degli ultimi anni tra cui la manifestazione del 15 ottobre scorso a Roma.
Mi appello alla saggezza delle parole del grande Joe Strummer: IL FUTURO NON E’ SCRITTO.
Salve a tutti
In vista della sentenza della Cassazione, e più in generale per la campagna di solidarietà agli arrestati del G8, tutto fa brodo. E’ giusto così, e probabilmente è più importante in questa fase sottolineare il livello di repressione messo in campo in quei giorni piuttosto ai nostri errori.
Non vorrei però che Genova venisse vista come una sorta di maledizione divina capitataci per caso, per crudele volontà delle forze del male contro i movimenti. Non solo sarebbe una verità molto parziale, ma sarebbe anche incauto farla qua sopra, e cioè nel luogo dove, forse per primi, alcuni protagonisti di quei movimenti fecero apertamente autocritica.
Genova rappresentò l’accumulo di una catena di errori che il movimento di quegli anni, o per meglio dire alcuni leader di movimento di quegli anni, fecero.
Alcuni di questi leader, fomentando una certa retorica dell’epoca, da una parte “disarmarono” totalmente il movimento, aggregandolo al carrozzone neopacifista contrario ogni forma di violenza/resistenza; dall’altro, giocarono ai piccoli Marcos, dichiarando guerra al capitale e aspettandosi che questo prendesse certe dichiarazioni per mere provocazioni semiotiche e non rispondesse di conseguenza.
Da un altro lato, privarono il movimento della conflittualità di massa, tentando di accaparrarsi quel tot di conflittualità, in ogni caso presente, convogliandola nelle azioni di micro-gruppi di compagni che gestivano il conflitto (cioè, il corteo sfilava pacifico, il gruppo di compagni gestisce il conflitto mettendo in piedi delle azioni, il più delle volte programmate, e poi tutto rientrava salvando capra e cavoli, e cioè conflittualità con immagine pacifista).
Questo a Genova esplose, e quando fu il corteo ad essere caricato e non il micro gruppo di compagni, si vide di quante e quali responsabilità avevano e hanno ancora oggi quei leader di movimento. Che infatti, non avendo mai fatto autocritica e analizzato la sconfitta, sono più di dieci anni che tentano di riproporre quel modello politico li: il gruppetto organizza il conflitto, la massa sfila pacificamente, depotenziando ogni forma di conflittualità generalizzata. Quando ciò non avviene, tipo il 15 ottobre, il deficit di analisi si palesa in maniera evidente e non ci si capisce più niente.
Questo per dire solo una cosa: se il livello del conflitto sale, e a Genova era ai massimi livelli, i tentativi di depotenziare la volontà di scontro lasciano il tempo che trovano e producono solo danni. Il danno fu che alla repressione della polizia (cosa aspettavamo di trovarci, le guardie coi mazzi di fiori dopo che per mesi qualcuno dichiarava che saremmo andati la a invadere il G8?), la manifestazione ci andò ingenuamente, inconsapevole, innocente. E in quei giorni l’innocenza era una colpa, non una virtù. Il problema è che questa inconsapevolezza fu orchestrata e faceva il gioco di chi, poi, non ebbe altri argomenti che denunciare la brutalità della polizia.
Alessandro
@ Collettivo Militant
Il punto è che – come ricorda pallinov nel suo commento più sopra – in quegli anni il movimento globale era composito. E’ una cosa che probabilmente un ventenne di oggi farebbe già fatica a capire. La consapevolezza di trovarsi in un passaggio epocale, la reazione davanti al tentativo neoliberista di prendersi tutto il piatto (in realtà, oggi lo sappiamo, colpo di coda del capitalismo sempre più incartato su se stesso, in cerca di warfare per procrastinare la crisi di qualche anno) aveva molte anime. E l’anti-G8 di Genova le ha rappresentate tutte, dagli ultrapacifisti cristiani agli anarco-insurrezionalisti.
Io concordo con te nella critica (che per me è anche autocritica, come giustamente ricordi) di come furono gestite le cose all’epoca. Non credo di dover aggiungere ancora parole a quelle che abbiamo già speso qualche anno fa. Ma questo non toglie che con quella composizione di movimento si dovevano fare i conti. Fregarsene, pensando che l’innalzamento del livello del conflitto avrebbe agito come una specie di rasoio di Occam, sarebbe stato non solo sbagliato politicamente, ma soprattutto poco accorto, al punto da portare qualcuno che la pensava così a fare il gioco del nemico. Perché era precisamente la generalizzazione del movimento che si voleva colpire a Genova, cioè l’egemonia comunicativa, argomentativa, che stava guadagnando, mica i gruppi più incazzosi, per i quali ogni occasione sarebbe stata buona.
Anche per questo concordo con te sul fatto che aver pensato di egemonizzare quella varietà, quella composizione complessa, gestendo il conflitto come rappresentazione, alla fine non poteva che portare a sbattere il grugno contro il conflitto reale. Genova è stata anche questo: “Ah sì, volete la guerra? E guerra sia”. Ma, scusa se mi concedo un ma, pallinov ricorda anche – e lo cito problematicamente, sia chiaro, come elemento di riflessione – quanto il divenire trendy di certe pratiche portò persone molto diverse per provenienza e formazione a sfilare assieme, a provare a pensare un’ipotesi di convivenza in piazza, a immaginare cornici aperte in cui le varie anime di un movimentoo potessero esprimere ciascuna le proprie pratiche. Era un’illusione? Boh. Però io l’ho visto fare. Ma farlo significava preparare una scadenza con mesi di anticipo, girando in lungo e in largo per assemblee, incontri, dibattiti, tessendo relazioni con la gente più disparata… Io l’ho fatto. In quegli anni e mesi e giorni ho incontrato gente di tutti i tipi, dagli esponenti di ogni corrente di pensiero della sinistra, ai preti, ai sindacalisti. E oggi, davanti all’incapacità di organizzare e gestire un qualunque 15 ottobre (mica Genova), davanti all’incapacità di parlarsi, davanti al diffidare tutti di tutti, al guardarsi in cagnesco, che impedisce ogni coordinamento, be’, un po’ mi scoraggio (cazzi miei, lo so…).
Occhio, non voglio che questo mio discorso venga scambiato per un ecumenico “vogliamose bbene”. Undici anni fa non ci volevamo bene per un cazzo, anzi, però le cose insieme provavamo a farle lo stesso. E le abbiamo fatte – nel bene e nel male – senza la stampella di alcuna formazione parlamentare. Perfino Rifondazione Comunista e i Verdi stavano nel movimento alla pari delle altre componenti, non lo egemonizzavano e meno che meno davano una qualsivoglia linea. Oggi quello spirito sembra piuttosto averlo raccolto, in forma distorta e confusionaria, il M5S. E ho detto tutto… per citare Totò. Anche in questo senso quella sconfitta è stata una grande occasione mancata. E – scusa se la sparo, ma è quello che penso – da quella sconfitta è nato il PD, la riproposta trash dell’opzione post-post del partitone della sinistra italiana. Per la storia degli eredi del PCI, Genova è uno spartiacque: mai prima di allora il più grosso partito della sinistra italiana aveva optato per la diserzione della piazza, per l’abbandono della gente alla rappresaglia poliziesca. Piuttosto scendevano loro, con i loro servizi d’ordine, a mettere in riga la gente, a sprangare gli “extra-parlamentari”, ma battersela alla chetichella, disdire i pullman, dire a tutti di non andare in piazza, mollare la gente così… questo è un salto in basso di qualità che segna per la vita.
“In quei giorni l’innocenza era una colpa, non una virtù”. Le tue ultime parole mi colpiscono allo stomaco, anche se me le sono ripetute chissà quante volte in questi undici anni. Il punto è che suonano come un’epigrafe o un epitaffio, che – se ci pensi – potresti mettere in calce a molti passaggi storici. Forse perché individuano un problema che ha più riproposizioni che soluzioni. Una questione che attraversa la storia e le nostre vite. Sicuramente la mia a partire da quelle giornate.
Alessandro, interessante e molto condivisibile.
Ma quanto era coinvolgente la litania conflitto&consenso!
Che forse era poi anche la massa innocente e il gruppeto semiotico.
Che senza queste litanie, forse, Genova non sarebbe stata Genova, ma non sarebbe stata del tutto.
Comunque, se occorre parlare di sedimenti, e di quel che dice con una efficace potenza philopat, dopo genova in me il “crepaccio incolmabile” è nella carne.
Il crepaccio di una alterità irriducibile, ma anche di una sconfitta disperata.
Una cosa che tra la’altro mi ha fatto dire che gli unici che avevano capito come bisognava andarci, a genova, erano i black bloc. dire, per la rabbia viva, senza aver nemmeno capito ancora, dopo tuttti questi anni, se oltre a dirlo lo penso.
Senza nemmeno aver la voglia di capirlo.
Senz’altro ci ero arrivato, a Genova, con pari entusiasmo e ingenuità.
E poi si pagano.
E il tempo che passa, su Genova, impiega troppo a fare il suo lavoro.
Fuori gli ostaggi.
“Genova 2001: nomi e cognomi”, di Marco Trotta.
http://comune-info.net/2012/07/genova-2001-nomi-e-cognomi/
Vorrei commentare qualcosa ma, come per molti, i pensieri si accavallano. Io non c’ero, avevo 17 anni e i miei mi impedirono fisicamente di partire. Dal loro punto di vista a ragion veduta (peraltro mio padre andò alla manifestazione dei migranti del 19 con la CSAPSA e raccontò di un clima allucinante). Dal mio di meno. E in questi 11 anni la sensazione di aver perso qualcosa è sempre stata fortissima. Perché ha ragione Philopat “Genova è tutto, ma proprio tutto”. E ha ragione PinoPino, c’è stato un prima e un dopo. Perché le immagini del Defender che calpesta Carlo, viste la sera del 20 luglio, non me le toglierò mai dalla testa. Perché i racconti degli amici che il 21 si trovarono in mezzo alla mattanza della manifestazione non li cancelli. Perché le colleghe di mio padre che raccontano delle notti insonni non puoi dimenticarli.
E forse l’innocenza era una colpa all’epoca. Forse leader e leaderini del movimento sbagliarono tutto (e, a posteriori, è così). Ma la responsabilità, intera, va a chi organizzò quella trappola. E il rancore va tutto verso ogni singolo rambo che, impunemente, pestò, torturò, maltrattò centinaia di persone innocenti.
Domani notte, qualora l’attesa sentenza della cassazione non mi aggradasse, e cioè qualsiasi che non preveda l’immediata restituzione degli imputati alle loro vite e senza null’altro a pretendere, andrò in giro a fare dei danni. Vetrine, banche, stronzate così, senza costrutto. Niente di eccezionale, qualche sasso, cosa volete che faccia, tutta roba inutile.
Ci andrò da solo.
Pagherò il mio tributo personale al “saccheggio e alla devastazione”. Qualora dovessero arrestarmi, rivendicherò la cosa in nome del famigerato “concorso morale” e dell’assoluta intercambiabilità tra ciascuno di quei dieci con chiunque altro che si trovava lì in quei giorni.
Si tratta, da parte mia, di un’ammissione di sconfitta totale, senza mediazioni. Non ho mai creduto alla valenza del gesto individuale in politica, e non ci credo adesso.
Si tratta solo di un modo per uscire, in via definitiva, da un dibattito che per me non serve più a niente.
Le analisi postume, anche le più corrette, non servono a niente.
Guardavo ieri le immagini che giungono dalla spagna. Mi chiedevo dove sono finiti tutti quei bravi ragazzi con le facce pulite e le mani dipinte di bianco che l’anno scorso piacevano così tanto a tutti, me compreso. Inghiottiti dal gorgo, masticati, loro e prima di loro tutte le belle intenzioni. Niente più facce cool e slogan intelligenti. Niente più ‘acampadas’ e assemblee aperte.
Lineamenti deformati dai gas e dalle ‘bolas’, frasi smozzicate e rabbiose.
In tutto il pianeta vengono insediate elitès, il consenso delle popolazioni è del tutto secondario, post- e anti-umane il cui compito è sotto gli occhi di tutti.
Riportare il capitalismo alle condizioni originarie di inizio ‘800. Con ogni mezzo.
La mia amara e personale conclusione, è che contro tutto questo non esiste via democratica al conflitto. Non c’è possibilità di rovesciamento di tutto questo basata sulla costruzione di un consenso a un discorso di segno opposto.
Di fatto questo contraddice quasi trent’anni della mia vita, in termini di scelte, parole opere e omissioni. Tutto quello in cui ho creduto e per cui, fino a un certo punto, ho lavorato.
Una tale ammissione impone il silenzio come prezzo minimo.
A questa comunità, che ha avuto un ruolo così importante per me in questi anni, è dovuta almeno la decenza e l’onestà di non ripetere litanie in cui non si crede più, come bolsi curati di campagna, e tantomeno inscenare improvvise folgorazioni sulle vie insurrezionali, ridicole, patetiche e fatte con il culo degli altri.
Non si tratta di negarsi tout court la parola. Sarà sempre un piacere, fino a quando possibile, fare due chiacchiere di pallone, o su qualche bella pagina letta, o un bel libro che ti hanno consigliato. Sicuro.
Ma la politica, i movimenti, il cosa ci sarebbe da fare e il come, quello per me basta. Basta così.
L.
Io non lo capivo questo post. Mi sembrava un po’ una sparata, un po’ inutile disfattismo. Mi ha ricordato Aberforth Dumbledore che dice che non c’è più niente da fare, solo scappare e salvarsi il culo perché Voldemort ha vinto e chi pensa il contrario si sta prendendo in giro (oh scusate se le mie letture non sono colte come le vostre…). Soprattutto non credevo davvero che sarebbe finita così. E adesso, mio malgrado, capisco perfettamente e condivido tutto lo schifo, la stanchezza, l’esasperazione. 14 anni a Francesco Puglisi, quattro volte la condanna ai poliziotti che hanno ammazzato Aldrovandi, come ricorda il Manifesto. Nel mio paese una vetrina sfondata vale quattro volte la vita di un ragazzino. E è lo stesso paese dove le scuole pubbliche cadono a pezzi ma si danno soldi alle scuole private, dove i pendolari passano ore tutti i giorni su treni sporchi, sempre in ritardo e senza aria condizionata ma si fa la TAV a ogni costo, dove i capannoni industriali di una delle regioni più ricche, la mia regione, cadono in testa a operai costretti a lavorare nonostante il pericolo per non perdere una paga da fame.
E per questa sentenza non si incazzerà nessuno, se non i soliti che seguono la storia da vicino, perché i principali giornali titolano “Pene ridotte per i no global”, gli è andata bene insomma, 14 anni di vita rubata invece di 15.
Io vivo all’estero da anni, non sono mai stata una di quegli emigrati che sputano sul proprio paese; faccio parte piuttosto dell’altra categoria, probabilmente ancora più patetica, dalla nostalgia struggente, che tendono a vedere solo il bello e il buono, il sole e il mare e via dicendo. Fino a stasera non ho mai pensato di dire che mi vergogno di essere italiana, e non lo dirò. Però minchia…
Vedi Francesca, tu hai senz’altro ragione. Il mio commento era ed è sbagliato. Il fatto purtroppo è che ho abbastanza anni e conosco abbastanza la merda di questo paese per sapere come sarebbe andata a finire. E da vecchi certe cose non le riesci più a trattenere (incontinenza), anche quando dovresti.
Questo è ciò che sento.
C’è un’impronta fascista, culturale e storica, che grava sul nostro vivere associato da oltre un secolo, che per essere sradicata avrebbe bisogno di enormi energie sociali. Che oggi non abbiamo, e non le avremo domani mattina.
Non sono nessuno per dare consigli, ma se richiesto a una persona giovane che ne ha la possibilità oggi direi di andare via da qui.
Meglio struggersi per le tagliatelle di mamma, i panorami e i tramonti, tutto vero tutto sacrosanto, ma la vita civile qui è un letamaio immondo.
E adesso che siamo alla resa dei conti, che in ballo c’è la miseria e la sopravvivenza. Adesso che i ricchi vanno sulle scialuppe e a te ti lasciano affondare dopo averti preso pure gli ultimi spicci, sono tutti cazzi nostri.
L.
C’è in molte persone la consapevolezza di un momento magico a Genova, che in qualche modo era il culmine di un percorso di tanti che, improvvisamente, emerse alla superficie come il salto di una balena. Le settimane prima di Genova sono state una cavalcata esaltante dove letteralmente centinaia di persone sembravano spuntare dal niente e cominciare ad imegnarsi, e gran parte di loro sono rimaste, magari più silenziose, ma sempre presenti.
Poi si può discutere su cosa ci ha tagliato le gambe, forse capire che su quegli aerei in pancia alle torri gemelle c’erano anche tante forme di lotta, di organizzazione e persino metafore che non avremmo estratto più dalle macerie. E’ da lì che è cominciato il controciclo. Io non chiudo nessuna porta, la Storia segue percorsi tortuosi, ma cominciamo a parlare veramente coi ragazzi spagnoli e con OWS e vedrete che gli ingredienti per una nuova eruzione ci sono tutti.
Ma la bestialità della polizia sarà moltiplicata, Genova è stata uno spartiacque anche per loro. Temo.
Inviterei a essere meno eurocentrici, perché – tanto per fare un esempio – in America latina le lotte di inizio millennio hanno sedimentato, si sono evolute, hanno influenzato la politica (e addirittura la geopolitica) in modi evidentissimi e riscontrabili ogni giorno. E’ stato un processo contrastato, con chiaroscuri (si pensi al Brasile), duri contraccolpi (si veda il Paraguay) e contraddizioni, ma se oggi guardiamo a com’è conciata l’Europa e pensiamo a quali innovazioni sia in grado di produrre il subcontinente latinoamericano… Là il “controciclo” non è riuscito ad avviarsi.
L’onda di OWS, del Movimento 15 Maggio, delle lotte studentesche continentali e degli scioperi sta impattando contro una reazione feroce, ma la Grecia – con tutte le difficoltà – ci fornisce un esempio di come le lotte di piazza possano produrre uno smottamento sul piano propriamente politico. Praticamente là hanno demolito il PASOK (che era il vero “tappo” sulla situazione), avviando una ricomposizione a sinistra, creando dal nulla un partito che ha la maggioranza assoluta del voto di giovani e lavoratori e ha sfiorato la vittoria elettorale con un programma forse sbavato ma pieno di cose che fino a pochissimo tempo fa era impensabile leggere nel programma di chiunque. Il sintomo urla. Ed è già il secondo esempio – dopo l’Argentina del 2002 – di come l’improvviso precipitare nella “malora” non generi necessariamente la reazione “Homo homini lupus”/tutti contro tutti, ma possa creare nuovo legame sociale, vincoli solidali, modelli di autorganizzazione e autogestione. E’ una clamorosa smentita dell’antropologia liberista, non ne sminuirei la portata.
tra le molte cose che faccio, in estate insegno italiano a stranieri. Ho incontrato molti studenti, il mio campione di osservazione non è infinito ma numeroso sì. Ho soprattutto studenti non europei dell’ovest: i pochissimi capitati nelle mie classi li ho visti vacillare e crollare davanti a menti aperte, con categorie solide ma pronti e disposti a conoscere altro; davanti a menti per le quali nulla è dato, tutto è possibile…
Non mi stupisce il corso preso dall’America Latina, in tutte le sue sfumature. E non mi stupisce la Grecia (per me, la Grecia è Europa orientale).
Noi europei dell’ovest (è solo un artificio retorico: mi metto nel “noi” ma ogni giorno cerco di compiere gesti che me ne tengano fuori) siamo vecchi, finiti, dobbiamo smetterla di leggere il mondo “a modo nostro”. Siamo vecchi, e pensiamo che sia della vecchiaia un calma tranquillità priva di scossoni e cambiamenti. Ma non lo sentiamo, invece, quanto scotta il sole appena prima di tramontare? E che aspettiamo?
Certo: può essere inutile un analisi postuma, e addirittura può sembrare fredda, distante. Ma a volte tocca aspettare le glaciazioni per recuperare uno sguardo non intossicato sulle cose. E per quanto di tossicità in giro ce ne sia ancora tantissima – e in termini di moli di tossicità, più di quelle che c’erano all’altezza del Luglio 2001 – trovo positivi questi tentativi di riflessioni. Provo ad aggiungere un pò di cose alla discussione:
Concordo con il cuore della riflessione di WM4 : dieci anni fa, da sponde diverse e a volte opposte, si è cercato di abitare la stessa nave che solcava gli oceani, ognuno facendo – al meglio, al peggio – quel che sapeva e voleva fare. Adesso questo quadro non esiste, non è visibile. Tuttavia questa riflessione disegna il reale in modo piuttosto preciso : come spesso si dice qui sopra, non mancano le lotte in Italia e nel mondo, ma esse si parlano a fatica, spesso comunicando su binari divergenti. Questa fotografia non è schiacciata sui singoli 15 ottobre che ogni tanto attraversano le strade d’Europa e d’America; è un passo indietro, una messa a fuoco migliore, un grandangolo sulle nostre vite e sulle tendenze dell’Occidente, anche di quello antagonista. E serve di più, in termini di comprensione.
Una cosa dolorosa che ho compreso in questi dieci anni è che la “pasta” di cui sono composti i gruppi militanti organizzati (movimenti, partiti, associazioni) sembra omologarsi e tendere sempre più ad un generico impasto di volontarismo, personalismo, perdita del senso temporale del “lungo termine”. Con tutti i distinguo di fondo e le mirabili eccezioni, questa è l’eredità angosciante a 11 anni da Genova. Nelle dinamiche “interne”, movimenti e partiti si assomigliano, e soffrono di questi malanni di cui sopra. Sto cazzo di mondo ci rende allucinati, veloci nel dover/voler rispondere agli stimoli, incapaci di fiatare un attimo e trovare risorse umane e materiali che ci portino ad un obiettivo possibilmente condiviso, magari sul medio/lungo termine. Trionfa sempre più la piccola differenza, invece della possibile comunanza di visioni. Basta un nonnulla, un piccolo particolare di divergenza, per imprimere alle assemblee – in senso lato – una deriva da lotta tra piccoli galli in piccola gabbia.
Sarebbe falso dire che ciò non avvenisse 11 anni fa, ma avveniva meno, ne sono convinto.
Ho la sensazione che sia un processo irreversibile, e che andrebbero ripensate e riavviate forme di lotta/conflitto che abitino altri pianeti dagli attuali. Nel frattempo, questa è stata la decade dell’esplosione del digitale, e volenti o nolenti, questa è l’unica rivoluzione di cui attualmente si possa parlare. Con tutti i difetti e i pregi che si porta dietro, anche e soprattutto rispetto al concetto di “partecipazione”.
Art 419 Devastazione e Saccheggio – analisi di un reato politico:
http://www.youtube.com/watch?v=VHtbHbMTjXg
Da guardare e da far girare.
libere tutti.
Qui lo streaming della maratona di Radio Onda Rossa per 10 x 100:
http://www.ondarossa.info/player-ror.html
Genova non è finita. Liberare tutti gli ostaggi.
Stasera dalle 20 su Radio Onda Rossa ci sarà una lunga maratona per la giornata di domani.
Genova non è finita.
Libere tutti.
@ Wu Ming 4
Ti avevo risposto,poi ho cancellato. Certe polemiche ormai decennali lasciano il tempo che trovano e non so quanto interessano. Dico solo che sono d’accordo con te.
Mi premeva solo fare un discorso che non addossasse tutta la responsabilità alla polizia e assolvesse quei movimenti da molti loro errori, esclusivamente per guardare al futuro. Se un giorno si ricreerà quello spirito di partecipazione, è bene capire gli errori del passato.
Per me le responsabilità evidenti della polizia, quelle che non dipendono da noi e sono il frutto esclusivo della volontà di annullare quella spinta sociale, sono nelle torture, nella Diaz, nei pestaggi alla gente inerme, ai giornalisti. Non tanto le cariche preventive ai cortei, che erano prevedibili. Prevedibili non perchè dotati di preveggenza, ma perchè per mesi si soffiò sul fuoco in quella direzione, senza consapevolizzare il resto dei movimenti.
Lo schema era noto. Ciò che ruppe lo schema fu la reazione delle forze dell’ordine a freddo, lontano dai cortei e dagli scontri. Quello lascia senza parole.
Alessandro
Cerco di portare un contributo, son due giorni che ci penso dopo aver letto l’appello dei Wu Ming a parlarne (e la domanda sul perché così pochi lo facevano). Nel frattempo la discussione su Giap avanza e si possono incontrare pensieri e questioni già dette, così come condividere l’amarezza che Luca ci restituisce dalla sua e mia (nostra?) storia.
Il mio pensiero sulla questione degli ultimi ostaggi ancora sotto processo e (potenzialmente) nelle mani di sbirri e galere nasce da lontano, anzi si possono segnare due date, una ovvia quella del 2001 e una dieci anni dopo (e oltre).
Uno dei problemi che si son posti a Genova sin dall’inizio è stato a mio parere il gorgo della mediaticità a tutti i costi, fatta di azioni, discorsi e pratiche da allargare. Lo si è già detto e l’autocritica da alcuni è stata fatta a più riprese (altri non conoscono la capacità critica rivolta a se stessi ma è altro discorso…), così come il fatto che ci fossero delle motivazioni plausibili a costruire una “macchina” di immaginario e comunicazione capace di diffondere energia e consenso. Il limite, però, era ed è stato quello di porsi nei limiti della compatibilità e nella logica di rivendicare concessioni (ciò comportava l’obiettivo di non sembrare troppo radicali e tenere insieme componenti -troppo?- eterogenee a tutti i costi).
La trappola in cui si è caduti è stata la questione del feticcio della nonviolenza come denominatore comune, divenuto una bandiera opportunista. La nonviolenza si era imposta come imperativo negli ambiti discussione allargata (ahi che male al fegato ricordare le riunioni dei SF…) dove diveniva feticcio per alcuni, mentre altri la rendevano compatibile a pratiche border tipo la disobbedienza, accettando però l’imperativo non-violento.
Conseguenza diretta di questo atteggiamento è la dinamica che si è avuta (con varie degenerazioni) a Genova della logica buono/cattivo. Ricorderei come questa dicotomia abbia condizionato tutte le discussioni nell’immediato post, dove i blackbloc venivano accusati di ogni male possibile (soprattutto gli evergreen di essere tutti sbirri o fasci), mentre gli altri manifestanti invece erano pacifici e vittime di chi aveva caricato alla cieca o non aveva arrestato i blac subito.
Questo ragionamento, oltre a sfiorare l’indegnità (la presa di distanza da Carlo, il giorno della sua morte, pronunciata da un portavoce genovese dei CS perché lo considerava ancora parte dei cattivi non va dimenticata) ha marcato una questione a mio giudizio centrale per capire la situazione ancora oggi: è forse meglio essere vittime? Purtroppo, credo che troppa parte di quel movimento che c’era a Genova abbia imboccato questa strada rimanendone schiacciata. Ci son stati i massacri in strada, alla Diaz e a Bolzaneto, questo bisogna sempre ribadirlo anche perché non può cancellarsi dalle nostre memorie, ma vogliamo davvero dirci vittime che hanno bisogno della protezione di qualcuno? (la sinistra? I giudici? La polizia democratica?). A Genova dei ribelli (straccioni e sognatori come eravamo allora) volevano interrompere la parata del potere e irrompere nelle strade in una delle situazioni più emotivamente coinvolgenti che ho vissuto.
Non siamo delle vittime. Abbiamo subito la feroce repressione del potere che si è sentito minacciato. I nostri corpi massacrati a Genova ci hanno fatto assaggiare la violenza che lo stato riserva quotidianamente ai suoi nemici pubblici e non sarà certo la sua giustizia a rendermi il “torto”. Questa vicenda delle vittime è importante se consideriamo il silenzio relativo della vigilia della sentenza confrontandolo invece con la partecipazione ad eventi come la sentenza Diaz o il decennale dello scorso anno.
Oggi si tratta di difendere tutt* e, come si è detto, rivendicarsi tutto quello che è stata Genova con le sue contraddizioni certo, ma che fanno ugualmente parte di una storia che appartiene ai movimenti e non a togati e tribunali. Non si può dimenticare (o lasciare addirittura…) tra le loro grinfie qualcuno perché magari non si rivendica innocente e poi chissà cos’ha fatto… Anche perché, e gli ultimi tempi lo mostrano, la tendenza repressiva è sempre più quella di trasformare vetrine rotte in devastazioni e muri imbrattati terrorismo e il futuro degli attivisti in anni di galera… Non si può restare a guardare e lasciarne 10 da soli (senza dimenticare gli altri compagn* già in galera).
Credo purtroppo che questo aspetta renda alcune parti del movimento e soprattutto quell’oggetto misterioso chiamato società civile (di cui diffido molto spesso) assai restii ad ingaggiarsi nella lotta del difendere e liberare tutt*. Perché qui non ci sono vittime da difendere o innocenze da sbandierare in tribunale. Ci sono 10 compagn* da riportare a casa, che erano là con noi, hanno lottato, odiato e resistito non interessa come, erano parte di noi e restano parte di un percorso collettivo.
Il diritto di resistenza non dobbiamo farcelo concedere da nessuno ne tantomeno dai giudici, dovremmo applicarlo di più noi, questo sì.
Lo scorso anno ho scritto altrove pensando a Genova (http://aquiestoy.noblogs.org/post/2011/07/19/genova-10-anni-dopo-un-racconto-di-prospettiva/#more-125), la fine, però, è valida ancora:
Urlare liberi tutt*, a difesa di quelli sui cui vuole reiterarsi la vendetta dello stato, senza divisioni, senza distinguere, rivendicare tutto quello che abbiamo fatto, ribadire che non abbiamo più guance da offrire.
Non siamo vittime innocenti, siamo resistenti determinati e coscienti.
Non ci sono mele marce da condannare, ma un regime da abbattere.
C’è chi resiste e chi uccide. Noi lottiamo, contro di loro.
Grazie a giap per essere uno spazio dove parlarci.
d.
[…] dai processi. Non lo leggerete sui «grandi» media. Fatelo girare, come hanno cominciato a fare Wu Ming e […]
Genova per alcuni ha segnato la fine di un’epoca, per alcuni altri una transizione, e per quelli della mia età (sono del 1983) ha rappresentato l’ingresso nel mondo dei quasi adulti. Quell’anno in tre mesi il mondo subì un cambiamento incredibile, presi un sacco di botte e mi accorsi che i manganelli e le camionette sono belli duri. Potrei dire che sono stato un duro. La realtà è che ero un ragazzino, corsi tantissimo, mi fermai poco e badai ai pochi che avevo intorno, le «cose» non le sapevo fare. Imparai in frettissima. I limoni e i medicinali usati come antifumogeno, un ragazzo più grande di me mi tirò dentro al casino e mi disse di non infilarmi nelle viuzze, che mi avrebbero ammazzato di botte.
E poi corri, corri e non ti fermare mai. Una gran corsa, un gran casino e botte da orbi tutto il giorno.
Io le «cose» non le sapevo fare, ma ho imparato. O forse no, non lo so.
Ho letto che in guerra le reclute, al primo colpo sul campo di battaglia, si pisciano quasi tutte addosso. Poi ti passa, però i pantaloni te li bagni.
Ci è mancato poco, ma ci siamo rimasti sotto in tanti. Alzi la mano chi non ha avuto gli incubi i mesi dopo, magari pensando che dove hanno sparato a Carlo ci siamo passati in tanti.
E poi alla fine pensi che gli hanno sparato in faccia (e meno male che non era una guerra), poi pensi ai racconti che sentivi nei giorni successivi dai poveri cristi finiti a Bolzaneto.
Hanno sparato in faccia a una generazione intera, mentre la torturavano. Abbiamo resistito, sì, ma i cocci sono quasi tutti nostri (come al solito).
“Hanno sparato in faccia a una generazione intera, mentre la torturavano. Abbiamo resistito, sì, ma i cocci sono quasi tutti nostri”.
E dopo stasera ci hanno messo sopra una bella pietra tombale.
[…] dai processi. Non lo leggerete sui «grandi» media. Fatelo girare, come hanno cominciato a fare Wu Ming e […]
se pure tardivo, provo a dare un piccolo contributo, cercando di evitare ripetizioni.
Annichilita. Così mi son sentita dopo aver ascoltato Philopat, che a mio parere è riuscito a restituirci un quadro completo di quel che è stato Genova, dove sono stata 4 lunghissimi giorni, perchè era una bella idea arrivare già dal mercoledì sera, per il concerto di Manu Chao…e qui mi riallaccio a quanto scritto da qualcuno, sulle responsabilità del movimento, di chi sapeva che ci sarebbe stato il morto e, quindi, una repressione brutale. Perchè questi compagni più esperti e addentro non ci hanno avvisato e preparato a fronteggiare la cosa? Tanti, tantissimi non erano preparati. L’unico corteo organizzato come si deve era quello della FIOM CGIL, l’unico spazio in cui, dopo esserci finita per caso, scappando, mi son sentita al sicuro per 5 minuti. Credo che sia un responsabilità importante e che mai ne sia stata fatta un’analisi. (Sulle responsabilità dell’altro fronte nemmeno mi soffermo, sarebbe superfluo).
E questo è il punto nodale del dopo Genova: non c’è mai stata e probabilmente non è stata resa possibile un’elaborazione di quanto accaduto, nè collettiva e, di conseguenza, nemmeno individuale. Per questo tanto dolore che fatica a farsi a parola, anche in questa discussione. Per questo ringrazio infinitamente Wu Ming di tanto spazio dedicato allo scambio di parole e pensieri su Genova. Io stessa, credo sia la prima volta che cerco di strutture un piccolo discorso al riguardo e con quanta fatica! Cancello, riscrivo, mi fermo..risultato: frammentario, incompleto, poco organico, spezzato come le emozioni che, senza elaborazione, tornano su quasi identiche a 11 anni fa. Ma è un inizio.
Philopat parla di una guerra che è iniziata nel 2001 a Genova, poi esplosa l’ 11 settembre e ancora continua. Sottoscrivo in pieno, ma mi chiedo: perchè chi a Genova non c’era, anche compagni, spesso non riesce a cogliere questo elemento di continuità? Anzi a volte lo scredita? In proposito noto anche come anche qui su giap il reading di Philopat, che fa un discorso ampio, cercando di comprendere tutti gli aspetti di quei giorni, viene commentato soprattutto da chi a Genova è stato, mentre il video su piazza Alimonda, che è un episodio specifico,viene commentato da un grupo molto più ampio.
Grazie a Luca per i versi