Aspettando la Rachele: il caso Bartleby o dell’irriducibile pazienza
«A momenti ho l’impressione che Bartleby annunci una grande e improvvisa deperibilità – qualcosa che sconvolgerà definitivamente le vecchie economie statiche, recherà l’incertezza in ogni situazione familiare, o locale, o di gruppo, o di affiliazione. Del resto lui sembra ormai lontano anni luce da situazioni del genere – presenza dispersa ‘come un relitto in mezzo all’oceano Atlantico’ – perché non è più il figlio smarrito da riscattare con la carità e qualche buona intenzione, ma l’orfano assoluto su cui carità e buone intenzioni non hanno presa».
Gianni Celati, introduzione a Bartleby lo scrivano di H. Melville
Tutti in città continuano a parlare di Bartleby. Viene da chiedersi il perché di questa attenzione per una realtà tutto sommato di piccole dimensioni e con la quale sembra che nessuno sia intenzionato a interloquire davvero. Per altro, molti commentatori prendono la parola solo per dire che quell’esperienza è ampiamente sopravvalutata. Nondimeno sono due anni che le istituzioni cittadine continuano a rimpallarsi questa patata bollente: l’Università la passa all’assessore, che la passa a un altro assessore che la ripassa all’Università, etc.; con la Questura in mezzo a seguire questo ballo della scopa, per poi murare, affibbiare qualche manganellata, raccogliere denunce.
Nel mezzo di questa tempesta in un bicchiere d’acqua, galleggia Bartleby, «l’orfano assoluto», come dice Gianni Celati parlando del personaggio letterario di Melville.
Quest’orfano l’Università proprio non lo vuole. Altrimenti non l’avrebbe sfrattato da via San Petronio Vecchio, né gli avrebbe proposto di trasferirsi in un capannone all’estrema periferia della città, in una zona industriale semidisabitata.
Neanche il Comune lo vuole. Altrimenti non solo non avrebbe assecondato la suddetta proposta, ma soprattutto avrebbe dato seguito alla precedente soluzione trovata dall’assessore alla cultura, che aveva proposto a Bartleby uno spazio seminterrato in via S. Felice e aveva già incassato l’assenso del collettivo.
Tanto meno lo vuole il partito di maggioranza. Altrimenti alcuni suoi esponenti non avrebbero ostacolato la soluzione dell’assessore alla cultura e fatto saltare l’accordo di cui sopra.
Pare che perfino i quotidiani locali avversino Bartleby. Altrimenti non si spiegherebbe la gara di provocazione in cui si sono lanciati: si va dall’inviata all’assemblea cittadina che invece di parlare dell’assemblea parla delle scritte sui muri, al commentatore che insulta e offende perfino il povero Herman Melville (colpevole di avere scritto un racconto il cui protagonista sarebbe un “idiota” e un “prepotente”); dalle frecciatine lanciate sulle rubrichette locali, ai raccontini vagamente satirici; per concludere con i titoloni sugli slogan “sanguinari” di Bartleby (perché chiamano in causa il conte Dracula!).
La giunta comunale pure non scherza quanto a paroloni che meriterebbero più giusta causa o anche solo un minimo senso delle proporzioni. Il coordinatore di giunta ha definito “gravissimo” che alcuni consiglieri comunali di SEL abbiano partecipato al corteo dopo lo sgombero di Bartleby, sfociato nell’occupazione temporanea di uno stabile chiuso da sei anni. Occupazione che ha prodotto tre giorni di assemblee e concerti, prima che le forze dell’ordine lo risigillassero senza colpo ferire. Viene da dire che se le cose gravissime sono queste, si dev’essere visto proprio un bel mondo, ma data l’età anagrafica e la provenienza di chi ha pronunciato la reprimenda, forse c’è anche poco da meravigliarsi. Per altro gli stessi consiglieri di SEL, messi sotto accusa per aver sfilato con i facinorosissimi melvilliani, hanno fatto retromarcia e qualcuno è perfino arrivato a dire che era là in qualità di “osservatore”. Come se la zona universitaria di Bologna fosse la Bosnia-Herzegovina.
I giornali hanno poi lanciato la notizia che al Rettore è stata assegnata una scorta personale dalla Digos in seguito allo sgombero di Bartleby. Al di là del colpo letale al senso del ridicolo che il fatto stesso costituisce, è da notare che in questo modo sono stati proditoriamente collegati tra loro due episodi che invece non lo sono. Il provvedimento risale infatti ai primi giorni dell’anno, quando Bartleby non era ancora stato sgomberato, ma si è voluto mettergli in carico anche questo, così, tanto per rincarare la dose.
Sulla stessa linea di confine tra il grottesco e il paradossale si colloca la lettera che una cinquantina di docenti dell’ateneo ha ritenuto di rendere pubblica per stringersi intorno al Magnifico, “aggredito” dai “toni violenti” del collettivo Bartleby in occasione dello sgombero. Per non perdere l’occasione di mostrare la propria incondizionata solerzia e devozione, questi professori non si sono fatti remore di evocare un improbabile scenario di guerra e violenza che i melvilliani sarebbero pronti a scatenare nell’università. Probabilmente si riferivano a uno degli slogan lanciati dal collettivo: «Dissotterriamo le asce di guerra», accompagnato da un libro-scudo del book bloc che richiama la copertina di un romanzo multiautore e che è stato portato in rettorato. Chiunque abbia letto il romanzo sa che si tratta di un’immagine figurata e che le “asce di guerra” da dissotterrare altro non sono che le storie sepolte da riscoprire e usare come armi. Leggere un romanzo però richiede tempo, mentre scrivere una castroneria in una lettera è questione di un attimo.
Una delle accuse più in voga tra i detrattori di Bartleby è quella di aspirare con italica furberia a un’assegnazione preferenziale, scavalcando le tante associazioni in attesa di un bando per gli spazi comunali. Difficile dire se il ribaltamento retorico della realtà rientri tra gli aspetti deteriori del carattere nazionale, ma senz’altro questo ne è un fulgido esempio. I castigatori dei costumi nostrani dimenticano infatti che prima che fosse chiuso con la forza, Bartleby uno spazio l’aveva. A dirla tutta, prima che la convenzione con l’Università scadesse, non era nemmeno una realtà “occupante”. Il progetto Bartleby non è una lista di desiderata, vanta un curriculum pluriennale, e c’è una schiera di scrittori, artisti, docenti, ricercatori, musicisti, editori, che può testimoniarlo, per essere transitata da lì insieme a migliaia di altre persone. La domanda sensata dunque non è perché Bartleby non ha partecipato a un bando d’assegnazione, ma perché si è ritenuto di sbattere in mezzo alla strada un’esperienza che l’assegnazione già ce l’aveva e la metteva a frutto. La domanda da porsi è perché le istituzioni bolognesi hanno deciso che quel progetto deve morire. Ma ci si potrebbe anche chiedere come è possibile riempirsi la bocca di parole inneggianti alla valorizzazione dell’esistente e all’autorganizzazione dal basso fin dalla campagna elettorale, e poi negare la possibilità di sopravvivenza a chi soddisfa proprio queste condizioni.
Al momento Bartleby si è ridotto a portare avanti le proprie attività in un’aula occupata della facoltà di Lettere e Filosofia. E già riceve minacce di sgombero. Cosa si vorrebbe fare? Mandare la polizia in università come nel ’68 per far sloggiare una comunità di studenti che organizza dei seminari, cioè che studia? O non si potrebbe piuttosto pensare che la soluzione più sensata è quella di dare a questa esperienza uno spazio decente dove proseguire le proprie attività aperte a tutti?
La risposta sembrerebbe davvero semplice. E in effetti lo è, ma pare che a Bologna si stia vivendo una specie di allucinazione collettiva.
Torniamo così alla domanda iniziale: perché tutto questo chiasso?
Forse i motivi del bad trip vanno ricercati nel fatto che il “caso Bartleby” rimanda da un lato alla storia di questa città, dall’altro alle scelte per il suo futuro.
Chi detiene ruoli nelle istituzioni cittadine finge di non sapere che, fin dagli anni Settanta, proprio da un certo milieu urbano, cioè dall’incontro tra giovani bolognesi e studenti “fuorisede”, è scaturita gran parte delle esperienze innovative e culturalmente interessanti. Radio libere, riviste autoprodotte, collettivi studenteschi, associazioni gay-lesbo, editoria indipendente, fumettisti, scrittori, dj, artisti, teatranti, rock band, posse, muralisti, operatori delle reti telematiche, e chi più ne ha più ne metta. Il sospetto è che certe esperienze attuali debbano essere esorcizzate perché sono lo spettro della Bologna che fu, come nel celebre Canto di Natale di Dickens. Nella generale e progressiva provincializzazione di Bologna, ciò che Bartleby si ritrova suo malgrado a rappresentare è decisamente fuori misura rispetto ai meriti o demeriti effettivi di quell’esperienza. Il piano metaforico è assai più ampio delle dimensioni o aspirazioni reali di ogni parte in causa.
Eppure, proprio per questo, la querelle è dirimente. Si tratta di capire se – fatto salvo l’attrito fisiologico con lo status quo – una certa “scena” bolognese, che in altre decadi ha contribuito a fare di questa città un luogo particolare e interessante, potrà continuare ad avere spazio o se invece sarà cancellata, espulsa dal corpo di Bologna. Inutile dire che una parte, piccola o grande, dei destini della città dipende da questo. Cioè dal fatto che si pensi lo spazio urbano come un territorio uniforme e pacificato, in cui ogni conflitto, contraddizione, attrito, viene negato, ricondotto dentro l’alveo del lecito o non lecito, secondo parametri astorici e apolitici. Questa idea della società, che ultimamente traspare dalle parole degli esponenti della maggioranza, della giunta, del sindaco stesso, fa venire in mente certi romanzi di George Orwell o di Aldous Huxley, piuttosto che i racconti di Dickens o Melville. E’ un’idea che, proprio per la sua astrattezza e astoricità, non solo è profondamente di destra (cioè vantaggiosa per i poteri politico-economici costituiti), ma soprattutto finisce per negare alla base – ovvero nascondere – il piano delle scelte politiche.
La storia però è una severa maestra e torna sempre a mordere le chiappe del governante che si pretende ecumenico, tecnico, super partes (come dimostrano anche le recenti vicende nazionali).
In città esistono svariati spazi in disuso di proprietà pubblica e la decisione su cosa farne non potrà che essere politica. In tempi di crisi, con pochi soldi e le aste che vanno deserte, con gli speculatori edilizi in attesa della svendita a prezzi ribassati, l’alternativa può soltanto essere lanciare un concorso di idee, valorizzare il sapere e le competenze diffuse, le reti di relazioni, le esperienze di attivismo dal basso, l’autorganizzazione. Qualcosa che il Comune, messo sotto pressione, annuncia di voler fare a partire dalla mappatura degli spazi dismessi di proprietà pubblica, ma di cui dovrà anche dimostrarsi all’altezza, politicamente parlando, appunto. Perché l’esigenza di nuovi spazi in città non interessa certo soltanto le produzioni culturali, ma pertiene soprattutto al dissesto sociale e all’incalzare dei bisogni primari, mano a mano che la Grande Depressione dilaga.
Questa ultima considerazione ci porta a un terzo aspetto che spinge il caso Bartleby oltre i limiti del problema specifico di un collettivo o di una comunità giovanile. E’ il fattore panico. L’evocazione della violenza di strada a cui abbiamo assistito in questi giorni da parte di giornali e istituzioni – a fronte di qualche manganellata in via San Petronio Vecchio, un paio di slogan, e un’occupazione temporanea, quasi dimostrativa – farebbe solo ridere i polli, se non rivelasse un timore inconscio in chi regge le sorti politico-economiche della città. L’aumento della precarietà esistenziale, della povertà, del disagio, di pari passo all’estendersi della crisi economica, è la grande incognita che incombe sui destini politici di molti. Si evoca ciò che si teme, come una minaccia annidata nelle feroci dinamiche sociali in corso, alle quali si sa di non avere risposte da dare. In un certo senso quasi ci si meraviglia che ancora non ci sia una canea urlante con i forconi sotto i palazzi del potere. Si resta in attesa, sbirciando da dietro le tende, e appena vola uno slogan, o un pomodoro, si grida alla violenza. Che fa rima con cattiva coscienza.
Lo scrivano protagonista di un racconto che è un vero e proprio gioiello letterario, è colui che caparbiamente rimane, che non se ne va, nonostante tutto, e che afferma la sua presenza non già per imposizione, ma per sottrazione al comando, alla routine, ai ritmi della vita economica, e lo fa con un condizionale di cortesia: “Preferirei di no”. In questo modo ci mette di fronte all’irriducibilità del reale ai parametri rassicuranti in cui vorremmo racchiuderlo.
«Più di qualsiasi altro personaggio apparso all’orizzonte dei racconti moderni, Bartleby ci fa sentire il carattere incondizionato d’uno stato di presenza», scrive Gianni Celati. Heretostay dicono quelli con la stessa stolida pazienza, mentre giornali, politici, partiti, baroni universitari, abbaiano, sfottono, insultano, minacciano, e intanto dispensano lezioni di bon ton, correttezza e democrazia.
«Il secondo giorno una vela si avvicinò, si avvicinò di più, e finalmente mi raccolse. Era la ‘Rachele’ che incrociava fuori rotta, la quale, ritornando sui suoi passi alla ricerca di un figlio perduto, trovò soltanto un altro orfano».
H. Melville, Moby Dick
Wu Ming, Bologna, febbraio 2013
Fattore panico: questo intervento di Danilo Arona su carmillaonline di qualche giorno fa mi sembra quanto meno consonante.
“Panico, arrivano i marziani! (1/2)” http://www.carmillaonline.com/archives/2013/02/004614.html#004614
Oramai la questione della spoliazione di quel “modo di fare bolognese”, della libera espressione, della collettivizzazione delle esperienze può annoverarsi come un movimento culturale e, perchè no, come un movimento letterario dato che la cronaca del “provincialismo bolognese” può riassumersi nella frase più mainstream che si sente in città ultimamente: “non c’è un cazzo da fare”. Non è per pessimismo o rassegnazione, sia chiaro. Ma qui c’è qualcuno che ha tutto l’interesse che i giovani si annoino.
A tal proposito, dice che gira un notiziario sugli efferati fatti di Bologna, con un’intervista al pericolosissimo Dracula, anima del movimento e cattivo maestro…
http://www.youtube.com/watch?v=Yb0PMQZVxAk
:)
A proposito del fattore panico: negli ambienti della Cultura Bolognese “alta” – cioè nelle fondazioni – può capitare di sentirsi dire che non ci sarebbe proprio nulla di strano se una folla inferocita facesse irruzione nei palazzi storici in cui hanno le sedi e le saccheggiasse.
L’impressione è che anche gli alti papaveri cittadini (magari non proprio quelli intoccabili, ma diciamo quelli appena sotto) si sentano assai precari. Il sintema che ha garantito l’opulenza di una parte di questa città sta andando in pezzi. E sta andando in pezzi proprio perché loro avevano il bisogno di garantire la loro opulenza a qualunque costo. Mano a mano che si va avanti nella crisi le loro mani si fanno sempre più sporche. Il centro di Bologna è una torta di proprietà immobiliari da spartirsi, proprietà che possono aumentare di valore solo se nessuno le disturba, mentre guarda caso gli affitti rimangono alle stelle e gli sfratti sono migliaia. L’università, con le iscrizioni che calano del 20% (sono usciti i dati qualche giorno fa), fa la sua parte. Come tutte le bolle anche questa scoppierà, ma secondo me molti, lì dentro, hanno seriamente paura di non arrivarci nemmeno a quella scadenza.
Dispiace vedere tra i docenti “preoccupati” firmatari della lettera il nome di Maurizio Sobrero.
è stato lui il primo da cui ho sentito parlare di Luther Blisset e Wu Ming.
Prima lezione del corso di “Gestione dell’Innovazione”: citò il vostro caso e lo descrisse per far capire all’aula che “innovazione” non significa solo “progresso tecnologico”. Anche la vostra scrittura collettiva, ci disse, era un’innovazione nell’ambito della letteratura.
Pochi giorni dopo ero in libreria ad acquistare “Q”.
Inoltre dedicò una lezione alla visione del documentario “Revolution OS” facendomi scoprire la figura rivoluzionaria di Richard Stallman, il concetto di Copyleft e di FreeSoftware.
E credetemi, non è abitudine trasmettere certe filosofie agli studenti in uno corso di laurea di Ingegneria Gestionale.
(Qui sarebbero da aprire mille parentesi su come le facoltà di Ingegneria – ho studiato anche a La Sapienza- siano diventate un servizio di pubblicità e finanziamento in mano ai privati. Ci sono delle realtà agghiaccianti a riguardo)
Lo stesso dispiacere l’ho provato leggendo il nome di Andrea Segrè che con Last Minute Market ha creato una bellissima realtà ed è stato uno dei pionieri della lotta allo spreco alimentare.
Forse ho ingenuamente pensato che le coscienze di questi due professori, espresse nei loro progetti universitari, si riflettessero anche fuori dall’accademia e, nello specifico, sulla questione Bartleby.
Mi deve essere sfuggito qualcosa.
(Spero di non essere andato OT.)
Gira il cazzo anche vedere nella lista il nome di Marco Antonio Bazzocchi che da Bartleby c’è passato e che ha inserito nei suoi corsi il memorandum sul New Italian Epic. Ma qui purtroppo non si tratta di stare con o contro Wu Ming, con o contro Bartleby. Ai firmatari della lettera possono piacere sia i libri di Wu Ming che le attività culturali promosse da Bartleby, ciò che non tollerano è la condivisione di uno spazio materiale e immateriale che mette in discussione le loro posizioni, il loro sistema educativo e il loro paternalismo da quattro soldi che si traduce in lezioni frontali in cui il professore vate guida alla luce lo studente acritico e silenzioso.
Qui la lettera dai toni montiani: «Lavorare per l’Università, del resto, significa lavorare per tutti i suoi studenti. Proprio in tempi di gravi difficoltà economiche, chi pretende per sé trattamenti eccezionali non mostra di aver a cuore la causa dei giovani e degli studenti. Ora più che mai ogni eccesso di protagonismo, ogni rifiuto opposto al dialogo e alle alternative più ragionevoli, non può che nuocere» http://www.inchiestaonline.it/dossier/bartleby-a-bologna/lettera-docenti-alma-mater-preoccupati-per-le-parole-di-bartleby/
Non tralascerei il fatto che, ovviamente, l’università è anche un sistema gerarchico e di potere. Da questo punto di vista la bravura o l’intelligenza del tal professore c’entrano poco. Per quei docenti firmare quella lettera contro Bartleby non significa solo attaccare chi contesta una certa concezione dell’università, ma prima di tutto testimoniare la propria lealtà al vertice (che magari potrebbe anche averla richiesta, dopo la lettera di solidarietà a Bartleby di altri docenti). E più i contenuti della lettera sono grotteschi e meschini, più cioè la testimonianza è gratuita, più il legame gerarchico feudale risulta rinsaldato. Se sei disposto a testimoniare che gli asini volano, sei davvero un vassallo fidato e qualcuno saprà tenerne conto.
Esattamente. Non credo ci siano dubbi che quella lettera sia una risposta alla solidarietà mostrata da alcuni docenti alla causa Bartleby. Il riferimento è palese:
«ci auguriamo che toni e parole simili siano meglio meditati, e che non trovino ascolto né solidarietà presso chi lavora responsabilmente nell’Università e per l’Università»
Ed è condito da una sottile minaccia a quei docenti che hanno avuto un abbaglio schierandosi dalla parte sbagliata ma sono ancora in tempo a tornare nelle file amiche. Non a caso lavorano *ancora* «responsabilmente nell’Università e *per* l’Università», ma domani?
Sono d’accordo. Infatti il mio dispiacere nasce dalla delusione nel vedere quei professori cedere alla logica di acritica fedeltà al vertice.
C’è in rete la lettera dei docenti solidali con Bartleby?
Il primo link è quello alla lettera dei Docenti Preoccupati, scritta prima dello sgombero. Gli altri due sono interventi di docenti singoli, entrambi molto belli:
http://www.inchiestaonline.it/dossier/bartleby-a-bologna/docenti-preoccupati-bologna-quale-futuro-per-bartleby/
http://www.inchiestaonline.it/dossier/bartleby-a-bologna/bruno-giorgini-siamo-tutti-bartleby/
http://www.inchiestaonline.it/dossier/bartleby-a-bologna/donata-meneghelli/
Gira il cazzo vedere il tale esperto di televisione (degli altrui libri sulla televisione, più che altro), che in anni forse lontani ironizzava a lezione sulla moda del footing, ipotizzando che la diffusione di questi movimenti rilassati (e qui mimava il podista) servisse a prevenire altri movimenti meno tranquillizzanti (e qui mimava il lancio a parabola di un oggetto con movimento rotatorio del braccio da sotto-retro la spalla a sopra- in avanti). E non solo lui.
Nell’affrettarsi a compiacere l’Autorità questi portaborse di sé stessi ricordano il re di cuori in Alice nel paese delle meraviglie, quell’insignificante figurina che esiste solo per compiacere la regina di cuori. Cuori di cartone, del resto.
ecco la lettera: http://bartleby.info/?p=3273
questa la seconda lettera, in risposta ai 52 docenti: http://bartleby.info/?p=3356
[…] post è stato pubblicato su Giap della Wu Ming Foundation l’8 febbraio 2013 […]
Cari Wu ming, di questa vicenda mi colpisce soprattutto l’aspetto politico e credo abbiate centrato in pieno il tema quando scrivete di chi pensa alla città come ad un “contesto inerme e pacificato”. Si tratta proprio di questa radicale incapacità di vedere lo spazio politico oltre i confini tradizionali, avere un ‘idea di cultura e di istituzione talmente gerarchica e formata (ovvero dedita alla forma) da non poter cogliere nessuna metamorfosi e nessuna trasformazione. Viene in mente Ghelen e la sua idea, reazionaria, che fa delle istituzioni umane una forma di esonero, un esonero dalla fatica del confronto, del conflitto, dell’attrito, un esonero stesso da un’idea di città libera, interessante e ibrida quale Bologna e stata.
Ciao a tutt*, vi seguo da parecchio ma non ho mai veramente avuto il fegato di lanciarmi nelle interessantissime discussioni che di solito leggo. Ma in questo post si discute, fra le varie cose, di argomenti su cui mi trovo a ragionare parecchio ultimamente. Provo a dare il mio contributo a partire da questa frase: “Cioè dal fatto che si pensi lo spazio urbano come un territorio uniforme e pacificato, in cui ogni conflitto, contraddizione, attrito, viene negato, ricondotto dentro l’alveo del lecito o non lecito, secondo parametri astorici e apolitici.”
Io da qualche anno vivo e studio ad Amsterdam, in questa specie di paradiso dello stato sociale e delle istituzioni “amiche”. Premetto che per diversi anni ho studiato e fatto politica alla Sapienza, dall’Onda in poi. Lo dico per dare un’idea del punto di vista già abbastanza “politicizzato”, o comunque in qualche modo “critico”, col quale mi sono trovato ad osservare questa società. Quando mi sono trovato qui ho potuto cogliere le enormi differenze che ci sono rispetto alla questione del diritto allo studio, dei servizi, dei trasporti e della fruizione della cultura per i giovani, ma anche le similitudini, per esempio nel caso della speculazione nel mercato immobiliare, per non parlare del grado di avanzamento raggiunto qui dal processo di Bologna e il conseguente livello di (im)preparazione di molt* mie* conoscenti. Gran parte delle persone della mia età, in Italia, vedono il vivere qui come il vivere in una utopia, in cui i problemi che lo studente medio si trova davanti sono risolti, ci sono borse di studio per tutt*, si trova lavoro con contratto, la segreteria risponde alle mail nel giro di mezz’ora, ci sono assistenti e attrezzature e laboratori a sufficienza e così via. Allora perché scrivere questo commento? Molto spesso, anche in questo momento, faccio fatica a spiegare perché nutro delle forti criticità nei confronti del contesto in cui mi trovo, quali sono i limiti di questo sistema che ha tutte le carte in regola per essere ciò a cui puntare nel darsi degli obbiettivi per i vari movimenti, collettivi e organizzazioni studentesche. Amsterdam, l’Olanda, a dispetto dell’idea di luogo libero e aperto che se ne ha dal di fuori, è un contesto fortemente pacificato, sopito, in cui le tensioni sociali vengono ammortizzate da un sistema di welfare che funziona molto bene e che viene visto come la panacea di tutti i mali dagli/lle olandesi; le persone nutrono in esso una fiducia sfrenata al punto da non rendersi conto del contesto globale in cui sono immersi, e da accogliere con incredulità i tagli al budget per la cultura e l’offensiva contro gli squat del 2010, o derubricare le decine di richiedenti asilo che hanno occupato una chiesa abbandonata nel mio quartiere, qualche mese fa, a una notizia secondaria di cui scordarsi presto, perché tanto “ci penserà lo stato, ci sono i servizi sociali”, e così via, e non a un esempio di come il Potere si pone nei confronti di situazioni “al di fuori” dagli schemi, siano essi occupazioni anarchiche o migranti somali senza un posto dove stare. Inutile dire che, a quanto pare, quasi nessun* dei/lle occupanti otterrà il visto.
Ho provato, un paio di anni fa, ad avvicinarmi alla politica universitaria olandese, e quello a cui mi sono trovato di fronte è un quadro desolante fatto di sindacati studenteschi e sezioni giovanili di partito che organizzano manifestazioni in cui, dal palco, i discorsi di politici sono intervallati da stacchetti sulle note di Britney Spears e brani di musica classica. Autorganizzazione praticamente zero, conflittualità neanche a parlarne. D’altronde, –domanda retorica– quando l’università ti mette a disposizione delle aule in cui riunirti e discutere, studiare e confrontarti, che bisogno hai di uno spazio occupato? Forse non ho saputo muovermi bene, fatto sta che profondamente deluso e impotente, complice anche il fatto che non studio all’università ma nel contesto di un’accademia d’arte abbastanza avulsa dall’ambiente studentesco classico, ho lasciato perdere. Quali che siano le ragioni, per quello che leggo/senti/vedo da qui è evidente che questo modello fa molta gola a chi oggi gestisce o si candida a gestire le università *nelle* città in Italia, e bisogna investire molte energie nel mantenere quella agibilità e quello standard di pratiche ed elaborazioni politico culturali sempre più sotto attacco, ma non così da buttare, quando viste dal di fuori,come nel mio caso.
Insomma, in un contesto in cui ogni aspetto della società è limato, edulcorato, pre-organizzato in modo tale da venire incontro ad ogni bisogno dello studente, del lavoratore, dell’impiegato, dell’acquirente, del viaggiatore, in cui se le cose sono così è perché qualcuno ha già provveduto ad aggiustarle nel miglior modo possibile, ci si può rendere conto di quanto siano essenziali per una società degli spazi e dei momenti conflittuali altri rispetto all’agenda politico/culturale che viene proposta dalle istituzioni cittadine e nazionali, indipendentemente da quanto possano essere avanzate, organizzate, finanziate e plurali. Ed è per questo che scrivo questo post e mi interrogo sul come dare una forma comprensibile a queste impressioni sparse. Perché poi anche qui, nel paese del Truman Show, la repressione veste casco e manganello, e non si fa scrupolo di mandare la cavalleria alla carica (la polizia fa grande uso dei reparti a cavallo per la gestione dell’ordine pubblico, per così dire) contro chi si pone di traverso rispetto a un potere che ha gioco molto facile nell’imporre le proprie politiche in materia di gestione della città e della cultura. Per trasformare, poi, il centro della città in un parco divertimenti per adulti, senza un’anima sua –se si escludono i coffee shop e le prostitute in vetrina– e le solite strade dello shopping, letteralmente uguali in ogni città. Plastic life.
Riassumendo queste righe confuse che ho voluto argomentare si potrebbe dire che lo spettro che vorrei scongiurare, e che probabilmente mi porterà a tornare a vivere in Italia –praticamente un suicidio, ora come ora–, e che che vedo davanti a me quando esco di casa è quello di una società in cui hai la possibilità di fare tutto, se ti muovi all’interno di un certo tracciato; in cui ti viene dato credito se ti rifai a una delle molteplici possibilità che ti vengono offerte; in cui puoi vivere comodamente all’interno dello spazio che è stato predisposto per te. Ecco, in questo caso quello spazio è grande, è comodo, è bello, è sicuro… ma…
ps. nota simpatico/paradigmatica: l’altro giorno sono andato a vedere l’amichevole Olanda-Italia allo stadio. Avevo a casa una trombetta ad aria compressa, e ho pensato che poteva essere divertente portarla per farci due risate con i miei amici. Dopo l’inno dell’Italia, nel casino generale dei 60.000 presenti ho dato fiato alla tromba. Subito mi si è avvicinato lo steward della tribuna che con un sorriso in volto mi ha sequestrato la bomboletta perché “all’interno dello stadio è illegale”. Immagino che avrei potuto disturbare gli altri spettatori. Chi ha orecchie per intendere intenda ;)
È interessante notare come le politiche di pacificazione del territorio urbano con intensità e strumenti differenti si propaghino a livello globale. Non è sicuramente un fenomeno nuovo e non stiamo scoprendo l’acqua calda ma forse è bene riflettere su una pratica estesa e globalmente condivisa dai centri di potere.
Come successo a Omnifagos la frase che più mi ha colpito alla prima lettura del post è stata quella sulla pacificazione, ma ho esitato un intervento temendo di andare OT.
Non ho potuto non pensare immediatamente a Rio de Janeiro – città in cui ho vissuto – e in cui l’abuso della parola “pacificazione” puzza persino al più pacifista dei pacificatori. Lì – dove il conflitto e la contraddizione sono lampanti e con-fusi morfologicamente su tutto il territorio urbano e lo stato sociale semplicemente in molte aree non esiste – a differenza di Amsterdam o Bologna ci sono i reparti speciali, l’esercito, i carri armati e il potere miete vittime quotidianamente. Ma se gli strumenti repressivi cambiano non mutano gli obiettivi della repressione che rispondono alla legge suprema del capitalismo globale: dove non c’è conflittualità prospera l’interesse economico del potere; e in prospettiva ridotta dove i docenti-vassalli calano la testa di fronte al capo prospera l’interesse personale che di lì a poco si tradurrà in interesse economico.
Il Brasile e Rio de Janeiro non a caso nel giro di tre anni ospiteranno le più grandi manifestazioni sportive mondiali che si porteranno dietro migliaia di milioni di danari (che non assomiglieranno neanche un po’ a pezzi stropicciati e colorati da 2 o 5 reais): FIFA Confederations Cup (giugno 2013), Mondiali di calcio (giungo 2014) e Olimpiadi (giugno 2016) che stanno già contribuendo a rimpinguare le tasche di pochi e demolire senza autorizzazione le case e le vite di molti. Espellere la povertà e il conflitto dal centro cittadino è l’obiettivo dichiarato dal 2008 in avanti dalle autorità brasiliane e non a caso il lemma imperante è proprio «pacificazione».