– Mithrandir, perché il Mezzuomo?
– Perché Bilbo Baggins? Forse perché io ho paura. E lui mi dà coraggio.
Lo Hobbit – Un viaggio inaspettato (2012)
1. Il film
Ebbene sì, parlandone a freddo, si può dire che il primo film tratto da Lo Hobbit non ha lo stesso impatto di quelli tratti da Il Signore degli Anelli. Né poteva essere altrimenti, dato che il medesimo regista è tornato nella Terra di Mezzo dopo avere girato la prima trilogia, e dovendo quindi raccontare Lo Hobbit come il prequel di un’opera già fatta. Il tono epico dei primi tre film agisce all’indietro sulla nuova impresa cinematografica nella quale, fin dal lunghissimo prologo “omerico”, ciò che viene sacrificato è l’originale slittamento dalla favola al romanzo epico-avventuroso che caratterizza l’opera d’esordio di J.R.R.Tolkien. Ritornano attori, luoghi, paesaggi, armi, stile delle acconciature, mostri, etc. Peter Jackson non ha osato rinnovarsi perché in buona sostanza non poteva farlo, a meno di stravolgere la costruzione di mondo già ampiamente sviluppata all’inizio del millennio. In questo senso – come scrivevo proprio qui su Giap a visione ancora calda – Jackson ha risolto il problema che Tolkien si era posto: come fare rientrare il fiabesco Lo Hobbit nel vasto edificio del suo legendarium.
Infine Jackson ha voluto girare una seconda trilogia, quando probabilmente un film di tre ore, o al massimo due film sarebbero stati sufficienti per raccontare la stessa storia. La vicenda de Lo Hobbit infatti non ha l’ampio respiro del Signore degli Anelli e allo spettatore rimane in bocca il sapore di un brodo un po’ allungato.
Eppure va detto che nessun altro avrebbe potuto fare questo film (chi ci ha provato, Del Toro, ha gettato la spugna). Nessuno se non un fan devoto, disposto a spendere cinque-sei anni di carriera dietro a un solo progetto. Al netto di tutte le critiche, anche questa volta Jackson ha messo all’opera il suo amore per l’immaginario tolkieniano e per l’autore, tirandone fuori personaggi interessanti e una storia avvincente. Ci sono momenti più alti – come il dialogo beckettiano tra Bilbo e Gollum, la sfida degli indovinelli – che riscattano quelli più bassi – come l’inseguimento della slitta di Radagast o la sequenza nelle gallerie dei goblin, ad uso dei giocatori incalliti di videogame, per ritmo e soprattutto per smaccata implausibilità. Così come c’è una riscrittura della vicenda che si avvale di una conoscenza profonda della materia tolkieniana, inclusi gli apparati e gli scritti collaterali alle opere maggiori. Non da ultimo, bisogna riconoscere a Jackson di avere scelto per le nuove parti attori azzeccatissimi. Su tutti Martin Freeman, con la sua faccia da borghesotto inglese, ma anche Richard Armitage, nella parte di Thorin Scudodiquercia, che nella sua impressionante somiglianza al Sandokan di Kabir Bedi, rappresenta la versione dark di Aragorn (e in effetti va detto che anche sulla pagina letteraria ne è l’alter ego).
Mi fermo qui per il momento, su una nota positiva, perché vorrei far notare come il successone in sala de Lo Hobbit abbia riportato in auge un vizio italico che non stigmatizzeremo mai abbastanza: spararla grossa su Tolkien, scriverne a casaccio, affermare sul suo conto cose che non si scriverebbero su nessun altro classico del Novecento. Perché tanto, si sa, è un puro caso che i suoi libri stiano sugli scaffali da settantacinque anni e siano tra i più letti del XX secolo…
Vale la pena fare qualche esempio, tanto per capirci.
2. Il maiale
Prendiamo la recensione del film scritta da Natalia Aspesi su “La Repubblica” (13/12/2012). Tralasciamo il fatto che abbia messo a Tolkien la barba («il barbuto con pipa professor John Ronald Reuel Tolkien»), forse confondendolo con uno dei suoi nani, e che abbia trasformato Il Signore degli Anelli in «tre romanzi-fiaba» (bah…); ma perché aggiungere che sono «eccentrici e leggermente dementi»? Cosa significa che un romanzo è demente? Forse che è stupido, idiota, deficiente? E perché? Non sarebbe sensato che la “firma” di turno provasse almeno a chiedersi come possa un romanzo stupido, idiota e deficiente appassionare milioni di persone in tutto il mondo, quattro generazioni di lettori e di studiosi, dando vita a uno dei più vasti e durevoli fenomeni culturali scaturiti dalla letteratura contemporanea? Possibile che si tratti soltanto di una bolla di demenza collettiva che merita d’essere liquidata con un aggettivo buttato lì tanto per (s)gradire?
Un atteggiamento analogo si riscontra sul numero 51 (22/12/2012) del settimanale “Left”, dove è comparsa un’intervista allo scrittore islandese V.A. Ingòlfsson (pubblicato in Italia da Iperborea), realizzata da Gabriella Basso Ricci. Attenzione a titolo e sottotitolo: «NON SOLO HOBBIT. Mentre al cinema e in libreria dilagano le saghe di cartapesta, modello Tolkien, il noir L’enigma di Flatey fa scoprire le radici dei miti nordici».
Che dire dell’accostamento di Tolkien con un autore di noir islandese? In nome di cosa? Del fatto che Tolkien era appassionato di saghe nordiche? E gli hobbit cosa c’entrano? Alla faccia della grossolanità… Anche qui poi, dopo avere sfruttato il richiamo a Lo Hobbit, ci si concede uno scaracchio al veleno del tutto gratuito: le storie di Tolkien sarebbero «di cartapesta». Poco importa se dilagano in libreria da ben prima che uscissero i film di Jackson; conta sfruttare l’accostamento con l’immaginario mainstream per poi denigrarlo e pubblicizzare tutt’altro (probabilmente un noir degnissimo, che avrebbe meritato un titolo tutto per sé). Della serie: del maiale non si butta via niente, nemmeno quando ci si atteggia a vegetariani.
Ma del resto, è risaputo che lo stesso editore italiano di Tolkien tratta la materia prima senza troppi riguardi. Risparmiandoci di annoverare per l’ennesima volta le mancanze di Bompiani (traduzioni monche o rattoppate, titoli cambiati, etc.), basti dire che la riedizione de Lo Hobbit in occasione dell’uscita del film – per altro a un prezzo modico e con le illustrazioni del grande Alan Lee – condivide con l’opera di Jackson anche il sottotitolo: «Un viaggio inaspettato». Peccato che l’autore, un certo John Ronald Reuel Tolkien, l’avesse sottotitolato «or There and Back Again», «ovvero andata e ritorno», per mantenere il gioco metatestuale del manoscritto ritrovato, dal momento che quello è il titolo del memoriale scritto da Bilbo, citato nel romanzo. Se si considera che sull’originaria edizione Adelphi campeggia da sempre un sottotitolo fasullo, cioè «La riconquista del tesoro», viene davvero da chiedersi di quale altro classico del Novecento gli editori si permetterebbero di cambiare il sottotitolo originale a proprio piacimento.
Il curatore della riedizione, Paolo Paron, presidente onorario della Società Tolkieniana Italiana, ha così motivato la scelta:
«Un’altra variazione che abbiamo fatto, e che coinvolge un discorso interpretativo dell’opera, riguarda il sottotitolo: abbiamo preferito mettere l’accento sull’aspetto del viaggio, che Tolkien affronta sia ne “Lo Hobbit” sia ne “Il Signore degli Anelli”, piuttosto che sul ritrovamento del tesoro. Abbiamo quindi scelto come sottotitolo “Un viaggio inaspettato” invece di “La riconquista del tesoro”, che evoca più l’idea di un mettersi in cammino per ragioni di cupidigia. È vero che qualcuno tra i nani lo fa, ma queste non sono certo le figure più belle del libro. Il tema del viaggio è invece di per sé veramente fondamentale in Tolkien: l’autore stesso aveva scelto di sottotitolare l’opera “There and Back Again”, che in italiano sarebbe “Andata e ritorno”. Abbiamo voluto ritornare a questa visione originale della storia».
Cioè per tornare alla visione originale della storia non si è ripristinato il sottotitolo originale, ma se n’è preferito un altro, guarda caso quello scelto da Peter Jackson per il primo episodio della trilogia cinematografica. Medaglia d’oro d’arrampicata sugli specchi. Tutto questo giro di parole per non ammettere le evidenti ragioni di bottega che hanno motivato la scelta. Non sia mai che del suino sfugga, che so?, un orecchio o un ciuffo di setole… Chissà se invece di perdere tempo a cercare giustificazioni implausibili ci si fosse presa la briga di controllare il volume, si sarebbe evitata la figuraccia di vantare la ritraduzione dei nomi di certe località che compaiono nel testo mentre ci si è dimenticati di fare lo stesso nella mappa della Terra di Mezzo in fondo al volume (dove campeggiano ancora «Forraspaccata» invece di Gran Burrone, «Monte Guerrinferno» invece di Monte Gundabad, «Smog» invece di Smaug, «Bosco Atro» invece di Boscotetro, etc.).
Vale la pena concedersi ancora un esempio, forse quello più interessante. Il pezzo di Roberto Barbolini su Panorama.it accusa Tolkien di avere ucciso – suo malgrado – il fantasy, per averlo reso troppo poco fantastico, ovvero troppo poco perturbante, pretendendo invece di costruire un universo letterario conchiuso, talmente preciso e dettagliato da divenire rassicurante; un immaginario che «si sostituisce monoliticamente al reale invece di metterlo salutarmente in crisi».
Sembra incredibile, ma, mutatis mutandis, è la stessa critica che veniva mossa a Tolkien negli anni Cinquanta: quella di essersi dedicato a cesellare un altrove coerente dove trovare rifugio dalla realtà. Sembra che siamo ancora lì: non ci si è mossi di un passo da Tolkien l’escapista. Come se la sua produzione narrativa fosse basata esclusivamente sulla costruzione meticolosa di mondo e quello stesso mondo non fosse attraversato da questioni, problemi, conflitti inquietanti, che riguardano la vita di ciascuno. Come se – citando Stephen King – una buona storia non fosse quella che dice la verità su di noi, sulla condizione umana, e l’opera di Tolkien non facesse proprio questo.
Come se i suoi romanzi non avessero impattato con la cultura e l’immaginario contemporanei, interagendo con essi in vari modi, fin dal loro primo apparire. Basti pensare che negli anni Sessanta in America, Il Signore degli Anelli divenne un romanzo culto della controcultura giovanile, veniva letto dagli studenti in rivolta dell’Università di Berkeley che manifestavano contro la guerra in Vietnam e si identificavano con i personaggi tolkieniani che resistevano all’oppressione. A quell’epoca, nei campus californiani comparirono slogan come “Gandalf presidente!” e “Frodo vive!”. Non si direbbe proprio che chi li scriveva sui muri fosse gente in fuga dalla realtà o riconciliata con il reale grazie alla letteratura fantasy. Viene da dire che forse è il commentatore di turno che non riesce o non vuole cogliere l’evidente realtà delle cose.
A questo proposito, mi concederò un’ultima segnalazione, per pura soddisfazione personale.
Nell’intervista a Gianfranco De Turris apparsa sul Secolo d’Italia (2/12/2012), l’ultima domanda mi fa fischiare le orecchie :-). La risposta poi si commenta da sé: i Campi Hobbit non furono un’operazione politica e la destra italiana non ha mai cercato di strumentalizzare Tolkien, ma anzi, sono stati i cattivoni di sinistra, negli anni Novanta (!), a volersene appropriare. Spassosissimo… :-)))))))))))
3. E poi arriva Tom…
Alla fine di questo breve excursus, torno finalmente al film. E lo faccio avvalendomi di uno spettatore d’eccezione, un allievo di Tolkien, il filologo Tom Shippey. Dieci giorni fa sono andato a Modena a sentirlo parlare del film di Jackson e mi è successa la cosa che mi capita sempre quando lo ascolto o lo leggo. Shippey ha lo strano potere di farmi capire le cose che avevo solo vagamente intuito o a malapena subodorato su Tolkien. Il fatto è che alla fine di entrambe le visioni del film ero uscito dalla sala con l’impressione che ci fosse una scena “sbagliata”. Non avrei saputo dire perché, o meglio, avevo un’ipotesi, ma non era quella giusta. La scena che stona è verso la fine, quando Bilbo ha uno slancio di coraggio e si precipita spada in mano a salvare Thorin dall’orco Azog, scatenando di conseguenza il contrattacco dei nani. Mi ero detto: è una forzatura, un’anticipazione della presa d’atto che Bilbo ha un lato eroico, per di più contagioso, e Jackson ha dovuto inserirla già nel primo film per esigenze drammaturgiche. Ecco, se le motivazioni che avevo attribuito al regista le trovo ancora valide, non credo più che l’elemento disturbante di quella scena (inesistente nel romanzo, per altro) risieda nell’anticipazione dell’eroismo del protagonista. La vera ragione è un’altra, molto più profonda, e ho potuto coglierla grazie alle parole di Shippey (i Valar lo conservino!), che aggiungono un ulteriore elemento di riflessione su un tema, l’eroismo nell’opera di Tolkien, di cui mi occupo da un po’ di tempo, ormai. Ecco perché ho deciso di condividere su Giap queste riflessioni.
Per Hollywood, cioè per la cultura di massa nordamericana, l’eroe deve avere un pubblico. Il protagonista deve mostrarsi eroico per qualcuno.
Questa idea paradossalmente si concilia con l’immagine antica e pagana dell’eroe, il quale obbediva a un determinato codice valoriale e di comportamento, ovvero recitava un ruolo nel dramma collettivo di una società olistica, violandone e riconfermandone limiti e confini.
Non sono però le caratteristiche del personaggio tolkieniano che risponde al nome di Bilbo Baggins. Bilbo infatti è un eroe di tipo completamente diverso, per non dire opposto.
Nel romanzo ci sono diversi momenti di passaggio in cui lo hobbit scopre il proprio lato coraggioso/eroico. Il primo è quando rimane completamente immerso nell’oscurità, nelle gallerie dei goblin, lasciato indietro dai suoi compagni, solo, smarrito. Nel film questa scena non c’è (al cinema uno schermo completamente nero non funziona, e questo segna un punto a favore della letteratura, tié!). Il secondo momento è quando Bilbo uccide il primo ragno gigante con un colpo di spada e acquista fiducia nella propria prontezza di spirito. Il terzo è quando si ritrova nel tunnel che porta alla sala del drago e riesce a proseguire invece di cedere al terrore. Il quarto momento è quando prende la decisione di portare l’Arkengemma agli assedianti della Montagna, ovvero di tradire i propri compagni di viaggio. Questi quattro passaggi segnano le tappe della crescita di Bilbo, del suo diventare adulto e consapevole, e sono tutti compiuti in solitudine. Bilbo monologa con la propria coscienza, rivolgendosi a se stesso in seconda persona (“pazzo di un Bilbo!”), ma non ha un pubblico né un contesto sociale che possa approvare o disapprovare ciò che fa, valutarne l’eroicità, etc. Soprattutto non ha un transfert edipico da gestire con il capo dei nani Thorin (che nel romanzo è un personaggio assai meno romantico di quello del film). Anzi, fino al ravvedimento finale, si può dire che Thorin e i nani siano parecchio ingrati e restii a riconoscere a Bilbo i suoi meriti. Tanto più che alla prova del campo di battaglia il contributo dello hobbit risulta del tutto insignificante.
In altre parole attraverso Bilbo, Tolkien ci racconta qualcosa dell’eroe contemporaneo, alle prese con un super-io che non si inscrive in un codice d’onore, in un’ideologia eroica, o nella risposta alle aspettative della comunità, ma che resta tutto nella sfera della coscienza personale (e quindi in gran parte inconoscibile).
Obbedendo al “paganesimo” hollywoodiano, Peter Jackson tradisce nella sostanza la narrazione tolkieniana, ed è questo, più di ogni altro appunto che gli si possa fare, a rendere stonato alle mie orecchie il finale del primo film. Film che avrebbe anche potuto terminare prima, quando Bilbo ritrova i nani all’uscita dalle gallerie dei goblin, se non fosse che forse è proprio da lì che inizia il qui pro quo. Gli autori hanno sentito la necessità di fare esprimere a Bilbo una motivazione ideale per ciò che fa: ridare una casa ai nani che l’hanno vista usurpata dal drago. Io sono fuori luogo, dice Bilbo, ma proprio perché mi manca casa mia, voglio aiutarvi a ritrovare la vostra. Come se il desiderio di avventura, di cambiamento, di messa alla prova di sé che lo ha spinto a lasciare la tana sicura per partecipare all’impresa, non fosse più sufficiente a fare di lui un eroe agli occhi del pubblico di oggi, e bisognasse per forza farlo assomigliare a un idealista, convinto che ognuno debba avere un proprio posto, una casa/patria. Ecco forse qual è la radice del tradimento di Jackson. Perché invece il Bilbo tolkieniano non è un idealista, non è un martire, né un liberatore. E’ uno scassinatore borghese, come lo ha definito Shippey nel suo saggio più famoso, ed è un personaggio complesso e contraddittorio che rimane per molti versi un bel mistero. Ma una cosa è certa: quando si trova nel mezzo della grande battaglia finale, maledice il movente dei nani di riconquistare il tesoro, retaggio della stirpe di Erebor.
Detto questo, non è un buon motivo per avercela con Peter Jackson. Se il film mi offre l’occasione, ancorché per contrasto, di interrogarmi e magari anche capire qualcosa di più dell’opera di Tolkien, be’, lunga vita a Peter Jackson. Tanto più che ci sono ancora due film da vedere e a questo punto la mia curiosità è cresciuta, se possibile, ancora di più.
ottimo, mi ha aiutato a capire alcune cose che anche a me non tornavano (nonostante ultimamente mi sia trovato più di una volta a difendere il film a spada tratta contro un bel po’ di persone che lo hanno giudicato una schifezza, a mio giudizio per i motivi sbagliati).
Ci tengo però a sottolineare una cosa. Quel dialogo tra Gandalf e Galadriel, di cui riporti un brano sotto il titolo, per me è stato di grande importanza, così come di grande importanza il fatto che venga portato al grande pubblico un concetto che forse nel Signore degli Anelli è più difficile da trovare, quello di “non sono le grande imprese (eroiche), sono i piccoli gesti di gentilezza quotidiana, a tenere a bada l’oscurità”.
Epico. Moderno. Tolkeniano, finalmente!
E’ proprio per questo che il bel gesto eroico di Bilbo che sfida l’orco per salvare Thorin stona con ciò che il personaggio stesso rappresenta. Bilbo Baggins non è Meriadoc Brandibuck né Peregrin Took. E’ un carattere molto più complesso.
Per una volta, devo dirmi non totalmente d’accordo con l’analisi di Shippey-WM4.
Tralasciando le superficiali recensioni fatte dai critici cinematografici, non perché non potessero farle ma perché hanno ben pensato di ignorare totalmente la fonte letteraria (puoi tranquillamente aggiungere quella del Mereghetti all’elenco), devo subito premettere che anche io sono rimasto deluso dal finale del film. In generale da tutta la seconda parte, compreso Gran Burrone. Nel precedente post avevo spiegato il motivo.
Non sono invece d’accordo (o almeno non così puntualmente) sulle motivazioni addotte. Si parla infatti di eroe “hollywoodiano”, specificando che si intende la cultura di massa americana. E si dice che Bilbo Baggins è in antitesi con tale archetipo\stereotipo.
In realtà l’eroe hollywoodiano, nell’accezione cui diamo a questo termine, è stato ampiamente fatto a pezzi da almeno 60 anni. Certo, ha la notevole capacità di resuscitare come i fiumi carsici. Ma faremmo un torto all’intelligenza degli sceneggiatori americani se pensassimo che davvero considerano l’eroe fermo a modelli stile “Mr. Smith va a Washington”. In realtà, dall’epoca d’oro di Hollywood (cioè gli anni ’30) si sono ben presto accostate diverse varianti di protagonisti che facevano sempre parte del mainstream (a partire dal grande Frank Capra) e che presentavano notevoli divergenze rispetto al canone.
Certo, nei film di genere blockbuster (cui “Lo Hobbit” appartiene) è difficile che emerga una figura antieroica, o particolarmente complessa nel ruolo del protagonista.
E secondo, facciamo anche un torto a Jackson, in virtù della sua filmografia. Se scorriamo i suoi titoli, sarà facile intuire come se ne sia abbastanza fregato di impostare i propri personaggi secondo canoni “hollywoodiani” (nel senso deteriore del termine).
Per come la vedo io, e mi rendo conto di essere molto più banalizzante di Shippey, quel finale così brutto e stonato è fratello di tutte le scene più tremende del SDA. Le cosiddette “americanate”, ovvero quando l’azione si piega allo spettacolo. E non si tratta di imposizioni della produzione (che poi è sempre Jackson, in questo caso). Nella mia pur ridotta frequentazione con il pubblico di origine americana, ne ho dedotto che esiste una diversa sensibilità rispetto alla “spettacolarità”, diversa dal pubblico europeo. Jackson non ha potuto resistere nel mostrarci Bilbo che salva la vita a Thorin con una mossa quasi da videogioco. E ha pensato di cogliere due piccioni con una fava, perché così Bilbo conquista pure la fiducia del capo dei nani. Il fatto che ci fosse un “pubblico” per me è secondario. La scena l’avrebbero messa comunque, da qualche parte.
Riguardo al personaggio di Bilbo, io ho l’impressione che Jackson abbia fatto una sorta di puzzle dei 4 hobbit visti nel SDA, mischiandone le personalità. Un po’ di Pipino e Merry (soprattutto il primo) per il brio e l’ironia, un po’ di turbamenti frodici, e un po’ di altruismo sammico. Tutto ciò è chiaramente discutibile, ma rientra nelle scelte personali del regista, non in una necessità oggettiva di aderire al canone. Io me la spiego con l’immagine sempre positiva che Jackson ha dato degli hobbit e della Contea: anche in questa nuova trilogia non si è smosso, e per questo ha voluto smussare gli angoli più fastidiosi del carattere di Bilbo. Un minimo di discolpa deriva dal fatto che al Cinema non è così semplice inserire un protagonista antipatico. In quanto i meccanismi di immedesimazione e di empatia dello spettatore sono diversi da quelli del lettore. Penso che tutti noi abbiamo amato “Bilbo” nella pagine di Tolkien, ma è tutto da dimostrare che recuperarlo filologicamente sullo schermo avrebbe funzionato.
A me non sembra che le nostre letture si discostino granché, sai. Anche tu ricorri al termine “americanata” per indicare un compromesso smaccato della trama con una spettacolarizzazione un po’ grossolana. E’ precisamente quello che intende Shippey e che io riporto/condivido. In questo caso tale spettacolarizzazione segue uno schema canonico: l’antieroe trova il coraggio di essere eroe e di salvare la vita all’amico a sprezzo della propria.
Jackson ha messo in campo un cliché senza preoccuparsi di rielaborarlo. Guarda caso questo cliché prevede un pubblico, ovvero un momento in cui Bilbo mostra il proprio coraggio: a se stesso, ai nani e agli orchi (oltre che agli spettatori). C’è un teatro che lo guarda e lo giudica. Il problema non è il cliché – o per lo meno, non solo – ma il fatto che nella storia raccontata da Tolkien gli slanci di Bilbo sono slanci privati, frutto di battaglie che si svolgono dentro l’animo e la mente del personaggio. Il cinema, soprattutto il cinema d’azione, fa più fatica a rendere questo. Forse Jackson avrebbe potuto utilizzare la voce fuori campo di Bilbo come all’inizio del film? L’effetto sarebbe stato molto depotenziante. Insomma il cinema ha le sue leggi e i suoi limiti, soprattutto quello di cassetta, ma il risultato è che si trasforma il protagonista della storia e la sua relazione con gli altri personaggi.
Chiunque abbia letto Lo Hobbit sa che Thorin non è affatto la figura “paterna” con cui Bilbo deve gestire il rapporto di rifiuto/accettazione che troviamo nel film. Perché il rapporto con il proprio padre è presentissimo fin dalle prime pagine, anche se Bungo Baggins non compare mai. E anche in questo caso è un rapporto che Bilbo deve smazzarsi in privato, tra sé e sé (proprio come quello con la madre).
Ora io non rimprovero affatto a Jackson di avere fatto dei cambiamenti. Ma constato – con Shippey – che una caratteristica fondamentale del personaggio tolkieniano è stata sacrificata e Bilbo è diventato un eroe più classico, più pagano-americano, nel senso di cui sopra.
La differenza è semplicemente di prospettiva. Là dove Shippey evidenzia un piegarsi alle dinamiche eroiche hollywoodiane, io invece pongo l’attenzione sulla spettacolarizzazione hollywoodiana, passando quindi dall’eroe al genere e alle esigenze narrative. Per il resto, assolutamente d’accordo. Facendo attenzione, però, al parlare di Hollywood come di un monolite granitico. Da decenni ormai, sono stati proposti nella mecca del Cinema modelli eroici assolutamente discordi rispetto al canone.
Certo che sì, giusto puntualizzare. Non penso certo che “Hollywood” sia riducibile a un unico canone. Un vecchio figlio d’Albione come Tom Shippey (che ha insegnato molti anni in America) la mette giù in maniera un po’ caricaturale, ma la sostanza è che certi “tradimenti” della trama non snaturano i personaggi, altri sì.
E questo è stato il grave errore di Jackson. Legolas che surfa al fosso di Helm (nonostante la tremendità dell’idea) riusciva a non “minare” la trama e il resto dei personaggi. Bilbo che esegue l’americanata alla fine del film invece intacca a livello più profondo la storia, e fa sembrare il “tradimento” cinematografico più grave.
Resta il fatto, secondo me antropologico, che ciò che urta noi neolatini e anche il sassone Shippey spesso e volentieri in America non produce la stessa reazione. Ovviamente non di tutti gli americani, ma per buoan parte del pubblico la regola vale. Il motivo del grande successo di Leone oltreoceano non fu tanto nell’aver ridisegnato in maniera geniale il “loro” mito della frontiera, trovando – per usare parole a voi note – un frame diverso, quanto nell’aver spettacolarizzato ciò che a causa del codice Hays non si poteva realizzare lì.
la spettacolarizzazione (se ho capito cosa intendi quando parli di Leone) va più che bene se è ben inserita nella narrazione cinematografica, se è coerente col genere narrativo, le atmosfere che si vuole evocare e l’emozione che si vuole suscitare nel pubblico.
Ekerot, tu pensi che un critico cinematografico debba leggere e conoscere bene il romanzo da cui è eventualmente tratto il film per non risultare superficiale? Io non credo sia necessario..credo che un critico cinematografico debba guardare al film prescindendo dall’opera letteraria da cui è eventualmente tratto o quantomeno sforzarsi di farlo (ma mi rendo conto che un autore dell’importanza di Tolkien sia difficile farlo, o meglio lo si fa in Italia dove Tolkien, a torto, non è considerato come merita)
Ciao Paolo, su Leone ci mancherebbe (non gliene faccio assolutamente una critica, e sono anzi un leoniano devoto e appassionato). Ci tenevo solo a far notare che non tutti i “pubblici” sono identici, un minimo di differenze tra il vecchio e il nuovo continente esistono – anche a livello di autori, nella mia pur minima frequentazione con sceneggiatore d’oltreoceano l’ho notato.
Quanto alla critica cinematografica: non è assolutamente necessario leggere il libro prima (anche se male non fa), basta poi non sparare eresie sul libro stesso!
Scusate se mi intrometto, ma secondo me tutta la scena finale non incarna il concetto che credo vogliate dare al termine “americanata”. Le vere “americanate” sono come i funghi tossici, hanno caratteristiche e specificità ben precise. Io le amo quando sono autentiche, in quanto sono creazioni talmente astruse al loro contesto che mi affascinano. “Perché?”, mi chiedo, “perché ha pensato di sceneggiarla così?”. Di solito mi piego dalle risate subito dopo. Questo per evidenziare come facilmente certe volte si metta il timbrino “americanata”.
Trovo invece giustissima la riflessione WM4-Shippey, uscito dal cinema ho detto agli amici “Mah, Bilbo nel libro non è così paraculo come lo è nella scena dell’orco…”. Non mi tornava, ma non mi dispiaceva.
Perchè?
Perchè Jackson inventando di sana pianta una scena non presente nel libro non ci ha, grazie a dio, regalato una vera americanata. Ho tremato quando ho visto Thorin partire contro l’orco a cavallo del mannaro. Thorin lo carica con uno sguardo da vero duro, urla come un toro inferocito, alza l’ascia con cui colpirà sodo …E poi? Scivola, cade! Capitombola così! Come uno qualunque. Si riconferma quello che ho percepito per tutto il film. Thorin è solo un turbine di emozioni, più grandi di lui. E qui che scatta quanto spiegato da WM4-Shippey. Slitta l’attenzione, Thorin, l’eroe legittimo che ha il suo pubblico, scivola ed sale in scena l’eroe Bilbo che conquista definitivamente il consenso del pubblico tutto.
Si mi piace e l’ho trovata perfetta la spiegazione di WM4-Shippey… anzi devo dire che la cosa la trovo catartica. Non mi dà più quella sensazione di “fastidio” il finale così come è.
PS:
Finale con “americanata” autentica:
Thorin spacca il culo *almeno* al mannaro e Azog prende due patte, Thorin incassa e porta a casa, tenta il surfing di Legolas sullo scudodiquercia che per ovvie ragioni non riesce, cade batte la testa e sviene. Bilbo e i nani arrivano e fanno quello che devono fare. Sto scherzando. Ciao.
Ho sempre pensato, non so con quale originalità, che sia “Lo Hobbit” che “Il Signore degli Anelli” fossero, tra le tante altre cose, il racconto di “ritorni”. Bilbo che rientra a casa e Sam (personaggio più vicino a Bilbo che non Frodo) che conclude la trilogia con un “sono di nuovo a casa”. Sull’onda di queste considerazioni ho ritenuto sempre Tolkien, per assurdo, un “realista”. Mi spiego meglio: dopo nani, draghi, orchi, maghi, tesori e compagnia, l’eroe, se non è completamente “annientato” nel suo essere e deve imbarcarsi per un altro mondo con gli elfi, affronta di nuovo la realtà, riapre la sua casa chiusa, lotta con i parenti, affronta gli ipocriti, culla i suoi figli. Alla fine, mi pare voglia dirmi da tanto tempo Tolkien, devi chiudere il libro.
l’espediente dello schermo nero è stato comunque usato al cinema, mi vengono in mente almeno due esempi: da Tarantino in Kill Bill vol.2 (quando Beatrix viene sepolta viva) e a fini comici da Mel Brooks in una gag “metafilmica” di Balle spaziali quando il colonnello Sandurz (nella versione italiana colonnello Nunziatella) inavvertitamente “spegne” il film.
Comunque, pur non avendo nulla contro l’eroe classico hollywoodiano, credo che oggi nella pop culture gli eroi non idealisti (non nel senso di ciò che si intende comunemente per idealismo, almeno) nè martiri ci siano..in questo senso concordo con ekerot
Mi sa che mi sono spiegato male, allora. La mia era una generalizzazione. Proprio perché anche nella pop culture odierna gli eroi eterodossi esistono eccome, Jackson avrebbe potuto osare di più, e così salvare qualcosa della peculiarità eroica di Bilbo, invece di ricorrere al cliché più classico.
Sono d’accordo con le critiche di Shippey/WM4, credo però che su come è reso il personaggio Bilbo (e gli altri personaggi) si potrà giudicare definitivamente solo alla fine della trilogia. Nel frattempo però si può senz’altro dire che il brodo è troppo allungato, come era prevedibile, dato che questa prima parte dura esattamente quanto “La compagnia dell’anello”. A me è piaciuta molto la prima parte fino all’incontro con Galadriel, nella seconda avrei sforbiciato senza pietà.
l’allungamento del brodo c’è stato senz’altro. Io dal canto mio apprezo che si sia preferito inserire pezzi di storia della Terra di Mezzo *più o meno* contemporanei. Per me, è la testimonianza dell’amore che Jackson ha per Tolkien e il suo mondo, ed evidentemente non ci saranno altre occasioni per presentare al pubblico panoramiche di quel mondo (cioè, non credo ci sia pubblico o mercato per dei “documentari-colossal” nella Terra di Mezzo)
A essere sincero aspettavo con impazienza l’articolo di Wu Ming 4 su Lo Hobbit ed eccolo, grazie!
Mi sento di condividere gran parte del giudizio sul film e sulla critica, qualcos’altro invece non del tutto. Leggendo Il Signore degli Anelli e poi Lo Hobbit, ho notato come mentre il primo avesse la forma di un vero e proprio “racconto epico” adatto ai più grandi, Lo Hobbit invece prendesse le forme di una fiaba, ideale per i più piccoli (se non ricordo male Tolkien scrisse il romanzo pensandolo per i propri figli). Questa differenza l’ho potuta riscontrare nei film, Lo Hobbit mi ha dato l’impressione di essere un film molto più leggero e fiabesco rispetto al dramma che traspare dalla trilogia de Il signore degli anelli. Da come l’ho vista io non c’è stato nessun sacrificio dello “slittamento dalla favola al romanzo epico-avventuroso”, a me è sembrato che Peter Jackson ricalcasse gli stessi toni fiabeschi usati da Tolkien nel romanzo.
Per quanto riguarda la suddivisione in tre film, la cosa mi ha lasciato in un primo momento perplesso (proprio perché il racconto originale è tutt’altro che lungo e complesso) e poi tremendamente curioso, perché nonostante le due ore e mezza Lo Hobbit un viaggio inaspettato si è fatto vedere che un piacere, nonostante “gli ornamenti” e gli adattamenti del film il risultato mi è piaciuto molto. Però.. ma solo a me ha dato l’impressione da “Revival de ISDA” il consulto alla tavola rotonda tra Gandalf, Galadriel, Saruman ed Elrond? Non ricordo nulla del genere nel romanzo, e secondo me ha un po’ stonato.
Tra gli aspetti positivi del film anche io ci metterei la scelta degli attori e tra tutti Martin Freeman, è stata una scoperta! E poi, note positive della versione italiani, Gigi Proietti che doppia Gandalf, è stato ottimo (ci ho fatto caso perché nei mesi passati avevo letto perplessità a proposito) =)
Piccola domanda: ma Peter Jackson potrà mai rispondere alle critiche mosse da Wu Ming 4 e Tom Shippey? Sto chiedendo troppo vero?
Comunque che la critica cinematografica sui giornali e sulle riviste tenda a disprezzare a priori Lo Hobbit è una triste realtà, sul sito mymovies ho letto parte della recensione fatta su Il Manifesto da Marco Giusti:
“Non c’è trippa per gatti per il nostro cinema a Natale. Perché non c’è ragazzo o ragazzino tra i cinque e i venticinque anni che non voglia vedere Lo Hobbit. Anche se non c’è molta storia da seguire a parte questi dodici nani+ Gandolf+l’hobbit, che si menano a sangue con una massa sterminata di orchi, troll, e Crosetti vari che incontrano durante il loro viaggio verso la Montagna Solitaria dove vive un drago più assatanato di soldi e potere di Berlusconi, i ragazzi di tutto il mondo cresciuti con la Trilogia degli Anelli non hanno altro desiderio che rivedere i loro eroi.”
Io arrivo lento, ma arrivo… :-)
E’ vero che, almeno in tutta la lunga parte iniziale a casa Baggins, Jackson ha cercato di far prevalere il registro comico. Ma quella parte è preceduta da un lungo prologo (che ho definito “omerico” perché mi ricorda molto la fuga di Enea e dei suoi da Troia in fiamme, ma avrei potuto dire anche “biblico”, perché assomiglia pure alla diaspora degli Ebrei). Quando sentiamo la voce di Bilbo pronunciare il famoso incipit “in un buco sottoterra viveva uno hobbit”, abbiamo già assistito a 15/20 minuti di film dal tono epico. E i nani non sono più una sorpresa, sappiamo chi è Thorin, etc. Questa è una scelta narrativa degli autori del film. Lo stesso flashback poteva essere inserito dopo, magari più corto, invece mettendolo all’inizio del film si crea immediatamente un collegamento con il tono eroico della trilogia precedente. Non credo sia un caso.
A metà del film, quel flashback viene ripreso, e le parole fuori campo di Balin sono accompagnate dalle immagini della battaglia di Azanulbizar: è un’evidente prolessi delle scene che vedremo nel terzo film. Insomma lo “slittamento dalla fiaba al romanzo epico-avventuroso” non è tale: semplicemente si alternano i toni e i registri. Personalmente non ho nulla da contestare a questa scelta, anche perché ripeto che Jackson aveva poco margine di manovra da questo punto di vista. Però la peculiarità del romanzo viene meno. E questo dimostra ancora una volta che Lo Hobbit è un unicum nel ciclo dell’Anello, tanto è vero che alla fine Tolkien abbandonò l’idea di riscriverlo in tono epico-eroico. Meglio così.
Quanto alla riunione del Bianco Consiglio, è vero che nel romanzo non viene raccontata, ma vi si accenna. Jackson ha giustamente deciso di narrare la vicenda parallela alla riconquista della Montagna Solitaria: il ritorno di Sauron (nei panni del Negromante) e il primo tentativo di Gandalf di sconfiggerlo. In effetti è fondamentale nella logica generale del racconto che va da Lo Hobbit al SdA. Tolkien scrisse il “raccordo” negli anni Cinquanta, dopo avere fatto le dovute modifiche alla prima edizione de Lo Hobbit, senza riuscire però a inserirlo nelle Appendici del Signore degli Anelli. Oggi lo trovi nei Racconti Incompiuti e ne Lo Hobbit Annotato, si intitola “La cerca di Erebor”. Jackson ha giustamente tenuto conto di questo testo.
Su Gigi Proietti: niente da dire, se non forse un “viagggio” con tre “g” romanesche che a un certo punto gli scappa… :-)
Jackson che risponde alle critiche di Shippey? :-)))
E perché dovrebbe farlo? Comunque credo che la risposta sarebbe scontata: “Questo è cinema, non letteratura, è un’altra storia”. E avrebbe pure ragione.
La lettura allegorica di Giusti è divertente e dimostra – facendo del sarcasmo – come la storia di Tolkien abbia una sua larga applicabilità. Shippey quando è venuto a Modena ne ha proposta un’altra: Smaug è Christopher, il figlio di Tolkien che cura il patrimonio letterario, assiso a guardia del tesoro dell’archivio Tolkien, geloso e paranoico. Quante Arkengemma sono ancora celate sotto la montagna di appunti di una vita, custodita dal drago? Se soltanto Giusti fosse un po’ meno snob si accorgerebbe che l’applicabilità, grossolana o raffinata che sia, è precisamente una delle ragioni del successo duraturo di un’opera.
aggiungo di sfuggita una nota personale collaterale sulla cronologia: l’anno passato è uscito un gioco di ruolo fresco e interessante, chiamato “L’Unico Anello” (tra l’altro autore italiano in circuito internazionale, e ha vinto premi a Lucca). Ed è ambientato, niente affatto a caso, tra “Lo Hobbit” e “Il Signore degli Anelli”, nel 2946 della Terza Era, cinque anni dopo la battaglia dei cinque eserciti.
Anche solo a una lettura dimostra uno studio e un rispetto per la materia notevole, e le meccaniche paiono promettenti. Insomma, nonostante il tema non freschissimo parrebbe una bella novità di approccio
Nikitas, ma è un GdR vero e proprio? Se fosse così, sarei davvero contento. E’ dai tempi di GiRSA che non ne vedo in giro…
E’ un gdr vero e proprio (non ho capito pero’ in contrapposizione a cosa intendi… MMORPG o che altro?), assai meglio di GiRSA, pare.
Dico pare perche’ per ora ho solo letto il manuale e non ci ho giocato, quindi non mi so esprimere con cognizione di causa sulle meccaniche. Ma sono molto promettenti, ed e’ lodevole quanto evidente il lavoro di ricerca che c’e’ dietro.
Sì, volevo capire appunto se era uno dei classici GdR da “tavolo” e non on-line, e non (soprattutto) “di carte”. Grazie per la dritta, me lo cerco!
Sul fatto che Peter Jackson avesse scarso magine di manovra sono d’accordo, non so quanto sarebbe potuto piacere agli amanti de “Il Signore degli Anelli il film” un prequel dall’esclusivo sapore di fiaba.
Per quanto riguarda la volontà di Jackson di rispondere alle “critiche” è un mio pensiero, anche se forse è solo un viaggio mentale, maturato guardando i video blog caricati dal regista su youtube mentre giravano il film. Insomma mi ha dato l’idea di una persona aperta al confronto, pronta a dir qualcosa di più del sbrigativo “Questo è cinema è un altra storia” :-)
Ps. Grazie per le indicazioni sui Racconti Incompiuti, mi hai chiarito l’arcano del concilio e l’esistenza di un “sommerso” tolkeniano non proprio famoso!
Sono molto d’accordo con le critiche che fa WM4 nel post, ma ne aggiungo anche delle altre. Non basta avere una valanga di soldi e metterci un sacco di buona volontà per fare un bel film, e secondo me Jackson non ha fatto un bel film.
Primo: Lo Hobbit risulta insensato senza Il Signore degli Anelli, e questo – oltre a essere un’operazione di puro botteghino – già lo rende dimenticabilissimo, gli toglie parte della sua coerenza.
Secondo: ho visto il film in 2D, e la regia è evidentemente piegata alle necessità del 3D. In 2D il film mi è sembrato banale, noioso dal punto di vista registico, in molte sue parti. Un videogioco appunto.
Terzo: non sono una che ha un rifiuto a priori per le tamarrate, anzi. Però, c’è contesto e contesto e c’è modo e modo. Nel SdA le tamarrate erano – come è già stato detto (scusate, sono di fretta e non mi ricordo dove) – delle strizzatine d’occhio, delle piccole concessioni che non andavano a influire sulla trama, ma qua ci sono dei quarti d’ora di botte da orbi sulle montagne russe!
Terzo b: Il gesto di eroismo “pagano-hollywoodiano” di Bilbo secondo me è devastante, e non l’avevo visto così bene prima di leggere questo post. Basta confrontarlo con la profondità che Jackson era riuscito a far esprimere al personaggio di Sam. Anche Sam, come il Bilbo letterario, compie i suoi atti di eroismo in solitudine, e l’unico che li conosce è Frodo, anche se quasi sempre (correggetemi se sbaglio) non li vede, perché è incosciente.
Quarto: non solo il film è un prequel del SdA, ma mi sembra che renda alcuni dei personaggi della trilogia precedente davvero caricaturali. Nella scena dell’incontro con Gandalf, Galadriel sembra un manichino rotante di Intimissimi. E Gran Burrone, immerso in una luce fintissima, non esprime l’armonia e la bellezza serena di quel luogo. E’ una fotografia forzata, facilona, e sinceramente non ne capisco proprio il senso. E’ roba che viene usata in CSI!
Esagero?
Un altro appunto sulla questione del 3D. L’industria cinematografica lo usa per convincere la gente a tornare al cinema – pagando biglietti salatissimi – e insomma per evitare che ci si guardi i film da casa, scaricandoli, mentre ancora sono nelle sale. In risultato però è che si producono dei film che sono guardabili solo al cinema (o davanti a una tv in 3D…), mentre su uno schermo domestico sono brutti. Ma questi film non hanno un futuro. In che modo possono continuare ad essere presenti nell’immaginario e nella memoria, se non possono essere guardati da casa o proiettati su un lenzuolo d’estate, in un giardinetto di quartiere?
Il problema delle “botte da orbi sulle montagne russe” è che nessuno dei buoni si fa male, tipo film di Bud Spencer e Terence Hill. Niente sangue. E’ una delle cose che ha innervosito di più Shippey (che il militare l’ha fatto sul serio): tredici nani, uno stregone e uno hobbit in mezzo a giganti di roccia che si sbriciolano, nugoli di goblin che li assaltano, voli pindarici giù per burroni e crepacci… e nessuno si fa un graffio. Uno mi dirà: Ué, guarda che anche nel romanzo nessuno si fa un graffio. Vero, però nel romanzo i nani mica combattono! E quando combattono davvero – cioè alla fine, nella Battaglia dei Cinque Eserciti – i morti ci scappano eccome. Tolkien ha scritto una favola che diventa romanzo epico, ma sulla guerra non scherzava affatto. Perché sapeva di cosa si trattava per esperienza diretta, proprio come i suoi lettori nel secolo scorso.
Le regie sono diverse. Il 3D l’ha diretto Jackson con la prima unità di regia, il 2D l’ha diretto la seconda unità di regia con Andy Serkis (l’attore che presta il corpo a Gollum).
Quindi è questo che stona fra il 2D e il 3D, secondo me. La “mano” è diversa…
Personalmente non mi trovo d’accordo con alcune tue critiche. Tu dici “Lo Hobbit risulta insensato senza Il Signore degli Anelli, e questo – oltre a essere un’operazione di puro botteghino – già lo rende dimenticabilissimo, gli toglie parte della sua coerenza.”
Prima di tutto io non credo che la parte iniziale, con i suoi forti riferimenti alla precedente trilogia, leghi indissolubilmente Lo Hobbit al ISDA rendendolo insensato svincolato da esso. Logicamente la mia è una visione parziale, dovrebbe giudicare qualcuno che non ha mai visto la prima trilogia (difficile da trovare tra gli interessati al genere), poi dico: prima di valutare sulla coerenza e l’efficacia de Lo Hobbit, aspettiamo per lo meno le prossime uscite, secondo me il vero banco di prova per Peter Jackson.
Ritornando al legame con Il Signore Degli Anelli, per chi ha visto i film o letto i libri, effettivamente questo è i riferimenti sono evidenti. Ma io non direi che è una pecca del registra e non la definirei semplicemente un “operazione di botteghino”. Secondo me Jackson nel collegare in questo modo le due trilogie ha dato coerenza e organicità a quella che è a tutti gli effetti una *sua opera*, almeno nel campo cinematografico. Senza contare, come più sopra ricordava Wu Ming 4, che lo stesso Tolkien scrisse il “raccordo” negli anni ’50: in sostanza vedo nell’opera cinematografica un tributo ben riuscito allo scrittore, almeno fino a ora.
“ho visto il film in 2D, e la regia è evidentemente piegata alle necessità del 3D. In 2D il film mi è sembrato banale, noioso dal punto di vista registico, in molte sue parti.”
Come te anche io ho visto il film in 2D, ma non ritengo che il film piegandosi alle necessità del 3D abbia perso di effetto e valore. Ad esempio un film che non ha senso in 2D è Avatar. Sebbene ne Lo Hobbit vi siano alcune scene un po’ confuse, di corse forsennate, che avrebbero reso meglio in 3D, questo non incide sulla regia. Dalla mia esperienza dico che il film è godibilissimo anche comodamente seduti sul divano di casa proiettato su un lenzuolo o una tv di non ultima generazione.
Anch’io l’ho visto e apprezzato in 2D; le battaglie e inseguimenti di troppo sarebbero stati di troppo anche in 3D credo. Invece su Avatar non sono d’accordo, secondo me la 3D non aggiungeva nulla. In realtà a oggi l’unico film non di animazione in cui ho apprezzato la 3D è Hugo Cabret di Scorsese, ma lì aveva un senso anche in rapporto alla storia.
Ho provato a vedere sia Hugo Cabret che Avatar a casa, e non ci sono riuscita. Entrambi spenti a metà.
Avatar è il film che ha incassato di più nella storia, è stato visto da milioni di persone, ma non ho mai sentito nessuno citare una sua scena.
OT: anche a me Avatar ha lasciato piuttosto fredda. Invece Hugo Cabret l’ho adorato proprio come puoi vedere dalla mia pic qui :-D
Tanto per citare Ugo Fantozzi: il 3D è una cagata pazzesca. E’ la riedizione di una roba che era già floppata negli anni Ottanta (“Lo Squalo 4” in 3D). Io penso che verrà presto abbandonato. Che il supernerd Jackson si sia sbizzarrito a provarne tutte le versioni possibili immaginabili non mi stupisce, ma lascia il tempo che trova. Per quale motivo un film deve trasformarsi in un videogioco? Meglio il videogioco, almeno è interattivo. Da un film mi aspetto altro.
Detto questo, purtroppo per Jackson lavorare sul personaggio di Sam era più facile che lavorare su Bilbo. C’è una vaga analogia tra i due, in effetti (entrambi scoprono in se stessi qualità che non sospettavano minimamente di avere, etc.), ma al di là dell’hobbitudine, direi che hanno profili psicologici molto differenti. E quello di Bilbo è assai più complesso da rendere, così come più complesse sono le circostanze in cui si trova ad agire e più misterioso il suo movente.
Quello che voglio dire è che Bilbo è meno riducibile a certi canoni narrativi e filosofici. Sam è un umile, un proletario, un “cristiano”, un amico fedele, agisce sempre per amore di “Master Frodo” e della Contea. Bilbo è un borghese solitario, che si scopre scaltro e disposto ad accettare le sfide e le provocazioni. I suoi moventi sono prevalentemente psicologici e legati alle relazioni primarie (padre e madre). Questo aspetto Jackson lo tratta nel dialogo tra Bilbo e Gandalf davanti al camino… ma si risolve lì, dopo non viene praticamente più ripreso, fino a quando Bilbo non tira fuori la questione dell’aiutare i nani a riavere una casa (e però ci si è spostati già su un piano “politico”). Vedremo se ci sarà un’evoluzione nei prossimi due film.
Sui personaggi caricaturali… Io non ho approvato la scelta di ascrivere Radagast al tono comico. Problema mio, forse, ma non ho mai immaginato Radagast così ridicolo.
Quella di Galadriel è più che altro una comparsata in una storia dalla quale sono completamente assenti i personaggi femminili – al punto che nel secondo film Jackson ha dovuto inventarsene uno. E’ vero che è un po’ fissa e fasciata, e che tutta quella luce crepuscolare è un po’ ridondante (forse anche perché in un certo senso te l’aspetti proprio così e avresti voluto che il regista osasse di più?). Però in quella scena viene messa in atto una dinamica che gli attori interpretano molto bene. Si anticipa subito la rivalità tra Gandalf e Saruman, con Galadriel a parteggiare per il primo ed Elrond più propenso a condividere lo scetticismo del secondo. I corpi si dispongono di conseguenza: Gandalf e Saruman seduti uno di fronte all’altro a un tavolo tondo; Elrond in piedi accanto al tavolo, nel ruolo arbitrale, e Galadriel che cammina lungo il cerchio esterno. E’ un equilibrio perfetto. Al di là dell’apparenza da Madonna di Lourdes, come qualcuno faceva già notare qui, Galadriel ha lo scambio di battute più importante di tutto il film, con Gandalf. Lei fa a Gandalf la domanda che ha assillato Tolkien per anni. Vale a dire: “Perché il Mezzuomo?”. Quale diavolo è il ruolo di Bilbo nel grande quadro degli eventi della Terra di Mezzo? La risposta di Gandalf contiene gran parte della morale della storia. E se c’è un’appunto da fare a Jackson è che forse si tratta di una risposta fin troppo esplicita. Però una signora risposta, eh… ;-)
La tua previsione sul futuro della seconda era del 3D mi fa sperare…però intanto Lo Hobbit ha dovuto passarci attraverso e questo mi dispiace.
Il mio problema non è tanto con le licenze che si prende Jackson. Gli adattamenti della trama, le invenzioni di sana pianta, persino la “linea comica” (interpretata dal povero Gimli) c’erano già nella trilogia del SdA. Eppure continuo ad adorarla e a rivederla. E’ che questo film, secondo me, è fatto proprio peggio! La comicità del personaggio di Radagast è svaccata, fatta di faccette e di riferimenti ai funghetti allucinogeni. I combattimenti, appunto, sono da videogioco e a me hanno creato solo fastidio, nessuna empatia con i personaggi. E’ come hai detto benissimo sopra, tutte le avventure sono pulite, i personaggi ne escono indenni.
E’ vero quello che dice @Filippo, ci sono altri due film da vedere. Però nel prossimo c’è Beorn, che è un personaggio che amo, e mi sa che prima di andare al cinema mando qualcuno in avanscoperta…
Va bene, mi offro volontario… :-)
Fantastico :D
E se il secondo film va male, organizziamo un’insurrezione per detronizzare Jackson!
Se mi perdonate l’off topic sul 3d vorrei dire una cosa (vabbeh un paio, abbiate pazienza).
Il 3d stereoscopico nella cinefotgrafia c’è fin dalla preistoira di questa tecnologia, solo che fino a pochi anni fa era inservibile soprattutto dal punto di vista espressivo.
Negli anni ’80 era un gadget pensato per offrire esperienze simil-interattive (ad esempio i simulatori, che adesso per inciso ti offrono il 4d ovvero aria e acqua sparata in faccia).
Ma oggi abbiamo avuto Cave of the forgotten dreams, un film che NON si può vedere in 2d se non rinunciando al lavoro fatto da Herzog per restituire il carattere cinematografico delle pitture rupestri che film.
Se aggiungiamo che oggi sono già in commercio televisori 3d secondo me questa tecnologia oggi ha gli elementi per radicarsi (e in questo caso anche per stratificare nella memoria e nell’immaginario i suoi prodotti).
Ogni innovazione tecnologica introdotta nel cinema è, inizialmente, di carattere commerciale. La storia del sonoro insegna molto su questo. I registi russi lo rifiutarono in un primo momento, ma dieci anni dopo Eizenstein recupera il suono teorizzando e mettendo in pratica (per esempio ne La congiura dei boiardi) la nozione di “montaggio verticale” che è ancora oggi un concetto estremamente produttivo in ogni ambito d’espressione.
Herzog ha fatto un passo in questa direzione, resta da vedere se oggi ci sono teorici e registi in grado di affrontare con intelligenza questa tecnologia.
Ecco chiudo e non ne parlo più…
un paio di anni fa mi sono diplomato proiezionista :-) e durante il corso io e i colleghi ci siamo più volte chiesti se il 3D fosse destinato a diventare uno standard seguendo un percorso simile al sonoro. Ovviamente la risposta è difficile da dare anche ora, però ci sono alcuni punti da tenere in considerazione prima di liquidarlo come un fuoco di paglia (tipo i tentativi degli scorsi decenni):
– è una tecnologia molto più semplice da maneggiare di una volta: con il “vecchio” 3d servivano due proiettori e una certa abilità del proiezionista mentre ora, dato che si usa il digitale, è tutto molto elementare
– con “Avatar” i cinema hanno capito di poter guadagnare e molti hanno già affrontato l’investimento sulle attrezzature (circa 100000 euro, non pochi)
– Scorsese e Herzog hanno dimostrato che si può usare il 3d con un senso artistico e non solo per fare baracconate
– far pagare il biglietto a 10 euro + la difficoltà di riprodurre in casa quei film è un forte incentivo per i cinema in crisi di povertà
Non si sa come finirà, potrebbe anche aver avuto una fase di espansione rapida e poi sgonfiarsi piano piano (chi ricorda certi film su pellicole a 70 mm?) ma la dimensione strettamente economica sarà fondamentale
Chiudo l’OT e vedo di recuperare l’Hobbit
A me sembra che in questa critica (etimologicamente intesa) si possa inserire anche il personaggio di Azog, che mi sembra risponda alla necessità di avere un “arcinemico”, io credo in primo luogo per Thorin (al di là dell’episodio finale di eroismo di Bilbo). Ripeto cosa poco originale ma ovviamente questo dipende solo in parte dalla divisione in 3 della storia. Senza cattivo (o con un cattivo “invisibile” come il Negromante) si sarebbe creato un film diverso.
Grazie WM4 per questa recensione.
Prego.
Concordo su Azog e i motivi del suo inserimento.
La sua presenza, per altro, nella riscrittura jacksoniana della storia, implica un mistero da risolvere. E cioè: chi gli ha fatto la soffiata? Gandalf a un certo punto sembra accusare Thorin di avere chiacchierato troppo con qualcuno malfidato, ma lui nega. Dunque chi ha informato Azog che i nani erano in cammino verso Erebor? [E’ sicuramente un mistero più accattivante di come diavolo abbia fatto Radagast ad attraversare le Montagne Nebbiose con quella slitta trainata da conigli…]
Sul tema delle aggiunte, sarebbe il caso di citare Radagast e il suo “vizietto” per la psilocibina. Personalmente tutte le scene riguardanti il Maia bruno mi sono risultate disgustose: forzature evidenti il cui intento è quello di creare una sottotrama comica intorno al personaggio (come in Boris – La Fuoriserie) per renderlo digeribile ai lettori più puntigliosi e contemporaneamente ai newbies.
Sarà colpa della mia immaginazione o anche secondo voi è un dei tanti sacrifici al dio mainstream?
Bah. Secondo me è proprio una roba gratuita. Ci sono già i nani a tenere la linea comica, anche da un’angolazione mainstream che senso ha proporre Radagast in quel modo, con il fumo che gli esce dalle orecchie e l’insetto-stecco in bocca?
Non so, a me è sembrato abbastanza coerente che uno stregone la cui magia si esprime come un contatto particolare con la natura e con gli animali… sia amante dei funghi e assai diverso dai soliti stregoni. Io l’ho sempre immaginato un pò così, chissà come mai :D
E anche l’erba-pipa…
Articolo molto bello e molto condivisibile. Uscendo dalla sala cinematografica mi sono interrogato vanamente per tentare di spiegare la sensazione di insoddisfazione che stavo provando; adesso so un po’ meglio da dove proveniva. Confesso che a distanza di un mese non è che mi sia rimasto attaccato granchè, anzi. Non lo so: resto convinto del fatto che il film che (numerose volte) mi sono fatto io sia de “Lo Hobbit” che della trilogia sia infinitamente migliore di qualunque produzione amerikena a sei zeri (o quanti sono). Qui sta un altro (il?) primato della letteratura (ri-tiè!). O della parola scritta, tutto sommato.
Mi incuriosisce moltissimo questo accenno al “paganesimo” hollywoodiano. In che senso? Pre-cristiano?
Ehi Sir, sì, uso “pagano” nel senso di antico, pre-cristiano, dato che l’eroe cristiano introduce un elemento di testimonianza che può anche diventare privato, quindi è già in viaggio verso la modernità. Bilbo però è addirittura post-cristiano e direi non solo moderno, ma completamente contemporaneo. Non sto qui a ripetere le cose che penso degli hobbit perché diventerei noioso.
Quanto al primato della letteratura, in questo caso non ci piove. Ma la verità è che, per quanto possa sembrare strano, fare il film de Lo Hobbit era molto più difficile che farlo dal Signore degli Anelli. Jackson lo sapeva e ha cercato di tenere dentro tutto: epico, comico, “americanate”, vecchi attori, nuovi attori, atmosfere, luoghi, etc. Se avesse potuto girare prima Lo Hobbit avrebbe avuto vita più facile, forse. Chissà. Staremo a vedere i prossimi due.
Questo post mi ci voleva, come ho detto su, mi ha fatto digerire una delle parti più importanti del film, il finale.
La sensazione di “fastidio” non c’è più e al massimo rimangono un pò di incomprensione per alcune scelte: Radagast, la rappresentazione scenica di Erebor, la poca caratterizzazione dei nani (a malappena li nomina tutti all’inizio, a parte un paio sembrano tutti uguali)….
Io dico solo una cosa. La trilogia del Signore degli Anelli Jackson l’ha creata avendo come fondamenta un libro immenso, completo e una storia epica ben definita. Ha dovuto tagliare (personaggi ed eventi), cucire e adattare il tutto al cinema.
Lo Hobbit invece non gli offre lo stesso approccio. Deve inventare, arrotondare e smussare, con tutti i rischi che ne consegue. Lo Hobbit inizialmente non doveva far parte dell’universo spazio-temporale del Signore degli Anelli. Poi Tolkien cambierà idea….
Lodevole quindi da parte di Jackson il voler arricchire l’intreccio pescando da quello che sta intorno al tutto. Pesca la Cerca di Erebor, rende Gandalf un personaggio più complesso e fa trasparire come sia un manipolatore; vuole tenere lontano Smaug dal negromante a Dol Guldur… e nel film grazie alla scena del Bianco Consiglio il tutto acquisisce continuità. Mi è piaciuto questo voler calcare la mano sul fatto che lo Hobbit sia direttamente collegato alle vicende del SDA.
Con queste premesse ci passo sopra al nano che mi cerca le patatine fritte a Gran Burrone o alla troppo lunga scena dei tunnel, senza spergimento di sangue…
Ad ogni modo però non giustifico i 3 film, ne bastavano 2 come nel progetto iniziale di Del Toro…
mah, ricordo male o nel libro i nani erano diversificati e caratterizzati dal colore del cappuccio e poco altro? Tra le svariate critiche che ho sentito quella sulla rappresentazione dei nani la capisco ben poco. Certo, non erano come descritti nel libro, ma immagino non sarebbe stato assai “cinematografico”. Immagino.
Prima di tutto grazie per questo bellissimo pezzo. Condivido le riflessioni fatte e devo dire che quando lessi certe recensioni citate, sopratutto quella della Aspesi, ci rimasi proprio male. Mi sono sentito preso in giro su una cosa (i libri di JRRT) che per me è importante. Ma ormai sono abituato al solito snobbismo che c’è in italia, sopratutto in certi ambienti “sinistrorsi” nei confronti della letteratura “di genere” (ammesso che questa definizione abbia ancora senso) e quella fantastica in particolare.
Volevo solamente aggiungere una cosa, di cui però non ho la certezza assoluta: in teoria la storia de “Lo Hobbit” si dovrebbe concludere nel secondo film (che infatti avrà come sottotitolo “Andata e Ritorno” suggerendo la conclusione della storia), e il terzo dovrebbe essere una film a se stante che narra le vicende tra “Lo Hobbit” e “Il Signore degli Anelli”…o almeno così avevo letto da qualche parte tempo fa….
Il terzo film sarà “Andata e Ritorno”, mentre il secondo si intitolerà “La Desolazione di Smaug”. Credo quindi che non ci sarà un film raccordo. Anche perché non ce n’è bisogno, dal momento che questa trilogia è narrata come un flash-back di Bilbo, nello stesso giorno in cui poi comicia il Signore degli Anelli (Frodo lo saluta, prende un libro e dice che va ad aspettare Gandalf al Decumano Est, dove infatti lo troviamo all’inizio della Compagnia dell’Anello).
evidentemente quello del film di raccordo era un vecchio progetto, forse ancora dei tempi di Del Toro, poi abortito. Peccato perchè mi sarebbe piaciuto vedere sul grande schermo una storia “originale” e non già narrata nei libri (ma solo accennata).
Avendo finito il libro circa una settimana prima di vedere il film, devo dire che questa discrepanza nella caratterizzazione eroica di Bilbo l’avevo beccata all’istante, anche perché avevo da poco letto la discussione, qui su Giap, su come gli hobbit siano sempre “eroi collettivi” e mai individuali, quindi m’è saltata all’occhio subito.
Devo dire che però, e qui dissento, trattamento analogo e probabilmente peggiore è stato riservato, secondo me, a Thorin.
Una doverosa premessa: non potrei trovare parole migliori di quelle di Leonardo Tondelli (http://leonardo.blogspot.it/2012/12/come-jackson-ha-ucciso-il-mio-tolkien.html) per descrivere lo strano rapporto tra lettura, fantasia e visione dei film di Jackson. Nel mio caso per “Lo Hobbit” è venuto prima il libro, e lo scontro tra la mia fantasia e quella di Jackson è esploso in pieno. Per il SDA è stato il contrario e sono più conciliante, con un paio di eccezioni.
Tornando alla caratterizzazione di Thorin, troppe cose non me lo fanno andare giù.
A partire dall’estetica (me l’hai salvato tu ricordando Kabir Bedi), giovane, carina e quasi sbarbata, effetto ancora più paradossale se si confronta con la “nanità” di Gimli nel film SDA (che tra l’altro è più giovane di Thorin, ma i personaggi del film sembrano in rapporto opposto).
Poi la sostanza: nel film già nella presentazione alla caverna di Bilbo Thorin si erge immediatamente come capo, più forte, più giovane, più orgoglioso. Nel libro, fino alla conquista della montagna Thorin è uno dei viaggiatori, certo regale, ma mai sopra gli altri. È un membro della truppa, pare decisamente sottostare a Gandalf, e di certo non emerge sopra gli altri. Anzi, nel libro pare essere Balin il nano a cui viene dedicata, durante il viaggio, più attenzione.
L’odio per gli elfi, che Jackson piazza direttamente in apertura di film e che di fatto rende Thorin iroso, nel libro compare alla fine e dopo la prigionia. Non è un carattere primario del nano, e infatti l’atmosfera delle due case di Elrond, nel libro e nel film, non potrebbe essere più diversa.
Poi c’è Azog, che nel libro manca. L’odio di Thorin per gli orchi nel libro non è personale, è l’odio atavico che caratterizza tutto il suo popolo.
Facile pensare che a far rinchiudere Thorin nella montagna sarà l’odio personale per gli elfi, invece della follia tutta nanica di fronte al possesso del tesoro, e a farlo riemergere non sarà l’odio “collettivo” dei nani, ma la personalissima sete di vendetta nei confronti del suo vecchio nemico.
Spero solo che non gli riesca di ucciderlo, se no a Beorn restano solo le briciole :-)
Tutto concorre secondo me a due Thorin completamente diversi.
Nel libro è un re nanico, pienamente caratterizzato, parte del suo popolo e con tutte le caratteristiche di un nano che si rispetti, se mi si passa l’espressione. Nel film è orgoglioso, individualista, militaresco, in breve un re degli uomini. Giustamente, dici tu, la controparte di Aragorn.
Ovvio che per conquistare un personaggio così serva un Bilbo guerriero, e non il Bilbo astuto e un po’ truffatore che si trova nel libro.
Chiudo con due note a margine:
*Nel Signore degli Anelli gli unici due personaggi che proprio cozzano con quanto reso da Jackson sono secondo me Elrond e Faramir. Entrambi nel film mi paiono più arroganti, a volte supponenti, insomma un po’ antipatici. Che sia caratteristica di Jackson non riuscire a presentare un re saggio, invece che valoroso?
*Sul 2D vs 3D: a me la scena di lotta tra le montagne è parsa una brutta copia di “transformers”, chi l’ha vista in 3D l’ha apprezzata tantissimo…ennesimo sacrificio un po’ gratuito alla spettacolarità
Attenzione che l’odio atavico come lo definisci tu non nasce dal nulla, ma nasce proprio da Azog, orco non presente ne lo Hobbit, ma presente in un appendice del Signore Degli Anelli. Anche qui ribadisco invece come Jackson abbia fatto suo tutto quello che sta intorno: appendici, racconti incompiuti, etc.
Azog uccide davvero il nonno di Thorin, quindi non è così fuori di testa l’interpretazione che ne dà… certo che poi questo aspetto calzi a pennello lo stereotipo del vendicatore a Thorin, rendendolo molto più cinematografico, ok, più andare giù o no.
Azog in verità muore decapitato per mano di Dain Piedediferro, cugino di Thorin e futuro re sotto la montagna. Dain vendita suo padre (a sua volta decapitato da Azog) e il suo popolo. Sempre di vendetta si parla.
Jackson invece lo fa sopravvivere allo scontro di Moria, mozzato di un braccio per mano di Thorin, e lo assurge a nemesi dei nani (in special modo per Thorin).
Oh! A me invece è piaciuto il modo in cui Thorin viene rappresentato nel film… :)
Ho sbagliato doveva essere in risposta all’amico rockit… :( scusate
La storia la so, tra l’altro mi pare che le appendici del SDA siano l’unico modo per ricostruire l’età dei personaggi ;-) Mi mancano invece ancora i racconti incompiuti…
Quello che non torna, secondo me, è che il Thorin di Tolkien è più complesso, quasi bipartito: un Thorin eroico nelle appendici del SDA (anche il colloquio con Gandalf lo rappresenta come un “leader”), un Thorin viandante fino alla conquista del tesoro.
E poi c’è tutto il resto della caratterizzazione del personaggio: il Thorin di Tolkien è “contiguo” agli altri nani, sono i nani che marciano su Moria contro gli orchetti, insieme, la loro vendetta è collettiva, non individuale; al termine della battaglia è il popolo dei nani a lutto, e anzi l’individualità viene talmente meno che si disperdono. La follia dei nani attraversa (grazie all’influenza degli anelli) le generazioni, è sempre uguale e sempre legata al possesso dell’oro, anche per Thorin. Non c’è l’odio personale per Elrond, che tra l’altro nel film di fatto caratterizza il solo Thorin, ed è così differente dalla diffidenza di Gimli verso gli Elfi come resa nella trilogia dell’SDA, che invece è molto più assimilabile al romanzo.
Azog non è più nemesi *dei nani* ma di *uno* di loro, il capo e protagonista.
Già nelle appendici del signore degli anelli si delinea una “saga dei nani”, non l’epopea personale di Thorin. Ancor meno, secondo me, in tutta la parte di viaggio de “lo Hobbit”. Certo, è re sotto la montagna, non è mica uno qualunque: però, a parte l’incontro con Gandalf, nei libri non è mai solo, protagonista e decisore, è parte di una storia più ampia e connessa, e nello Hobbit ancora di più.
Sempre secondo me eh, che un’opera monumentale (e tanto genialmente connessa) come quella di Tolkien si può leggere in milioni di modi, e a volte è per forza un po’ contraddittoria, anche l’Elrond de “lo Hobbit” – il libro – non è certo il grande re elfico del “Signore degli anelli”, quindi lo spazio di manovra non manca.
Io Azog non lo vedo come cacciatore del solo Thorin, cacciano la *feccia nanica*. Vero è che lui gli ha tagliato il braccio ed è lui che ha un ruolo più marcato di leader (nel film).
Boh io Thorin non l’ho mai pensato allo stesso livello degli altri, come nemmeno Balin… E nel film al di là dell’eroe duro e vendicativo, questo è reso bene. Poi non mi piace che gli altri nani sono poco caratterizzati (si e no vengono nominati tutti una volta).
@ rockit & rasmas
Condivido le vostre osservazioni su Thorin, anche se sono contrapposte :-)
Aggiungo qualche elemento di riflessione e spiego perché.
Sappiamo che alla Battaglia dei Cinque Eserciti, alla fine del romanzo, partecipa Bolg, il figlio dell’orco Azog. E’ lui che è assetato di vendetta contro i nani che hanno ucciso suo padre e che guida le schiere degli orchi contro la Montagna. Ovviamente ce l’ha più con Dain (uccisore di suo padre Azog, appunto) piuttosto che con Thorin, ma tant’è. La materia su cui ha lavorato Jackson con le sue sceneggiatrici è fatta comunque di vendetta e di odio che si tramanda da padre a figlio. Teniamo a mente questo particolare, perché poi ci torno sopra.
In questa prospettiva Jackson ha lavorato a una semplificazione: riduzione dei personaggi e attribuzione dei sentimenti in gioco ai medesimi. Thorin contro Azog, dunque. Il cinema ha delle leggi drammaturgiche diverse dalla letteratura, e questa non mi pare una di quelle scelte che di per sé stravolgono il senso della storia. Le leggi del cinema avevano costretto Jackson a eliminare il finale del Signore degli Anelli, una scelta ben più grave rispetto a questa.
Vero è che, come fa notare rockit, c’è uno spostamento dai conflitti collettivi a quelli individuali. Le relazioni al cinema devono essere rese visibili, basarsi su contrasti più facilmente individuabili e personali. E poi, ricordiamocelo sempre, il tono del romanzo è più fiabesco, mentre Jackson ha dovuto equalizzarlo alla precedente trilogia (questa continua a sembrarmi l’origine di tutti i “mali”, si fa per dire…).
Ed è altrettanto vero che tra le mani di Jackson, Thorin diventa un fascinoso e bel tenebroso re dei nani in esilio, a fronte del viandante avventuriero e un po’ meschino che compare nel romanzo. Il Thorin di Tolkien è un paraculo che promette eterna riconoscenza a Bilbo quando lo hobbit lo salva dai guai e gli rinfaccia di essere inutile al capitolo successivo. Jackson invece aveva bisogno di un nuovo Aragorn, ma in versione dark, come scrivevo, dato che alla fine deve essere corrotto dalla malattia del drago (cioè l’avidità). Io questa esigenza la capisco e non mi sento di stigmatizzarla.
Il punto però è che nonostante questo slittamento, c’è un tema di fondo, un tema tolkieniano, che riguarda Thorin, e che Jackson non solo salva, ma addirittura evidenzia e porta in superficie. E’ il tema del retaggio, della stirpe, del destino che si trova inscritto in essa, dell’eredità padre-figlio. Ed è un tema che ritroviamo anche nel SdA, dove il suo punto di crisi è ormai superato e i legami sono collassati. In questo senso Thorin è davvero l’anti-Aragorn, perché entrambi vengono sollecitati da Gandalf a rientrare in possesso dei regni perduti dei loro padri, ma il primo lo fa con orgoglio e arroganza, mentre il secondo lo fa con cautela e titubanza (si pensi alla differenza tra l’ingresso di Thorin a Esgaroth e quello di Aragorn a Minas Tirith). Il primo fallisce, il secondo riesce.
Dunque Jackson esalta in Thorin le caratteristiche del guerriero regale e valoroso, con un’ideologia eroica fatta e finita (“lealtà, onore, un cuore volenteroso. Non posso chiedere di più”, dice nel film). In questo modo il contrasto con il “borghese” Bilbo è più evidente. E così, per conquistare la fiducia del re, il piccolo hobbit deve impugnare la spada e scagliarsi contro l’orco che sta per trucidare il suo signore, come farebbe un devoto scudiero o un devoto housecarl sassone. Deve cioè stare alle regole della teoria del coraggio nordica. Ma sia chiaro che questo tipo di mentalità è già presente nel romanzo, non è tutta farina del sacco di Jackson. Nel romanzo, alla Battaglia dei Cinque Eserciti, la fine di due dei nani della compagnia è segnata dal fatto che in quanto parenti stretti di Thorin hanno il dovere di difenderlo “con lo scudo e con il corpo”. E del resto, la stessa sortita disperata di Thorin riecheggerà in quella di Theoden al Fosso di Helm.
Ecco perché, nonostante la critica di rockit sia assolutamente fondata, mi trovo d’accordo anche con rasmas quando apprezza il modo in cui viene rappresentato Thorin nel film. E’ un altro personaggio, ma nato dalla stessa materia tolkieniana.
Apprezzo moltissimo la sintesi, di fatto hai spiegato quello che intendevo meglio di come sia riuscito a me.
Aggiungo, riprendendo quando dicevo prima, che sulla sua “origine dei mali” Jackson ha una sicura attenuante: la distanza temporale tra “lo Hobbit” e le appendici del SDA (libri) fa delineare a Tolkien dei personaggi diversi nei due testi-ribadisco la mia impressione, e Jackson sceglie di delineare i personaggi non solo in coerenza con la sua trilogia, ma pure con il carattere che hanno nel libro del Signore degli Anelli, appendice compresa. In questo senso è coerente, ad esempio, anche con Gandalf, che mostra nel film il suo lato più calcolatore (brutto termine, passatemelo) nel voler eliminare Smaug e nel partecipare al Consiglio, cosa che c’è più nel libro del Signore degli Anelli che non ne “lo Hobbit” e pure nella stessa trilogia di Jackson.
Insomma, Jackson sacrifica un po’ il libro de “lo Hobbit” a favore del “Signore degli Anelli”, quello letterario, resta quindi certamente nel solco di Tolkien, ma secondo me si perde un po’ della magia fiabesca delo hobbit, “l’originale slittamento dalla favola al romanzo epico-avventuroso”, e si poteva a mio parere conservarla.
È certamente coerente, e di sicuro non travisa Tolkien, però secondo me poteva riuscirgli meglio.
No no Gandalf è proprio un manipolatore, conforme al suo ruolo di istari che non può usare il suo potere per “costringere”, deve “veicolare”. Non estraneo a plateali atti di altruismo e sacrificio, si, ma lungi dall’essere un personaggio cristallino.
Ad ogni modo trovo giusta l’interpretazione che il film de lo Hobbit abbia lo stesso “timbro” del SDA e di come Tolkien lo ricolloca dopo nelle appendici. A scapito del registro fiabesco originale.
A trilogia completa vedremo se il tutto regge…
Ho trovato la recensione particolarmante interessante e soprattutto molto in linea con le numerose discussioni su Giap, riguardo eroi, miti e “cultura” di destra in JRRT.
Premetto che per me Lo Hobbit è forse il libro più allegorico della mia vita, letto nella preadolescenza, il primo libro che ho letto in versione integrale e non riarrangiato per bambini, il primo libro che ha sancito definitivamente la mia voglia di conoscenza e di libri, che è una sete che da allora non si è mai più placata. Erroneamente LH viene considerato soltanto un “prequel” del SdA (al cinema come in libreria) e sono contento invece che questa recensione lo analizza con la stessa lente con cui, qu su Giap,i si è analizzato il SdA.
Riguardo alle tematiche sviluppate da WM4, sono d’accordo pressochè su tutto, anche sull’ottimismo riguardo agli altri due capitoli della saga. Ovviamente alcune scene potevano essere tranquillamente evitate (ad un certo punto ho avuto il sospetto che Galadriel e Gandalf stessero per limonare 0.0),ma nel complesso il film resta un esperimento positivo e, come era successo con il SdA, risulta chiaro come Jackson, che è un vero supernerd tolkieniano, abbia creato un prodotto mainstream, ma che strizza l’occhio agli altri supernerd.
Di particolare interesse invece, mi sembra essere la Comparazione tra i due eroi nello Hobbit e nel SdA, ma penso che, per quanto interessante, sia leggermente OT con l’argomento in questione (qui si parla del film sostanzialmente) , quindi, sperando nella magnanimità di WM4 di aprire un post del genere anche sui libri, torniamo ai film.
Filmicamente Thorin mi è sembrato molto più potente: la sua storia è raccontata anche con le immagini (prologo e flashback di Balin) ,NON ha la voce di Pino Insegno e lo spettatore sente subito una forte empatia con il personaggio. Perché è un re senza regno (mitologema?), ma a differenza di Aragorn lo rivuole a tutti i costi e la vendetta è un movente forte al cinema come in letteratura, un movente che ogni spettatore capisce benissimo e che “fa fare il tifo” fin da subito per il personaggio vendicatore. La titubanza di Aragorn non riuscirebbe ad esprimere la stessa empatia al cinema; del resto la logica del nostro tempo non prevede la pietas o la solidarietà, ma solo la competizione, ecco quindi che nel SdA film Aragorn deve diventare più guerriero e meno eroe dubbioso.
In sostanza la mia impressione è questa: mentre Thorin incarna fin da subito il concetto di leader indiscusso (cioè una specie di furher prinzip), Aragorn nel film lo acquisisce progressivamente ed è una delle maggiori differenze tra i due e rispetto ai libri.
Sarà interessante anche vedere come sarà l’epilogo cinematografico del “Capo” Thorin per tutti quei discorsi sulla “buona morte” che si facevano in questo post [http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=3423].
Infine anche per me sarà interessante vedere come Jackson riuscirà a sbrogliare la matassa negli altri due capitoli.
PS = @WM4 ma se te leggendo Tom Shippey concretizzi delle intuizioni, ed io leggendo te concretizzo delle intuizioni, potri avrei lo stesso effetto leggendo direttamente Tom Shippey ? tipo proprietà transitiva della fantasy tolkieniana?
1) A costo di generare scandalo negli irriducibili fan, ti confesso una certa predilezione per Lo Hobbit rispetto al Signore degli Anelli. La comparazione è pressoché impossibile, dato che si tratta di due romanzi diversissimi per tono e impostazione. Tuttavia mentre il SdA è il tipico romanzo-mondo, dentro il quale trovi di tutto, Lo Hobbit ha la caratteristica di affrontare e concludere le cose in un limitato raggio spazio-temporale e di compiere una riflessione importante sulla fiaba, sulla crescita individuale, etc. Insomma è meno filosofico di suo “fratello”, ma ha una capacità di centrare il bersaglio unica.
2) Su Giap parliamo di narrazioni nel senso più lato possibile, e da romanziere sarebbe ben strano che ti impedissi di parlare dei personaggi letterari anziché di quelli cinematografici. Io stesso ho fatto continui riferimenti in questo senso. Nulla osta, sei liberissimo di farlo.
3) L’effetto di leggere Tom Shippey è quello di entrare nella visuale di Tolkien. Vale a dire che Shippey ha la capacità particolarissima di vedere le cose come poteva vederle Tolkien (stesse scuole, stesso cursus honorum, stessa materia di studio, stesse università, stessa hobbitudine, etc.). Il libro che segnalo, “La Via per la Terra di Mezzo”, è il testo capostipite degli studi tolkieniani, una pietra miliare. Tosto, però. Anni dopo Shippey ha pubblicato un secondo saggio che riprende gli stessi temi in una chiave più divulgativa. In Italia lo ha pubblicato Simonelli, si intitola “Tolkien autore del secolo”.
Ah, la vendetta! Questo post mi ha fatto tornare in mente una mia vecchia riflessione di quando studiavo Hamlet. La nostra professoressa diceva che esistono in quel dramma due modi di interpretare la vendetta, il primo medievale (l’uomo deve riscattare l’onore perduto ed ottenere la sua vendetta appena possibile, modus operandi che attribuiamo al giovane Fortinbras), il secondo moderno (inteso come compiutamente post-medievale) e in mezzo c’è Hamlet che è costantemente dubbioso su quale dei due sia il metodo da seguire e che alla fine sceglie il metodo medievale “trascinato dalla foga degli eventi” direi io.
Allo stesso modo potremmo pensare a Thorin (che anche nel romanzo è guidato almeno in parte dal desiderio di vendetta) come un’evoluzione di Fortinbras e ad Aragorn, un po’ forzatamente, come un “vendicatore moderno”, dove ci manca però il personaggio di passaggio, il “vendicatore pensoso”.
Questa ideale triade è invece secondo me presente in un’altro punto del legendarium di Tolkien: è la triade dei figli di Finwë. Fëanor è il tipico vendicatore medievale e ovviamente per Tolkien fa una brutta fine, non riesce a portare a termine la sua impresa facendo più danni che altro (a differenza di Fortinbras che non solo recupera le terre perdute dal padre ma ci guadagna tutta la Danimarca; 3 secoli di differenza si fanno sentire). Finarfin invece è l’esempio del “vendicatore moderno” come inteso sopra, segue i figli di mala voglia ma quando la voce di Dio gli rivela che le azioni umane non avrebbero potuto sconfiggere il Male (cosa in cui Tolkien stesso credeva, per questo nonostante l’opposizione al capitalismo rimase un conservatore, un po’ come Verga potremmo dire) decide di tornare indietro ed affidarsi al potere divino per avere vendetta.
In questo caso abbiamo anche il “vendicatore pensoso”, anzi ne abbiamo due: Fingolfin e in un certo senso anche Maedhros. Fingolfin si oppone fortemente alla decisione di Fëanor di partire ma alla fine anche lui parte e addirittura sceglie di non tornare indietro anche quando questi lo lascia indietro, preferisce agire comunque facendosi cogliere da un atto di “medievalità”, andando ad attraversare l’Helcaraxë a piedi a costo di sacrificare un buon numero dei suoi. E anche il suo atto finale (uno dei passaggi secondo me più intensi del Simarillion) è medievale ma si compie solo quando crede che tutto sia perduto e che la sconfitta sia comunque imminente, non compie il suo gesto con una carica insensata come Fëanor.
Ancora più amletico è probabilmente Maedhros che è roso dal dubbio per tutta la durata del libro. Lui che avrebbe ereditato il titolo di Re Supremo dei Noldor lo lascia a Fingolfin come riscatto per la scelta di lasciarlo indietro (cosa per la quale si era un minimo opposto al padre), e così avanti per il resto del libro, prima compie un atto sconsiderato e poi se ne pente cercando di porvi rimedio (ad esempio quando con i fratelli assalta il Doriath e abbandona i figli di Dior nella foresta, salvo poi tornare indietro a carcarli), fino all’ultimo atto irriscattabile, quando sceglie di rubare i Silmaril recuperati maledicendo al contempo il Giuramento che li ha spinti a tanti azioni terribili (tra l’altro il suo sentimento di continuo rimorso è secondo me espresso benissimo in Blood Tears dei Blind Guardian, tratta dal loro concept album sul Silmarillion).
Per quanto le corrispondenze non siano esatte penso non sia del tutto campata per aria questa mia idea di istituire un parallelismo, stiamo sempre parlando di Shakespeare, l’autore che più tracce di sé ha lasciato fra le vie della letteratura britannica.
Tornando al film, sono discretamente d’accordo con la maggior parte delle critiche (ho visto il film in 2D, il 3D è troppo faticoso) anche se appena uscito dal cinema la cosa che più mi colpì in negativo fu l’invenzione sulla natura del Re degli Stregoni di Angmar. È vero che all’epoca non erano sicuri che che fosse Sauron l’abitante di Dol Guldur ma non potevano ignorare che il Re di Angmar era il capo dei Nazgûl e che in quanto tale non era mai morto né stato seppellito.
Il personaggio di Radagast in fin dei conti mi è piaciuto, se solo non fosse stato per la slitta a conigli. È uno stregone particolare, completamente diverso da Saruman e Gandalf, profondamente legato alla natura, è un po’ un Ent formato stregone e se Gandalf e Saruman stessi finiscono a fumare erba-pipa non vedo perché lui non possa usare funghi allucinogeni.
Un personaggio fatto male secondo me è Thranduil: ma volete tingergliele le sopracciglia? Dove si è mai visto un Elfo con le sopracciglia di un colore i capelli di un’altro? E poi arriva in groppa a un alce? Ma dai!
Sono invece piuttosto preoccupato per i prossimi due film. Ci sono ancora 6 ore di film e non ho idea di cosa possano aggiungere oltre l’esplorazione e l’attacco a Dol Guldur. Temo si inventino altre storie assurde, come il Re di Angmar morto e sepolto.
Oh, una piccola aggiunta alle considerazioni sulla vendetta: notate che in tutti i casi considerati (da Fortinbras ad Hamlet, da Aragorn a Thorin ai figli e nipoti di Finwë) la vendetta sia scatenata dalla morte del padre o dei padri, nonostante le centinaia di possibili moventi per una vendetta.
Giusta osservazione. I guerrieri “antichi” della Terra di Mezzo hanno quel genere di rapporto con i propri padri, vivono in una società guerriera e patriarcale-monarchica, che prevede un’eredità pesante di dovere, di vendetta, di ruolo, etc. I “moderni” Hobbit invece hanno rapporti del tutto diversi con le figure paterne. E’ un taglio di lettura che meriterebbe di essere approfondito. Prima accennavo al fatto che tra LH e il SdA c’è una messa in crisi del legame patriarcale, una sua problematizzazione. Di questi tempi sarei propenso a lanciarmi in una lunga speculazione su questo, ma adesso non ho tempo…
“Ma adesso non ho tempo…”, scriveva Wu Ming 4 ieri, ed ecco il perché :-)
Penso che nella Vendetta di Thorin, componente fondamentale sia l’avidità. In questo JRRT è spietato con i nani. Anche etimologicamente: i Sindar li chiamavano Naugrim “popolo rachitico”. La cupidigia nanica viene mostrata benissimo nel film de LH (prologo e tana dei trolls), ed è una componente essenziale anche nella storia dei nani fin dalla Prima Era (Guerre contro gli Elfi).
Nel libro, almeno, a me sembra evidente il ruolo dell’Arkengemma , allegoria delle ricchezze accumulate e simbolo del potere dei Re Sotto la Montagna.
Questa sua “imperfezione” razziale rende Thorin determinato a recuperare il suo regno e tutte le sue ricchezze: la vera vendetta contro il Drago. E questo narrativamente lo rende veramente un personaggio potente. Non dimentichiamoci anche cosa dice Thorin a Bilbo, prima di spirare, dopo la BdCE, quando afferma che i nani dovrebbero prendere d’esempio gli Hobbit invece di accumulare ricchezze (in soldoni); qui mi è sempre parso che fosse JRRT stesso a trarre un giudizio categorico attaverso un suo personaggio.
Insomma, come su tutti i personaggi di Tolkien, anche sui Nani varrebbe la pena di scrivere parecchio!
Giusto un appunto… Avete notato come i nani siano tutti “nanici”, brutti alla Gimli diciamo, eccetto Thorin, Fili e Kili, ovvero quelli di stirpe reale che sono molto più umani/belliholliwoodiani?
E’ giusto che anche le ladies abbiano qualcosa da guardare, ma un pò mi ha dato fastidio :D
Per me una nota a parte meritano le canzoni diegetiche nel film!
Mi ero dimenticato di parlarne prima ma posso solo dire che sia la canzone giocosa “blunt the knives” che la nostalgica “misty mountains cold” hanno contribuito molto alla mia personale immersione nel mondo e nel contesto del film.
Direi anche che proprio le canzoni, le filastrocche, le poesie, sono un sintomo abbastanza netto della differenza di tono tra Lo Hobbit e il Signore degli Anelli.
E, beh, mi fa piacere che le abbiano tenute e ci abbiano lavorato sopra, secondo me con successo…
Anche io sono stato contentissimo delle canzoni, “misty mountains cold” mi ha piacevolmente ricordato “solitude” dei Black Sabbath e ne sono soddisfatto.
Più leggo post, articoli e commenti su questi temi, più mi sento spaesato. Fra gli appassionati di Tolkien, e fra quanti ritengono ridicole le accuse di criptofascismo al professore e di qualunquismo, escapismo o superficialità alla sua opera, sono davvero l’unico a non avere visto alcunché di interessante nei film di Jackson, anche al netto di fedeltà o infedeltà al testo letterario? Sono davvero l’unico a considerarlo semplicemente uno dei tanti che non distinguono tra Tolkien, G. R. R. Martin (per altro da me stimatissimo) e vari altri modi di declinare il fantastico in letteratura? Ho seriamente preso un abbaglio quando mi è sembrato di vedere, dal punto di vista dell’epicità, nel SDA di Jackson meno di quanto ho visto in Ladyhawke e non molto di diverso da quanto ho visto nella saga di Guerre stellari? Lo hobbit non sono andato a vederlo perché sono disoccupato e al momento non mi posso permettere il cinema. Ma anche perché la visione del SDA (più volte) non me ne aveva suscitato l’interesse. Perché il Gimli-buffone, il Legolas surfista sullo scudo al Fosso di Helm, il Frodo protagonista accentratore che risolve l’enigma dei cancelli di Moria, il Gandalf esorcista con Theoden, l’Aragorn bello e dannato eroe decadente, la cancellazione delle canzoni (e quindi del rapporto prosa-versi che in Tolkien riprende, trasforma e attualizza quello di “storicizzazione” presente nelle saghe nordiche), la sistematica soppressione dell’epicità in favore del romanzesco, della spettacolarità, del colpo di scena e via elencando, non mi sono sembrate cose giustificabili soltanto con le necessità traduzione dalla letteratura al cinema. Mi sono sembrate precise scelte stilistiche, ed hanno prodotto tre film che su di me hanno avuto il semplice effetto di un qualunque fantasy hollywoodiano, solo incomparabilmente (e a mio avviso inutilmente) più lungo. Leggendo le vostre riflessioni, mi viene il dubbio che mi sia sfuggito qualcosa. Ma poi riguardo i film di Jackson e mi rifanno lo stesso identico effetto. La mia non è finta sorpresa retorica, non so davvero che pensare.
Vorrei fare un piccolo OT per chiarirmi un po’ le idee.
Premetto che non sono una tolkeniana (ho visto il Signore degli Anelli), probabilmente perché il fantasy non è il mio genere letterario, sono più per il fantascientifico. La riflessione che ho fatto è quindi generica, in relazione all’articolo (la seconda parte soprattutto) e ad alcuni commenti, in particolare l’ultimo di Bran19: “Peccato perchè mi sarebbe piaciuto vedere sul grande schermo una storia “originale” e non già narrata nei libri (ma solo accennata)”.
– Quello che noto in me e intorno a me, è che il film “ammazza” il lettore, ovvero al cinema va chi ha già letto il libro (magari appena prima, ne ho visti a fiumi in aereo, in lavanderia con in mano Lo Hobbit poco prima dell’uscita nelle sale) e chi non l’ha letto, all’uscita però la distribuzione rimane pressoché tale. Il cinema sembra non essere una buona pubblicità per la letteratura, al di là dell’aspetto commerciale, mentre avviene molto più facilmente il contrario, per poi restare spesso delusi…
– …delusi non tanto per le incapacità del regista o di chissà chi, ma perché molti non si rendono conto di quanto il linguaggio cinematografico sia differente da quello letterario. Quindi nel momento in cui il cinema va a pescare nei libri ci fa immancabilmente la figura del fratello scemo. Di trasposizioni ne ho viste a bizzeffe, guardandole con gli occhi del lettore ne salverei poche (e una – non arrabbiatevi – è Alice nel Paese delle Meraviglie della Disney), ma guardandole da amante del cinema ne ho in realtà odiate pochissime.
– detto questo la questione che voglio porre è se la critica al film partendo dal libro – e in particolare da amanti del libro – non sia in qualche modo viziata nel principio. Ovvero parto da un linguaggio per criticarne uno completamente diverso.
La domanda che personalmente mi pongo quando vado a vedere un film tratto da un libro che mi ha appassionata, da non esperta né dell’uno né dell’altro linguaggio, ma da amante di entrambi è: il film mi ha detto qualcosa di diverso dal libro? Qualcosa in meno ma compensato da qualcosa in più? Ovvero posso discernere la personalità e l’arte dello scrittore da quella dello sceneggiatore (o del regista) o sto guardando un rimaneggiamento scopiazzato di quello che ho letto?
Riprendendo l’articolo di Wu Ming 4 mi domando quindi se sia peggio tradire l’intento tolkeniano o la visione holliwoodiana-jacksoniana: nel non tradire mai il libro non si rischia di rendere il regista e lo sceneggiatore inutili? E su questo pensiero… fino a dove la trasposizione fedelissima (o adattamento che dir si voglia) è ancora arte cinematografica? E questa, bella o brutta che sia non dipende quindi solo ed esclusivamente da se stessa e dai suoi autori?
Mi permetto di accennare una risposta, visto che sono uno di quelli che più ha avvertito il distacco proprio su questo tema.
Ecco direi che secondo me la differenza tra i due linguaggi esiste, pesantemente, ma Jackson qui se la gioca male, differenziando eccessivamente il carattere dei personaggi (rispetto alla *mia* visione di quei personaggi, ovviamente, che come si è ben visto nella discussione è forzatamente diversa da quella di ogni altro lettore) piuttosto che usare la differenza tra i due mezzi a proprio vantaggio.
Ad esempio: ho trovato assolutamente geniale l’inizio del film, il mettere le vicende dei nani in un prologo. Ripensandoci usare un flashback, cosa più ovvia, avrebbe banalizzato il racconto, reso più scontato il film, e quindi in questo Jackson è magistrale nel valorizzare il linguaggio cinematografico. O ancora nel SDA, tutta la vicenda degli Ent è completamente stravolta nella trama rispetto al libro, evidentemente per esigenze di minutaggio (dettagliarla troppo avrebbe reso una sotto-trama indigeribile), eppure se ne preserva pienamente il senso, il carattere, la motivazione, pur con le debite differenze. O ancora la parte di contrasti, indotti da Gollum, tra Frodo e Sam: poco c’entra col libro, eppure (anche se a me personalmente non piace) ci sta nella costruzione complessiva dei personaggi, è centrata col tema, insomma aggiunge.
Invece in questo caso il racconto del prologo non solo modifica il ritmo narrativo (benissimo) ma imprime direttamente a uno dei protagonisti (Thorin) un marchio caratteriale fortissimo, che secondo me contrasta molto con quello letterario, da cui il disappunto.
Insomma, verissimo che il linguaggio cinematografico ha regole tutte sue, ma quando parliamo di costruzione dei personaggi, carattere, scelte narrative generali c’è spazio per tutto e il contrario di tutto, tanto per uscire (con un esempio paradossale, ok) dalla letteratura prendi anche Rocky 4 contro The Wrestler, eppure sempre cinema è :-) e un’ambientazione somigliante può dar vita a storie e personaggi estremamente differenti.
Caratterizzare i personaggi è assai più difficile al cinema che in letteratura, forse anche per questo esistono dei “grandi” e poi la moltitudine di sceneggiatori e registi holliwoodiani, che vivono in un limbo di blockbusters e pochi film riusciti. Da non lettrice di Tolkien il mio giudizio è solo cinematografico (da spettatrice, sia chiaro) e per me Jackson non è fra quelli, non è nemmeno fra i grandi del cinema di genere. Non è, per intenderci, il Fleming di “Wizard of Oz”.
L’ho anzi apprezzato molto di più nel suo periodo splatter, lì Jacskon ha un’inventiva e una padronanza del genere straordinaria.
Non fraintendermi, ISDA me lo sono ampiamente goduta, ma non da riguardarlo. In conclusione mi sembra piuttosto che l’epicità e l’immaginario tolkeniano non siano adatti a farne un film, ma debbano essere interiorizzati e reinterpretati per riuscire a fare quel famoso salto fra letteratura e cinema. Jackson è stato (ed è tutt’ora con Lo Hobbit) forse troppo condizionato da voler fare l’adattamento a tutti i costi.
Secondo me, hai posto la questione fondamentale, che è quella dei vari e mai scontati rapporti fra i diversi linguaggi. Provo allora a dire la mia in proposito.
Sono, come ho detto, un appassionato di Tolkien che non ha amato i film di Jackson. Ma sono anche un appassionato di letteratura che spesso apprezza ed ama trasposizioni cinematografiche di opere letterarie.
Il punto è che, a mio avviso, non esiste IL rapporto tra cinema e letteratura. Esistono registi che fanno film e che qualche volta li fanno prendendo spunto da libri, ma ciò non è sufficiente ad accomunarli. Film di Kubrick quali Arancia meccanica, Shining o Barry Lyndon, tanto per fare un esempio, non sono e non vogliono essere la versione cinematografica dei libri da cui sono tratti. In quel caso il regista ha visto qualcosa in quelle opere letterarie, un qualcosa che sulla pagina poteva essere anche marginale, o addirittura non esserci proprio: una suggestione tutta sua che gli ha fatto da spunto. E su quella ha costruito il suo film. Allora mai mi sognerei di commentare il film mettendolo in relazione al libro, se non per fare quello che tu suggerisci: notare l’originalità e la peculiare personalità artistica del regista, e chiedermi se mi abbia dato qualcosa o no.
Ma Peter Jackson ha fatto questo?
Io ricordo qualcosa come due anni di interviste da lui rilasciate prima dell’uscita del film. Il suo era un tormentone: “Amo quel libro da quando ero bambino, sogno di farne un film da quando sono regista, la mia stella polare è stata la fedeltà al testo”. Non gli spettatori tolkieniani, ma il regista del film ha posto la cosa in questi termini. Peter Jackson non ha mai voluto fare un suo film originale sull’onda di una suggestione provocata in lui da un libro che casualmente era il SDA ma avrebbe potuto essere un altro. Peter Jackson ha voluto girare il SDA. Ha voluto lanciare a se stesso e agli altri l’impegnativa sfida di una traduzione totale di quell’opera da un linguaggio ad un altro. Ha voluto farlo seguendo il criterio, forse discutibile, della fedeltà al testo. E si è tenuto fedele a quello che probabilmente lui ritiene il cuore di quell’opera: fantasia, avventura, azione, colpi di scena, “soprannaturale”, elfi, hobbit, stregoni… E qui siamo ovviamente su un piano totalmente soggettivo: il cuore di quell’opera, per me, è completamente assente in quei film, per quanto colmi di elfi e hobbit possano essere. Ed è assente anche in tutta la carriera di Jackson come regista. Non per inferiorità, ma per diversità di indirizzi culturali.
Tolkien costruisce la sua opera secondo un procedimento narrativo che ha dei riferimenti, Jackson ne segue altri. Legittimo, non obbligato. Per un amante del filone fantasy a cui il regista si ricollega, probabilmente sono ottimi film. Ma che lo stile da lui scelto fosse inevitabile per necessità di traduzione filmica, è smentito dai fatti: basta guardare Il trono di spade per accorgersene. Lì non si respira quell’aria simil-Disney che non può evitare di assalirmi vedendo il Gimli di Peter Jackson, giusto per limitarmi ad una delle cose che mi impediscono di amare quei film a prescindere dal libro da cui sono tratti.
Insomma, proprio perché ogni linguaggio ha le sue specificità, ogni filone o genere o stile le sue peculiarità ed ogni autore compie le sue scelte, deve essere possibile dire: quei film non mi piacciono per tale motivo e mi pare abbiano il tale difetto. Senza che il giudizio sia invalidato dal fatto che ti è piaciuto il libro da cui sono tratti. Altrimenti basterebbe trarre tutti i propri film da opere letterarie per essere al riparo da qualsiasi critica e addebitare alle specificità del linguaggio cinematografico tutto ciò che si fa.
Non avevo pensato all’uscita di Jacskon che hai giustamente citato e questa intenzione cambia parzialmente, ma significativamente, la visuale di chi il libro l’ha letto e giustamente critica partendo da quello. La mia, di contro, è una visuale prettamente cinematografica in questo caso, di chi ha visto ISDA e fuori dal cinema non ha avuto voglia di leggere il libro. Jackson ha (come ho scritto prima) “ammazzato” la mia curiosità letteraria. Mi è successo l’opposto con “Akira” diretto da Otomo, che mi ha fatto venire voglia di leggere il fumetto, che è diverso, a tratti diversissimo, eppure sono riuscita ad amare entrambi. A questo punto quindi l’errore di Jackson è stato quello di voler fare qualcosa che solo raramente è possibile, ovvero l’adattamento fedelissimo. Ne ho visti pochi di riusciti e a mio parere devono il loro successo anche alla “cinematograficità” del libro stesso (mi viene in mente al momento “L’età dell’innocenza” di Scorsese).
A questo punto la domanda diventa un’altra: ISDA o Lo Hobbit sono realmente adattabili al cinema, come pare avesse voluto fare Jacskon? Mi viene in mente un non-adattabile eccellente, Isaac Asimov, il cui immaginario però è diventato parte integrante del cinema di genere.
Bella domanda quella sull’adattabilità cinematografica delle opere di Tolkien…
Temo di non avere la più pallida idea di una risposta. Ma so per certo che esistono alcuni temi cruciali, narrativi in senso lato, con i quali tanto il cinema quanto la letteratura si confrontano, pur con le rispettive peculiarità.
Per me la differenza tra Tolkien e Jackson non è quella tra letteratura e cinema. E’ quella tra Sergio Leone e John Ford. O tra Mo Yan e Stephen King.
Ancora sulla sciatteria degli editori (e curatori) italiani di Tolkien e i “maltrattamenti” nei suoi confronti:
http://www.jrrtolkien.it/2013/01/24/mappe-rune-ed-editori-ecco-lo-hobbit-massacrato/
Da notare che si sta parlando di un autore che riteneva essenziale disegnare la mappa dello scenario di una vicenda prima di raccontarla…
Al volo, tra casa e ospedale, alcune segnalazioni:
Questo è l’audio della conferenza su Lo Hobbit (WM4, Claudio Testi, Roberto Arduini, Gianluca Comastri) alla multisala Victoria di Modena 17 dicembre 2012, nella quale si anticipavano alcune questioni affrontate in questo thread: http://www.youtube.com/watch?v=IZg8prryXdY
Questo è il video della conferenza di Tom Shippey “Lo Hobbit: dal film al libro”, Hotel Raffaello, Modena, 11 gennaio 2013: http://www.youtube.com/watch?v=_veTzL_z1zA
Il prossimo 19 febbraio, h. 21, sempre a Modena, nell’ambito del corso su Tolkien presso l’Istituto Filosofico di Studi Tomistici, via San Cataldo 97, Modena, terrò una lezione su “Tolkien: un fenomeno culturale” (l’iscrizione costa 10 euri: info@istitutotomistico.it). Per i noti motivi non ho ancora avuto tempo di preparare nulla, ma sono fiducioso…
Confesso. Non ho letto Tolkien, e quindi non capisco la passione che germina in voi. Né posso giudicarla. Però ho visto la trilogia al cinema e, non me ne vogliate, la mia reazione avrebbe potuto essere quella di Fantozzi davanti alla Corazzata… Posto che quello è un capolavoro (e magari anche questa trilogia), nessuno ha frainteso l’urlo di dolore del Fantozzi.
Io non ho reagito così ma semplicemente, per la prima (e la seconda e poi la terza) volta nella mia vita mi sono addormentato al cinema. Insomma: due palle così…
De gustibus non disputandum est.
Secondo me Peter Jackson non è un grande regista, e verrà ricordato più o meno solo per avere trasposto Tolkien al cinema. Di per sé è un’impresa nella quale nessun altro (tra i tanti che si erano fatti venire l’idea) era riuscito prima e che Tolkien stesso riteneva irrealizzabile. Il risultato poi si può discutere.
Riguardo ai romanzi di Tolkien, col tempo mi sono convinto che o ti acchiappano dall’inizio, dalla prima volta che ti immergi in quel mondo, insomma o scatta quello che l’autore stesso chiamava l’Incantesimo, altrimenti è molto difficile che in seguito possa appassionarti. Potrai al massimo arrivare ad apprezzarlo, ma non a fartelo piacere.
Condivido l’idea che Peter Jackson non sia un grande regista. Molto meno quella secondo cui sarebbe riuscito a trasporre il SdA sullo schermo. Ha fatto tre film con Frodo che parte dalla Contea e incontra Aragorn, e poi Elrond, e poi Galadriel… ma non credo che Tolkien si riferisse a questo quando parlava della difficoltà della trasposizione. Secondo me parlava della natura epica dell’opera. E qui Jackson non è che abbia fallito, a mio avviso non si è proprio posto quell’obiettivo: ha girato il SdA nel modo in cui il 90% degli autori e dei registi scrive e gira la fantasy: in base a criteri che non erano quelli di Tolkien. E magari l’ha fatto benissimo, nel suo genere può avere fatto un capolavoro. Ma la difficoltà non l’ha risolta, l’ha aggirata.
Preciso che la mia era una semplice constatazione materiale: Peter Jackson è riuscito in un’impresa che nessuno aveva portato a termine prima di lui. E non perché non ci avessero provato. Tra l’altro va detto che i tentativi precedenti erano ben più fuori fuoco del risultato ottenuto da Jackson (criticabile finché si vuole, sia chiaro).
Se ne può avere un assaggio leggendo la lettera 210 inviata al produttore J. Ackerman nel giugno del 1958, nella quale Tolkien fa le pulci alla sceneggiatura che gli era stata sottoposta (praticamente la massacra, e a buon diritto!).
Oppure si potrebbe pensare al generoso fallimento di Ralph Bakshi del 1978, che provava a supplire con grossolane tecniche sperimentali alla carenza tecnologica per riuscire a rendere gli affreschi corali e paesaggistici del SdA.
Il problema al fondo era questo, io credo: l’arretratezza tecnologica. Per il resto Tolkien non si aspettava granché dal cinema, chiedeva soltanto che si rispettasse l’intenzione e il senso del suo testo, non molto altro. Ma vedendo lo stato della tecnologia cinematografica della sua epoca non riusciva a immaginare come si potessero rendere i paesaggi, le scene di massa, i mostri e i popoli, della Terra di Mezzo.
E’ la stessa obiezione che Stanley Kubrick oppose ai Beatles quando lo contattarono per proporgli di fare il film dal SdA. Lo stesso John Boorman, un altro che si trastullò con l’idea di farne un film, alla fine ripiegò sul più maneggevole ciclo arturiano e fece “Excalibur”.
Il punto è che soltanto l’avvento delle tecnologie digitali ha reso possibile una trasposizione dalla letteratura fantastica al cinema che avesse un minimo di verosimiglianza visiva rispetto alla pagina scritta.
Tuttavia mi chiedo se questo basti a spiegare il fatto che Jackson è riuscito là dove altri avevano fallito. Io non ne sono convinto. Come ho scritto, serviva un fan, ma non solo: serviva un fan in grado di coinvolgere altri fan.
Lynette Porter, nel suo “The Hobbits: the many lives of Bilbo, Frodo, Sam, Merry & Pippin”, (2012), sostiene che oltre allo sviluppo delle tecnologie digitali, occorreva soprattutto tempo. Tempo per dedicarsi a un progetto cinematografico che ha richiesto anni di lavoro a una miriade di persone. Affinché questo fosse possibile era necessario che i libri di Tolkien fossero diventati davvero mainstream; ovvero che gli adolescenti che se ne erano appassionati a partire dagli anni Cinquanta-Sessanta, fossero diventati adulti, avessero raggiunto ruoli professionali, competenze, potere decisionale e potessero quindi immaginare di trasporre sul grande schermo la Terra di Mezzo (non solo la storia avvincente narrata da Tolkien, ma la visualizzazione del suo mondo). Ecco perché è stato possibile trovare le risorse e le modalità per fare un film dal SdA.
E’ una tesi che trovo affascinante. E se uno ascolta le interviste nei contenuti extra dei dvd del SdA ha precisamente questa impressione: i nerd “tolkieniani” hanno realizzato l’impresa, guidati dal più nerd di tutti.
Dopodiché, ripeto, sul merito (e demerito) della resa narrativa sul grande schermo possiamo discutere a lungo, ma non sulla sua concretezza.
Conosco la lettera 210 e l’opera di Bakshi, e condivido pienamente il discorso sulla tecnologia. Interessante anche l’ipotesi sul perché il film sia stato fatto soltanto adesso. Resto comunque del parere che, fatto così, sia più imparentato con la fantasy nata (meglio, rivitalizzata) sull’onda del successo di Tolkien che con Tolkien stesso.
Però è vero, la storia non si fa con i “se”, e concretamente Jackson ha fatto quei tre film mentre altri registi avevano rifiutato la proposta. E forse, oggi che la tecnologia lo rende possibile, molti registi migliori di J. non hanno nemmeno tentato perché non amano Tolkien quanto lo ama lui. Per me questo è un peccato, per altri un bene. De gustibus, appunto…
Sicuramente lo sapete già, ma ho scoperto l’esistenza di “Bilbo The Hobbit” film d’animazione del 77, con Gandalf doppiato nientemeno che da John Huston e Elrond da Otto Preminger…
Come ti capisco… io amo Tolkien, ma quello che descrivi tu l’ho vissuto mille volte. Ho mollato dopo 100 pagine Il ritratto di Dorian Gray perché mi stava davvero irritando il nulla assoluto che mi trasmetteva, mi sono addormentato guardando 8 1/2 di Fellini (non altri suoi film), e potrei continuare a lungo. Come ti capisco… come ti capisco! Detto questo, se ti sei addormentato con Peter Jacson, non è scontato che il libro ti faccia lo stesso effetto.