di Wu Ming 4 | Appunti intorno al referendum sul finanziamento delle scuole paritarie
1. PRENDERLA ALLA LARGA, OVVERO: PARADOSSI DI BASE
«Le cose viste dall’alto fanno sempre meno impressione.»
Per un pugno di dollari, 1964
C’era una volta la Sinistra, che pensava cose di sinistra e che sulla propria carta d’identità avrebbe potuto scrivere all’incirca questo:
«In politica, “Sinistra” descrive una prospettiva o posizione specifica che accetta o appoggia l’eguaglianza sociale. Solitamente, ciò comprende una preoccupazione per quanti, nella società, siano svantaggiati rispetto ad altri, e il presupposto che esistano disuguaglianze ingiustificate (che la destra invece ritiene naturali o giustificate dalle tradizioni) che andrebbero ridotte o abolite.» [dalla voce “Left-wing” di Wikipedia]
La Sinistra – in tutte le sue varie correnti e sfumature – ha l’idea d’eguaglianza tra i suoi pilastri filosofici e culturali. Per questo ha sempre ritenuto fondamentale conquistare e garantire l’istruzione pubblica universale. Perché tutti avessero a disposizione gli strumenti di conoscenza basilari, perché potessero ottenere le nozioni e le capacità per affrontare il mondo e guadagnare consapevolezza di sé.
Non solo. Nel corso della sua storia – dalla Rivoluzione Francese in avanti – la Sinistra è giunta a concepire una scuola pubblica, laica, inclusiva, che garantisse la convivenza tra individui differenti per attitudine, provenienza, religione, situazione economica – con eguali diritti e parità di trattamento. Insomma la scuola come palestra di convivenza civile tra diversi.
Questa idea è radicata nella visione del mondo di Sinistra, che qui potremmo molto genericamente definire “socialista”, e si distingue dall’idea dell’istruzione pubblica concepita invece dalla visione del mondo che definiremo altrettanto genericamente “liberale”. Quest’ultima prevede che lo Stato debba sì garantire l’istruzione pubblica a tutti, ma accettando a questo fine anche l’apporto dei privati cittadini, liberi di organizzare la propria scuola e di vederla inserita organicamente nel sistema scolastico nazionale, purché soddisfi gli standard educativi stabiliti dall’autorità pubblica. In altre parole: nel primo caso lo Stato si impegna a costruire un modello scolastico pubblico uguale per tutti e a esso riserva le risorse finanziarie, mentre lascia liberi i privati di costituire scuole con denaro privato; nel secondo caso lo Stato stabilisce dei parametri in base ai quali, oltre a finanziare la scuola pubblica, riconosce e finanzia anche le scuole private, cioè che corrispondono a orientamenti specifici (siano essi pedagogici o confessionali).
Storicamente parlando, il primo modello ha generalmente trovato maggiore corrispondenza nelle società europee continentali, mentre il secondo in quelle anglosassoni.
Capita però di trovarsi in presenza di sistemi ibridi, in cui i due modelli si intersecano. E’ il caso dell’Italia. L’ordinamento scolastico repubblicano è stato improntato al primo modello fino al 2000, anno in cui la Legge 62 ha riconosciuto le scuole paritarie private come parte del sistema scolastico nazionale.
Questa legge ha almeno due caratteristiche curiose. La prima è che è stata varata da un governo di centrosinistra, e in particolare da un ministro dell’istruzione esponente di un partito di sinistra. La seconda è il plateale paradosso contenuto al comma 3, nel quale si afferma che
«le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap. Il progetto educativo indica l’eventuale ispirazione di carattere culturale e religioso. Non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa».
Il paradosso consiste nel fatto che se per chiedere l’accesso a una scuola paritaria bisogna accettarne “il progetto educativo”, cioè “l’eventuale ispirazione di carattere culturale e religioso”, non si capisce come sia possibile poi essere esonerati dalle “attività extra-curriculari” di tipo ideologico o confessionale. Come se un genitore iscrivesse i figli a una scuola di orientamento religioso per poi chiedere l’esonero dall’ora di religione.
Tale paradosso è il frutto dell’ibridazione, appunto, tra la concezione laica e pubblica dell’istruzione e la concezione “sussidiaria”, che in Italia fa riferimento alla dottrina sociale della Chiesa cattolica, piuttosto che al liberalismo anglosassone.
Ma occorre ampliare l’analisi del paradosso, perché la faccenda è più complessa di così. Il problema non riguarda solo la laicità o meno di una scuola che riceve fondi dallo Stato. Nella scuola pubblica infatti è già possibile avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, a dimostrazione del fatto che lo Stato italiano, per motivi storici e culturali, considera importante, ancorché non imprescindibile, dare l’opportunità ad alunni e studenti di conoscere i fondamenti di quella particolare confessione religiosa.
E’ evidente quindi che chi sente il bisogno di una scuola paritaria di orientamento cattolico è invece interessato a una formazione più strettamente confessionale. Allo stesso modo qualcun altro potrebbe essere interessato a un altro tipo di formazione religiosa; o a un modello pedagogico diverso da quello offerto nella scuola pubblica, come ad esempio quello steineriano, o magari quello “personalizzato”, che prevede classi divise per genere: maschi con maschi, femmine con femmine. O ancora, un genitore potrebbe volere che i figli vengano cresciuti in base a determinate idee, valori etico-culturali che non vede rispecchiati nella scuola pubblica.
Da un lato dunque si lavora all’edificazione di una scuola pubblica pluralista, aperta a tutti, e si continua ad affermare come valore positivo la capacità di condividere spazi e momenti di vita, di apprendimento e confronto, tra individui diversi per formazione e provenienza sociale, senza che debbano necessariamente condividere la stessa “ispirazione di carattere culturale o religioso”; dall’altro lato si includono nel sistema pubblico istituti che non applicano il medesimo principio. Si potrebbe dire che mentre la scuola pubblica va nella direzione dell’interculturalismo, le scuole private paritarie realizzano il multiculturalismo. Il condizionale però è d’obbligo, perché in realtà, considerando che la stragrande maggioranza delle scuole paritarie in Italia è d’ispirazione cattolica, ciò che si realizza è l’assegnamento di una fetta sempre più grossa dell’istruzione pubblica (attualmente il 26%) alla scuola monoconfessionale.
Va detto che l’opzione privata paritaria si basa su un’idea molto accattivante: quella che ogni famiglia possa avere un servizio scolastico pubblico tarato sulle proprie esigenze. Ciò che si vorrebbe avere a disposizione è una scuola che alla differenza prediliga l’identità (etica, culturale, religiosa, di censo). E questa garanzia dovrebbe fornirla lo Stato attraverso i finanziamenti e l’integrazione di tali scuole nel sistema d’istruzione pubblica. L’intenzione è quella di mettere i figli a contatto non già con l’alterità e la molteplicità, ma con un contesto che confermi e rafforzi senza dubbio il bagaglio culturale della famiglia. Invece di uno spazio aperto, laico, diversificato, si vuole uno spazio delimitato e sicuro. Uno spazio privato non già accanto, bensì all’interno del sistema pubblico.
Integrando questa pretesa nel sistema scolastico pubblico, attraverso la sussidiarietà, lo Stato italiano disfa con una mano quello che costruisce con l’altra.
Ecco il paradosso vero – ed enorme – dell’attuale sistema ibrido.
Il paradosso esplode quando, complici i tagli statali alla spesa per l’istruzione pubblica e il “patto di stabilità”, capita ad esempio che la scuola dell’infanzia non sia più garantita a tutti. In quel caso, quando i bambini e le bambine che avrebbero il diritto di frequentare la scuola pubblica restano fuori, qualcuno inizia a chiedersi perché in un frangente del genere si debba continuare a finanziare allo stesso modo la scuola privata paritaria, mentre si riducono i fondi a quella pubblica, e non si debba invece fare esattamente il contrario.
Si pone, com’è evidente, un problema di scelte politiche, che a loro volta chiamano in causa visioni diverse della scuola, della formazione, e forse anche del vivere associato.
E’ quello che sta succedendo a Bologna, la città in cui viviamo. L’episodio è tanto più interessante perché accade qui, in un luogo dove l’istruzione pubblica ha una fortissima tradizione.
2. BONONIA FELIX
«Cominciò dunque una battaglia che nessuno si aspettava; venne chiamata Battaglia dei Cinque Eserciti, e fu tremenda. Da un lato, Orchi e Lupi Selvaggi; dall’altro, Elfi, Uomini e Nani.»
Lo Hobbit, 1937
Dopo la mannaia dei tagli alla scuola pubblica calata dagli ultimi governi, il sistema delle scuole comunali e statali in città inizia a scricchiolare forte. Molti plessi scolastici sono costretti ormai a richiedere in maniera organica un obolo volontario alle famiglie per coprire alcune spese basilari; il personale scolastico scarseggia; gli incastri e le turnazioni tra i docenti per garantire la copertura dell’orario sono sempre più acrobatici; le rette di nidi e materne aumentano.
Si può dire che in una città abituata a uno standard alto nei servizi e nell’istruzione per l’infanzia, il vaso è traboccato quando, un mese fa, alla ripresa dell’anno scolastico, quattrocento bambini sono rimasti senza posto alla scuola materna. Taglia e taglia, finisce che qualcuno resta fuori, e la libertà di scelta di un genitore si riduce a tenere i figli a casa oppure iscriverli a una scuola privata paritaria aderendo al “progetto educativo” che passa il convento (è il caso di dirlo), pagando pure di più.
Non ci voleva un genio per capire che si sarebbe arrivati a questo. Bastava leggere le tendenze demografiche, migratorie, economiche in atto da anni.
Non c’è da meravigliarsi dunque se a fronte di tutto questo, nel 2011 è nato un comitato di cittadini che chiede di potersi pronunciare su un particolare aspetto delle politiche dell’amministrazione: i finanziamenti alle scuole private paritarie.
Ai tagli alla scuola pubblica calati direttamente o indirettamente dall’alto non è corrisposta una diminuzione della quota di finanziamento comunale alle scuole private, che anzi nel corso degli anni è aumentata. Attualmente ammonta a poco più di un milione di euro annui.
Il comitato di cittadini in questione, che si chiama Comitato Articolo 33, ritiene che i bolognesi dovrebbero esprimersi su questo con un referendum consultivo.
In particolare, i promotori del referendum credono che se i soldi scarseggiano, sia più utile – oltre che più conforme all’articolo 33 della Costituzione, appunto – investirli tutti nella salvaguardia degli standard della scuola pubblica, piuttosto che in quella privata paritaria.
Quando c’era ancora la Sinistra, un’argomentazione del genere non avrebbe destato alcuna sensazione, anzi, sarebbe stata considerata l’ABC della grammatica politica.
Oggi non è così. Cosa resti di quella visione di sinistra, al di fuori dei libri di storia e delle memorie di chi l’ha conosciuta, è difficile dirlo se ci si guarda intorno. Un trentennio di offensiva liberista e neoconservatrice ha scavato solchi profondi nella psiche collettiva, ha plasmato menti, atrofizzato cervelli, accomodato coscienze, saldato interessi. Al punto che forse proprio la battaglia in difesa dell’istruzione pubblica potrebbe diventare la cartina al tornasole per capire chi ancora riesce a fare riferimento a una cultura e a una visione del mondo di sinistra e chi invece si è perso nei meandri del disastro che abbiamo alle spalle e che ha prodotto il baratro su cui ci troviamo.
E’ interessante notare quale confine la campagna referendaria abbia tracciato tra (e dentro) le forze politiche cittadine.
Tra coloro che si dichiarano fermamente contrari al referendum si contano:
– l’amministrazione comunale e in primis il Sindaco (il quale l’anno scorso, al presidio contro i tagli alla scuola pubblica, affermava che prima di ogni decisione in merito di finanziamenti ci sarebbero state “modalità di partecipazione” e oggi attacca i referendari accusandoli di essere demagogici);
– il principale partito di maggioranza (PD);
– i partiti di centrodestra (che hanno promosso un comitato anti-referendum);
– la Curia e le associazioni cattoliche;
– la FISM (Federazione Italiana Scuole Materne… Cattoliche);
– i vertici della CGIL, la CISL, la UIL;
– entrambi gli assessori di SEL (una dei quali, ex-candidata di SEL alle primarie del centrosinistra cittadino, attivista cattolica, l’anno scorso appoggiò il referendum, per poi fare dietrofront giusto l’estate scorsa)
Tra i sostenitori del referendum troviamo invece:
– i partiti minori della maggioranza (i consiglieri di SEL, IdV);
– la Federazione della Sinistra;
– il Movimento 5 Stelle;
– il PCdL;
– la FLC-CGIL (che è tra i promotori);
– la FIOM-CGIL (idem);
– l’USB;
– i Cobas;
– i CUB;
– la Chiesa Metodista;
– l’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti);
– svariate associazioni politiche o legate al mondo scolastico (genitori, insegnanti, lavoratori precari del settore).
Da una parte troviamo istituzioni, Chiesa, parrocchie, forze politiche di centrodestra, apparati di partito e sindacali; dall’altra cittadini autorganizzati (di varia provenienza, tra cui anche esponenti del PD), lavoratori, partiti e sindacati minori, o singole categorie sindacali.
Cartina al tornasole, dicevamo.
E aggiungiamo che la cittadinanza bolognese sta rispondendo positivamente alla chiamata: in poche settimane è già stata raccolta più della metà delle firme necessarie per indire il referendum.
E’ chiaro che per qualcuno il referendum è come fumo negli occhi, almeno quanto è chiaro che questa vertenza si combatterà a sinistra. Ovvero tra le macerie psichiche e politiche della Sinistra che fu.
3. FUOCO DI FILA
«Ma Osgiliath si trovava fra di loro, e fu abbandonata, mentre le ombre ne occupavano le rovine.»
Il Signore degli Anelli, 1954
A conti fatti è interessante passare in rassegna le argomentazioni con le quali i detrattori “di sinistra” del referendum attaccano i suoi promotori.
La prima accusa al referendum è che sarebbe “ideologico” e il quesito “fuorviante”; di conseguenza non promuoverebbe una “vera democrazia”, bensì “ginnastica ideologica” [Assessore alla Scuola del Comune di Bologna].
La sintassi del quesito in effetti non brilla per chiarezza (come del resto in quasi tutti i quesiti referendari):
«Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali, che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con la scuola d’infanzia paritaria a gestione privata, ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private.»
La formula è involuta, ma in definitiva ci viene chiesto di esprimerci su quale sia la “più idonea” tra due opzioni rispetto al diritto all’istruzione dei bambini: finanziare la scuola pubblica o quella privata paritaria.
E’ chiaro che se per qualcuno credere nel primato della scuola pubblica è una posizione ideologica allora sì, il referendum e il quesito lo sono, almeno quanto lo è la Costituzione della Repubblica Italiana, che all’articolo 33 recita:
«…Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.»
Se per certi amministratori ispirarsi ai principi costituzionali è essere “ideologici”, e chiamare in causa la cittadinanza per dare un parere d’indirizzo sulle scelte dell’amministrazione non è vera democrazia, questo la dice lunga su quale idea di politica e di democrazia costoro condividano.
La seconda accusa mossa ai promotori è che il referendum costerà cinquecentomila euro all’erario comunale. Come a dire che con i tempi che corrono questo sì sarebbe un vero spreco di risorse. Da che se ne deduce che per qualcuno è meglio dare ogni anno due volte quella cifra agli istituti privati piuttosto che investirla per fare esprimere la cittadinanza su un tema di interesse generale. Forse è questo che si intende per “vera democrazia”.
Ad ogni modo il Comitato Articolo 33 ha suggerito di accorpare il referendum alle prossime elezioni politiche per abbattere i costi (cosa che si potrebbe fare con una piccola modifica al regolamento comunale). Non resta che auspicarsi che i “veri democratici” abbiano il coraggio delle proprie idee davanti agli elettori.
Tra i detrattori del referendum c’è poi chi (il segretario del PD bolognese) ricorda che il milione di euro dato alle scuole convenzionate private equivale soltanto al 3% del bilancio che il Comune spende per la scuola e che quella cifra consente a 1.736 bambini di avere un posto in una scuola privata convenzionata, alleviando i costi all’erario pubblico, che altrimenti dovrebbe spendere molti più soldi. Il discorso è chiaro: le scuole paritarie – per lo più confessionali – vanno benissimo perché ci tolgono i bambini dalle spese. Questo è l’unico argomento che conta. L’idea di garantire a tutti la scuola materna pubblica non è nemmeno più una priorità politica. Dopodiché è interessante la metafora utilizzata: chiedere ai bolognesi se preferiscono le scuole materne pubbliche o quelle private paritarie sarebbe «come chiedere a un bambino se vuole più bene alla mamma o a uno zio lontano».
Indicativo il paragone tra la cittadinanza e un infante, incapace di riflessione e intenzione politica. Chi discute invece nel merito delle cose ha ben presente che il vero nodo non è economico (va detto che non sarebbe certo il taglio dei finanziamenti comunali a mandare in rovina le scuole paritarie, le quali appunto hanno altre fonti di finanziamento: private, regionali e statali). Questo è emerso chiaramente durante il dibattito pubblico svoltosi il 12 ottobre scorso all’Hotel Europa tra promotori e contrari al referendum. Una cosa su cui entrambe le parti si sono trovate subito d’accordo è che in questa faccenda i soldi non sono la questione più importante e che il nodo vero è la scelta per il modello di scuola, che sta a monte dei finanziamenti.
Detto questo bisognerebbe anche chiedersi chi sia lo “zio lontano”.
Ecco qua un ritratto con un po’ di biografia:
Ci si potrebbe chiedere ad esempio:
quanti di quei 1.736 bambini sono stranieri?
L’1,8%, contro il 17,3% nella scuola pubblica. E’ evidente che moltissimi stranieri emigrati a Bologna non possono permettersi le rette della scuola privata paritaria, oltre probabilmente a non condividerne l’impostazione confessionale.
Quanti di quei bambini sono diversamente abili?
Lo 0,7%, contro il 2,1% nella scuola pubblica. E’ chiaro che una scuola paritaria deve accogliere i bambini “certificati”, come stabilisce la legge del 2000, ma se non ha le strutture adeguate o le risorse sufficienti, non ne potrà accogliere che una percentuale minima né si potrà obbligarla ad accoglierne di più.
Quanti tra quei bambini non sono cattolici?
Manca il dato, ma il presentimento è che sia una percentuale possibilmente ancora più bassa delle altre due.
Insomma non è poi così difficile capire a chi volere più bene in un’ottica di salvaguardia del pluralismo e del diritto, anche senza bisogno dei rimbrotti degli zii vicini un po’ suonati…
… e anche delle zie. Secondo una consigliera regionale dello stesso partito di maggioranza il referendum sbaglia bersaglio: non bisognerebbe chiedere al virtuosissimo Comune di Bologna di cambiare indirizzo rispetto al sistema scolastico integrato pubblico-privato, bensì domandare allo Stato centrale di farsi carico dell’aumento delle sezioni scolastiche.
Risulta difficile capire in base a quale principio di schizofrenia politica chiedere una certa linea di condotta allo Stato sarebbe cosa buona e giusta, mentre chiederla al Comune no. Dovremmo cioè protestare contro il governo centrale perché taglia i fondi alle scuole pubbliche e agevola le convenzioni con quelle private, mentre lodiamo il Comune che dà vita a «un virtuoso esempio di sussidiarietà”, applicando alacremente la legge stessa. Si chiede un maggiore intervento statale mentre si porta a modello la sussidiarietà realizzata dal Comune! Siamo al trionfo del biconcettualismo.
Ma ai referendari viene imputato addirittura di aggravare la situazione della scuola. L’ultima accusa – lanciata dal Segretario della Camera del Lavoro – è che il referendum non risolve il problema dei quattrocento bambini rimasti fuori dalle liste scolastiche, «perché se avrà effetti saranno su tempi medio-lunghi, mentre l’emergenza è ora». Per cui «l’attenzione va concentrata su questo problema e non su polemiche per un appuntamento ordinario».
Siamo all’assurdo. Accusare un referendum consultivo su un aspetto della politica amministrativa di non risolvere l’emergenza del momento è un nonsenso logico. Mentre è vero che volere affrontare seriamente l’emergenza potrebbe essere lo stimolo per iniziare a porsi il problema in una nuova prospettiva politica, strutturalmente diversa. Del resto, garantire a quei quattrocento bambini l’accesso alla scuola pubblica e laica è comunque compito dell’amministrazione e dello Stato. Tant’è che il Comune sta cercando di arrabattare una soluzione parziale per gli esclusi, aprendo sezioni supplementari a mezza giornata. Dovrebbe essere proprio un frangente come questo a far riflettere sull’opportunità, in prospettiva, di tenersi il milione di euro annuo stanziato per le scuole convenzionate, lasciando che queste reperiscano i fondi altrove, visto che ne hanno la possibilità.
4. ODONTOIATRIA
«You one ugly motherfucker!»
Predator, 1987
Eppure, a forza di battere là dove il dente duole, la lingua finisce per dire la verità. Il coordinatore di giunta (PD) afferma con chiarezza in Consiglio Comunale che «le scuole paritarie sono una realtà del nostro sistema dal 1995». Ribadisce l’intenzione della Giunta di proseguire il percorso intrapreso, nella convinzione che sia «il modo migliore per potere affrontare le problematiche che riguardano le famiglie bolognesi».
Eccoci al nocciolo della questione. Si parla di “sistema”. Dunque la sussidiarietà è ormai accettata come sistemica, perché è considerata la soluzione “migliore”. E non da ieri. Se la legge dello Stato che parifica le scuole private è del 2000, ciò significa che l’amministrazione comunale bolognese ha agito con almeno cinque anni d’anticipo rispetto alla legge nazionale, quindi sulla base di un indirizzo politico-economico autonomo e condiviso. En passant ricorderemo che, in quei ruggenti anni Novanta, a Bologna la stessa amministrazione privatizzò le farmacie comunali, rinunciando a un incasso di due miliardi di lire all’anno. Era ben prima che finissero i soldi, prima della crisi e dei tagli. Alla fine, gira e rigira, è sempre alla politica che si torna. E alle scelte d’indirizzo.
Dice bene una fuoriuscita dalla compagine del primo partito di maggioranza:
«dietro l’affermazione che “non ci sono i soldi e bisogna far quadrare i conti” appare in controluce, ma chiarissima, una vera e propria visione strategica di questa Amministrazione, per la quale pubblico e privato appaiono come identici, dotati di medesima natura e principi fondanti. Usando la pesantezza della situazione economica, il Comune sta accelerando sulle scelte di privatizzazione e quindi sulle prospettive che riguardano il futuro del sistema di welfare cittadino.»
Ecco perché i piccoli timonieri bolognesi sono così scocciati e rabbiosi contro questo referendum. Mica perché pensano che dovranno prenderne sul serio i risultati – hanno già detto che per loro non è “vera democrazia” -, ma perché se passasse aprirebbe contraddizioni, farebbe cadere in contraddizione, farebbe cadere certi paraventi lessicali e retorici. Già adesso ci fa capire che i trent’anni che abbiamo alle spalle non sono trascorsi invano. Chi si è rassegnato è diventato organico a un certo stato delle cose, a una certa tendenza, e messo alle strette lo rivendica. Qualcuno si azzarda ancora a chiamarlo “riformismo”, ma è soltanto un modo ipocrita di mascherare la resa psichica e politica all’avversario.
Così torniamo all’affermazione iniziale: il caso bolognese diventa una cartina al tornasole, e scoperchia la realtà che sta sotto le belle frasi. La realtà è che la tendenza all’equiparazione di pubblico e privato, in atto a Bologna da metà anni Novanta, è in buona sostanza condivisa, al di là della mera contingenza economica. Ma se la tendenza è inarrestabile, allora quel milione di euro è destinato ad aumentare. La sussidiarietà, vale a dire la penetrazione del privato nel pubblico, avanzerà lentamente e inesorabilmente. E se la risposta a chi dice: «Fermiamoci, cambiamo rotta» è «Non si può», allora significa che la politica è già morta, che la quota d’interesse privato nella mentalità di chi guida la nave è già oltre il 50% – con buona pace del segretario del PD. Ma soprattutto viene da chiedersi: se la rotta è una sola, e dunque il pilota è automatico, cosa ci stanno a fare in plancia i timonieri? A farci firmare una delega in bianco per cinque anni e a darci degli “ideologici” se chiediamo di pronunciarci su come andrebbero spesi i soldi delle nostre tasse?
Questo ceto politico dovrebbe iniziare a rendersi conto che tra la sussidiarietà e la suicidarietà il passo è più breve di quello che può sembrare.
C’era una volta la Sinistra, dicevamo…
–
Gli attacchi, questi sì sistematici, all’idea stessa di “pubblico”, iniziano sempre con il colpire i più deboli, e partono dalla scuola dell’infanzia. Sta succedendo ovunque. Ma per fortuna c’è chi si organizza.
A Napoli so che, grazie a molte mamme e papà, sta succedendo questo:
http://genitoriroccojemma.wordpress.com/
p.s. va notato che, leggendo le dichiarazioni, i nostri politici locali sono decisamente più maldestri del sovietico PD bolognese :-)
Gran pezzo. Che da un caso locale fa capire molte cose a livello generale del perché tra tutte le misure che hanno riformato la scuola pubblica italiana questa insistenza sul finanziamento della “libera scelta” delle famiglie di soluzioni private sia stata un’aggressione morbida alla libertà delle persone e alla laicità delle istituzioni.
Che pena.
Però, butto lì una provocazione, stante la situazione forse prima che sia troppo tardi coloro che si sentono di sinistra non dovrebbero concentrarsi nel creare delle soluzioni private orientate “culturalmente” a sinistra? Traduco: esiste un punto in cui si dà per persa la battaglia per salvare lo Stato e si procede a costruire alternative sfruttando il sistema di “tutela liberale della scelta” contro la cultura liberale stessa?
E’ un dibattito molto rilevante e posso assicurare che molti docenti ci stanno pensando seriamente.
Perché il limite di molte sinistre è stato quello di perseguire la battaglia fino in fondo lasciando solo vittoria o macerie come sbocco finale delle proprie lotte, mentre la costruzione di strutture di lungo periodo che consentano di proseguire la battaglia è sempre stata poco praticata (quantomeno recentemente).
Così, pour parler :)
E’ una buona domanda. Il problema, per come lo vedo io, è che una scuola privata deve comunque ricavare una parte consistente delle entrate direttamente dagli utenti, il che esclude di fatto tutti quelli che la retta non possono pagarla, e se la abbassi tropo non ci campano gli insegnanti. Personalmente la vedrei come una specie di arca di Noè da usare solo nel caso si dia per persa la terraferma. Però in quel caso servirebbe tutto un sistema di soluzioni simili anche per tutti gli altri campi (alimentazione, sanità….) diventerebbe un po’ una Brook Farm http://it.wikipedia.org/wiki/Brook_Farm su grande scala.
Insomma, resto dubbioso, da una parte mi affascina l’idea, dall’altra mi sembra un progetto molto elitario.
Sono le stesse domande che si pongono molti. Però in altre epoche le esperienze di mutuo soccorso (anche dal punto di vista dei servizi) sono state un’ancora fondamentale per le classi meno abbienti e per sottrarre al giogo dei servizi forniti a pagamento dagli aguzzini e dai padroni ampie fette di popolazione.
Non sto dicendo che è la soluzione, sto dicendo che quando tutto va in vacca, mettere in piedi strutture che possano proteggere e far rinascere un certo modo di vedere le cose quando il contesto lo permetterà sono un’eredità obbligatoria. E che i movimenti e le sinistre che non si pongono questo problema sono destinate a venire non solo sconfitte (perché se uno pensa di dover andare in criogenesi dà per certa la sconfitta) ma anche spazzate via dai libri di storia a venire.
Provo a immaginarmi concretamente cosa sarebbero oggi le “scuole del popolo” in Emilia, magari affiliate alla LegaCoop, se qualcuno avesse pensato di fare “la versione compagna” delle scuole private cattoliche… e rabbrividisco.
Facciamo invece la battaglia per la Scuola pubblica, laica, pluralista, di massa e non diamola già per persa.
Io mi domando sempre perchè spesso sembra che facendo una cosa non si può fare anche un’altra (il piano B come dire) . Quantomeno ci si può pensare, direi.
Be’, perché molto spesso (non sempre) facendo il piano B si finisce per non fare il piano A.
Esempio pratico: se a Bologna esistesse una “Scuola Progressista Parificata” da che parte si schiererebbe in questo referendum? Per togliere i finanziamenti alle parificate o per tenerli?
Ma del resto sto parlando in astratto, quando in realtà le cosiddette cooperative rosse nel settore degli asili nido sono *già* attive in molti luoghi d’Italia. Indovinate un po’ se hanno appoggiato il PD e la sussidiarietà o se si sono opposte con la bandiera rossa in pugno…
Il piano B in questo caso potrebbe distruggere il piano A. La difesa di Piazza Maggiore prevede che ci possano passare tutti, comodamente e gratuitamente, non per niente “La scuola è di tutti”.
La tua ipotesi è di dividerla in aree in modo che solo i cattolici possano entrare in San Petronio, altri possano fotografare la fontana del Nettuno, quelli di sinistra magari avere ingresso riservato in Sala Borsa.
Precisazione forse superflua: le scuole Waldorf (Steineriane) in Italia non sono parificate (almeno quelle di cui sono a conoscenza io). Il programma non può assolutamente essere assimilabile a quello comtemplato dai prog. min. , a meno che non si stavolgano alcuni principi basilari di tale pedagogia/filosofia.
@Blicero mi ppongo la stessa domanda insieme ad una sulle pratiche di autogestione…con condivisione precisa di metodi e obiettivi. Un bel domandone, direi.
(…)
Bel pezzo.
C’è però un elemento di contesto sul quale vale secondo me la pena ampliare un attimo la riflessione.
La deriva neoliberista e neoconservatrice risponde sicuramente a degli inupt ideologici e “culturali” che sono stati inoculati sottopelle negli ultimi venti/trent’anni, e che sono stati introiettati dalla quasi totalità del ceto politico. Ma questi input riflettono sempre uno sviluppo nella realtà materiale, un’evoluzione nel gioco degli interessi economici.
Non vorrei volare troppo alto, però mi pare che tre tendenze del capitalismo si siano intrecciate negli ultimi decenni:
– delocalizzazione della produzione e mondializzazione degli scambi di mercato, che ha aperto la strada alla deindustrializzazione delle economie occidentali a capitalismo “avanzato”;
– finanziarizzazione;
– individuazione del settore dei servizi (sanità, scuola, trasporti, comunicazioni, energia) come nuovo “terreno di conquista”.
La sudditanza del ceto politico all’ideologia neoliberale è, quindi, il riflesso di una sudditanza più profonda: quella nei confronti degli *interessi materiali* delle classi dominanti.
La cosa è evidente a tutti i livelli: locale, nazionale, internazionale.
A livello locale (bolognese e non solo), oltre alla sudditanza nei confronti dei privati nella scuola andrebbe ribadita quella nei confronti dei costruttori e dei palazzinari, giusto per fare un esempio.
A livello nazionale, il famoso decreto Bersani – anche qui, un solo esempio fra i molti possibili – ha generato una concorrenza spietata nel settore dell’energia e della telefonia, che si traduce oggi nella proliferazione di aziende specializzate in marketing e vendita porta-a-porta che, tramite uno sfruttamento selvaggio del lavoro, propongono a famiglie e attività commerciali contratti apparentemente vantaggiosi, ma destinati a rivelarsi alla lunga delle fregature belle e buone.
A livello internazionale… beh, basta vedere come si comportano nei parlamenti nazionali e in Europa i partiti del centrosinistra, che appoggiano manovre lacrime e sangue, patti fiscali, austerità e tagli ecc.
Di fronte a tutto questo, quindi, il referendum è sicuramente uno strumento da utilizzare fino in fondo, e un terreno sul quale vincere. Ma la battaglia ideologica, culturale, elettorale e d’opinione non basta. Basterebbe, se si inserisse in un contesto di democrazia reale, in cui le decisioni della collettività trovano un riscontro effettivo nelle scelte politiche… ma abbiamo visto con i referendum sull’acqua quanto poco valga questo ragionamento.
L’unica via, quindi, è quella di tornare sul terreno vivo dell’opposizione *sociale* e *politica*: “sociale”, nel senso che i segmenti della società colpiti dalla crisi devono costituire un fronte unitario, capace di coagulare le diverse lotte intorno ad una lettura condivisa; “politica”, nel senso che questo “coagulo” deve esprimere un programma (di cambiamento radicale), e deve avere come obiettivo la capacità di rappresentarsi politicamente.
Non è facile, e siamo molto lontani dall’obiettivo, visto che scontiamo errori, tradimenti, sconfitte e ritardi. Ma se non si fa questo passo, secondo me siamo belli che fregati.
Ad usum dei twitterari, ti replico in nido :-)
E’ vero quello che dici a proposito degli interessi che entrano in gioco e spingono le amministrazioni locali a subordinarsi ai poteri economici. Ho dato per implicito questo aspetto nel mio pezzo, perché volevo piuttosto sottolineare una deriva culturale, per tracciare un confine conflittuale sul piano delle idee, che però ha una ricaduta pratica, quanto antistorica, immediatamente comprensibile per chiunque.
Però, credimi, avere a che fare con il mondo scolastico ti fa toccare con mano quanto la visione “familista” della vita associata sia avanzata in profondità negli ultimi tempi, anche in una regione come l’Emilia. Non voglio ridurre il problema a una questione soltanto culturale, io credo che questo arretramento abbia ragioni storiche e materiali anch’esso. Il mondo “là fuori” fa sempre più paura e l’idea di educazione che va affermandosi presso le famiglie è di tipo difensivo. Si tratta di attrezzare i figli con armatura, elmo, lancia, scudo, cavallo bardato, affinché il mondo esterno non possa graffiarli. Si tratta di offrire loro sempre e comunque il meglio sulla piazza, di farli rientrare nella parte migliore. E’ un’idea iperprotettiva dell’educazione e della formazione. Ciò che certa gente teme è che il contatto con idee o concetti ritenuti sbagliati possa in qualche modo traviare i figli, contaminarli, spingerli a fare scelte ritenute inappropriate o ingiuste.
Non è facile rispondere a un genitore che ti dice: “Ma come? Non ho il diritto di scegliere la modalità educativa che ritengo migliore per i miei figli?”.
La risposta è sì, ma a spese tue. Altrimenti devi accettare di entrare in uno spazio comune e confrontarti con gli altri al suo interno. Viceversa potenzialmente ci sarebbero tante scuole quante sono le famiglie. Prima che esistesse la scuola era più o meno così, c’erano i precettori privati per chi poteva permetterseli. E credimi ancora Don Cave, qualcuno ci sta facendo più di un pensierino: lo homeschooling sta prendendo piede negli Stati Uniti e piano piano arriva anche da noi. E’ anche per questo che consigliavo prudenza nei discorsi sull’educazione “fai-da-te”.
Ciò che sparisce davanti a questa prospettiva è evidentemente l’idea di uno spazio educativo e formativo comune, esterno alla dimensione famigliare, in cui ti confronti con gente diversa e con figure adulte non genitoriali.
Del resto, mano a mano che la crisi avanza e il peso sociale grava sempre più sulle famiglie, non c’è da meravigliarsi che la famiglia riprenda piede come panacea di tutti mali. Sono convinto che se in Italia non è ancora saltato il banco è essenzialmente per questo: perché esistono ancora legami famigliari forti che – per il momento – reggono il peso della dissoluzione del welfare e dell’impoverimento.
Ai sostenitori dell’homeschooling e della famiglia iperprotettiva (ovvero castrante) farei vedere Dogtooth, un bel film greco di pochi anni fa. Un caso estremo, ma che ben esemplifica i pericoli che esistono in nuce a ogni nucleo familiare.
Per quanto riguarda l’articolo, basterebbe sostituire “Italia” a “Bologna” e il gioco è fatto. Come dice Don Cave il discorso potrebbe essere allargato, non solo geograficamente, ma anche a tutti gli altri settori pubblici che, in Italia come in molti altri Paesi, sono stati letteralmente smantellati nell’ultimo ventennio (l’Italia ha il record europeo per le privatizzazioni, effettutate in gran parte dal centrosinistra, negli anni ’90, battendo anche il Regno Unito). L’accordo unanime fra tutti gli schieramenti che si sono passati la fiaccola della privatizzazione negli anni scorsi, non importa quale casacca indossassero e quanto si scannassero su altre trivialità, è troppo omogeneo e continuativo per non far pensare che tutto questo sia stato fatto scientemente nell’interesse degli investimenti privati, che infatti come avete detto hanno visto crescere i loro introiti. Basti guardare la lista dei contrari al referendum: sono tutti lì i capoccia della politica e dei sindacati maggiori, non un disertore. In questo modo la classica affermazione del “sono tutti uguali” sta diventando sempre meno qualunquista, anche se non meno dannosa, poiché la disaffezione verso la politica, anche quella senza il timbro del ministero, aumenta. La mia idea è che da anni si stia lavorando non tanto per il ritorno ai “magistri” romani, quanto all’ulteriore aumento del divario economico, e quindi sociale (inteso anche come atomizzazione della società, in cui ognuno è solo contro tutti), tra la popolazione, tramite la distruzione dello stato sociale e la conseguente costrizione a rivolgersi al settore privato per ottenere qualsiasi servizio fondamentale, tra cui l’istruzione.
a proposito dell’homeschooling (cui io sono ipercontraria), poco tempo fa c’è stato questo scambio secondo me interessante su feministe;
http://www.feministe.us/blog/archives/2012/09/25/homeschooling-not-always-the-answer/
come in tutto il blog (feministe), anche nei commenti a questo post a tante buone argomentazioni è mescolata anche tanta robaccia, ma dà un’idea vivida della pratica stessa, almeno recente, negli usa, e in particolare di come sia articolata, variegata e trasversale (e di quali ne siano gli armonici politici, spesso talmente tenui e fantasmagorici che danno voglia di saperne di piu’)
Va anche detta un’altra cosa, secondo me.
Mia madre lavora da trent’anni nella scuola pubblica dell’infanzia, e ogni volta che ne parliamo mi conferma che negli ultimi anni c’è stato un cambiamento significativo nella percezione che hanno le nuove generazioni di genitori sulla funzione educativa della scuola. La scuola dell’infanzia, soprattutto, viene vista sempre di più come una specie di “parcheggio” in cui sistemare i bambini, e l’interesse verso l’offerta formativa – o anche solo banalmente verso quello che i bimbi fanno in quelle ore – è pressoché nullo.
Anche questo fatto ha una spiegazione riconducibile a questioni materiali – e alle influenze culturali che ne conseguono: condizioni lavorative sempre più instabili e precarie, magari senza poter contare su altre forme di aiuto (i nonni o i vicini, per intenderci).
La questione è complessa, aspetti materiali e culturali si intrecciano in modo quasi inestricabile, ed è chiaro che per fare resistenza bisogna agire su entrambi i fronti, in una specie di manovra “a tenaglia”. Un punto d’intersezione su cui lavorare, secondo me, ha a che fare con il carattere sociale dell’istruzione pubblica: la scuola è rimasta, anche negli anni di maggiore avanzamento, uno strumento di selezione di classe; oggi, più che ad un’inversione di tendenza, assistiamo quindi alla riemersione brutale di aspetti classisti che erano stati in parte “ammorbiditi” grazie allo sviluppo della pedagogia e della didattica, e grazie all’introduzione di forme di democrazia (gli organi collegiali).
Sicuramente in una fase di resistenza ad un attacco del genere è un po’ difficile, ma secondo me bisognerebbe anche superare un atteggiamento puramente difensivo su questi temi. E questo vale non solo per la scuola ma per tutto il resto: lavoro, ammortizzatori sociali, sanità pubblica, trasporto ecc.
Le rivendicazioni dovrebbero spostarsi su un terreno più radicale, volto non solo alla conservazione dell’esistente, ma ad un cambiamento profondo di paradigma.
Per questo, pur appoggiando con convinzione il referendum promosso dal Comitato Articolo 33 e tutte le altre iniziative che stanno nascendo nel settore scolastico ed educativo, penso anche che, in prospettiva, si dovrebbe fare un passo ulteriore: lottare affinché le conquiste parziali che si ottengono nella lotta (come ad esempio potrebbe essere il blocco ai finanziamenti alle scuole private tramite il referendum) non soltanto divengano effettive e stabili, ma aprano la strada ad una riflessione profonda e radicale su quale scuola vogliamo.
qui secondo me fai un discorso importantissimo, probabilmente uno dei piu’ importanti e urgenti al momento nel dibattito femminista e non solo relativo all’infanzia e al ruolo pubblico e all’ “agency” delle donne.
è vero tutto:
1) è vero che c’è stato uno shift nel modo di percepire la funzione principale o piu’ urgente della scuola – in particolare della scuola per l’infanzia – negli ultimi tempi, e si puo’ sostenere che in buona parte sia dovuto alla proletarizzazione di ritorno di grossi numeri di lavoratori, o al venire piu’ chiaramente alla luce di uno stato proletario che non ha mai cessato di essere tale, nonostante i partiti e sindacati di riferimento l’abbiano sistematicamente misconosciuto.
(non ho tempo adesso di espandere, magari provo piu’ tardi.)
2) e è vero che infatti negli scorsi decenni alla scuola, e alla cura-formazione-educazione dei bambini in generale, era stato attribuito ben altro ruolo, in italia e non solo.
il fatto è che fino a un po’ di tempo fa circolava un po’ dappertutto in molta letteratura sull’infanzia accademica e non una narrazione progressiva gloriosa di come le classi popolari fossero passate dalle nebbie della violenza, dell’ignoranza e della bestialità a accettare di vedere la loro prole ai lumi della ragione, e quindi a considerare accettabile e perfino necessario fornirla dell’elmo, armatura, cavallo bardato ecc. di cui parlava wuming4 (tutti elementi che, per l’appunto, tradizionalmente e ‘logicamente’ erano privilegio di un’altra classe, e la definivano, e che ora, ‘grazie’ alla crisi che in parte svela il trucco, tornano a farlo).
per un periodo infatti, quello che negli stati uniti viene chiamato ‘intensive mothering’ (=’parenting”, ma che si riconosce essere una pratica specificamente femminile-femminilizzante) è ‘penetrato’ in tutte le classi, via i soliti modi di inculcazione dall’alto al basso: la professione medica (e la medicalizzazione del potenziale generativo del corpo femminile e della cura delle persone in generale) la stampa femminile e i programmi tv che la prolungano, il paternalismo di stampo borghese degli aiuti (in Italia pochi) dello stato sociale (che vengono razionati o tolti quando non si puo’ dimostrare di essere una ‘buona madre’ secondo certi standard definiti dalla media borghesia), la scuola stessa (anche se duole dirlo) ecc.
per un primo approccio (pero’ solo sociologico, e limitato agli usa) questo libro secondo me è fantastico: http://yalepress.yale.edu/yupbooks/book.asp?isbn=0300066821
3) la “manovra a tenaglia” che affronti insieme gli aspetti culturali-materiali del problema, di cui parli, è secondo me, per finire, una delle cose piu’ urgenti ma piu’ difficili adesso da fare (soprattutto perché l’articolazione culturale-materiale è una delle piu’ difficili da gestire: in ambito teorico e non solo corrisponde a quella che forse è la spaccatura piu’ netta fra i femminismi oggi in circolazione, e quindi si fa fatica a definirne un buon frame concettuale, economico, sociologico.. basta vedere, per esempio, come la sociologia femminista e il femminismo ‘culturale’, linguistico e non, quasi non si parlino. è un macello totale)
riassumendo: la scuola (e probabilmente la scuola per l’infanzia in particolare) è uno dei luoghi caldi della lotta di classe e della lotta femminista oggi, ma, curiosamente, non è abbastanza riconosciuto come tali (né dalla sinistra né dalle femministe, come grandi gruppi costituiti almeno). e questo riconoscimento non è eludibile, soprattutto in tempi di crisi (e di conseguente inasprimento estremo delle condizioni di vita per tutti i gruppi deboli e oppressi : donne, bambine, straniere e povere in primis, e soprattutto quando molti di questi tratti sono riuniti)
annotazione solo parzialmente ot: la privatizzazione dei servizi (anzi dei poteri statali) investe p. es. anche il mondo giustizia; la scarsità di risorse e l’aumento esponenziale dei costi per l’accesso fa diventare sempre più appetibile la soluzione privata, ora non più solo arbitrale, anzi resa obbligatoria con la mediazione (con quali garanzie di imparzialità e di competenza non è chiaro); a questo si aggiunga la quantità di ricorsi che devono passare tramite una qualche autorità garante (quindi con esiti “amministrativi”) prima di poter essere presentati in tribunale e la limitazione, tutta italiana, delle class actions. La tutela dei diritti è un bel metro per misurare il grado di democrazia di un sistema ma, come per la scuola, la tendenza in questo settore è smantellarlo anzichè cercare di farlo funzionare meglio.
giusto! (in riferimento allo scambio suscitato sopra da blicero; scusate, ma i commenti nidificati cosi’ per le discussioni su giap mi pare che proprio non vadano)
la mia impressione è che davvero ci cia bisogno di uno spazio del genere (uno spazio di sopravvivenza nel disastro delle strutture pubbliche per la prima infanzia): un luogo di gioco e, insieme, di apprendimento ‘scolastico’, e che faccia delle diversità culturali il punto di partenza per l’esplorazione e la creazione di culture nuove potenziali, e non un ostacolo, o un pretesto per ulteriori esclusioni.
pero’ non sono d’accordo sulla dicotomia ‘brook farm-arca di noé (!)’-‘lotta per la scuola pubblica’.
intendo, penso che questi luoghi debbano essere risolutamente pubblici =finanziati pubblicamente, e innervati al corpo ‘ pre-riformato della scuola pubblica.
solo, non necessariamente devono essere luoghi in cui si fa lezione e in cui ci sono soltanto insegnanti: possono essere luoghi che, semplicemente, accolgono bambini e adulti che se ne prendono cura in un contesto ludico e pedagogico strutturato.
ovviamente questo non puo’ sostiture la scuola, neanche quella dell’infanzia, che ha un suo progetto pedagogico forte e necessario (io ne conosco direttamente solo la versione francese e quella svedese, e quella francese mi pare un modello ottimo sulla carta e spesso buono in pratica).
pero’ puo’ palliare le situazioni d’emergenza, tappare i buchi, accompagnare l’esperienza scolastica stessa, e inoltre fornire un luogo in cui adulti e bambini si ritrovano in linea di principio alla pari, e una situazione emotiva e semiotica più fluida di quella scolastica/domestica, e che quindi li stimola diversamente, e in genere ne libera potenziale bloccato altrove.
esempi a me familiari di versioni di questa possibilità sono, per esempio, le ‘maisons vertes’, queste strutture d’accoglienza in origine psicanalitiche (e molte ancora lo sono) di cui pero’ da un pezzo in francia esistono varie versioni integrate alle varie istituzioni molto pubbliche di servizio sociale e di protezione dell’infanzia.
la prima, quella fondata da françoise dolto, è stata questa:
http://www.lamaisonverte.asso.fr/
nella versione svedese, la scuola dell’infanzia non è una scuola in senso forte, francese, continentale (anche se ora si comincia piano piano a creare un’istituzione analoga), è piuttosto un day care sviluppatosi storicamente dal giardino d’infanzia. la chiamano ufficialmente förskola (‘preschool’ in svedese), ma il nome comune, (‘dagis’=day care) ne esprime meglio la natura.
pero’, in aggiunta a questi dagis, che sono in teoria un diritto di tutti i bambini da 1 a 5 anni, ci sono le öppna förskolor (‘open preschools’), che sono una specie di ludoteca animata da social workers specializzati in vario modo nell’infanzia dove bambini e adulti si ritrovano per giocare, parlare, e esplorare relazioni con adulti estranei in un contesto protetto.
questi luoghi non sono, mi sembra, neanche lontanamente comparabili al progetto e alla scienza pedagogica che sta dietro le maisons vertes psicanalitiche e non, pubbliche e semi-pubbliche francesi, ma di certo sono un luogo importante soprattutto per le donne immigrate, isolate, o comunque socialmente deboli da qualsiasi punto di vista (che sono tantissime anche in svezia).qui c’è un link forse illegibile del servizio pubblico svedese:
http://www.skolverket.se/forskola-och-skola/karta-over-utbildningssystemet/utbildningssystemet/annan-pedagogisk-verksamet/oppen-forskola/vad-ar-oppen-forskola-1.4158
infine, c’è un progetto in corso in francia per rendere ancora piu’ solide pedagogicamente le ludoteche (che in origine sono poco piu’ che una biblioteca di giocattoli o uno spazio gratuito per RP), perché gli adulti professionisti dell’infanzia possano imparare a usare al meglio l’oggetto ludico (e perché gli adulti non professionisti e non giocanti possano essere aiutati a capire meglio l’esperienza ludica dei bambini), e cosi’ per renderle davvero complementari al servizio scolastico (pubblico).
questo è il sito dell’associazione, nazionale credo, basata a lione:
http://www.alf-ludotheques.org/ludotheques/definition.php
in aggiunta, si puo’ pensare anche a asili parentali (come ce ne sono in francia e in svezia, ma che immagino esistano anche in italia, o o?): asili cooperativi creati da genitori e finanziati in parte o del tutto, credo, dallo stato.
insomma, secondo me i modelli per creare spazi di sopravvivenza , e anche di resistenza e di lotta, ci sono.
qual è la situazione in italia?
posti del genere esistono?
e poi, un’altra domanda: nella lista in fondo al post non ho visto associazioni femministe, case della donna, ecc.
immagino che le femministe in realtà siano dappertutto, ma mi fa male vedere che sono come al solito nascoste, cancellate dentro i nomi delle liste, impegolate in dinamiche di appartenenza che invece di aiutare disturbano o bloccano azioni urgenti e necessarie.
se è cosi’, è la solita storia della connessione perduta fra femminismo e socialismi rivoluzionari..
Scusami, Dzzz, ma perché dici che i commenti nidificati “non vanno”? Avresti potuto benissimo mettere il tuo commento come replica dentro quel sotto-thread, c’era il bottone “reply”, visibilissimo e funzionante, sotto ogni intervento. Libera di mettere i commenti dove ti pare (anche se così si genera una dispersione e gli altri utenti sono costretti a saltabeccare qui e là per capire a cosa ti stai riferendo), libera di non essere d’accordo con la scelta della nidificazione fatta dalla comunità dei giapster, però non dire che i commenti “non vanno”, anche perché gli altri non mi sembrano manifestare questo disagio: usano lo strumento senza farsi problemi.
lo so, stavolta avrei potuto farlo senza problemi tecnici, ma ho avuto un moto di stizza e non ho voluto piu’. mi scuso, ma ribadisco l’insofferenza. :)
e quanto a twitter.. io non ho voglia di incoraggiare né lo strumento né le pratiche che promuove; pero’, puramente per amor di giap, in futuro cerchero’ di rispettare la regola il meglio possibile.
p.s. e anch’io sono costretta a saltabeccare di continuo, ogni volta che voglio seguire sviuppi di una discussione già letta!
i nidificati piacciono a molti, pare, ma secondo me aveva senso implementarli solo simultaneamente a altri accorgimenti che ne avrebbero limitato quelli che io percepisco come danni, accorgimenti come la numerazione cronologica e la lista dei commenti recenti apribile a tendina.
Beh, la nuova lista dei commenti recenti (“nuova” per modo di dire, è lì da luglio) è navigabile. Si può scorrere all’indietro e di nuovo in avanti, virtualmente fino all’origine del flusso. Mi sembra una soluzione molto più avanzata e “usabile” del menu a tendina.
Sulle implementazioni, ti ho già chiesto di avere pazienza perché è sbattimento non nostro ed è gratis. Tutto si farà, ma in tempi umani e non robotici, da Arts & Crafts più che da Foxconn.
Quanto a Twitter, mi sembra che il modo in cui lo usiamo per Giap non corrisponda ad alcuna delle pratiche inerziali e deteriori incoraggiate dal dispositivo, anzi. Al momento, molti considerano questo il modo migliore di seguire le conversazioni su Giap man mano che si sviluppano. E’ come “vedere la radio”, e a un certo punto telefonare alla trasmissione per dare un contributo. Dirò di più: credo che senza questa modalità, Giap avrebbe una partecipazione molto più piatta e omologata rispetto al resto della rete. Certamente avrebbe discussioni meno interessanti.
ok, grazie delle info. sono stata abbastanza sconnessa ultimamente, è vero che ho guardato sbadata il sito.
e poi (anche se non sono d’accordo sull’interazione colla modalità twitter) quello del “vedere la radio” è un colpo basso.. meltdown, bzzzz, G-O
Intervengo un attimo sulla Svezia perché in realtà il nuovo piano educativo per la förskola considera, come dice la parola stessa, quest’istituzione una vera e propria pre-scuola, con obiettivi specifici per gruppi d’età, rendendola, se pur con enormi differenze, simile alla scuola dell’infanzia italiana. Nel linguaggio comune si dice ancora dagis (daghem=casa di giorno) ma le pedagogiste e i pedagogisti che vi lavorano trovano il termine dispregiativo, perché reputano di non essere solo uno spazio di assistenza e di accudimento per l’infanzia.
Sarebbe, inoltre, interessante analizzare il caso svedese quando si parla di scuola in termini di pubblico/privato, proprio perché qui il modello liberale è in uso da tempo. Si può scegliere la scuola che si preferisce, sempre a costo ridottismo o nullo per la scuola dell’obbligo, e le private non sono solo confessionali, come ricordava dzzz esistono le cooperative di genitori ed altre forme organizzative. Ma i problemi di questo modello sono moltissimi: dalla creazione di scuole che di fatto praticano segregazione razziale o religiosa a quelle che fanno del guadagno il loro principale obiettivo, con tagli sul personale e sulla sicurezza a scapito dei bambini…
Ora corro che devo prendere Margherita alla förskola ispirata al “metodo Reggio Emilia” ;-)
si’, e infatti anch’io usavo dagis in senso dispregiativo, perché per la mia esperienza molte förskolor fanno cacare, sono semplicemente posti dove i bambini (da 1 a 5 anni) vengono buttati e abbandonati a sé stessi, nel mezzo di liti, risse, incoltura pedagogica diffusa, carers che ruotano alla velocità della luce, e mutismo e notte svedese.
quanto alle ‘friskolor’, certo non le ho difese, perfavore non mi mettere in bocca cose che non ho implicato neanche lontanamente: di quelle non parlo perché non ne ho esperienza diretta e estesa, come dei dagis invece, ma da quello che so mi sembrano luoghi pericolosi: secondo me sbagliate proprio come concetto (ma gli svedesi invece, all’americana, ne sono fieri) e non sufficientemente progettati né controllati dal pubblico, che in termini pedagogici, ripeto, secondo me controlla poco anche se stesso (per semplice incoltura e velleità nazionalista di splendido isolamento, ma gli svedesi, da bravi nazionalisti, se ne vantano).
infine, il ‘nuovo piano educativo’ è esattamente cio’ a cui mi riferivo quando parlavo della nuova struttura alternativa alla rete di dagis che si sta provando a mettere in piedi. ma per quello che ho visto sono ancora quasi a zero, non hanno nessuna idea di come procedere né di dove andare a parare, e soprattutto, la maggior parte dei genitori e pedagoghi – questa è la mia impressione – non ne sentono minimamente il bisogno.
andrebbero ‘educati’, ma neppure lo sanno. e poi, chi lo farebbe? skolverket? (smirk)
temo di aver cannato un commento (o è in moderazione?). ribadivo che:
1) dicevo appunto dagis e non forskola perché questo la maggior parte degli asili svedesi che ho visto (=abitato e aiutato a funzionare) e di cui ho notizia ‘dall’interno’ sono: dei day care, non certo delle scuole per l’infanzia, cioé dei posti del tutto ‘insicuri’ e destrutturati che sostanzialmente servono a parcheggiare i bambini durante l’orario di lavoro/studio dei genitori (e il diritto al posto e la durata della giornata dipende rigidamente da questo, la scuola non è considerata ‘un diritto’ dei bambini piccoli, né è misurata su cio’ che è meglio per loro, oltre che pratico per i carers). si basano del resto su un progetto pedagogico nazionale vago, ottimista, astratto, trionfalista, e pochissimo informato di pensiero sull’infanzia sulla carta e nei fatti (grazie anche alla rotazione folle degli insegnanti, alla loro dubbia formazione, e alla ‘genenalogia’ del dagis, che è nato come un giardino d’infanzia, non come una scuola, e che è rimasto tale, in gran parte, mi sembra per scelta ‘culturale’ consensuale, perché i bambini, all’americana, rimangano ‘innocenti’=’il meno possibile socializzati’ il piu’ a lungo possibile).
2)dicevo, inoltre, che una struttura alternativa piu’ simile alle scuole per l’infanzia continentali è in formazione, ma che il progetto mi pare ancora a zero, e per come e perché viene affrontato, un rimedio anche peggiore del male).
3) quanto alla forbice privato-pubblico nell’offerta scolastica, non sono certo io a difendere le friskolor,
che a quanto mi sembra, oltre che evil perché francamente private, sono postacci pochissimo controllati e peggio diretti e pensati (in generale; ma visto che non ho esperienza diretta né info insider di nessuna di queste, non dico altro).
Sì, ora ho capito cosa tu volessi dire. Credo che la mia risposta invece sia dovuta alla mia piccola, ma sinor estremamente positiva, esperienza di förskola (pubblica), che contrapponevo invece ad altre esperienze svedesi di anni passati e di narrazioni di dagis privati tutt’ora esistenti…
Riguardo al discorso su pubblico/privato, anche in virtù di quello che scrivi al punto tre, credo che la situazione svedese descriva bene cosa avviene in un sistema “misto” e che per questo andrebbe indagato più a fondo… per quello che vedola il sistema scolastico svedese mette in luce proprio tutte le storture del modello liberale.
[…] Continua la lettura su wumingfoundation.com […]
Adesso il mio problema è che voglio rispondere a tre interventi, due dei quali si trovano in un “nido”, mentre l’altro no. Mi tocca dire: cazzi vostri, andateveli a cercare. [Questo è solo per dire che io sono contrario alla nidificazione fin da quando è stata proposta, ma la mia mozione è stata sconfitta :-)]
@ blicero
e a chi ha accolto in senso positivo la sua provocazione, rispondo che la penso come Mauro Vanetti. La battaglia non si fa per le oasi felici, ma per riguadagnare e difendere uno spazio “comune”, garantito dal pubblico.
Però almeno in parte è vero che piano A e piano B non si escludono vicendevolmente. Perché quando i servizi crollano e i diritti non vengono rispettati, si può essere costretti a mettere in atto strategie di sopravvivenza. Giusto chiamare in causa la mutua assistenza operaia di un tempo pre-welfare (ultimamente mi sto occupando di Arts and Crafts, William Morris, figuriamoci se non sono d’accordo a riprendere in mano quella storia), ma non può essere la soluzione. E soprattutto bisogna stare attenti che non ci si ritorca contro. La scuola di Lega Coop dà i brividi pure a me. Ma soprattutto, mi spaventa l’interesse privato nella cosa pubblica. Una scuola che si regge sui soci lavoratori o sul lavoro volontario, presenta infatti una serie di problematiche ancora diverse e da non sottovalutare.
Per questo è importante il rilievo di (aka) Don Cave, che anche se riesce a prenderla più alla larga di me, ci riporta alla questione materiale, cioè agli interessi economici che spingono certe forze politiche a equiparare pubblico e privato. Perché è nella congiunzione tra i due settori che si sviluppano i grossi affari (come per gli appalti, no?).
@ rho
Lo so che le Waldorf non sono parificate, ma ho sentito con le mie orecchie il presidente della FISM dire che andrebbero sdoganate pure quelle. A lui fa gioco, perché una parificata in più, ancorché steineriana, porta acqua al suo mulino (tanto lui lo sa che parte in vantaggio).
@ dzzz
Penso che la tua ipotesi sia giusta. A Bologna le associazioni e i circoli femministi non hanno proprio i riflessi prontissimi riguardo ad argomenti che non tocchino pienamente il loro specifico. Alcune associazioni poi hanno debiti di lunga data con le amministrazioni di un certo colore. Però posso garantirti che nel comitato referendario le persone che ho visto più attive sono donne – di varia provenienza e ruolo (consigliere di quartiere, sindacaliste, membre di associazioni di genitori, maestre, etc.).
Ad ogni modo la lista completa di promotori e sostenitori è qui:
http://referendum.articolo33.org/info/
Io mi pongo sempre nell’ottica di chi usa Twitter per seguire le discussioni che portiamo avanti qui. Adesso se uno vede su Twitter il link al tuo commento e clicca, farà una fatica boia a ricostruire gli scambi, proprio perché Dzzz ha risposto in un punto diverso del thread, e quindi anche tu hai dovuto rispondere fuori.
Invece, rispettando la nidificazione è tutto molto comodo e semplice: quando uno clicca da Twitter, trova subito l’intero scambio, tutto in un unico punto del thread, perfettamente incorniciato perché concettualmente delimitato dal resto, e perfettamente seguibile.
Ricordo a tutti che su Twitter ci seguono quasi 18.000 persone e che ogni commento di Giap viene automaticamente twittato. La maggior parte delle persone che intervengono qui lo fanno venendo da Twitter. Non me lo invento io, lo vedo dalle statistiche. Non a caso l’opzione della nidificazione ha vinto: è perfetta per quel tipo di utilizzo.
@ wu ming: grazie per la lista! (e certo, immaginavo che ci fossero dietro donne, e presumibilmente femministe); ma secondo me è suicida non chiamarsi e contarsi piu’ esplicitamente come tali; proprio perché probabilmente almeno in parte si eviterebbero errori fatti e rifatti in passato.
(per wu ming 1) riassunto per i poveri twittettari:
io sono per la nazionalizzazione/eliminazione totale delle scuole private dovunque (e sono contraria all’homeschooling), insieme alla creazione di un’offerta molto differenziata di pubblico, che sia, diciamo, ‘parallela’ alla scuola come la conosciamo: che per esempio vari gli approcci pedagogici in classe, fra classe e classe, fra scuola e scuola, e che crei inoltre spazi di gioco e apprendimento alternativi nel tempo e nello spazio alla scuola stessa, come ce ne sono in francia per esempio (e, secondo me di qualità molto minore, in svezia): le maisons vertes alla dolto e le strutture comparabili ma inserite nella struttura pubblica di protezione sociale e dell’infanzia, e poi le ludoteche di nuova generazione: non puro spazio neutro disponibile per il gioco, ma spazio in cui i bambini sono ‘accompagnati’ nell’esperienza ludica da pedagoghe specializzate nell’antropologia del giocattolo e dei giochi (insieme a artiste, performer, cuoche, maghe, artigiane, giardiniere, ecc.), che mi sembrano lo sviluppo recente piu’ interessante.
in italia e altrove mi pare che se ne trovino, ma mi chiedo se abbiano la visibilità e ‘l’organicità’ pubblica e para-pubblica che hanno in francia (penso che sarebbe ottimo).
link utili:
1) maison verte, la prima di una serie http://www.lamaisonverte.asso.fr/
2) asili svedesi (sito ufficiale , ma è in svedese, e non dice molto):
http://www.skolverket.se/forskola-och-skola/karta-over-utbildningssystemet/utbildningssystemet/annan-pedagogisk-verksamet/oppen-forskola/vad-ar-oppen-forskola-1.4158
3) associazione delle ludoteche francesi:
http://www.alf-ludotheques.org/ludotheques/definition.php
@WM4 mi correggo, scopro oggi che alcune scuole Steineriane sono parificate (es.: http://www.rudolfsteiner.it/elementari_medie.html ), cosa questo comporti in termini pedagogici non ne ho idea. Per il resto, mi dispiace ma riesco a seguire a singhiozzo (e non per la nidificazione!).
Innanzitutto, complimenti per l’articolo. Colui che nella stessa pagina cita Sergio Leone, Tolkien e Predator non potrà che avere la mia stima imperitura.
Detto questo, vorrei fare un appunto generale alla questione. Sulla quale, premetto, sono assolutamente d’accordo con Wm4. Ma.
Nel momento in cui ci si batte giustamente per evitare che i soldi della comunità vadano a finanziare scuole private e non scuole pubbliche, bisogna tenere presente un particolare.
La scuola pubblica italiana, per cui vogliamo gli stanziamenti, è un ente disatrato e disastroso. Purtroppo ciò che adesso chiamiamo pubblico, da tempo ormai non assomiglia neanche vagamente e alla lontana ad un traguardo ideale.
Stiamo parlando di un organismo malato, inevitabilmente corrotto, retrogrado, inadeguato, mal gestito e mal interpretato. Dove stanno prendendo piede filosofie e logiche inquietanti.
Se avessi un figlio, non lo manderei in una scuola italiana. Né pubblica né privata.
Troppo spesso dimentichiamo che la battaglia per la scuola è una battaglia per i nostri figli e per le generazioni future di questo paese. Loro sono il fine, e il centro costante del sistema-scuola. O almeno dovrebbero esserlo.
E’ necessario conoscere quale mostruosità vogliamo alimentare grazie a questo (ripeto sacrosanto) referendum. Perché in quella mostruosità i nostri bambini andranno a crescere e a formarsi.
E io mi sono personalmente frantumato di dover sempre scegliere il pessimo minore.
So bene quali siano i rischi di una scuola pubblica debole, inerme ed inerte. Rischi terribili. Ma non ci stiamo accorgendo di quanto danno stia facendo adesso alle presenti generazioni di studenti.
Ho spesso vagheggiato una scuola nuova, dove poter finalmente mettere in prova i programmi ministeriali di trent’anni fa, che ancora oggi attendono di essere attuati. Una scuola diversa da quella pubblica è per definizione privata. D’altra parte nella scuola pubblica c’è stato di recente il concorso per dirigenti scolastici; ebbene è venuto fuori che la metà delle domande non conteneva la risposta giusta. Non una, due, cinque. Metà delle domande. Il concorso è stato ovviamente avallato dai sindacati perché meglio dei dirigenti impreparati che nessun dirigente.
Sarà mai possibile lottare senza turarci occhi, naso ed orecchie?
Però qui si sta parlando soprattutto di scuola per l’infanzia. E sotto questo aspetto c’è da dire che in Italia non esiste pressoché altro posto al di fuori delle scuole materne ed elementari in cui individui di provenienza culturale e sociale così diversificata si ritrovano alla pari, nello stesso posto, a condividere la vita formativa. Per di più in un’età della vita fondamentale per la crescita della personalità.
Sì, proprio a questa scuola mi riferisco. E’ l’unica che conosco da vicino se non da dentro.
Assolutamente vero quanto dici, riguardo alle possibilità offerte dalla scuola dell’infanzia e dalla primaria come luogo di socializzazione per individui appartenenti a diverse realtà. Ma la scuola ha anche una valenza pedagogica altrettanto fondamentale. E non possiamo ridurla al rango de “se non venissero qui, sarebbero a casa o nelle strade, o a lavorare” (il che è vero, ovviamente).
“in Italia non esiste pressoché altro posto al di fuori delle scuole materne ed elementari in cui individui di provenienza culturale e sociale così diversificata si ritrovano alla pari, nello stesso posto, a condividere la vita formativa. Per di più in un’età della vita fondamentale per la crescita della personalità”(wuming4)
THIS.
sono d’accordo, è questo il punto: l’interculturalismo si costruisce/accade nei luoghi abitati da bambini piccoli meglio e diversamente che altrove, e certo non solo in italia.
eppure non esiste ancora, mi sembra, neanche la consapevolezza comune di quanto questo passaggio sia cruciale per una socializzazione antirazzista non astratta e imparaticcia (degli adulti del resto, allo stesso tempo che dei bambini).
di certo non mi sembra che questa articolazione sia prescelta e brandita da alcun gruppo di lotta un po’ esteso (intendo, non solo ‘teorico’ e non solo ‘tecnico pedagogico’), femminista, antirazzista, socialista, whatever. o qualcuno ne conosce?
@ Ekerot.
Sono un po’ stupita di leggere queste cose. Ammetto la mia ignoranza in materia perché vivo all’estero e non ho figli, quindi sarà come dici tu . Ma ho due nipotini appena usciti dalla scuola materna (pubblica in entrambi i casi) e sia loro che i genitori ne erano entusiasti. Anche da altri conoscenti ho prevalentemente giudizi positivi se si parla di scuola dell’infanzia (e se non si considerano quelli che “è pieno di extracomunitari dove andremo a finire”) Il problema al limite è come dice il post farceli entrare, perché i posti son limitati.
Secondo me gente che cerca di costruire “isole felici” dentro la disastrata situazione esistente, senza però scendere a compromessi con la logica del principio di sussidiarietà né costruire ghetti, esiste già.
Si tratta delle migliaia e migliaia di insegnanti di sinistra che, tra mille difficoltà e dribblando direttive ministeriali e deficienze curricolari, guadagnando una miseria e scontrandosi con infiniti muri di gomma, cercano di fare scuola in un modo diverso. Sono quelle maestre e quelle professoresse, o i loro colleghi maschi, e quel personale scolastico tecnico o amministrativo che costruiscono *nella Scuola pubblica* (e, in qualche eroico caso, anche nella Scuola privata, magari confessionale!), di ogni grado, spazi di critica sociale, di confronto umano, di cultura alternativa, di sperimentazione pedagogica ecc.
Sono sicuro che ognuno di noi ha incontrato qualcuno di questi benefattori nel corso dei suoi studi.
L’analisi di Wu Ming 4 è davvero interessante. Come contributo alla discussione vorrei sottolineare il fatto che in realtà potrebbero esserci delle prospettive alternative per considerare il tema, oltre a quella del paradosso all’interno della sinistra.
A mio avviso si tratta in realtà di una contrapposizione fra chi vuole difendere la Costituzione, la scuola pubblica, la libera scelta di chi vi accede e l’uso che si fa delle risorse pubbliche (e fra questi anche diverse realtà che non sono propriamente di sinistra) e, dall’altra parte invece, chi vuole difendere determinati privilegi ed interessi ed in alcuni casi (forse anche in buona fede) chi pensa che quella attuale sia la soluzione più efficiente per gestire il problema della carenza di posti.
Non sono d’accordo però con il contrapporre la visione socialista e quella liberale.
Nel caso del finanziamento pubblico delle scuole private infatti si può realizzare una vera convergenza fra le istanze di una certa sinistra e quelle di una certa destra.
Se infatti a sinistra la difesa della scuola pubblica e della Costituzione sono gli elementi trainanti per chi appoggia il referendum, anche a destra i principi liberali, laici ed il rispetto della legalità aiutano la convergenza sul referendum.
Al contrario, così come nel centro-destra le frange cielline premono per aumentare i finanziamenti per le scuole cattoliche sulla base di apparenti visioni efficientiste del sistema (la qualità e le performance della gestione privata contro le inefficienze delle strutture pubbliche), anche nel centro-sinistra si tende a giustificare il finanziamento delle scuole paritarie private con l’efficienza del sistema, ma su un’impostazione che è un mix di dirigismo e cattocomunismo (con un pizzico di calcolo in termini di tornaconto elettorale che deriverà dal tener buona la Curia).
Anche il principio di sussidiarietà, come coniugato dalla porzione di destra che lotta contro il referendum, non ha molto a che fare con il pensiero liberale, che affonda le sue radici nella cultura anglosassone (Hobbes, Locke).
“La sussidiarietà di stampo anglosassone, in effetti, non coincide del tutto con il principio di sussidiarietà formulato dalla dottrina cattolica, mentre si avvicina piuttosto alla cultura liberale di matrice calvinista, basata sul principio di sovranità delle sfere. Il principio di sovranità delle sfere rigetta lo statalismo – come fa anche il principio di sussidiarietà -, ma esso esclude anche qualsiasi sostegno (economico o di qualsiasi altro genere) da parte dello Stato ai corpi intermedi (e prima di tutto alle Chiese), mentre chi invoca il principio di sussidiarietà generalmente appoggia questo tipo di sostegno.” (voce “Principio di sussidiarietà” su Wikipedia)
Ma ci tengo a sottolineare che il pensiero liberale e laico di destra (che ha contribuito in qualche modo a scrivere alcuni principi di libertà fissati dalla Costituzione) non può che essere a favore del referendum, proprio per affermare il principio di libertà nella istituzione di scuole private, che saranno veramente libere solo senza la dipendenza dai finanziamenti pubblici e nel pieno rispetto della legalità e del dettato costituzionale.
Giusta osservazione la tua. Però in Italia quel tipo di lieberalismo lì, quello anglossassone, non ha mai attechito granché. Da noi appunto la sussidiarietà è invocata da chi vuole entrarci eccome dentro lo Stato, e il più possibile, e prende soldi da ogni ente pubblico. La nostra tradizione politica vede prevalere il liberalismo cattolico, non quello calvinista. Quindi sì, concordo sul fatto che una convergenza tra “liberali” e “socialisti” su questo tema sarebbe anche possibile, ma il problema è che i primi sono sempre stati un’esigua minoranza, e i secondi sono in via di estinzione da un pezzo.
per non parlare poi del fatto che tanti argomentano che la genealogia del liberalismo sia tutt’altro che liberale.. in quest’articolo che ho pescato a caso e letto solo in diagonale (mi scuso), per esempio, si sostiene che il neoliberalismo è stato generato, direbbe deleuze, inculando gramsci :D
http://www.globalexchange.org/resources/econ101/neoliberalismhist
(spero non sia rossobruno.. non ce l’avete una polizia addetta?)
A questo link c’e’ una tabella che spiega le ragioni (in soldoni) delle paritarie che ritengo occorra smontare:
http://www.scuolelanave.it/73-Perch%C3%A9_la_Nave/
Il primo commento dell’insegnante all’articolo a quest’altro link: http://cronachelaiche.globalist.it/Detail_News_Display?ID=20206 è molto significativo e fa emergere un aspetto non sviluppato da Wu Ming4, la precarizzazione degli insegnanti delle paritarie, riassumo:
le scuole paritarie (non tutte ok) si basano sui contratti atipici, sottopagati e sfruttati, non sono controllate dagli organi statali ispettivi.
Si avvalgono del concetto “Ti pago poco ma ti dò punteggio” con conseguente mancanza del diritto al libero insegnamento (non tutte ok), hanno minori dotazioni hardware (non tutte ok) ed una didattica più scarsa (non tutte ok) che alla bisogna non lesina “6 politici” al figlio di persona benestante.
A me non sembra giusto pagare una parte delle mie tasse per facilitare la vita dei figli di chi appartiene alle elites poco liberali di questo paese (@giuscur), faccio presente che in questo periodo molti genitori che hanno figli alle scuole primarie stanno versando una quota come associazione genitori o direttamente alle scuole al fine di supportare progetti ecc. ovvero cercare di tenere in piedi la baracca della scuola pubblica.
Per finire: #Calamandrei #scuolapubblica
duole dirlo, per qualcuno, ma l’attuale condizione della scuola italiana ha un’origine nelle scriteriate riforme uliviste, dall’autonomia della Bassanini, ai finanziamenti alle private, passando per il tentativo di concorsone per i professori più meritevoli dell’allora ministro Berlinguer.
Ai 200 milioni regalati ai diplomifici private, spesso cattolici, si aggiunge la recente beffa della proposta ministeriale delle sei ore aggiuntive di lavoro gratuito, con il riordino delle cattedre a 24 ore. Il tutto….nel silenzio dei sindacati.
L’analisi affrontata dall’articolo è molto interessante. Vorrei permettermi di soffermarmi su un tratto forse secondario (ma forse no) dell’articolo. A proposito della costruzione retorica “non ci sono più soldi quindi..” o “c’è la crisi quindi..” ritengo che bisognerebbe una volta per tutte vivisezionare il meccanismo linguistico e ideologico che sta’ alla base di queste giustificazioni, le quali vengono utilizzate per motivare le privatizzazioni più selvagge e i tagli allo stato sociale più dolorosi. L’emergenza finanziaria viene impugnata come arma non solo per giustificare le scelte politiche fedeli alle idee neoliberiste ma allo stesso tempo anche per soffocare la discussione sul nascere. Puntando l’arma del “c’è la crisi” si mette con le spalle al muro qualsiasi aspirante oppositore. Disinnescare questo meccanismo, e quindi mostrare come una mancanza di fondi possa essere affrontata in modi diversi (che possono essere opposti a quelli proposti come veri e assoluti dal modello neoliberista), significa consegnare un’arma carica per difendersi a chiunque non voglia conformarsi acriticamente all’ideologia predominante, o almeno rendersi conto di trovarsi davanti ad una (tra le tante possibili) scelta politica. Un ottimo esempio in questa direzione è Shock Economy di Naomi Klein, dove proprio lo smascheramento di questo meccanismo viene usato per ricostruire la narrazione storica degli ultimi 40 anni. Quello che secondo me manca è una chiave di lettura da contrapporre al “il mercato è in crisi quindi dobbiamo fare questi sacrifici”. Siamo disarmati e abbiamo bisogno di un’altra interpretazione da impugnare per rispondere al fuoco.
Volevo inoltre sollevare un’altra questione, come è scritto nell’articolo la proposta di questo referendum costringe le formazioni a schierarsi e funge quindi da cartina tornasole. Vedendo gli schieramenti ho subito notato che tra i sostenitori del referendum (che non vuol per forza dire favorevoli alla scuola pubblica) compare anche il movimento5stelle. Premessa la mia allergia per il linguaggio del grillismo ( e soprattutto per il suo omertoso silenzio a proposito di temi come questo della scuola pubblica) viene da chiedermi come interpretare questo loro posizionamento (aggiungo che mi è appena capitato di vedere il video di un comizio di Beppe Grillo in Sicilia in cui -molto confusamente- propone come esempio di modello politico ed economico quello dell’Ecuador di Correa, e citando Chavez, Kirchner e Lula, inneggia alla nazionalizzazione delle banche e delle strutture sanitarie).
Grillo dice e continuerà a dire tutto e il contrario di tutto, inglobando argomenti di estrema sinistra, di estrema destra, di estremo centro, alternando lotte sensate a cazzate, proponendo politiche libertarie e autoritarie, keynesiane e ultraliberiste, attivando frame solidali e frame razzisti a seconda dei casi e dei soggetti. La discussione sul “grillismo” qui su Giap è stata accesa ed è probabile che si riaccenderà. Per adesso attendiamo l’uscita del libro che Giuliano Santoro ha dedicato al fenomeno.
Invece il posizionamento del M5S bolognese mi sembra coerente coi loro discorsi sulla partecipazione dei cittadini, sugli strumenti di democrazia diretta etc. E penso giochi anche il fatto che il referendum (questo è stato chiaro dal principio) mette in crisi e “stana” il PD. Il M5S si posiziona sempre in base a quel che può o meno nuocere al PD.
Ricordo, en passant, che l’Emilia-Romagna è l’epicentro del malessere a cinque stelle nei confronti di Grilleggio/Casagrillo, con dimissioni di consiglieri, raduni scomunicati dal leader, espulsioni, gaffes e il famoso fuori onda di Favia. Il movimento emiliano è tuttora attraversato da linee di frattura. Si dice che Casaleggio – ex-leghista e uomo culturalmente appartenente alla destra – abbia in antipatia molti “grillini” emiliani perché li ritiene “anagraficamente comunisti”. Anche questo è interessante, ma stiamo andando OT.
Posto che sono d’accordo con l’articolo nella maniera più assoluta (i soldi pubblici vengano stanziati per la scuola pubblica), mi trovo però nel mondo della scuola sempre a parlare di difesa di baluardi democratici e mai di costruzione di una scuola che trovi il giusto posto nella società. Insomma ormai tutti si sentono eroi , ultimi sopravvissuti della specie che difende la Cultura nella società dei reality. In realtà la scuola è pessima. Ma non perchè mancano fondi: perchè mancano idee e la capacità di coinvolgere. Nella scuola interculturale pubblica NON si impara a stare insieme, a condividere progetti , idee, obiettivi e azioni. NON si impara ad ascoltare gli altri e a pretendere di essere ascoltati. NON si impara la passione per uguglianza, sapere, saper fare, democrazia , NON si impara a stare con gli altri.
E’ una scuola che non si fa rispettare, sta sulla difensiva, è una scuola di inutili predicozzi. Almeno, io, da dentro , la vivo così.
Ti rispondo con le parole di uno che oltre a lavorare nella scuola pubblica, ci ragiona sopra e ne scrive da molto tempo, Girolamo De Michele, il quale parla di crisi nell’educazione.
“Perché ‘nella’, e non ‘della’? Perché la scuola è all’interno di un più vasto sistema educativo, che è attraversato da tempo da profondi mutamenti. E perché è altrettanto importante capire che l’alternativa all’educazione non è l’assenza di educazione, ma una diversa educazione […]. Parlare di ‘crisi nell’educazione’ significa quindi chiedersi non solo qual è il ruolo della scuola all’interno del sistema istruzione, ma anche quali forme educative e culturali si agitano all’interno della società attuale””. [G. De Michele, La Scuola è di tutti, Minimum Fax, 2010, €15].
Insomma, non intendo assolvere la scuola pubblica dalle sue mancanze, però, proprio per non concepirla come un baluardo di ‘civiltà’ strenuo e isolato, è necessario vederla nel contesto storico che viviamo. E non è un bel vedere, per l’appunto. Non c’è da meravigliarsi che stia sulla difensiva.
Un’altra cosa da cui Girolamo mette in guardia sono proprio le critiche distruttive alla scuola pubblica, che tendono a esaltarne le mancanze, senza bilanciarle con i punti di forza. Di fatto questo è il discorso che negli ultimi anni la destra ha utilizzato per deprimere ulteriormente la scuola pubblica: in fondo ormai è putrefatta, piena di buchi, inutile metterci troppe toppe, tanto vale passare a un modello diverso, sussidiario, etc.
Sarà almeno il caso di ricordare che la scuola elementare italiana è una delle migliori del mondo.
Se dovessi scendere nel merito di certe affermazioni potrei farlo soltanto a partire dall’esperienza personale, perché non sono un esperto di scuola e delle sue problematiche. Diciamo che ho gli occhi per vedere e le orecchie per sentire.
Mio figlio ha frequentato l’asilo nido, la scuola materna e attualmente frequenta la scuola elementare, sempre all’interno del sistema pubblico.
In questi anni ha decisamente imparato a stare con gli altri, cioè a condividere spazi e situazioni alla pari con altri coetanei, a relativizzare l’unicità delle proprie pretese, a relazionarsi e prendere sul serio diverse figure adulte non genitoriali, a seguire determinate regole valide collettivamente.
Ora io non dico che se non avesse frequentato la scuola tutto ciò gli sarebbe mancato, perché appunto, come fa notare Girolamo, l’educazione è in buona parte extra-scolastica; ma sicuramente la sua condizione di figlio unico con due genitori che lavorano e una sola nonna a frequente disposizione non avrebbe certo equivalso all’esperienza collettiva in una comunità più allargata.
Mi chiedo anche in quale altro luogo costui si sarebbe trovato quotidianamente a contatto con bambini e bambine di altra estrazione sociale, di diversa abilità, di altra provenienza geografica e di differenti religioni.
Credo in definitiva che nella scuola pubblica questo piccolo individuo abbia acquisito un’esperienza utile e relativamente unica. E credo che sia “educazione” anche e soprattutto questa, al di là dell’apprendimento.
Segnalo: Girolamo De Michele, “La scuola è di tutti”, audio della presentazione bolognese di due anni fa.
Chi iscrive i propri figli alla scuola paritaria?
Boh! Ma sicuramente anche qualche genitore che ha paura di fare giocare, studiare, vivere, condividere pezzi di vita i proprio figli assieme ai diversi: religioni diverse, status sociale diverso, provenienza diversa ecc.
Questi genitori hanno paura che i propri stessi figli tornino a casa e contraddicano i loro (illusori) principi ecc.
Essere di sinistra, forse, significa impedire che vengano costruite eccellenze sulle spalle della maggioranza, quello che temo che si stia facendo con la scuola pubblica, la sanità, i viaggi interspaziali :-) ecc.
A livello politico evidenzio che da quando esiste il centrosinistra (cattocomunisti direbbe B.) la questione scuola mi sembra diventato un punto di incontro per tendersi una mano, sia a livello nazionale che locale. Bologna si conferma città laboratorio.
@girolamo il 30 novembre di 2 anni fa andai in stazione di fretta per prendere il solito treno per prendere a scuola la solita figlia, BEH! Questi qua http://www.youtube.com/watch?v=WNOGrtcpj8Y&feature=related mi fecero perdere il treno! Sul treno successivo finii di leggere le ultime pagine de “La scuola è di tutti”: so’ ragazzi.
Se sto ad iper-commentare questo post è solo colpa di Girolamo.
Non ho trovato nulla su wp plugins ma un servizio di iscrizione ai commenti di singoli post senza per forza commentare potrebbe rappresentare un ulteriore miglioramento del sito.
@ erbamate
quel servizio c’è sempre stato :-) Però è vero che è riservato a chi ha lasciato almeno un commento, bisognerebbe estenderne la portata. Ad ogni modo, qui sotto c’è scritto: “Voglio ricevere via email i commenti successivi al mio”. Clicca prima di pubblicare il tuo prossimo commento.
Intervengo nella discussione con un po’ di ritardo, ma l’argomento mi sta particolarmente a cuore.
Per sette anni ho lavorato all’interno della scuola come “esterno”, cioè come educatore per una grande SCRL (Società Cooperativa) di Firenze, che svolge in appalto per il Comune un servizio di assistenza educativa individuale per i minori disabili.
I commenti di @munchausen e di @ekerot (poco sopra) mi paiono troppo impietosi.
Negare la crisi della scuola pubblica-statale italiana, certo non è possibile.
Ma affermare che sia un luogo all’interno del quale “NON” si impari “a stare insieme”, “ad ascoltare gli altri”, insomma un luogo da buttare nel cesso…beh mi pare eccessivo…
Per fare un esempio, da un punto di vista puramente legislativo, la scuola italiana è una delle poche, se non l’unica al mondo, che con una legge specifica (la 104/92) sancisce il diritto per le persone diversamente abili di frequentare le classi ordinarie. Di vivere cioè l’esperienza istruttivo-educativa di una vita, assieme a i loro coetanei.
Certo, non basta condividere lo stesso spazio fisico, per innescare dinamiche di inclusione ed integrazione, e nella realtà l’inserimento delle persone disabili presenta spesso delle enormi criticità.
Ma è una *possibilità*, possibilità di innescare dei meccanismi che tendano alla conoscenza della diversità ed al rispetto dell’altro. Una possibilità che manca totalmente in altri sistemi istruttivi.
Un esempio fra i tanti, di come le “critiche distruttive”
possano essere bilanciate con punti di forza. (come dice wu ming 4 citando De Michele).
Ecco, io la scuola pubblica la vedo come un luogo che sì, è in grande affanno.
Ma anche un luogo dove poter e dover ancora stare-lavorare-vivere-lottare, per scovare quelle *possibilità* di cambiamento e miglioramento, che sono ancora presenti, spesso in stato inerte, al suo interno.
Proprio perché credo che l’intervento deva essere portato “nella” scuola pubblica, mi son licenziato quest’anno dalla cooperativa.
Ho iniziato da un mese a lavorare come insegnante di scuola primaria.
In futuro vi saprò dire.
Rispondo a @WM4 e @polpettide, e implicitamente a Girolamo.
Leggendovi nei giorni scorsi mi sono trattenuto da un commento forse un po’ estremista o quantomeno estremo. Oltre alle ragioni che avete detto, la scuola pubblica (in seguito La Scuola, sottinteso pubblica) oggi e qui mi pare che sia vista abbastanza diffusamente dalle famiglie (in seguito La Famiglia) come un nemico e/o come qualcosa da cui difendersi o difendere i pargoli. Su due livelli possibili in proporzione a censo e livello di istruzione: a) rifugio nelle scuole private b) aggressioni anche fisiche al corpo docente. Tralascio i motivi già brillantemente esposti, nonché l’ovvia osservazione che i problemi esistono davvero, nella struttura e negli individui, e in alcuni casi magari li paghiamo cari.
Tuttavia, se La Famiglia oggi e qui, in quanto pretesa cellula costituente della società, si riduce in troppi casi alla brodaglia rancida che sappiamo, allora voglio pensare non soltanto che La Famiglia non abbia alcun diritto nel volersi difendere dalLa Scuola se non in nome di una malintesa potestà/proprietà sulla prole, ma che al contrario La Scuola nonostante tutti i suoi enormi problemi sia una delle pochissime possibilità esistenti in grado di difendere la prole dalLa Famiglia.
(Queste cose le scrivo avendo famiglia e prole, alla luce di una certa conoscenza diretta e indiretta di scuole pubbliche e private, e avendo pagato più o meno tutti in famiglia alcuni problemi delLa Scuola. E non intendo chiamarmi snobisticamente fuori daLa Famiglia: nessuno è immune dall’essere brodaglia).
[…] dilungarmi in analisi rimando ad un bello e approfondito articolo di Wu Ming 4 sulla questione che consiglio a tutti e tutte di leggere con […]
Grazie del post, sui giornali la vicenda viene generalmente trattata con poche righe ma il caso è emblematico.
Ora non vorrei andate OT ma vi segnalo questo post:
http://ilbipolare.blogspot.it/2012/10/il-mostro.html
per rinfrescarci la memoria riguardo alle privatizzazioni già fatte e già “andate a male”…
Un pezzo davvero intenso, intelligente e ben documentato: mi permetto di farti i complimenti. Premetto che quello dell’istruzione non è un tema in cui sono ferrato (e su cui ho idee ancora abbastanza confuse, o quantomeno “in formazione”), ma “oso” ugualmente fare qualche commento.
Prima di tutto, concordo nell’analisi sul sistema italiano, un sistema evidentemente contraddittorio.
Tuttavia avrei una domanda più generale. Ma siamo proprio sicuri, e se sì, perché, che l’”istruzione” sia un fatto che “necessariamente” deve competere al “pubblico”. In fondo lo stato moderno trova il suo fondamento teorico “grosso modo” nel Leviatano di Hobbes, secondo il quale, siccome “homo homini lupus”, allora per non scannarci fra di noi dobbiamo rinunciare a una parte di nostre libertà e delegarle a Leviatano (lo Stato) che in questo modo permetterà la convivenza sociale. Hobbes è padre del liberalismo, ma il riferimento al “pubblico” come dimensione in cui certi problemi (radicati in un visione negativa dell’uomo, che non ha pià l’aristotelica natura di “animale sociale”) trovano adeguata soluzione e tutela è propria anche della cultura di sinistra. Resto sempre stupito del fatto che oggi si da’ per scontato che lo Stato debba amministrare il nostro presente (in cui includo l’istruzione) e il nostro futuro (le pensioni). E’ evidente che lo Stato a cui oggi tutti ci affidiamo ha una funzione non dissimile da un vero e proprio Dio.
Tutto questa pappardella per dire che ho riletto di recente un interessante testo di Ivan Illich “Descolarizzare la società” che mette proprio in luce come la scolarizzazione modernamente intesa in realtà espropria l’uomo di alcune sue capacità intrinseche, e diventa un sistema che per continuare ad esistere deve produrre ignoranza. Per Illich la modernità si caratterizza proprio perché presuppone che l’uomo nasca incapace di imparare e che solo il sistema educativo lo può istruire; in analogia, l’uomo nasce malato e il sistema sanitario lo deve curare. Sembrano idee un po’ strampalate, ma pensiamoci un attimo: non è ridicolo che per imparare l’italiano oggi si dia per scontato che bisogna andare a scuola e studiare su una grammatica italiana, scritta in italiano e che quindi presuppone già la conoscenza della lingua? Banalmente: per imparare una lingua basta parlarla andando nei luoghi in cui si parla: non occorre nessun “pubblico” (né “privato”, ovviamente) che ce la insegni. Insomma, forse tra le due prospettive atitetiche pubblico/privato non ne può esistere una terza ancora da esplorare? Scusate per la lungaggine.
Mi piacerebbe che ti rispondesse qualcuno che di pedagogia e insegnamento ne sa più di me. O qualcuno che conosce bene il pensiero di Ivan Illich.
Io posso dirti quello che penso. In una risposta più sopra ho citato un libro di Girolamo De Michele di un paio d’anni fa: “La scuola è di tutti”, Minimumfax. In particolare citavo un passo in cui l’autore fa notare come quella scolastica sia soltanto una parte dell’educazione che un individuo riceve. Ci sono apporti educativi molto più forti che vengono dalla famiglia, dalla strada, dalle frequentazioni ed esperienze extra-scolastiche (tv, internet, parrocchie, polisportive, viaggi all’estero, etc.). Quello che dobbiamo chiederci, dice De Michele, è se attribuiamo all’educazione scolastica un qualche valore non soltanto cognitivo ma anche esperienziale specifico. Vale a dire: l’esperienza dell’apprendimento nella comunità scolastica ha una sua importanza oppure no, nella formazione di una persona e in particolare di un/a bambino/a ?
Illich sembra guardare alla scuola soltanto come disciplinamento della conoscenza, dove ti “insegnano che sei ignorante”. Da un lato la scuola non è soltanto quello, bensì appunto un’esperienza condivisa di apprendimento tra diversi, che difficilmente si replica nel corso della vita; dall’altro lato finora non è stato escogitato un metodo migliore per garantire a tutti di acquisire alcune nozioni basilari, che non sarebbe corretto dare per scontate. L’italiano, come ogni altra lingua, si impara parlandolo, è vero, assai più che studiandolo, ma già imparare a scrivere è un altro paio di maniche. Allo stesso modo imparare a contare puoi farlo anche attraverso la pratica fai-da-te, ma oltre un certo grado di complessità ti serve un metodo e la scuola magari è in grado di suggerirtene uno efficace. Non solo: in classe si impara a leggere, ovvero a capire quello che si legge e a trattenerne il senso. E’ una capacità che poi molti perdono, perché smettono di leggere, perché smarriscono la capacità di concentrazione, etc. e diventano i cosiddetti “analfabeti di ritorno”. Questo conferma che la vita è assai più determinante della scuola nel segnare e compromettere le nostre capacità, ma anche che la scuola a qualcosa pure serve, dato che se c’è un ritorno, deve esserci stata una “andata”, quindi una chance.
Se poi possa esistere una terza via ancora da esplorare, non lo so, ma tutto può essere. Ho comunque il presentimento che lo scopriremo presto, perché mano a mano che il pubblico si ritira e il privato avanza, gli standard si abbasseranno (eccetto quelli per i più abbienti, ovviamente) e chi resta fuori dovrà o rassegnarsi a una scuola pubblica in stile americano, oppure… escogitare qualcos’altro. Fosse anche la rivoluzione! :-)
WM4 ha scritto: “Ho comunque il presentimento che lo scopriremo presto, perché mano a mano che il pubblico si ritira e il privato avanza, gli standard si abbasseranno (eccetto quelli per i più abbienti, ovviamente) e chi resta fuori dovrà o rassegnarsi a una scuola pubblica in stile americano, oppure… escogitare qualcos’altro. Fosse anche la rivoluzione! :-)”
Illich intitola un paragrafo del testo “Il potere rivoluzionario della descolarizzazione” ;-)
tra le varie cose che faccio, insegno italiano agli stranieri. Ho quindi un po’ di esperienza “in classe”. Provo a mettere in ordine qualche idea che mi sono fatta.
Non mi sembra poi così strano che una visione “liberale” determini una prospettiva “individuale” dell’apprendimento. Se il mio obiettivo deve essere la mia personale affermazione, sarà bene che io vada in giro a cercare quelle che “mi serve” per affermare me stesso.
L’esempio della lingua. Ai miei studenti dico sempre che siamo sulla stessa barca, e dobbiamo cercare, insieme, di remare nella stessa direzione. Siamo, in fondo, una comunità che ha un obiettivo: comunicare, ragionare, riflettere, giocare, ridere, “crescere”. Lo facciamo insieme, studenti e insegnante. Abbiamo “la scusa” di una lingua da imparare. Ora, in questo “lavoro comune”, c’è chi sa di più e chi sa di meno. A volte sono gli studenti, a sapere di più. A volte è l’insegnante. Perché ci spaventa tutto questo? Perché ci sembra così difficile da digerire il fatto di sapere un po’ meno di qualcun altro? di avere bisogno che qualcuno ci insegni qualcosa?
Mi sembra che il grande *problema*, il nodo irrisolto, sia quale “pubblico” deve garantire istruzione, salute, benessere. Quale idea di Stato è sottesa alla nostra idea di scuola, nel caso specifico. Se lo immaginiamo come una comunità, molte delle contraddizioni, forse, possono essere sciolte (o, quanto meno, superate).
@ danae
Provo a declinare il problema di cui parli.
Innanzi tutto chiarirei un punto, anche rispetto a quanto scriveva Claudio Testi più sopra: “pubblico” non è sinonimo di “Stato”. Lo Stato è un sistema di istituzioni, strutture formali, meccanismi, che garantiscono l’ordinamento di una determinata società in base a determinati principi e rapporti sociali. La sfera del “pubblico” è ciò che in definitiva lo Stato dovrebbe garantire, si può dire che in un certo senso è un fine. Nel “pubblico” rientrano o dovrebbero rientrare tutte quelle attività che non rispondono a un interesse di parte privato, ma a un interesse collettivo, che accomuna tutti gli individui: salute, istruzione di base, sicurezza. Ecco perché, banalmente, introdurre l’interesse privato nella sfera pubblica non fa altro che sottoporre le necessità fondamentali delle persone alla regola del profitto, ed è una contraddizione in termini.
Il “pubblico” è l’ambito che sta tra lo Stato come insieme di istituzioni e l’individuo cittadino. Il punto però è che l’individuo cittadino portatore di diritti universali che sta alla base della dottrina politica moderna è un’astrazione. Ovvero è una realtà che si presenta sempre inserita in un contesto. Un contesto fatto in buona sostanza di comunità, spesso intersecate tra loro. La vita in società non è altro che questo: condivisione di spazi, tempi, eventi, tra individui diversi. Un fesso che conoscevo una volta disse: “io rifuggo la comunità come la peste”. Ma questo è impossibile, a meno che uno non si ritiri a vivere da eremita su una montagna, senza contatti col mondo. Tutti noi viviamo in comunità, più o meno grandi, più o meno definite. Immaginarsi estranei alle comunità è, appunto, un’astrazione. Immaginare che le comunità in cui viviamo debbano essere omogenee ed esclusive è un’idea di comunità che confligge con l’idea di “pubblico” di cui sopra.
Eppure è questa la concenzione che si tende ad avvalorare adesso. Quando un amministratore (bolognese, in questo caso) mi dice che “bisogna dare risposte alle esigenze educative delle famiglie” non sta dicendo che bisogna garantire l’istruzione primaria come diritto; sta dicendo un’altra cosa, cioè che la scuola deve rispondere alle famiglie. Ma le famiglie non sono tutte uguali, e soprattutto la scuola pubblica non può essere una propaggine della famiglia, un ambito ad essa attiguo e assimilabile. La comunità famigliare e quella scolastica non coincidono, perché la seconda è più allargata e si basa su un principio aggregatore diverso rispetto alla famiglia. Se uno non è disposto ad accettare questo, è perché crede soltanto alla propria specifica comunità esclusiva e non intende accettare di fare parte di comunità più estese. Costui difficilmente crederà a un ambito pubblico, a meno che esso non gli offra l’opzione di non confrontarsi e di non dover mediare con esigenze e priorità altrui. La sussidiarietà prevede proprio questo: la possibilità di un ambito pubblico per uso privato. E implica appunto un’idea diversa di spazio pubblico, piuttosto che di “Stato”. Quest’ultima in definitiva non è che una conseguenza della prima.
Concludo ricordando, come faccio spesso, la famosa affermazione della Baronessa di Kesteven, al secolo Margareth Thatcher, campionessa del liberismo selvaggio, che suonava più o meno così: “Non esiste la società. Esistono gli individui e le famiglie”.
Il concetto di comunità (cristiana) viene spesso usato in chiesa dai parroci di fronte ai fedeli, non è un caso che le scuole private o paritarie siano per la maggior parte confessionali.
La scuola pubblica dovrebbe essere “propaggine” di quella comunità che si riconosce nei principi della Costituzione, non mi viene in mente altro.
Quest’anno, una mia amica professoressa nella scuola pubblica, ha “spostato” il figlio dalla primaria pubblica a quella paritaria. Oggi (anzi, vista l’ora ieri), indignata, mi ha detto che non è giusto pagare la retta della paritaria e pure le tasse!
Ad essere cinici, da un’angolazione parecchio ottusa, si può vedere anche così: io non voglio pagare la scuola a suo figlio e lei non la vuole pagare alla mia.
@ erbamate
senza offesa per la tua amica, ma secondo questa logica, se uno potesse permettersi di pagarsi le cure in una clinica privata, di mandare i figli alla scuola privata, e di stipendiare la vigilanza privata, dovrebbe essere un esente totale. Cioè, praticamente i ricchi sarebbero esentati dal pagare le tasse.
Quello che trovo più inquietante – la vera avanzata di Mordor – non è tanto lo spostamento di un figlio dalla scuola pubblica a quella paritaria privata, ma lo spostamento dall’idea di società a quella di “ognun per sé e Dio per tutti” (con o senza risvolti confessionali).
dalle mie parti (non geografiche di luogo, ma di pensiero) si parafrasa: “ognuno per se miseria per tutti.” … ;-)
Ciao Danea, parole moto belle: sono certo che i tuoi allievi ti apprezzeranno come insegnante. Riguardo alla tua ultima osservazione sul pubblico, mi permetto di riportare un lungo brani di Illich da “Descolarizzare la società” (ho aggiunto i maiuscoli)
“Un buon sistema didattico dovrebbe porsi tre obbiettivi: assicurare a tutti quelli che hanno voglia di imparare la possibilità di accedere alle risorse disponibili, in qualsiasi momento della loro vita; permettere, a tutti quelli che vogliono comunicare ad altri le proprie conoscenze, di incontrare chi ha voglia di imparare da loro; offrire infine a tutti quelli che vogliono sottoporre a pubblica discussione un determinato problema la possibilità di render noto il loro proposito. I discenti non dovrebbero essere costretti ad assoggettarsi a un programma obbligatorio, o discriminati in base al posseso di un certificato o un diploma. NE? IL PUBBLICO DOVREBBE ESSERE COSTRETTO A SOSTENERE, mediante aun tassazione progressiva, UN ENORME APPARATO PROFESSIONALE di educatori e di edifici che, di fatto, LIMITA LA POSSIBILITA’ DI APPRENDIMENTO DEI CITTADINI ai servizi che la categoria dei docenti è disposta a immettere sul mercato; dovrebbe invece usare la tecnologia moderna per rendere veramente universali, e quindi totalmente educative, le libertà di parola, di riunione e di stampa”
Salve, non conosco Illich direttamente( studiato solo su manuali…), ne mi ritengo un esperto pedagogo :-)
Comunque: per le problematiche poste da Claudio Testi nel suo primo post, sarebbe forse utile ricorrere all’etimo di due parole che spesso vengono usate come sinonimi: “insegnare” ed “educare”.
– In-segnare, indica un movimento da fuori a dentro: *mettere un segno su*, imprimere quindi, *fissare*.
In questa ottica certo è più facile che qualcuno che detiene una o più conoscenze, debba *sigillarle* su qualcun altro.
– E-ducare, indica un movimento da dentro a fuori:
*e-ducere*: trarre, condurre fuori.
All’interno di un’ottica *educativa*, si dovrebbe cercare di dare legittimità a quel bagaglio di conoscenze-abilità-competenze che ognuno ha dentro di se.
Sia esso discente o professore maestro educatore o quant’altro.
Quindi l’uomo NON nasce incapace di imparare, (per rispondere a Testi-Illich).
Il sistema-scuola, può aiutarlo ad educarsi, nel senso di *tirar fuori* ciò che è in grado anche di apprendere al di fuori di tale sistema, e di metterlo in *comune*, di condividerlo.
In linea con Girolamo De Michele, credo anche io che la scuola sia un’ *agenzia formativa* fra tante altre.
Il suo ruolo ( come emerge dagli interventi di Wu ming 4) potrebbe essere quello di rappresentare un organismo capace di *osmosi*.
Non quindi una monade-centro, di un *sapere* che è ormai decentralizzato.
Ma un luogo di passaggio, dove le conoscenze-abilità-competenze che si possono costruire altrove, in ambiti anche *privati* (associazioni, famiglia, PERSONAL computer, chi più ne ha…) trovino uno spazio pubblico, cioè di incontro-scontro-ibridazione, da restituire poi al di fuori di questo spazio.
non credo di essermi spiegato troppo chiaramente.
scusate.
chiedetemi pure chiarimenti.
Premetto la mia ignoranza in materia, ma credo che una risposta alle critiche di Ilich sia nella pedagogia di Paulo Freire. Ma anche se su questo punto mi sbaglio, credo sia essenziale dire che la scuola come concetto non è negativo in sè, anche se lo è in moltoi modi in cui la si è oragnizzata/gestita. Per me la soluzione non è fare senza, è fare in meglio
Comunque bisogna dire che sia l’assessore Pillati che Donati su una cosa hanno ragione: il Comune segue la legislazione nazionale e l’intento è semplicemente quello di tagliare i costi cedendo quote ai privati.
Si tratta di un’involuzione grottesca ma scontata in fin dei conti: non solo non sono politici di sinistra, ma non vogliono più nemmeno essere politici! Molto meglio lasciar fare le cose a tecnici, imprenditori, religiosi, loro sì che ci san fare..
Non vogliono essere politici e anche come “tecnici” lasciano molto a desiderare.
Dell’assessore Pillati secondo me andavano chieste le dimissioni. Credo che qualcuno l’abbia anche fatto, forse la Lega, non ricordo. Se un assessore alla Scuola non è nemmeno capace di farsi dare dall’anagrafe comunale il numero di bambini nati anno per anno per prevedere gli inserimenti scolastici, allora ha sbagliato mestiere, o settore, o comunque è pagato troppo per quello che fa. Non è che le sono sfuggiti dieci bambini, ma quattrocento. E’ un avanzo decisamente oversized per non poter essere almeno in parte previsto.
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Una buona notizia:
oggi il Comitato Articolo 33 ha consegnato in Comune a Bologna le 13.000 firme raccolte per l’indizione del referendum (il 150% di quelle necessarie). Ora la battaglia sarà per convincere il Comune a risparmiare denaro pubblico, accorpando il referendum alle prossime elezioni politiche.
[…] Per chi si fosse persa la puntata precedente, indispensabile per capire pregresso e contesto, è QUESTA. Eccoci ad aggiornare sugli sviluppi e a ribadire un punto di […]
Per la cronaca, a Bologna si vuole “esternalizzare” anche la gestione dei parchi.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/12/comune-di-bologna-in-crisi-parchi-giochi-verso-privatizzazione/467956/
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[…] Sinistra italiana abbia abbondantemente perso la bussola davanti a questo dualismo. Si tratta di un articolo lungo, ma ben strutturato ed esauriente. Io sarò più sintetica: non sorprendiamoci se il PD […]