Qualche giorno fa abbiamo segnalato nei commenti e su Twitter una riflessione intitolata “Silenzi, apartheid democratico e futuro delle lotte”. Ci sono sembrate parole importanti perché mettono in atto, su larga scala, un ribaltamento narrativo irrinunciabile: guardare al “terremoto politico italiano” con gli occhi di chi non ha potuto votare, e vedere di nascosto l’effetto che fa.
Prima delle elezioni, discutendo con Giuliano Santoro del suo libro Un Grillo Qualunque, WM2 ha dichiarato che c’è almeno una categoria di persone, per le quali l’affermazione del M5S non avrebbe certo portato un cambiamento positivo: i migranti.
Martedì scorso, due articoli sul Manifesto di Raffaele K. Salinari (sull’espulsione di minori stranieri non accompagnati) e di Alessandro Dal Lago (sulla ripresa degli sbarchi a Lampedusa) sottolineavano l’urgenza di un ribaltamento narrativo del tutto analogo.
Ci siamo detti allora che era giunto il momento di mettere insieme ricorrenze, episodi e rimandi per provare a raccontare altrimenti, da una prospettiva migrante, questa presunta “nuova stagione” della politica italiana.
Lo abbiamo fatto per il nostro spazio sul sito di Internazionale. Il risultato lo trovate qui.
Primavera migrante. CARA, ENA, Dublino II e gli altri tabù di una stagione che non arriva
«Prima i poveri!» La resistenza dell'#ExTelecom e la gestione del potere a #Bologna (e in Italia)
Dalle stragi italiane in Etiopia alla strage di #Lampedusa: il ritorno del rimosso coloniale (un 3 di ottobre)
Lotta di classe, mormorò lo spettro. Una miniserie in due puntate / 2
15 maggio, più voce e nuove gambe per lo sciopero della #logistica
lo spazio politico che ha occupato il m5s era lo spazio nato dalle primavere milanesi e napoletane e dalla vittoria sui referendum sull’acqua e sul nucleare e pertanto andava occupato per impedire che prendesse una connotazione troppo radicale e di classe e noi come accade da decenni ce lo siamo fatti scippare con assoluta passività, ora che è ormai molto tardi non dobbbiamo però cedere del tutto e dobbiamo difendere metro per metro quanto rimane di questo spazio e l’arma principale che abbiamo è la politica sulla emigrazione e soprattutto secondo me sulla cittadinanza ai migranti nati in italia, le lotte alla logistica, il numero di migranti iscritti ai sindacati, la reazione che ci fu all’omicidio di abba dimostrano che l’elemento migrante non è rassegnato e demoralizzato come quello autoctono per vari motivi che andrebbero analizzati in dettaglio ma che lascio a chi più capace di me di farlo e che è l’unica leva che abbiamo per scardinare questo teatrino che ci circonda
micro contributo sulla presunta primavera napoletana.
De Magistris si è “venduto” un radicamento che di fatti non è mai esistito. il risultato positivo alle elezioni da sindaco è stato determinato, in buona parte, dalla disastrosa condotta del pd e di sel che prima hanno fatto le primarie, poi le hanno annullate per brogli e infine hanno candidato l’ex prefetto morcone (figura adattissima a perdere qualsiasi tipo di competizione elettorale).
sicuramente le persone (fuori dal gruppo strettissimo dei suoi) che si sono mosse intorno a de magistris durante la campagna per le comunali, alle politiche
si sono date da fare per il m5s.
voglia di rinnovamento? ricerca di spazi che l’egocentrico sindaco non concede?
non saprei
stava parlando di un clima che si era venuto a creare e che poteva evolvere in vari modi come tutto del resto in modo dialettico e non di de magistris o pisapia nel loro operato, resta il fatto che sicuramente meglio il de magistris che l’ex prefetto e meglio pisapia della moratti e di corato penso io o no?
scusa mi è partito l’invio prima di finire pertanto le risposte vanno lette prima quella sotto poi quella sopra, quindi sostanzialmente confermi quanto ho affermato io che lo spazio che si era aperto per vari motivi (crisi della sx radicale crisi economica fallimento ricette neoliberiste ecc.. ci sarebbe da analizzare )in quella fase e sappiamo che in politica non esistono spazi vuoti ma vengono subito occupati è stato occupato dai m5s in questo aiutati dai mass media che hanno parlato un giorno si e pure un altro di lui e del suo movimento
Ho letto ieri sera l’articolo su Internazionale e lo condivido in pieno. La politica sull’immigrazione continua ad avere una matrice razzista e non ha niente a che fare coi principi dell’internazionalismo che credo tutti noi giapster condividiamo. Volevo però fare un passetto verso un’altra direzione ancora.
In Italia manca anche una politica seria sull’emigrazione. Quante volte avete sentito giornalisti, politici e gente comune sbandierare lo slogan del “riportare a casa i cervelli in fuga”? Io troppe volte e ve lo dico, è una balla. Quando si emigra i motivi sono tanti, ma quello che ci si aspetta è non solo il trovare nel nuovo Paese delle condizioni migliori, ma anche il non sentirsi stranieri. Se io decido (come ho deciso) di lasciare l’Italia, non vado da un’altra parte (come sostengono leghisti e affini) per arricchire quel Paese a scapito dell’Italia.
Ci vado perché in linea di principio è indifferente lavorare qui o lì nel momento in cui il lavoro arricchisce tutti, senza distinzioni di nazionalità. Se capisci questo concetto hai capito anche l’immigrazione nel tuo Paese di nascita, perché l’immigrato non è più tale ma diventa un lavoratore, e soprattutto una persona, la sua posizione sulla cartina geografica non ha significato. Io non ho bisogno di tornare a casa, io ho bisogno di sentirmi a casa, ovunque decida di andare e so che questo è un sentimento condiviso se non da tutti certamente da molti.
Scusate se sono off topic.
si’, vabbè, tutto bello quello che dici, ma in europa e nordamerica vale per gli emigranti con tratti e nomi nettamente europei e/o che parlino bene la lingua del posto o almeno lo standardenglish, poi ovviamente che siano mediamente al riparo dalla miseria, e per la maggior parte in professioni benvenute nel paese di destinazione. ma questa è una minoranza, sarai d’accordo che è ai limiti dell’osceno comparare la situazione di expat abbastanza sciolti da avere pure la pretesa di ‘non sentirsi stranieri’ a quella di profughi da paesi di guerra o carestia (agricola o industriale che sia) e altri sbandati, e questo per quanto alcuni di loro come te possano averlo ‘scelto’.
se non conosci queste situazioni direttamente, secondo me i commenti di esa triumvirii e cayococo qua sotto te ne danno una buona idea. c’è una grossa differenza fra partire per un paese che scegli tu, in un momento ‘giusto’ dei tuoi studi o della tua carriera, e con cui il tuo paese ha varie convenzioni che ti permettono, magari con un po’ di sforzo, di trasferire la tua vita come la conosci in un contesto secondo te ‘migliore’, e invece partire allo sbaraglio, in fuga, minacciati a ogni momento di cattura, per arrivare in un posto qualsiasi che sia ‘sicuro’, dove poi pero’ vieni chiuso in una prigione o nell’equivalente approvato dai servizi sociali di un ghetto; o peggio ancora, a volte, tollerato, magari anche per due o tre generazioni, e poi deportato quando la convenienza di questa o quella fazione richiede certe ‘quote’, o quando i gastarbeiter non sono più desiderati.
poi è chiaro che ci sono zone e situazioni grigie, casi di emigrazione più o meno ‘romantica’ che cercano di sfumare nella massa degli altri; ma perfino quelli sono incomparabili al tuo, per le ragioni ovvie di cui sopra, e francamente penso che dire ‘ogni im-migrante alla fine è un lavoratore o uno in cerca di lavoro come te’ sia una facilonata universalistica che non serve a niente, o che nel peggiore dei casi scatena deliri razzisti e reazioni anche violente di rifiuto, proprio perché tutte le differenze ovvie e innumerevoli che ci sono fra gli indigeni e gli stranieri non vengono abbastanza nominate e organizzate in un sistema di senso che renda ovvio anche agli indigeni più xenofobi la necessità e la naturalezza dell’essere là degli ‘stranieri’, e soprattutto l’esplosione potenziale virtuosa prodotta dal loro esserci e dal loro meticciarsi cogli indigeni, esplosione che a sua volta permette agli stranieri di trovare-crearsi il loro posto degno e necessario in una società che il loro arrivo stesso del resto ha già inevitabilmente cominciato a trasformare nella ‘loro’ casa, nella ‘loro’ società (e a priori in una società migliore, io penso).
insomma, secondo me è inutile cercare scorciatoie: al lavoro interculturale non si scampa, e la giustapposizione universalista di ghetti non aiuta, anzi.
e aggiungo che dico tutto questo col senno sia di indigena che di straniera.
a rileggermi vedo che ho usato toni caldi, e me ne scuso, ma le due frasi “è indifferente lavorare qui o lì nel momento in cui il lavoro arricchisce tutti, senza distinzioni di nazionalità” e ” Se capisci questo concetto hai capito anche l’immigrazione nel tuo Paese di nascita” in due modi simultanei e distinti mi hanno fatto salire il sangue alla testa. se non ho capito niente di quello che hai detto me lo rispieghi?
Ma secondo me non hai proprio capito quello che ho scritto. O io non ho capito quello che hai scritto tu.
– Quindi io sarei una specie di erasmus in vacanza? Non lo sapevo. Pensavo di essermene andata anche perché in 1 anno ho fatto la precaria per 8 mesi (senza stipendio per 3 mesi) e sono rimasta disoccupata per i restanti 4. Non sono morta di fame, certo, ma spero di poter comunque dire la mia. Questa cosa che se non sei poverissimo non puoi parlare di immigrazione, povertà e sfruttamento non la sopporto e non la sopporterò mai.
– Pensi che chi veniva in Germania 20-30 anni fa sia stato accolto come sono stata accolta io (grazie a quel poco di buono che c’è nella UE così com’è strutturata oggi, certo) e tutta la nuova generazione e non piuttosto come vengono accolti gli extracomunitari in Italia? Pensi che 20 anni siano un’eternità? è appena l’altro ieri, altro che. E pensi che davvero non si senta più in giro che l’italiano è corrotto e quando può ruba e in ogni caso lavora poco?
– Pensi, senza avermelo chiesto, che io non conosca immigrati in Italia?
Rispondo quindi alle due frasi:
Sì, è indifferente lavorare in un posto piuttosto che un altro, è indifferente essere un operaio italiano o serbo, è criminale pagare un serbo meno di un italiano perché è serbo e non perché è meno bravo. Questo, a casa mia, si chiama internazionalismo, in certi ambienti di destra si chiama cosmopolitismo: la differenza sta nel concetto dell’individualismo e dell’antindividualismo, ma non voglio uscire dal seminato ora.
Allo stesso modo, quindi, per me, è ignorante e tipicamente di destra conservatrice pensare che gli italiani debbano stare in Italia e fare grande e orgogliosa la patria.
Sono due facce della stessa medaglia. In altro modo non te lo so spiegare, spiacente.
Aggiungo che mi è capitato parecchie volte di sentire i “compagni” che mi davano della vigliacca (a me e a tutti quella della mia generazione) perché me ne ero andata al momento del crack italiano, bisogna restare e servire la patria, chi se ne va è traditore e lascia gli altri nella m**da. Ah mi hanno anche detto che potevo proprio fare a meno di votare, mica pago le tasse in Italia, mica arricchisco il Paese, cosa posso saperne io di come stanno loro, i fedeli al sacro suolo italico.
Sia chiaro che non sto parlando di tutti, ma certamente di un buon numero di persone, e non sono l’unica che si sente dire queste cose. Allora non posso fare a meno di chiedermi come possano queste stesse persone avere un minimo di coscienza sull’immigrazione. Non so domando, come si sposa “dio, patria e famiglia” con “proletari di tutto il mondo unitevi”? è possibile mettere che convivano le due cose nella stessa testa?
bah, continuo a non capire.
non ho detto né implicato né che non hai abbastanza esperienza per parlare, né che si debba essere “poverissimo per parlare di immigrazione”, né tantomento che “hai tradito” andandotene o altre cazzate simili. Io per prima parlo anche da “straniera”, l’ho ribadito, ché dall’italia me ne sono andata a poco più di vent’anni, e il razzismo antitaliano lo conosco bene.
Ma quello antiafricano e antizingaro in particolare che ho conosciuto (a roma in particolare) prima di andarmente, e poi altrove, continuo a pensare che sia su un’altra scala.
quanto al precariato poi, se lo usi come un titolo di merito, in italia io non ho fatto tanto la precaria quanto la schiava del patriarcato, ma poi il precariato l’ho vissuto per bene in francia, per dodoci anni belli tondi, prima di fare opt out e partire per la svezia, dove il precariato stesso è istituzionalizzato e indennizzato, ma in compenso il razzismo (soprattutto anticurdo/iraniano/pakistano/somalo e antimusulmano in generale, ma anche anti-sudeuropeo) è di tipo prettamente nazista, e, a parte la mia esperienza diretta e personale, e stando anche a expo (rivista osservatorio sui nazismi europei) non ha niente da invidiare a quello tedesco, anzi. ti lascio immaginare in quale posizione comoda di trovano gli italiani qui, presi fra il razzismo scandinavo, la consanguineità fascista oggettiva e/o percepita, e il confronto quotidiano con i somali fuggiti al disastro che in gran parte abbiamo prodotto noi (o i libici, per fare solo due macroesempi), e con i quali pero’ qui non siamo in condizione di creare spazi di comunicazione adeguati.
quanto al razzismo tedesco che citi tu, colla germania e la cultura tedesca ho avuto un rapporto intimo e oscillante, ma direttamente ho conosciuto un po’ bene solo berlino, che è un caso particolare, chiaro. pero’ mio padre è stato a lungo ‘lavoratore ospite’ negli anni sessanta, in condizioni di merda, quindi stai sicura che ho raccolto testimonianze dirette e indirette quanto basta per farmi un’idea di come stavano le cose allora, e adesso.
In breve: tirare in ballo internazionalismo (e ‘cosmopolitismo’ poi, bah) mi pare non avere nessun senso. L’urgenza ora è il meticciato – l’ho detto – l’interculturalismo dal basso, la contaminazione, chiamala come vuoi: è il parlarsi fra lingue storie e culture, a partire dalle singole storie e dalle singole voci individuali, con in mente il frame storico, quanto possibile. L’urgenza, secondo me, è non pensare-dire-fare al posto degli ‘altri’, che poi li si consideri vittime, casi sociali, compagni, fellow-workers, secondo i casi, ma aprire e sostenere quanti più possibili spazi sicuri in cui TUTTI gli immigrati (e mi ci metto anch’io) possano pensare la propria condizione e decidere da sé come agire per migliorarla, coll’aiuto di tutti i compagni di strada possibili, che fanno lo stesso per sé. tutti, alla pari, perché altrimenti è solo neocolonialismo sotto un’altra forma.
Guarda che io non penso affatto che ognuno dovrebbe starsene a casa sua, piuttosto il contrario: che i confini sono un’aberrazione, e che ‘nessun essere umano è illegale’, come si scandisce ai cortei anarchici anche qui. Ma dire questo non basta, livellare sulla barra ‘bassa’ dei diritti umani e semmai sindacali – anche se è un passo necessario – non basta, e puo’ essere controproducente averlo come obbiettivo principale, perché cosi’ non si costituisce massa (anche emotiva) critica, perché cosi’ si appiattiscono e silenziano differenze fra i vari bisogni-desideri-sistemi di senso, e fra le rivendicazioni che ne conseguono, che se invece vengono lasciate libere di proliferare producono discontinuità nelle pratiche di lotta e nelle idee che queste contribuiscono a produrre e disseminare che sono quelle che poi a loro volta fanno la differenza fra vincere e perdere singole battaglie, e forse anche ‘la guerra’, se pure si puo’ dire che sia una sola.
Forse a te queste differenze sembrano poche se guardi alleanze fra europei (magari anche comprendendo dell’est), ma quando ti ritrovi nello stesso posto gente venuta da parti molto diverse e anche lontane di mondo (cina-corea-vietnam + india-bangladesh-sri lanka + somalia + magreb + ex urss + america centrale e meridionale + kurdi + iran), ognuna colla sua storia nazionale, ma soprattutto coll’impronta che la data dei conflitti da cui è fuggita (da profuga o con visti vari) gli ha impresso nella storia individuale e di gruppo, allora te lo devi porre il problema di farle parlare e alleare fra loro tutte queste differenze, proprio per contrastare al massimo il gioco fascista del livellarle tutte nell’odio per ‘gli altri’ in generale, cui sempre più spesso l’universalismo laico – integrazionalista o multiculturalista – si associa per comunanza di modi e fini, indipendentemente dalle magari buone intenzioni individuali.
Ripeto, il discorso che fai è bello e buono, ma secondo me è utile solo per certe ‘classi’ di immigrati, una minoranza, e in tanti contesti rischia anche di essere bello pericoloso.
Non so se non capisci perché mi spiego male io. Il discorso sul precariato mi pare semplice: me ne sono andata anche e soprattutto per necessità, questo in risposta a – alcuni di loro come te possano averlo ‘scelto’ –
Se stiamo facendo un discorso di politica dell’immigrazione forse a te suoneranno strane parole come internazionalismo e cosmopolitismo, a me no, pazienza.
Poi dici – aprire e sostenere quanti più possibili spazi sicuri in cui TUTTI gli immigrati (e mi ci metto anch’io) possano pensare la propria condizione e decidere da sé come agire per migliorarla, coll’aiuto di tutti i compagni di strada possibili, che fanno lo stesso per sé. tutti, alla pari, perché altrimenti è solo neocolonialismo sotto un’altra forma – ma hai anche detto – ai limiti dell’osceno comparare la situazione di expat abbastanza sciolti da avere pure la pretesa di ‘non sentirsi stranieri’ a quella di profughi da paesi di guerra o carestia (agricola o industriale che sia) e altri sbandati, e questo per quanto alcuni di loro come te possano averlo ‘scelto’ – non ho capito se la differenza c’è o non c’è e tu dove ti ci metti dentro? io invece a quale casta appartengo?
Ho scritto che le persone si devono sentire a casa nel primo commento. Tu ne hai tratto un livellamento che io non ho espresso. Perdonami, c’è una bella differenza dal non farsi prendere a calci in cu*o, avere l’assistenza sanitaria, una casa ecc… e diventare anglicana e cucinare fish & chips e pudding perché mi devo integrare in Inghilterra. Mi scrivi, per favore, dove ho parlato di livellamento delle differenze e integrazione come l’hai intesa tu?
– Forse a te queste differenze sembrano poche – boh io conosco parecchi indiani, turchi, cinesi (purtroppo non ho amici e conoscenti rappresentanti di tutte le nazioni del mondo quindi immagino di non poter dare la valutazione completa che dai tu), il problema me lo pongo eccome.
Il problema pratico però, scava scava, è che uno quando se ne va, per qualsiasi motivo lo faccia, dove va non si senta una m**da.
Poi, ripeto, il discorso è un altro. L’Italia è un Paese che ripudia la sua storia emigrante, rimanendo così continuerà ad essere un Paese con politiche razziste, in entrata e in uscita. E proprio perché ha a disposizione la questione emigrati che l’atteggiamento nei confronti degli immigrati è ancora più grave.
Sarò buonista, sarò poco critica, sarò limitata, ma quando vai da qualche parte ti aspetti de mangà senza che ti sputino in faccia, e sarebbe già tanto in molti posti per molte persone.
scrivi: “la differenza c’è o non c’è e tu dove ti ci metti dentro? io invece a quale casta appartengo?”
secondo me la differenza c’è e non c’è (ai fini pratici), a seconda della magnitudo e del tipo dei problemi che consideri, e delle tattiche che stai provando.
Esempio: se crei un centro per lo scambio felice di piatti etnici e tradizioni di maternage chiaramente includi anche me e le mie particolari istanze di minoranza sudeuropea che puo’ portare il suo contributo e i suoi problemi di ‘integrazione’, mentre se si fa lotta per i papiers o per alzare la buonauscita di 500 euro di cui parlava coyococo qua sotto la mia protesta contro l’essere sottopagata perché straniera è ovviamente fuori posto. Fra questi estremi c’è un’immensa zona grigia, coperta alla bell’e meglio dall’espressione ‘sentirsi a casa’, che buttata cosi’ non vuol dire niente, e è proprio su questo che insisto.
Esempio: in francia tanti magrebini di prima generazione hanno certo l’assisenza sanitaria, sono amministrativamente protetti (= ‘risarciti’) in una certa misura, e sono anche culturalmente già ‘integrati'(=’assimilati’), perché hanno fatto scuole francesi; eppure sono superdiscriminati quando cercano lavoro, semplicemente per il colore della pelle, o per il non avere un nome ‘bien français’ (e nemmeno ‘chiaramente europeo o nordamericano’), e la maggior parte è rinchiusa in banlieus-ghetto, costruite apposta per ‘ban-dirli’, per tenerli ‘fuori’.
O prendi i mediorientali qui in svezia, che quasi appena arrivati hanno esattamente gli stessi diritti sociali (e in parte anche politici) degli autoctoni, e poi pero’ rischiano grosso di essere sparati e presi a pietrate – anche i bambini – nell’indifferenza o nel consenso tacito dei vicini, che cosi’ dimostrano a loro modo omertoso, nazionalista e razzista il loro dissenso nei confronti della politica d’immigrazione dei loro governi, basato sul loro razzismo biologico storico.
Come li cataloghi questi casi? Tutti questi quanto pensi che si sentano a casa?
E guarda la domanda in termini assoluti, ma anche relativi: quanto si sentono a casa loro rispetto a me – non ‘integrata’ perché precaria in transito – e pero’ europea e buona parlante inglese, e pero’ meno buona parlante svedese e con tratti ebrei? E quanto si sentono a casa rispetto a cinesi che parlano bene inglese e studiano IT ma sono poveri, non-eu ,e neppure ufficialmente profughi? E quanto rispetto a pakistani e indiani che sono formalmente garantiti e pero’ ghettizzati in quartieri e lavori di merda, e che si si ritrovano trasportati qui pari pari i loro conflitti del luogo d’origine, senza un posto o un modo per dargli voce e lavorarci sopra? E quanto rispetto a indiani bramini che parlano inglese indiano posh e avevano i servi a casa, e che poi qui pero’, parlando male svedese, vengono scambiati dall’autista del bus per ‘pezzenti terroristi pachistani’?
Quello che voglio dire è che le situazioni dei singoli gruppi, e piu’ ancora dei singoli individui, sono complicate, ed è bene che lo siano, è bene che questa ingarbugliatezza dei rapporti e delle identità (per forza di cose spesso fluide) non venga mai dimenticata o understated, perché dei buoni processi di autodeterminazione e di rivendicazione si mettano in marcia. E nei tuoi commenti mi pareva invece che tu proponessi il contrario: semplificare, ridurre all’osso, cercare il minimo che tutti ‘abbiamo’ in comune (e si’, ovviamente, ci metto dentro anche me e te; perché questo nervosismo rispetto alla tua propria inclusione?).
Mi dici anche: “Ho scritto che le persone si devono sentire a casa nel primo commento. Tu ne hai tratto un livellamento che io non ho espresso”.
Ecco: mi pareva invece che lo avessi espresso nella misura in cui proponevi di concentrarti sull’essenziale a livello di lotta.
Ed è questo che contesto: semplificare, ridurre all’essenziale e livellare non mi pare buono a nessun livello, neanche individuale, neanche microtattico. Se in questo ti ho fraintesa ne sono solo contenta.
Ma allora, di nuovo, fare questo discorso universalista mi pare proprio sbagliato. Perché, a proposito, penso in effetti che ‘cosmopolitismo’ sia un concetto proprio marcio, sia per la matrice filosofica radicata nell’illuminismo colonialista e nell’antichità schiavista che ha, sia per il suo essere irrilevante, non-utile oggi (ne esistono declinazioni filosofiche contemporane e non che sono magari interessanti e potenziamente utili, ma nessuna lotta le ha ‘picked up’ mi pare, quindi ai fini pratici per ora sono non-esistenti). Quanto a ‘internazionalismo’, se ti riferisci a quelli di tradizione anarchica o marxista, questa chiaramente è un’altra storia, una storia in gran parte, penso-spero, riutilizzabile e recuperabile, ma perché possa essere recuperata bisogna appunto separare chirurgicamente dal concetto ancora vivo e necessario di inter-mobilitazione (o interculturalismo dal basso, o mediazione interculturale, ecc.) la pappa morta dei riferimento alla ‘nazione’, che è invece un oggetto ingestibile, e che in tante vertenze di mediazione culturale è spesso anche pericoloso, controproducente, proprio perché riterritorializza in apparati di cattura eterodiretti forze che invece stanno cercando di liberarsi, risemantizzarsi e autodeterminarsi in modo nuovo, idiosincratico, e virtuosamente conflittuale.
Comunque lasciamo tranquillamente anche perdere, mi pare che sull’ ‘essenziale’ siamo d’accordo… ;)
solo poche cose, scusa se rispondo qui. Se mi sento “a casa” non ho problemi a trovare lavoro come un bianco giusto? non mi tirano i sassi in testa se sono “a casa”, giusto? perché in caso contrario resto sempre lo sporco immigrato, sbaglio? sentirsi a casa significa non sentirsi delle m**de, significa godere dei diritti fondamentali (poter andare in ospedale ad esempio) e anche qualcosa di più.
Ho specificato che a destra (non in tutta, perché c’è quella apertamente e totalmente nazionalista) si parla di cosmopolitismo e che la differenza tra questo e l’internazionalismo è abissale (la contrapposizione individualista / antindividualista ad esempio), insomma credo che si sappia, almeno qui.
Ora torno a dire che non capisco la tua obiezione. Il discorso era (credo) politico. Ovvero se la politica pensa (come pensa) che l’italiano debba stare in Italia o tornare in Italia per contribuire al progresso del su Paese, inevitabilmente penserà lo stesso dell’immigrato, ovvero che è un corpo estraneo che entra in una comunità con una sua identità precisa. A volte è utile per far crescere la comunità (ma essendo corpo estraneo il suo contributo vale meno e ne godono gli indigeni prima di tutto) a volte viene per disturbarla.
Io non voglio essere integrata qui e non voglio che mi piangano dal suolo italico, io vorrei che ovunque vado non facesse differenza, né per il luogo in cui vado né per il luogo che lascio. Prendila come un’idea semplicistica e utopica, ma è quello che conta alla fine della fiera.
Il preservare le differenze culturali e tutto quello che vuoi è un altro discorso ancora. E aggiungo che secondo me viene senza dubbio dopo qualsiasi garanzia di rispetto dei diritti, sia quello di essere pagati come “gli altri” o quello di farsi chiamare per nome e non muso giallo. Si ragiona di cultura con la pancia piena purtroppo.
secondo me invece cultura e pancia piena vanno insieme (senno’ ti avveleni o ti strozzi), e le differenze culturali non vanno ‘preservate’, ma, appunto, meticciate, mescolate, fatte esplodere in una moltitudine di altre (nuove) differenze, su assi inediti prima conflittuali, poi ‘condivisi’, cioè che abbiano spostato l’equilibrio, che abbiano piegato-riorientato lo spazio sociale nel loro prodursi.
è questo che auto-determinazione significa, e solo un buon processo di autodeterminazione è portatore di diritti che ce la fanno, che vengono riconosciuti, che non producono rigetto nei loro soggetti stessi, e che un po’ durano.
quanto all’italia, non penso che ci sia realmente qualcuno che ci ‘pianga’ e che ci rivoglia indietro, e sono convinta che in italia al ‘progresso del suo Paese’ non ci creda nessuno; è solo retorica, è uno degli assi di gioco.
comunque grazie dello scambio. alla prossima.
[…] il senso del collegamento mentale forse è utile anche un altro prestito, questa volta dalla presentazione dell’articolo su Giap: “guardare al “terremoto politico italiano” con gli occhi di chi non ha potuto votare, e […]
La diaria era anche il doppio di 46 euro per i minorenni. (e quanto c’hanno mangiato sopra anche lì falsificando le età)
La disinformazione porta a considerare che questi soldi finissero direttamente ai migranti che richiedevano asilo: falso, i soldi andavano alle strutture che li ospitavano (strutture private tra cui alberghi a una/due stelle). http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2013/01/02/news/rifugiati_emergenza_nord_africa-49807862/
I migranti si trovano parcheggiati in queste strutture per mesi se non anni senza ottenere asilo. Le suddette strutture nicchiavano e/o la burocrazia italiana era lenta. I rimborsi comunque arrivavano ai privati: vero, e di tanto in tanto, in varie parti d’Italia succedeva questo: http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/Regione/451670_profughi_stop_diaria_e_in_90_scatenano_tutta_la_loro_rabbia/
Il frame rilevato da me su facebook riguardo a certi articoli fatti girare è del tipo: faccio anch’io il clandestino così mi prendo 1.500 euro al mese senza fare un cazzo: ecco un articolo di come alla disinformazione ci si arrivi con la carta stampata, premetto trattasi di Libero:
http://www.angelilli.it/it/rassegna/apriArticolo.asp?Documento=994
Per informarsi che cosa occorre? Forse farsi venire qualche dubbio ogni volta che si legge qualche forma discorsiva, come dire… strana? Farsi venire voglia anche solo di leggere un po’ qui e un po’ là? Magari questo libro? http://www.carmillaonline.com/archives/2013/03/004648.html
Cito dal commento di Girolamo di Michele, che cita a sua volta gli autori Curcio e Mellino: «la nozione moderna di razza, così come le diverse forme storiche di razzismo a cui ha dato luogo, rappresentano un dispositivo di comando costitutivo di tutte le formazioni capitalistiche moderne» (p. 8). «Il razzismo è per noi strettamente connesso ai rapporti di produzione e alla loro trasformazione, poiché trae la sua principale “linfa necropolitica” dai cambiamenti, dalle rotture e dalla crisi nell’organizzazione sociale e politica» (pp. 23-24). In altri termini, le “razze” esistono davvero, non come dati ontologici o biologici, ma come costruzioni discorsive, come prodotti degli apparati di governo e controllo della forza-lavoro… In altri termini, le “razze” esistono davvero, non come dati ontologici o biologici, ma come costruzioni discorsive, come prodotti degli apparati di governo e controllo della forza-lavoro; ovvero, come sottolinea Sandro Mezzadra, all’interno della costruzione dello spazio nazionale come “incrocio di entità mobili” impensabile «al di fuori dell'”insieme dei movimenti che si determinano al suo interno”. L’istituzione di un territorio nazionale e dei suoi confini […] ha sempre avuto a che fare con questa intersezione di corpi in movimento, con la gestione della mobilità» (p. 38). In questo senso, nella tarda modernità in cui ci troviamo il termine “emigrazione” è diventato anche in Italia «il nuovo nome della “razza”» (citato da Balibar, p. 40).
Da leggere tutto perché spiega tutto.
Ecco perché i bossimaronifini non vogliono i clandestini ma gli immigrati buoni che ci servono per pagare le nostre future pensioni o fare i lavori di merda o stare a scrocco nei nostri hotels. Almeno finchè non protestano.
secondo me invece maroni bossi e fini vogliono proprio i clandestini. vogliono che ci siano centinaia di migliaia di lavoratori senza permesso di soggiorno, ricattabili e rassegnati ad accettare condizioni di lavoro e salari “cinesi” (n.b. la stragrande maggioranza dei clandestini non arrivano coi barconi, ma in aereo col visto turistico. i boat people sono poche migliaia, ma gli sbarchi vengono enfatizzati perche’ sui media producono l’ “effetto invasione”). in questo contesto il cie diventa in modo lampante un ingranaggio del sistema repressivo messo in piedi dallo stato per “tenere al loro posto” gli immigrati, clandestini e no.
infatti la legge bossi-fini e’ fatta apposta per generare clandesitita’. legando il permesso di soggiorno al contratto di lavoro in un mercato dl lavoro super-precarizzato, si genera clandestinita’. i legislatori questo lo sapevano benissimo.
Tuco ti do ragione. E’ però da evidenziare che in primis la definizione di clandestino fa comodo ai bossimaronifini quando devono parlare agli italiani. Clandestino, ma anche solo immigrato è usato come termine razzializzante e non come termine razzista. Dato che oramai non è più possibile fondare le divisioni su un’esistenza di razze diverse (geneticamente e biologicamente dimostrato inesistente dalla scienza) occorre includere l'”invasore straniero” entro un termine, un sostantivo che lo distingua dalla “civiltà” che va ad “invadere”, possibilmente facendo leva su ciò che va a colpire: la sicurezza degli onesti cittadini italiani, cosa che a livello di “discorso” nazionalista e provincialista cade a fagiolo. Se leggi nel commento di De Michele su Carmilla al libro “La razza al lavoro” nella parte finale si parla di forclusione: i bossimaronifini (non sempre) negano di essere razzisti perché loro gli immigrati buoni e occidentalizzati li vogliono. Ma all’atto pratico il discorso di razzializzazione che si palesa con la creazione di una legge (bossifini) che esclude persone istituzionalizzando il loro status in quello di delinquenti che non devono avere alcun diritto prima ancora di mettere piede nel confine italiano costituisce il fondamento del loro esistere e della loro ideologia. Ma questo l’hanno scritto meglio di me Girolamo De Michele e i due autori Anna Curcio e Miguel Mellino.
Concludo parafrasando una battuta che tanti anni fa Giobbe Covatta usava per pigliare per il culo i leghisti e che altro non è che una forclusione: – Noi non siamo razzisti, sono loro che sono clandestini.
E che viene usata dall’italiano volutamente ignorante per lavarsi la coscienza.
C’è un bel film di Ken Loach, “It’s a free world”, che mostra bene queste dinamiche, ovviamente in UK, ma credo che problematiche e interessi siano simili in Italia. Consiglio
In realta’ i soldi non vanno solo a strutture private, ma anche a strutture che definirei semi-private, gestite ad esempio da ARCI e Caritas all’interno del programma SPRAR, o ai CARA, spesso questi ultimi dati in gestione a cooperative (e spesso di dubbia provenienza). Riguardo alla genesi dei centri esclusivamente privati, essa va fatta risalire più o meno al 2008, quando e’ stata data la possibilità ad enti privati (hotel, centri turistici, etc) di attivare per mezzo di un rapporto diretto con le prefetture centri locali per la gestione dei “flussi in eccesso” e dell’emergenza migrazione, come viene definita. Da ultimi sviluppi mi sembra di aver capito che dalle prefetture la gestione di questi fondi e la decisione della loro allocazione si sia spostata verso la Protezione Civile, che sotto il precedente governo Berlusconi e’ divenuto l’organo allo stesso tempo di produzione e gestione dell’emergenza, con flussi di denaro spesso fuori controllo dati ad amici di amici. Ma anche prima la rendicontazione di questi fondi era assolutamente elastica. Per farsi un’idea posso rimandare ad un articolo che ho scritto recentemente assieme a Nicola Perugini, in cui raccontiamo la nostra esperienza da antropologi all’interno di uno di questi centri a Follonica (un villaggio turistico riaperto nell’inverno del 2008-2009 per ospitare circa 200 profughi provenienti da Lampedusa.) L’articolo, Sbriccoli T., Perugini, N. “Dai paesi di origine alle Corti italiane. Campi, diritto e narrazioni nella costruzione della soggettività dei rifugiati”, e’ sull’ultimo numero di Antropologia Medica. All’interno dell’articolo c’e’ anche un capitolo su come le forze politiche e i media hanno costruito la soggettività dei cosiddetti “profughi”, appunto a meta’ tra orda barbara e singole individualità che, quasi miracolosamente, riescono ad “integrarsi”, garantendo in questo modo ai “cittadini” italiani la possibilità di dire: “vedi, qualcuno ce la fa ad integrarsi, quindi chi non ci riesce e’ perché e’ un delinquente”. Da questo punto di vista, rispetto a Wu Ming 2 (vedi suo commento sotto), io non nutro dubbi sul fatto che il dispositivo discorsivo e istituzionale dell’integrazione sia in realtà un dispositivo di esclusione, e che il suo funzionamento andrebbe sviscerato e combattuto. Il paradigma dell’integrazione non e’ ne’ più’ ne’ meno quello dell’assimilazione, con quel po’ più di agency (supposta) lasciata ai soggetti dell’integrazione per avere la coscienza pulita (e poter ancor più a ragion veduta condannare gli altri). In un altro articolo scritto con Stefano Jacoviello, in cui raccontiamo il percorso di un richiedente asilo e poi rifugiato del Bangladesh in Italia, proviamo a disegnare, o rintracciare, una differente modalità di interazione tra soggetti all’interno di uno spazio discorsivo e di potere, quella della creolizzazione. Gli articoli non sono disponibili on-line, ma se qualcuno fosse interessato posso tranquillamente spedirglieli via email (ts19@soas.ac.uk). Non vorrei sembrasse mi sto facendo pubblicità, ma visto che sono ormai alcuni anni che lavoro su queste cose mi farebbe davvero piacere poter aprire uno spazio di dibattito o anche interazioni individuali per la discussione di tali temi. E ringrazio GIAP, di nuovo, per questo spazio in cui davvero si può’ stabilire una discussione nel senso pieno del termine.
io son un operatore sociale. Lavoro in un centro per richiedenti asilo, a Roma.
non posso essere troppo preciso riguardo il centro altrimenti rischierei il posto di lavoro.
I ragazzi, qui accolti da due anni, stanno a gruppetti uscendo; destinazione nowhere, con 500 euro in tasca.
Il problema è l’integrazione. Non c’è un progetto integrativo serio. non ce n’è nemmeno uno non serio in realtà.
Qui noi seguiamo i ragazzi nel loro percorso documentale e sanitario, seguendo una logica di piatto assistenzialismo.
Non c’è un serio percorso scolastico in atto. Sta all’abilità ed alla volontà del singolo opoeratore o comunque del singolo responsabile del centro avviare una procedura di integrazione scolastica, sfruttando i progetti del territorio.
i ragazzi hanno vissuto per due anni in una media di 4 persone in stanze grandi quanto una singola per studenti.
E i ragazzi del nostro centro, rispetto alla media, stanno bene.
Ogni giorno per due anni hanno mangiato cibo del catering, implasticato, scotto, freddo o comunque riscaldato.
uno schifo immangiabile per dirla alla francese.
Proprio ora mentre scrivo ( sto al lavoro) dei ragazzi stanno litigando. i ragazzi diventano sempre più aggressivi ed agitati, si picchiano tra di loro, litigano, hanno atteggiamenti aggressivi, spesso anche verso noi operatori.
Noi siamo esposti giornalmente alla loro aggressività. noi siamo il primo e più debole simbolo dell’occidente che li accoglie in questa maniera. Noi siamo lo sfogo della loro rabbia, perchè con questura ed istituzioni varie loro non possono parlare.
io sono fiero di fare da sfogo per loro ,ma non sono fiero di rappresentare l’occidente; questo occidente perlomeno.
Lavorare in un centro per richiedenti asilo fa capire in profondità come molte di queste persone semplicemente non sono fatte per vivere nel sistema occidentale.
Ci capitano, cin vengono spinti, a volte, vengon letteralmente deportati.
Sembrano bambini alienati incazzati.
Solo pochi ce la fanno; trovano lavoro, imparano la lingua, insomma si integrano; tutto con le loro forze ( e il nostro aiuto…qualche cosa famo pure noi insomma ).
Gli altri impazziscono, finiscono per strada, si buttano nell’illegalità, finiscono in galera, finiscono nei campi a raccogliere le verdure per noi bianchi, finiscono nei CIE; insomma finiscono male.
Ciò che serve a questi ragazzi una volta giunti qui, è un serio progetto di integrazione.
Ciò che serve ancora di più è che molti di loro restino al paese loro.
Ah già; i paesi loro a periodi annuali quando non mensili vengon bombardati sempre da noi bianchi; o comunque a casua di noi bianchi.
Peccato perchè i paesi loro ( africa occidentale, nigeria, pakistan, bangladesh ) sono posti bellissimi.
Nei centri per richiedenti asilo si fa business sugli immigrati. Sulla pelle di gente che scappa dalla guerra.
Potrei scrivere due giorni interi aneddoti spaventosi, ma anche meravigliosi su questi ragazzi, pieni di speranze costantemente tradite dal nostro sistema.
‘Italia no buono, Italia no level’ continuano a ripetere.
Torno a lavorà, con che forza non se sa.
Ti ringrazio davvero molto per la tua testimonianza, anch’io ho sono stato operatore sociale, per dieci anni, e sulla carta d’identità c’ho sempre scritto: educatore. Penso sia un mestiere che andrebbe raccontato di più (oltre che pagato di più, ma questo è un altro discorso). Tra l’altro, anche Antar Mohamed, che ha scritto con me Timira, fa da interprete per le richieste d’asilo e ha lavorato nei CARA durante la cosiddetta Emergenza Nord Africa. Grazie a lui, conosco abbastanza bene la situazione e devo dire che non sono affatto d’accordo con le tue considerazioni su “molte di queste persone” (ovvero, immagino, ospiti di strutture per rifugiati, migranti, clandestini). “Solo pochi ce la fanno…gli altri impazziscono” mi pare un’analisi non soltanto molto grezza sul piano statistico, ma soprattutto falsa: da quanto ne so io (e credo che i dati li conoscerai anche tu) la maggioranza di coloro che arrivano (o restano) in Italia con una procedura illegale, nel giro di 5 anni non sono affatto impazziti, in galera, nei CIE o comunque finiti male. Tra l’altro, cosa significa “ce la fanno”? Ovvero: chi è che decide se “ce l’hanno fatta”? Sempre l’Homo Occidentalis? “Ce la fanno a integrarsi”. Ti dirò, a me già il termine “integrazione” suscita tantissime perplessità, non mi piace proprio. Da l’idea di uno che non è intero e deve diventarlo. Dà l’idea di un ingranaggio che deve imparare a girare come gli altri. Se qualcuno mi dicesse che lo scopo della mia vita è “integrarmi”, non sarei affatto contento.
“Ciò che serve a questi ragazzi…Ciò che serve”. Anche qui, secondo me, sarebbe meglio evitare di dire agli altri di cosa hanno bisogno. È di nuovo un viziaccio da Homo Occidentalis. Un altro paio di passi in quella direzione, e finisci col dire che dovrebbero starsene a casa “per il loro bene”, che mi pare proprio il massimo del razzismo paternalista.
caro Wuming 2 ; io credo proprio invece che dovrebbero starsene a casa loro, perchè è li che, di base loro vorrebbero stare ! Questo ‘loro’ ovviamente è il massimo della superficialità e del qualunquismo.
Con ‘loro’ io intendo la maggioranza delle persone che io ho conosciuto all’interno dei centri dove ho lavorato.
Del resto non mi pare una bestemmia pensare che un essere umano preferisca stare nel posto dove si parla la sua lingua, dove c’è la propria famiglia, dove ci sono le proprie radici.
Una volta che quello DEVE scappare dal suo territorio ( a causa della guerra, a causa della povertà, a causa della mancanza di prospettive, a causa di qualche casino combinato nel proprio paese, insomma la causa non importa secondo me ) va integrato nel nuovo territorio in cui arriva.
Questo dovrebbero fare le strutture di accoglienza e la società civile tutta che li accolgono.
L’analisi del commento precedente risulta grezza necessariamente poichè era uno sfogo e non un’analisi. Ero al lavoro, col rischio di essere beccato dal collega chiacchierone che va a riferire al capo; e se hai fatto l’operatore sociale sai che vuol dire. Non avevo tempo di analizzare parola parola. Era più un commento suscitato dall’emozione del momento che non un’analisi ragionata sulla questione. Dunque grazie di avermi corretto il tiro.
Per quanto riguarda l’homo occidentalis; molti di questi ragazzi che io ho conosciuto lo vogliono diventare. Osteggiano la loro ricchezza, anche se indossano solo capi e oggetti elettronici rubati o falsi. Rinnegano le loro origini, seguono un percorso non di integrazione ( che io ritengo una bella parola ) ma di omologazione ( che io ritengo una bruttissima parola ).
Per me integrare una persona significa che la si aiuta a orientarsi nel tessuto sociale del paese in cui si trova, rispettando la sua cultura. Poi sta all’ intelligenza della persona fare filtro tra le cose che gli piacciono e le cose che non gli piacciono.
Gli ‘ospiti di strutture per rifugiati, migranti, clandestini’ …’nel giro di 5 anni non sono affatto impazziti, in galera, nei CIE o comunque finiti male.’
No…però sono ghettizzati ( almeno qui a Roma ) in quartieri periferici, usati come forza lavoro per le occupazioni più umili o più dure; e sono soprattutto omologati e non integrati.
Al di là delle osservazioni che ho fatto, vorrei ribadire la prima riga del mio commento e cioè: grazie per la tua testimonianza. Mi piacerebbe davvero se ce ne fossero altre, perché difficilmente si trovano spazi di confronto tra chi lavora “sul campo”, preso da mille incombenze, e chi, come TommasoS, scrive e riflette sui concetti di integrazione, assimilazione, esclusione. Nella mia esperienza da educatore ho visto che si discute molto di più sul “come” fare il proprio lavoro, “come” migliorarlo, “come” integrarlo con quello di altri agenti sul territorio, ma molto meno si riflette sul “che cosa” si sta facendo. Molte “istruzioni per l’uso” (quando va bene) e poca critica degli obiettivi.
Detto questo, capisco bene che hai scritto il commento in una condizione difficile, eppure io lavoro (anche) con le parole, quindi mi piace analizzarle, senza nessun intento giudicante.
Un conto è dire che un rifugiato preferirebbe vivere nel suo paese, un altro che dovrebbe vivere nel suo paese e un altro ancora che “Ciò che serve è che molti di loro restino al paese loro”.
Un conto è dire che un rifugiato vive in una condizione di straniamento, un altro che “queste persone semplicemente non sono fatte per vivere nel sistema occidentale.” Per me, già dire che una certa categoria di persone è fatta in un certo modo è molto pericoloso. C’è molta più differenza tra me e il mio vicino di casa di quella che c’è tra me e Hamza, un trentenne di Tunisi appena arrivato a Bologna. C’è molta più distanza tra il me stesso di oggi e quello di vent’anni fa, che tra il me stesso di oggi e Antar Mohamed, nato a Mogadiscio nel 1963.
grazie a voi, che parlate di queste cose, in un momento in cui non ne parla nessuno.
Grazie a voi che permettete a me di sfogarmi liberamente a riguardo ed innescate ( in questo caso inneschi ) un interessantissimo confronto.
Sono daccordo; molte di queste persone ‘preferirebbero’ vivere nel proprio paese e quindi ci dovrebbero vivere e non dovrebbero essere costrette ad andarsene.
A me pare che il sistema abbia innescato una sorta di colonialismo raffinato.
Cioè non si va più coi galeoni a fare carico di schiavi ma, da un lato si spingono verso l’occidente bombardando i territori o quantomeno destabilizzandoli, e dall’altro, li si attira con false speranze di benessere.
In questo senso penso che dovrebbero stare al paese loro, non dovrebbero cadere nella trappola insomma.
Sia chiaro che io sarei il primo a scappare se mi bombardassero sulla testa, se mi perseguitassero per la mia religione, se mi si dicesse che in Europa ho la possibilità di vivere meglio.
Faccio un esempio per spiegare il colonialismo di cui sopra. Nel mio centro ( ma in moltissimi altri è uguale ) ci sono i ragazzi della sicurezza. Sono anche loro richiedenti asilo. Vivono in un centro gestito dall’azienda e lavorano in un altro gestito dalla stessa azienda.
Fanno turni di 10 ore dalle 7 alle 7 ( giorno o notte ) sempre gli stessi; ciò vuol dire che se lavori di notte lavori SEMPRE di notte. Senza giorni di pausa, non uno (!) e senza contratto. Paga: mille euro al mese.
Ci sono ragazzi che lavorano in questo modo da 8 mesi ! 8 mesi senza contratto senza un giorno di ferie o di riposo. Il tutto seguendo anche il proprio percorso documentale, dunque levatacce per andare in questura per andare in commissione per andare dall’avvocato ecc ecc.
Andando poi a dormire non a casa propria ma, appunto nel centro in cui vivono, con tutti i problemi che ciò comporta.
Io purtroppo la soluzione non ce l’ho, posso solo fare testimonianza di ciò che vedo ogni giorno.
Segnalo un video fatto da dei ragazzi che stanno seguendo l’evolversi della situazione.
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=9DcVBC0ou9c
Le cooperative sociali fanno business sugli immigrati. Io lavoro per una di queste cooperative sociali. Sento dentro di me un ipocrisia autogeneratasi che mi sta devastando quantomeno l’animo e dunque nel mio piccolo vorrei far uscire fuori queste ipocrisie che il mio lavoro genera.
Vi ringrazio per la possibilità di esprimere queste sensazioni; perchè quando io guardo negli occhi questi ragazzi so che, seppur in minima parte, il mio stipendio deriva dal giro d’affari che si cela dietro una richiesta di asilo politico. e non è una bella sensazione.
Io credo davvero che, come dice Wu Ming 2, sia fondamentale stabilire una discussione tra chi lavora con i richiedenti o i migranti come “operatore”, e chi invece cerca di “operare” una riflessione sulle condizioni e i meccanismi di produzione dell’esclusione e della marginalità di questa categoria di persone (e di mostrare anche come questa categoria vada problematizzata in se’). Dalla mia personale esperienza, ad esempio, lavorare assieme ad un avvocato dell’ASGI per la presentazione di un ricorso di un richiedente del Bangladesh al respingimento della domanda di asilo da parte della Commissione Territoriale, e’ stato profondamente utile e fruttuoso. Non solo le mie competenze come antropologo dell’Asia del Sud (e la mia conoscenza della lingua) hanno permesso di dar forma ad una narrativa credibile e fondata (e di ottenere l’asilo), ma lavorare all’interno del meccanismo legale di produzione dell’alterita’ mi ha dato la possibilità di mettere il mio stesso lavoro al centro dell’analisi, come se mi guardassi da fuori, e di aprire la riflessione su come ogni forma di sapere costruisca il suo oggetto in quanto, appunto, oggetto, e che solo da una critica che sia anche autoriflessiva si puo’ ripartire per dar forma ad un idea, e pratica, di società differente. Nel mio piccolo, per alcuni mesi, ho lavorato (da antropologo, ma anche da “consulente”, per dirla con una parolaccia) con richiedenti asilo del Bangladesh e del Pakistan, e mi sono dovuto confrontare con un mondo ben più complesso di quello che dipinge cayococo. I percorsi di molti richiedenti sono ben coscienti. Essi hanno ben in mente le loro possibilità, hanno reti di collegamento, magari famiglie da raggiungere, sanno, almeno in parte, come muoversi. Da questo punto di vista Dublino II e’ davvero la peggior nefandezza che si potesse concepire, spezzando uno dei possibili appoggi e le reti di solidarietà di molti migranti-richiedenti. Altri, e’ vero, sono completamente alla merce’ di istituzioni pubbliche, polizia, cooperative, caporioni e chi più ne ha più ne metta. Ma in tutto questo, bisogna ricordare che i richiedenti hanno intrapreso un percorso particolare, che li porta a doversi raccontare alle nostre istituzioni. Qui secondo me viene fuori con particolare evidenza il modo in cui la nostra società costruisce lo straniero, e su questo e’ fondamentale lavorare. Proprio per non rimanere incagliati nel frame “poveretti che scappano dalla guerra e che bisogna proteggere e aiutare a integrarsi in un mondo altro”. Perché questa cornice non fa che riprodurre la divisione coloniale tra Occidente e Resto del Mondo, e produce una categoria di migranti legittimi ad esclusione di altri. Per questo ritengo il concetto di integrazione altamente pericoloso e sbagliato, e che non solo esso andrebbe abbandonato, ma che il punto di ripartenza per un discorso altro sulla migrazione parta dal ripensamento del concetto stesso di cittadinanza. La declinazione pratica del frame dell’integrazione produce aberrazioni come quelle descritte dallo stesso cayococo, ovvero lo sfruttamento di richiedenti in condizioni lavorative vicine alla schiavitù. “Alla fin fine”, ci si sente dire, “gli abbiamo trovato un lavoro, un buono stipendio, cosa vogliono di più? Si stanno integrando e imparando la lingua” (quel tanto che basta a comprendere gli ordini probabilmente).
E il passaggio fondamentale da fare, e’ capire che questo discorso e’ lo stesso che si fa per i migranti “regolari” (che spesso hanno contratti semi-fasulli ma che per mantenerli sono costretti a fare la stessa vita, se non peggiore, dei richiedenti sfruttati dalle cooperative) e per quelli “clandestini” (i quali invece sono prodotti all’incrocio tra legislazione nazionale e necessita’ del capitale proprio e solo per questo scopo). Bisogna quindi agire da un lato a partire da una critica profonda del concetto di cittadinanza e da un’opera di erosione critica delle differenti categorie legali di migrante. Dall’altro bisogna ripartire dalle pratiche quotidiane, dalla produzione di soggettività condivise, dalla comprensione che le lotte dei poveri, i migranti, gli esclusi, gli sfruttati, i precari sono una sola.
Si e’ discusso recentemente qui su GIAP degli stadi come luoghi di sperimentazione delle nuove tecnologie (legali, fisiche, poliziesche) di controllo disciplinare della società nel suo insieme, e sempre su GIAP del frame dello scontro generazionale come narrazione utile all’occultamento di genealogie tra le lotte di un tempo e quelle di ora, della continuità tra generazione dei padri operai o impiegati e quella dei figli precari. Ecco, io credo che le politiche Europee sulla migrazione siano ancor più indicative di questo tipo di meccanismi di sperimentazione di nuove tecnologie di controllo e di produzione di differenze laddove potrebbero instaurarsi pericolose continuità. In questa direzione, e’ fondamentale lavorare sulla decostruzione e ricostruzione di narrazioni differenti, proprio nel momento in cui le istituzioni statali lavorano in direzioni opposte. Per portare un piccolo esempio/comparazione. Da un lato l’esperienza avuta con alcuni richiedenti palestinesi. Fuggiti da Gaza durante l’offensiva israeliana Piombo Fuso nel 2008, e arrivati in Italia nell’ottobre dello stesso anno, il loro problema e’ stato di non poter presentare la propria richiesta d’asilo esplicitando questo evidente nesso tra attacco israeliano e fuga, semplicemente perché mettere in dubbio che l’attacco israeliano fosse legittimo, o esplicitare l’inesplicabile (sebbene sotto gli occhi di tutti), ovvero che avesse prodotto profughi e sofferenza generalizzata, a livello politico (e legale: e qui il nesso e’ stretto e dei più nefasti) sarebbe stato quanto meno controproducente. Allora le loro storie si sono dovute concentrare esclusivamente attorno a faide interfamiliari, tra fazioni di Fatah e Hamas. E non che queste cose non fossero vere, ma erano solo una piccola parte della storia. Pero’ erano proprio la parte che calzava perfettamente con l’immaginario orientalista, che ancora popola abbondantemente le nostre menti, di genti arabe divise in tribù in perenne lotta tra loro. Ora, se si confronta questo esempio, e il modo in cui lo stato, anche solo indirettamente e all’interno di piccole Commissioni di richiesta d’asilo, costringe la produzione di narrazioni da parte dei soggetti, con il libro scritto da Wu Ming 2 e Antar Mohamed, che invece apre la storia in tutta la sua complessità e profondità attraverso le voci di alcuni suoi “piccoli” protagonisti, si può comprendere cosa intendo per decostruzione e ricostruzione di un immaginario. In questo senso, l’idea di integrazione diviene ininfluente, e’ già avvenuta, siamo già dentro la stessa storia, e una volta presone atto, non resta che iniziare a combattere la stessa battaglia.
E la battaglia e’ quella sui diritti, sulla giustizia, sull’eguaglianza. Pero’, visto che come giustamente si ricorda spesso qui i mezzi cambiano il fine, e per riallacciarmi ad un commento a mio avviso assai importante di Bzzz fatto qui sopra, se ci si arriva semplicemente da un piano ideale dei diritti legali poi succede come in Svezia che la gente mette in atto pratiche di resistenza razzista a politiche statali non condivise. Il punto di partenza deve invece proprio essere la costruzione di soggettività e narrazioni condivise, di pratiche comuni a livello locale e translocale, di creolizzazione (più che di meticciato, termine che non apprezzo perché ha radici nel concetto di razza e ad esso rimanda), di superamento della categoria legale di migrante per mezzo dell’abbattimento della pratica e dell’idea del confine.
Scusate se mi sono dilungato troppo, e scusate anche per gli apostrofi al posto degli accenti, ma ho una tastiera indiana…
Nel centro dove lavoro, i ragazzi ospitati ( gli utenti, così si dice .. ) arrivano ( quasi ) tutti dalla Libia. Non c’è però nessun libiano. è la prima volta sul suolo italiano. Molti ( scusate di nuovo la mancanza di precisione, capirete ) vorrebbero andare via dall ‘ Italia. Destinazioni più disparate ( francia inghilterra norvegia svezia germania canada… ). Altri vorrebbero tornare al loro paese di origine ( ma non possono, dunque magari si accontentano del paese vicino; per esempio se sei maliano torni ma in costa d’avorio; perchè adesso la costa d’avorio è più tranquilla del mali; mentre qualche anno fa era il contrario. ) I restanti resteranno in Italia. Pochi hanno dei progetti più o meno definiti ( chi s’è affittato casa con gli amici, chi ha un parente in un’altra città per esempio ) la maggior parte di questi restanti non sanno dove sbattere la capoccia.
Letteralmente.
Hanno iniziato a distribuire i bonus; piano piano i ragazzi stanno lasciando i centri; alcuni contenti per via dei soldi, altri preoccupati, altri ancora terrorizzati, altri ormai come fantasmi si fanno trascinare dagli avvenimenti con la forza della fede ( argomento questo che sarebbe vastissimo, ma di un vasto vastissimo proprio ).
Alcuni centri sono stati occupati, altri hanno già chiuso, altri ancora faranno da bacino di convergenza per tutti i vulnerabili ( famiglie e malati ); in attesa di dare i soldi pure a loro, sbolognarli alla bell’e meglio e far arrivare altre centinaia di persone strette strette a lampedusa.
Scusate se posto nuovamente un commento ma vorrei rispondere un po’ a Dzzz (pur con la consapevolezza che non ci siamo proprio capite perfettamente ;) ) sia a TommasoS anche se forse per lui questa suonerà più come una domanda, perché non ho capito alcuni passaggi del suo intervento.
Riprendo un attimo un passaggio dell’articolo su Internazionale:
“In maniera del tutto arbitraria, con scarsa considerazione per i legami familiari o culturali, il Regolamento obbliga il rifugiato a fermarsi nella prima terra europea che gli capita di toccare.”
Traduco nella pratica: le prime terre europee che toccano i rifugiati, a meno di immigrazioni vichinghe che trovo improbabili, sono Grecia, Italia, e in parte la Spagna e la Francia, ma soprattutto le prime due. Per sapere questo, oltre ai rapporti UE, si possono fare anche due chiacchiere con chi dopo tanto penare arriva al centro-nordeuropa.
Quello che succede è che queste persone rimangono imbrigliate (per anni) fra la normativa europea (di cui si è già parlato) e quella greca o italiana che, a livello anche solo intuitivo, sull’immigrazione non è proprio da incorniciare.
Il problema è doppio: da una parte l’Europa è costruita su una politica sanzionatoria nei fatti e cooperante di facciata. Per intenderci, il lavoro sporco lo fa Lampedusa, all’accoglienza poi ci pensa Brusselles (che però è la stessa che ha dato le sanzioni a Lampedusa, che a sua volta ha fatto quello che fa comodo a Brusselles).
L’altra faccia della medaglia (e continuo a pensarlo) è che Grecia e Italia, e ci metto dentro anche la Spagna e il Portogallo, sono sì terre di confine (le prime su cui metti piede), ma anche le più disastrate in Europa. La visione romantica del bacino del mediterraneo non mi convince, è, da un paio di secoli almeno, un luogo povero, dove i “mescolamenti” sono avvenuti soprattutto per necessità economica. Mi dispiace essermi “scaldata” con Dzzz ma io nel 2013 davvero fatico a vedere una differenza netta fra l’immigrato con passaporto greco rispetto a quello con passaporto tunisino. Sto parlando di condizioni di partenza, lo so anch’io che un greco è un cittadino europeo e un tunisino no e questo cambia le cose a livello istituzionale. Come so che un sardo è occidentale e cittadino UE come un bavarese, ma la Sardegna (la cito perché l’ho in parte vissuta) non è la Baviera o un cantone svizzero, in alcune zone soprattutto è davvero alla fame.
Questo per dire che non sempre serve una guerra o un dittatore per avere la necessità di scappare e che la copertura istituzionale non fa automaticamente di te un privilegiato anche nella vita quotidiana.
Voglio continuare sul piano concreto. Dzzz dice bene quando dice che quella del “riportare gli italiani in Italia” è retorica, ma di retorica è fatta questa politica, e sulla retorica si basano i voti che poi fanno i parlamenti. La politica del patto con la Libia (berlusconiana, leghista, montiana con il pieno avvallo del centrosinistra) è retorica anche quella (“non c’è posto, prima gli italiani”) e nella pratica vuol dire solo una cosa: “respingimenti in alto mare”. Magari fosse solo retorica e morta lì.
Ora vengo al tema dei diritti. L’esempio della Svezia che fa TommasoS è calzante, ma secondo me fino a un certo punto.
Mi chiedo se davvero esiste un Paese che non abbia un partito di destra e non ne abbia uno di destra xenofoba e se questo sia un sentimento condiviso ampiamente dagli svedesi a causa di una politica dei “diritti legali”, che c’è senza dubbio, ma non paradisiaca come viene dipinta. Mi chiedo anche se sia disponibile a breve un metodo efficace per eliminare queste destre xenofobe. La Svezia è un Paese contraddittorio (mi viene in mente l’episodio della torta del ministro della cultura), come lo sono l’Italia, la Germania, la Turchia. Da parte mia non credo che i diritti legali abbiano originato un sentimento xenofobo, al massimo gli hanno dato qualche scusa per fare la voce grossa (i DS in Svezia sono dati al 10%, in parallelo ricordiamoci che la Lega da noi ha avuto fior fior di ministri e governa la Lombardia).
So che sembra che non c’entri, ma se penso a me, penso che non è che mi dia proprio fastidio avere avuto il c**o di essere gay e vivere in Germania, me ne darebbe ancora meno se vivessi in Olanda o Spagna. In teoria essendo comunque privilegiata in quanto europea, dovrei riuscire ad aspettare che in Italia si crei un terreno culturale fertile al mio ipotetico matrimonio. Solo che non c’è nemmeno in Olanda questa “unanimità culturale e di intenti”. Ma c’è una politica dei diritti che sì, forse è imposta dall’alto, che un giorno forse imploderà perché non ha basi solide, solo che alla fine, quello che conta, è che a 30 anni o ti sposi e vivi dove puoi o aspetti le calende greche al tuo Paese. Lo so, torno a un concetto limitato, ma mi domando ancora dov’è “casa mia”. In Italia dove mi devo nascondere o da qualche altra parte dove posso vivere la mia vita di coppia come chiunque altro? Io vorrei che anche l’Italia fosse così, vorrei che fosse ovunque così, perché anche questo criterio di scelta forzata di dove stare e dove non andare perdesse di significato.
Infine, vale in maniera estremamente più grave per le storie come quella di Ion Cazacu o quelle che ci ha raccontato Cayococo: contratto regolare, paga, diritti. L’idea che queste cose si possano fare solo dopo che abbiamo abbattuto i confini (cosa che piacerebbe anche a me) non lo so, non mi convince. Io penso che ci siano delle cose concrete che si possono fare subito e possono avere peso nella vita di tante persone e che da lì si possa andare solo migliorando. Non perché non serva un terreno culturale fertile, ma perché non siamo eterni e allora o sistemiamo quello che possiamo ora, o invecchiamo (se ci va bene) aspettando i famosi tempi migliori. Io a dirla tutta non sono più tanto pronta ed entusiasta per la seconda opzione.
Attenzione, in realta’ Lampedusa e’ solo un costrutto politico per poter rilanciare in Europa sui fondi e la collaborazione nel controllo delle frontiere da una parte, e per creare il clima da invasione ed emergenza che all’interno permette di mobilitare consenso politico e redistribuire ricchezze. A livello di retoriche italiane sulla “invasione” dei migranti, ci sono almeno tre livelli di falsificazione. Primo, appunto, che Lampedusa siano le colonne d’ercole. Molti dei richiedenti asilo, e la maggioranza assoluta di altri migranti, varca le nostre frontiere per mezzo di camion e altri trasporti al nord (o a piedi), con navi ai vari porti, persino con gli aerei.
Il secondo livello riguarda l’Europa del sud come ultima difesa, avanguardia dell’invasione, baluardo di un Europa del nord che la utilizza per proteggersi. Se si guarda ai dati, ad esempio del 2012, l’Italia risulta agli ultimi posti per numero di domande di asilo (all’ultimo come rapporto domande/numero di abitanti), al primo c’e’ la Germania, poi Francia, Svezia GB e Belgio. Anche qui, pensare ai richiedenti asilo solo come disperati che vengono in barchetta e’ limitante rispetto alla complessità del fenomeno e permette di ignorare dinamiche globali di produzione della diseguaglianza e controllo del movimento.
Il terzo livello riguarda l’Europa nel suo insieme rispetto ai paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”, dove si trova la maggior parte assoluta di profughi e campi, gestiti lontano dalle nostre frontiere e territori, spesso con costi sociali ed economici enormi per le regioni che li ospitano. E questo solo considerando in se’ il campo dell’asilo, perché se si pensa da un lato che il decreto flussi 2012 permette l’ingresso di 30000 lavoratori stagionali (e negli anni precedenti erano di gran lunga superiori), e dall’altro ai migranti che non fanno richiesta d’asilo, si capisce come le 15000 richieste di asilo del 2012 in Italia sono solo una piccola parte del fenomeno, che va letto a mio avviso nel suo complesso, senza lasciarsi convincere delle categorizzazioni sommarie che vengono proposte. Come spiega bene Sandro Mezzadra, le politiche di controllo e gestione della migrazione sono sempre collegate a politiche di controllo e gestione della manodopera, sia in relazione alla creazione di lavoratori non tutelati, che alla produzione di territori, o enclave, dello sfruttamento. Da questo punto di vista sono d’accordo quando dici che a volte le differenze tra migranti diversi (tu citi un ipotetico greco ed un ipotetico tunisino) sono più esteriori che essenziali, e allo stesso tempo anche le condizioni economiche non sono meno pressanti di quelle politiche per spingere qualcuno ad andarsene dal suo paese. Ma e’ importante allo stesso tempo cogliere le somiglianze e non ignorare come il sistema economico attuale lavori a livello sostanziale oltre che ideologico sulla produzione della differenza, e che i risultati di questo lavoro sono oltremodo efficaci nel creare effetti pratici di esclusione e marginalizzazione.
Per questo ho citato il caso della Svezia, in realtà ripreso da un commento di Dzzz, semplicemente per illustrare che anche laddove ci sia una legislazione effettiva per il riconoscimento dei diritti, esistono pratiche di resistenza radicate localmente per la riproduzione effettiva della differenza. Sempre per questo bisogna a mio avviso ripartire da pratiche locali e translocali di resistenza e messa in crisi dell’immaginario sulla differenza e dei meccanismi che la incarnano e radicano nella realtà. L’idea di abolire i confini non vuol dire grezzamente un mondo senza stati nazione, ma allude piuttosto alla necessita’ di riconfigurare nella pratica una geografia politica, sociale e storica al cui interno le differenze che divengono salienti siano quelle legate allo sfruttamento, alla diseguaglianza, all’ingiustizia, che racconti una storia in cui il greco e il tunisino siano dalla stessa parte, e dall’altra le cause delle loro differenti, ma non poi tanto, “fughe”.
Integro quanto scritto da TommasoS.
Qui ci sono i dati Eurostat sulle richieste d’asilo:
http://www.cir-onlus.org/Statisticheitalia.htm
Nel 2011 l’Italia era terza per numero di richieste (nel 2010 era nona). Attenzione: richieste non vuol dire “domande accolte”. In un anno vengono sempre esaminate meno richieste di quelle effettive (è la burocrazia, bellezza) e di queste ne vengono poi accolte il 30-35%.
Aggiungo che Dublino II prevede che uno stato UE possa derogare al regolamento, cosa che è stata fatta nel caso della Grecia. Ovvero: alcuni stati hanno deciso di non rispedire i richiedenti in Grecia (dove avevano toccato l’Europa per la prima volta) in considerazione della scarsa accoglienza garantita da quel paese. Uno dei presupposti di Dublino II, infatti, è l’uguglianza tra i paesi UE in fatto di accoglienza dei rifugiati: un principio del tutto disatteso nella pratica.
Infine, ho una richiesta: dai dati Eurostat risulta che l’Italia, nel 2010, ha ricevuto 10.500 richieste d’asilo. Dai dati di Dublino II risulta che, sempre nel 2010, gli stati UE hanno girato all’Italia 9673 richieste (rifugiandi che avevano toccato terra in Italia, poi se n’erano andati in altri paesi UE e gli altri paesi UE hanno chiesto all’Italia di riprenderseli). Chiedo: ciò significa che in Italia, nel 2010, 9673 richieste su 10.500 provenivano da altri paesi sulla base di Dublino II? Perché se così fosse il dato mi sembrerebbe impressionante: significherebbe che il 92% delle richieste all’Italia, nel 2010, è arrivato da persone che in Italia non ci volevano stare e avevano altri progetti migratori. Qualcuno è in grado di darmi lumi?
Non posso rispondere con certezza, ma credo che il dato sia da disaggregare sulla base di più criteri. Primo, ci sono sicuramente alcuni che hanno, nel 2010, fatto richiesta di asilo in Italia e poi se ne sono andati altrove, per motivi vari (nel 2008-2009, nella mia esperienza follonichese, su 200 richiedenti almeno una trentina avevano progetti migratori alternativi, e alcuni se ne sono andati davvero, chi in Spagna, chi in Germania, chi in Svezia). Se vieni beccato subito, ti rimandano indietro e figuri nelle statistiche dell’anno stesso. Secondo, all’interno delle 9673 domande rispedite all’Italia, sicuramente alcuni avevano fatto richiesta negli anni precedenti, quindi sono stati intercettati e rispediti in seguito.
Inoltre, Dublino prevede anche, tra i suoi criteri, cito:
“Quando il richiedente asilo ha soggiornato per un periodo continuato di almeno 5 mesi in uno Stato membro prima di presentare la domanda d’asilo, detto Stato membro è competente per l’esame della domanda d’asilo. Se il richiedente asilo ha soggiornato per un periodo di almeno 5 mesi in vari Stati membri, lo Stato membro in cui ciò si è verificato per l’ultima volta è competente per l’esame della domanda d’asilo.”
Quindi e’ possibile che parte di queste richieste fosse fatta da persone che, vissute senza documenti in Italia per un po’, o con un normale permesso di soggiorno, siano andate in seguito in altri stati dove hanno fatto la richiesta d’asilo, pensando di essere esenti da Dublino II (o non conoscendolo proprio, e quindi magari dicendo senza problemi di aver prima vissuto in Italia). Non so in questo caso se la richiesta figuri del paese in cui viene fatta, che poi la rigira al paese di ultima “residenza”, o a quest’ultimo.
Il fatto e’ che, credo ma non potrei giurarci, nel database di Dublino II non stanno solo le impronte digitali e i dati dei richiedenti, ma anche di altri migranti identificati in vari modi (questure, Centri di Permanenza, etc.), che poi figurano nel momento in cui fanno richiesta di asilo per vari motivi.
Ritengo quindi che solo una percentuale (comunque non bassa a mio avviso) di queste richieste sia di persone che quello stesso anno hanno lasciato il nostro paese dopo aver fatto richiesta.
Sarebbe interessante scoprire quale. Forse e’ possibile ricostruire un dato aggregato sugli anni in cui Dublino II e’ stato effettivo sommando tutte le richieste avvenute in Italia e tutte le richieste rimandate all’Italia da altri paesi europei.
Interessante sarebbe infine scoprire quante richieste, e verso chi, l’Italia ha rispedito.
Sai dove si possono trovare questi dati sulle richieste “rigirate”?
Aggiungo una breve considerazione. Stando al criterio di Dublino II citato, se un migrante che vive in Italia volesse fare richiesta di asilo, mettiamo, in Germania, perché la’ vive sua madre o semplicemente perché tifa Bayer Monaco, dovrebbe prima soggiornarvi per qualche settimana o mese, cercando di non farsi beccare e allo stesso tempo ottenendo prove della sua residenza in quel paese, poi andare in uno stato terzo, mettiamo l’Olanda, e fare li’ domanda di asilo. In questo modo la sua pratica verrebbe rigirata alla Germania.
Giusto per dare un’idea del tipo di strategie che i migranti/richiedenti possono/sono costretti a mettere in atto da queste legislazioni folli.
Un ragazzo somalo che ho conosciuto in un dormitorio bolognese, mi raccontava che dopo tre anni di vita in Olanda è stato rispedito in Italia, dove gli avevano preso le impronte al momento del suo arrivo a Fiumicino (impronte delle quali non aveva manco capito il senso, pensava fossero una pratica comune). Poiché in Olanda ci era arrivato da clandestino, per stare con alcuni amici che avevano una piccola attività in quel di Rotterdam, non ha potuto dimostrare nulla della sua permanenza nel paese (3 anni, non 5 mesi). Ora in Italia non ha un vero lavoro, non ha una vera casa, vive grazie ai programmi per senza fissa dimora.
Non lo so, fatico a vedere Lampedusa (e dico Lampedusa per dire anche Grecia) come una falsificazione. Premetto, non credo all’ “invasione”, né in Italia né in Europa, ma che ci sia un problema di rimpallo di responsabilità è evidente. Ma è proprio una questione “fisica”: i barconi non li respinge la Norvegia, così come se dall’Iraq voglio andare in Europa e ci voglio andare in camion è molto più probabile che passi dalla Grecia se non dalla Bulgaria piuttosto che dalla Svizzera. Ugualmente quando parli di porti: vedo difficile paragonare un flusso migrante o “clandestino” nei porti mediterranei con quello che avviene sul Baltico o sul mare del Nord, ne ho uno davanti casa e credimi, non si vedono le stesse cose che vedevo a Porto Marghera.
Per questo non mi sorprende il dato che cita Wu Ming 2 alla fine del commento qui sotto, come non mi sorprende il fatto che quasi tutte le richieste d’asilo presentate ad Atene nel 2012 siano state respinte.
Se mi dici che se ne presentano di più e vengono accolte di più in Germania (salvo quando le respingono alla Grecia o all’Italia perché gli accordi son questi) ti dico che sarei sorpresa del contrario. In proporzione rispetto alla popolazione residente comunque ne vengono presentate più a Malta e in Lussemburgo (a voi risulta?).
La disuguaglianza reale tra i Paesi UE è una cosa che si è sempre contestata perché esisteva ed esiste nei fatti e tutti lo sanno. La Norvegia nel 2008 annunciò che non avrebbe più rimandato in Grecia i richiedenti asilo, anche questa promessa è stata disattesa. Ti linko un articolo di Ristretti Orizzonti dell’anno scorso
http://www.ristretti.org/Le-Notizie-di-Ristretti/immigrazione-la-germania-contro-litalia-rifugiati-costretti-a-vivere-in-condizioni-disumane
lo trovi molto lontano dalla realtà?
Che il fenomeno dei richiedenti asilo sia complesso è fuori di dubbio, ma che in Germania, in GB o in Scandinavia si possano creare realtà come quella greca a me sembra fisicamente impossibile. Succedono da noi e in Grecia certamente perché siamo criminali nel gestire il tutto, ma se ci fosse anche un’equa distribuzione di responsabilità in Europa credo che le cose sarebbero diverse a Lampedusa e Patrasso.
Non ho mai scritto che Lampedusa sia una falsificazione, non saprei neanche bene cosa possa significare un’affermazione del genere. Ho detto che e’ un costrutto politico, fondato discorsivamente su tre falsificazioni. Probabilmente non sono stato chiaro, ma quello che intendevo dire e’ che Lampedusa e’ stata posta al centro del dibattito italiano (chiamiamolo così) sull’immigrazione e la richiesta d’asilo, al punto da far sembrare che tutto si vinca o si perda a Lampedusa. Ma non e’ così. L’isola e’ divenuta il luogo in cui si misura la forza di negoziazione italiana nei confronti dell’Europa, e la capacita’ politica interna di attivare sentimenti di paura ed esclusione dello straniero: e’ anche per questo che e’ bene che sia sempre pieno da esplodere, sull’orlo dell’emergenza o addirittura oltre. Il problema dell’equa responsabilità cui accenni e’ quello che fa il governo italiano, ma e’ proprio qui che la Germania in primis e altri paesi europei non sono d’accordo: perché l’Italia dovrebbe continuare a lamentarsi dello scarso appoggio dell’Europa quando non solo ha un minor numero di richiedenti asilo rispetto a molti altri paesi (sia in assoluto che in percentuale sugli abitanti) ma li gestisce anche in modo disumano, come accusa la Germania? Il problema della responsabilità e’ tutto un gioco delle parti. Al di la’ dei respingimenti, che sono risultati ingiustificabili persino all’interno della cornice politica della Fortress Europe, che e’ tutto dire, non ci dimentichiamo che il controllo delle frontiere esterne e’ cosa gestita anche a livello europeo, da Frontex. Tra l’altro la tecnologia per identificare le barche con i migranti e’ tedesca. Un piccolo centro di ricerca ha sviluppato un algoritmo per riuscire ad identificare piccoli natanti in alto mare attraverso immagini satellitari, dapprincipio per scopi civili, come spesso avviene, ovvero per “rescue” eventuali navi in avaria. Il piccolo centro di ricerca e sviluppo ha vinto un enorme progetto europeo e da li’, poco alla volta, sono stati cooptati all’interno di Frontex.
Sui porti, non alludevo ai porti del nord Europa, ma a quelli italiani, proprio per smentire che Lampedusa sia l’unico luogo attraverso cui i migranti arrivano in Italia (e da li’ in Europa). Se si pensa che i richiedenti di nazionalità Serba (e Kosovara) sono stati i più numerosi nel 2010 in Europa, si capisce come i porti di Ancona e Bari siano tra i luoghi a più alto tasso di ingresso “clandestino” in Italia.
Ancora, il fatto che per andare in Germania, se sei su un camion e provieni mettiamo dall’Afganistan, probabilmente vuol dire che passerai per la Grecia, ma non vuol dire che ti devi fermare alla dogana e presentarti alle autorità. Molti riescono ad arrivare in Germania senza che questo avvenga. Altrimenti non si spiegherebbe il numero elevatissimo di domande che ha la Germania rispetto ad altri paesi di frontiera europea. Inoltre, i richiedenti asilo non sono solo quelli che vengono dall’Asia o dall’Africa: ad esempio i Russi sono terzo posto per numero di richiedenti nel 2012 in Europa.
Per smentire anche cio’ che dici rispetto ai paesi di frontiera: nel 2012 il 70% dei richiedenti in Europa ha fatto domanda in 5 stati che, a parte la Francia, non hanno sbocchi sul Mediterraneo. E, pensa un po’, l’Italia ha una percentuale di concessione di richieste d’asilo superiore alla media europea nel 2012.
Come vedi il fenomeno e’ molto complesso, e va compreso che spesso i richiedenti/migranti hanno strategie “migratorie” che tengono in considerazione molti differenti fattori (ed e’ proprio per la limitazione di queste possibilità strategiche che regolamenti come Dublino II vengono attuati).
Un esempio. E’ successo che per alcuni anni molti richiedenti asilo andassero in Calabria per formalizzare la domanda perché la Commissione Territoriale di Crotone sembrava facesse passare un numero di richieste più alto della media nazionale (un po’ come ha fatto la Gelmini). Dublino II ha costretto molti di quelli che avevano messo in atto questa strategia ad impasse terribili, bloccati a Crotone dove ormai avevano stabilito contatti o costretti a tornare, come il caso del ragazzo somalo raccontato da Wu Ming 2, laddove avevano fatto richiesta la prima volta ma non avevano più alcun collegamento.
L’idea di frontiere ermetiche non e’ vera, mentre e’ sempre più vero il tentativo di controllare il movimento interno e la capacita’ di espulsione o trasferimento di migranti e richiedenti, e di giocare tra il livello nazionale e quello europeo per motivi sia di politica interna e inter-statuale che di gestione dei flussi in termini di sfruttamento economico dei migranti. Poi certo, c’e’ un discorso di base sui diritti umani che e’ sempre presente, e di certo gli standard tra i vari paese sono alquanto diversi. Ma la cornice generale al cui interno si situano queste differenze e’ la stessa. E anche sulla GB ci andrei piano: il tasso di razzismo strutturale delle sue istituzioni e delle Commissioni per la concessione dell’asilo non ha nulla da invidiare all’Italia, anzi, a livello di corti civili per l’appello siamo forse messi meglio noi.
TommasoS, ho una preghiera ‘tecnica’ per te, antropologica: vorrei che elaborassi il senso e le ragioni per la tua preferenza (‘educated’, immagino) per ‘creolo’ nei confronti di ‘meticcio’, che hai menzionato qualche commento sopra (ma spingo ‘reply’ qui perché quello che stai continuando a spiegare mi dà ancora più voglia di sentire che hai da dire).
Premettendo che io non sono specialista in nessun senso di queste questioni, il senso relativo (mutualmente, comparativamente definito) di queste due nozioni come l’ho capito-succhiato in strada nel corso degli anni (prevalentemente in francia, sottolineo, sia da francofoni che da ispanofoni per la maggior parte centro- e sudamericani) è che:
-‘creolo’ si riferisce a certe comunità particolari in certi posti particolari (e le individua in base a criteri diversi in ogni posto, del resto, fra le varie ex-colonie per i francofoni e nei vari paesi o regioni d’origine per gli ispanofoni), ma in generale nomina gruppi di ascendenza prevalente tendenzialmente ‘bianca’ e ‘europea’, e che hanno cercato di limitare l’ibridazione coi locali il più possibile, che hanno cercato di manternersi puri quanto possibile – sottolineo, proprio in termini di razzismo biologico – e che insieme si sono contrapposti anche politicamente agli autoctoni e ai mezzosangue (=in modi diversi: métisses, mestizos), per lo più schiavizzandoli o comunque sfruttandoli. Mentre invece
-‘meticcio’ (di nuovo, incrocio ‘métisse’ in francese e ‘mestizo’ in spagnolo, anche se sono cose fra loro diverse, mi pare) l’ho sempre sentito usare come un termine positivo, a volte con un ‘vibrato’ politico, quando nettamente rivendicato, parlando ad avversari (magari, ovvio, entro certi limiti, secondo certe regole, come altri nati come insulti e poi reclaimed: some fino a un po’ di tempo fa ‘queer’, o, in maniera molto più limitata e specifica e ancora oggi, credo, ‘nigga’), ma il più delle volte invece usato proprio in maniera neutra, come livello zero della denotazione del ‘noi’, di noi ‘altri, dai francesi ‘de souche’ , vale a dire, quelli che gli svedesi chiamerebbero ‘gli etnicamente francesi’ (=francesi razzialmente, perché cosi’ i self-identified razzisti francesi si pensano, come tutti gli altri razzisti del resto, per i quali alla base, al di là di tutte le belle parole e maniere, la razza esiste eccome, ed è biologica) esclusivamente europei (comprendendo gli ebrei a volte, a volte no) da generazioni .
cioé, i ‘meticci’ francofoni e ispanofoni stessi, per la mia esperienza (per lo più francese, ripeto), si sono appropriati ‘meticcio’ e lo usano per definirsi e per definire le proprie espressioni identitarie/autodeterminate (spesso culturali-artistiche, ma non solo), e lo fanno totalmente a proprio agio, sia fra loro che con ‘gli altri’; mentre ‘creolo’ non l’ho proprio mai sentito usare cosi’, tranne che per indicare questa o quella lingua (o forma o tratto linguistico), o cucina, o tradizione in generale specifica ‘du pays’.
Oppure, ma molto più raramente, da alcuni membri di un’upper-class coloniale, magari anche molto critica, che magari l’hanno ‘rivendicato al contrario’, come una sorta di inizio di assunzione delle responsabilità coloniali (ma sempre specifiche di un territorio e periodo particolare), come nel caso della scrittrice Jean Rhys per esempio, e delle storie-teorie della letteratura postcoloniali che si occupano di scrittori di questo tipo (ma le mie esperienze dirette di quest’uso fatto per autodefinirsi da qualcuno con cui io ho direttamente parlato sono pochissime).
Uffa, l’ho scritto anche peggio del solito questo commento, spero si capisca qualcosa.
Mi rendo conto che per molti versi questa questione è off topic, ma per altri mi pare fondamentale invece, perché è con l’uso comune di queste parole che la maggior parte del tempo ragioniamo, e quest’uso andrebbe analizzato-complicato-studiato-coltivato di più.
p.s. grazie a tutti in questo thread, avrei bisogno di dialogare tutti i giorni cosi’ su queste cose; e grazie in particolare a TommasoS, che dice cose per me preziose, e ne vorrei leggere molte di più (dove?)
p.p.s. anch’io mi correggo un refuso: ‘banlieus’ al posto di ‘banlieues’; dopo 3 anni di koiné prevalentemente anglo-svedese il mio francese scritto si sfascia; e anche nel caso ce ne siano altri, scusate..
Édouard Glissant, il grande scrittore francese nato in Martinica, diceva che “la creolizzazione è il meticciato con il valore aggiunto dell’imprevisto”. Secondo la sua analisi, il termine meticcio si usa (almeno in francese) per indicare un ibrido di cui si può prevedere il risultato ( ad es. tra due razze di cani). Invece il creolo si produce da una mescolanza di fattori diversi il cui risultato non è scritto, può prendere mille strade diverse. Per questo motivo, Glissant preferisce parlare di una progressiva “creolizzazione del mondo” e non di un meticciato globale.
si’, ho sentito spesso citare glissant (soprattutto in radio, devo dire, ma non granché di persona, e non l’ho mai letto), pero’ il fatto è, come cercavo di spiegare, che questo privilegiare ‘créole/criollo’ rispetto a ‘métis/mestizo’ come parola e concetto più adatti per allontanare lo spettro del determinismo biologico, per la mia esperienza va contro la scelta che fanno i parlanti, e proprio quelli cui più è naturale e spetta di diritto la scelta fra queste alternative (chiaro, la mia esperienza è limitatissima e non ‘scientifica’, mi piacerebbe sapere che ne pensano altri francofoni/ispanofoni e parafrancofoni/ispanofoni qui su giap).
Inoltre, semplicemente, non vedo come créole/criollo possa essere più lontano dal fantasma mostruoso dell’ibrido da laboratorio eugenetico-teratogenetico di quanto lo sia métis/mestizo, visto che comunque si riferisce da sempre a un gruppo razzialmente definito: i bianchi di discendenza europea. Con lo svataggio aggiuntivo, a mio parere, della connotazione di ‘casta’ che ‘créole/criollo’ ha quando si riferisce a persone (e non a cucine, tradizioni particolari, ecc.) o a gruppi di persone che in genere ne hanno schiavizzate altre, e che su questo hanno fondato il proprio dominio di classe e di cultura coloniale, oltre che il proprio status e la propria identità.
Ora, come la capisco io, la nozione ‘positiva’, linguistica di creolizzazione è proprio un caso di reclaiming, di riappropriazione valorizzante di una pratica di resistenza nel cuore della lingua dei padroni, un pidgin che sta vincendo la sua guerra di liberazione flettendo-piegando la lingua dei carnefici fino a sfigurarla e rifigurarla come l’immagine della sua propria perversione-trasformazione in strumento di violenza e morte.
Si potrebbe dire che le lingue creole sono oscene, sembrano suonare oscene perfino a quelli-quelle che le parlano (e dopo un po’ che le hanno parlate fra loro ridono con te che hai ascoltato e che invece non le parli, ma un po’ le capisci, e tu ridi con loro, e poi cerchi di farti tradurre-trascodare-spiegare), perché fanno risuonare l’osceno nella lingua ‘madre’ (il colonialismo ob-scaenum, lo scheletro della libertà massacrata che nei piani andava sottratto ai riflettori e nascosto nell’armadio, e che invece la lingua creola riesuma e trasforma in ossa-vibrafono a centroscena).
Pero’, proprio per questo meccanismo naturale di smascheramento che si produce, mentre mi sembra naturalissimo che la nozione di ‘creolo’ funzioni bene e sia effettivamente usata senza problemi da tutti a livello linguistico (e letterario), non mi sembra naturale né ovvio (e non lo vedo accadere nei fatti) che un analogo culturale della criolizzazione si produca cosi’ facilmente agli altri livelli, forse perché è facile e liberatorio giocare colle parole, ma invece giocare colle immagini e colle pratiche-azioni è molto più complicato e pericoloso, e soprattutto se sei meticcio puo’ portarti facilmente ‘in galera, o all’ospedale’ (citazione da pinocchio, credo).
Sto andando a braccio ovviamente, cerco di immaginare ragioni possibili per cui questa cosa della preferibilità di ‘creolo’ non mi suona. Forse al limite si potrebbe pensare a una grande creolizzazione culturale come orizzonte di senso di una molteplicità di processi meticci=micro- e medio-esperimenti di ibridazione di cui è più prudente – per i soggetti stessi che ci sono presi dentro e li rivendicano – poter controllare l’esito e lo scope, proprio per sopravvivere mentre li si fa, perché alla lunga siano ‘creoluzionari’ :D .
meglio che vada a nanna, del resto sono le 3. buonanotte a chi c’è..
branco preto pardo caboclo metiscos criolo o per dirla con amado mistura de raça, perchè come si può indagare i quarti di sangue che ci compongono e poi il dna mitocondriale non ci ha dimostarto che discendiamo tutti dalla stessa antenata ma a parte questo scontato su queste pagine nella cultura brasiliana criolo era parte dell’elite dominante alla quale era riconosciuta solo una certa contaminazione con l’elemento indigeno dettata dalla scarsità di donne di origine europea ai tempi dei primi conquistatori acquisendo pertanto anche un valore di discendenza dai suddetti conquistatores e alla quale si concedeva una certa bellezza e una dignità di portamento che migliorava la “razza” ma si escludeva contaminazione con la “razza negra” alla quale invece si attribuiva una certa bassezza morale e una bruttezza (capelli crespi) e per questo creolo mi suscita diffidenza ma tant’è questo è quanto
Caspita, che commento difficile mi chiedi di fare.
In effetti, se si guarda all’origine del termine creolo, si arriva ad una radice “razziale”, ma in un senso particolare. Il creolo era quel bianco che, nato e cresciuto nel Nuovo Mondo, aveva assorbito alcune qualità del luogo e aveva dunque iniziato a differenziarsi dai veri spagnoli, portoghesi, inglesi e via dicendo. L’idea alla base era che la “razza” non è puramente genetica (uso qui un anacronismo, giusto per capirsi), ma fattori esterni e ambientali possono modificare il nostro essere più profondo. Naturalmente questa visione biologica correva in parallelo con la formazione di particolari relazioni, o triangolazioni, tra quelle che venivano considerate le unità sociali di base del colonialismo: bianchi, nativi, schiavi importati. Col tempo gli interessi dei bianchi “locali” e dei bianchi che venivano mandati freschi freschi dalla madre patria con funzioni di controllo e sempre in posizioni gerarchiche superiori, hanno iniziato a distanziarsi, soprattutto per scelte esplicite (parlo qui del colonialismo spagnolo in particolare) della Corona per impedire che sudditi troppo “compromessi” con i nativi potessero declinare, in luoghi assai lontani, il peso del governo verso localizzazioni pericolose. I creoli spagnoli dunque, presi a metà tra la lealtà alla corona spagnola e la costruzione di un posizionamento autonomo all’interno delle entità politiche del Nuovo Mondo, si sono appoggiati su categorie razziali al fine di differenziarsi sia dagli “stranieri” che dai mestizos e dagli indigeni, mobilitando allo stesso tempo discorsi religiosi inclusivi per sviluppare le nuove alleanze locali che hanno infine portato alla costruzione di Regni ispano-americani indipendenti e creolizzati. D’altro lato, il caso americano (che guarda caso Anderson nel suo libro sulle comunità immaginate definisce i “primi nazionalisti creoli”), in cui i coloni respinsero fortemente un’identità creola proprio per le sue connotazioni razziali (perché razziali a loro sfavore), abbracciandone una nuova e fiammante: quella americana. Quindi fino a qui non posso che darti ragione, sebbene creolo nasca già come un caso di rivendicazione in senso positivo di un’identità negativa attribuita dall’esterno (ma in una guerra tra bianchi all’interno del colonialismo).
La genealogia cui però mi riferisco io viene, come giustamente sospettavi, dal filone linguistico e sociolinguistico, ovvero da quegli studi che hanno posto al centro dell’attenzione le lingue nate nelle colonie, e soprattutto all’interno delle piantagioni, in contesti socialmente e culturalmente completamente destrutturati, e dai suoi sviluppi sociologici e antropologici (e poetico-filosofici, per metterci dentro anche Glissant, guarda caso di formazione etnologica).
Ora, senza farla troppo lunga, quando parlo di creolizzazione mi riferisco a come il concetto è stato rielaborato prima da Bickerton in ambito linguistico, con l’individuazione di un continuum grammaticale al cui interno i parlanti riescono a muoversi (entro certi limiti) producendo differenti varianti linguistiche, poi soprattutto da Lee Drummond e Ulf Hannerz in ambito antropologico, spostando l’idea del continuum dalla lingua alla cultura. Ora, l’aspetto secondo me più interessante di questi lavori è che pongono l’attenzione non tanto sulle varianti riscontrabili all’interno di una lingua o società, ma sulle regole di trasformazione da una variante all’altra, e sulla capacità dei soggetti di utilizzarle in termini strategici. Insomma sulla possibilità di produrre identità, o varianti linguistiche, mutevoli, aperte e in continuo dialogo tra di loro. Da qui il passaggio di Glissant, che ha reso il concetto una sorta di figura filosofica, e la sua insistenza sull’idea di imprevedibilità che citava Wu Ming 2. Ed anche sull’idea di processo, ovvero non creolité – concetto in seguito sviluppato da Patrick Chamoiseau e Raphaël Confiant e criticato dallo stesso Glissant, che vi vedeva una reificazione identitaria di ciò che lui aveva concepito, appunto, come un processo – ma creolizzazione. Bisogna dire che nella citazione riportata da Wu Ming 2, Glissant giocava un po’ sporco, poiché affiancava un concetto quale meticcio prendendolo a prestito dalle categorizzazioni biologiche del colonialismo ad un concetto, quello di creolizzazione, che non viene per come lui lo usa da quelle stesse categorizzazioni (in cui era presente il termine creolo), ma dall’ambito della linguistica. Quello che voglio dire è che sia creolo che meticcio facevano parte della teoria socio-biologica del colonialismo spagnolo e portoghese, che ha prodotto un vero e proprio sistema castale, con categorizzazioni talmente complesse da non fare invidia all’India (e guarda caso il termine casta è stato coniato proprio dai portoghesi per l’India). Così complesse e specializzate che esistevano matrici per valutare i risultati di ogni possibile incrocio, così che un meticcio “composto” da A e B dava C, uno composto da C e D dava Z, e così via: ecco il senso della prevedibilità del meticcio cui fa riferimento Glissant, opponendola alla sua idea di creolizzazione come processo o attitudine esistenziale.
Di tutto questo credo, per alcune remote letture, rimanga più di una traccia nel sistema Brasiliano di categorizzazione dei bambini appena nati sulla base del colore della pelle, e probabilmente qui jangadero può confermarmi o smentirmi.
Insomma, il vero problema è che qui ci si muove su due piani distinti, che si sovrappongono solo a tratti: un problema serio e che molti studiosi hanno evidenziato quando si ragiona di termini quali creolizzazione, ibridazione, meticciato e così via. Ovvero che si ha da un lato quello che Geerz definiva un “modello per”, o un’etica, dall’altro quello che chiamava un “modello di”, ovvero una visione del mondo. Io utilizzo creolizzazione – sempre come processo, non sostantivo (creolo) – inserendomi in un certo filone di ricerche e come strumento analitico di lettura della società e allo stesso tempo di potenziale cambiamento della stessa. Ma ad altri livelli, come hai fatto notare tu molto chiaramente, creolo è un termine descrittivo utilizzato dai soggetti all’interno di contesti empirici ben definiti, in cui appunto esso identifica posizioni, ruoli, storie, relazioni di potere.
Non posso quindi che dire che, in alcuni di questi contesti (ma non in tutti) l’utilizzo del termine creolizzazione come “modello per” potrebbe effettivamente stonare con il modo in cui lo si utilizza empiricamente, con il suo contenuto descrittivo (“la visione del mondo”). E certamente sono questioni che bisogna considerare attentamente quando si voglia ragionare seriamente di modelli (sia “di” che “per”) per descrivere, analizzare e agire politicamente nel mondo.
E qui mi fermo che ho già scritto troppo, e ho pure detto che non volevo farla troppo lunga…
wow TommasoS, grazie!
fantastica quest’analisi, grazie davvero, e per me in particolare la nota sulla “reificazione identitaria” criticata da Glissant (che mi dà voglia di leggerlo). e, quanto alla parte più linguistica, ottimo in particolare il riferimento alle “regole di trasformazione da una variante all’altra”, e alla “capacità dei soggetti di utilizzarle in termini strategici”, che mi interessa davvero un sacco. quindi intasco golosamente la bibliografia (selezionata giapster, se ho capito bene) Bickerton-Drummond-Hannerz.
e magari per me è venuto il momento di provare a imparare un po’ di qualche creolo: forse un giamaicano qui in svezia, oppure un haitiano certo avrebbe senso dopo il mio prossimo trasloco.. ma una biografia sociolinguistica su come strutturare un processo d’apprendimento di un creolo che sia liberante per due parlanti uno più ‘centrale’ e un altro meno ce l’avresti?
prendila pure come una battuta e non come un’altra richiesta di megacommento, ma davvero mi aiuterebbe.. tentativi che ho fatto in passato di farmi insegnare un po’ di creolo sono falliti per cattiva gestione (mia) di questo problema.
E poi grazie jangadero! (e lingua ‘interferita’ del tuo ultimo commento era bellissima.. :) )
dzzz non c’è di che, ho provato a dire la mia su creolo in base alla mia limitata cultura un pò ibridata da una discreta esperienza brasiliana e a proposito posso confermare a Tommaso che nel “registro” di nascita in brasile è riportato il colore della pelle, credo che la scelta sia limitata branco preto o pardo – “registro” che viene usato per ottenere qualsiasi altro documento e che quindi si possiede non si richiede come qui da noi alla bisogna e tanto per fare un pò di “folklore” molti (ovviamente dei “meno abbienti”) non registrano i figli quando nascono tanto che il governo Lula per far emergere questi invisibili aveva lanciato una campagna pubblicità progresso attraverso anche la rede globo per spingere i genitori a registrare i figli legando gli aiuti alimentari e economici al possesso di tale documento e alla frequenza scolastica – parliamo di un paese che già diversi anni prima aveva la maggioranza della popolazione minore di 18 anni (nel 2006 gli aiuti nello stato di bahia – non sono sicuro che fosse un’iniziativa federale o che fosse uguale per tutti gli stati o differenziata per il nord-est- erano mezzo litro di latte da portare a casa dalla scuola e 10 o 20 reais al mese, non ricordo esattamente – al tempo 3 reais e qualcosa per un euro e il salario minimo intorno credo ai 300 350 reais), scusate la parentesi ma per continuare nel campo dei significati assegnati alle classificazioni degli incroci “razziali” non posso fare a meno di riportare il forte significato negativo assegnato alla parola caboclo che è l’incrocio tra indios e neri, viene dipinto come una sorte di diavolo che somma i caratteri negativi della “razze” africana e indigene, uno scuro con i capelli crespi ( i capelli crespi sono visti come orribili, ovviamente perchè denotano appartenenza a discendenza africana – ricordate malcom x che prima di prendere coscienza li stirava?) pigro come un africano ma malvagio come un indio spesso un killer, e non posso fare a meno di pensare che cablocos erano proprio gli incroci che si creavano dagli schiavi scappati nel folto della foresta e che si organizzavano nei quilombos – comunità di schiavi fuggiti che entravano in contatto con comunità indigene unendo la condizione di schiavo scappato alle conoscenza ancestrale della foresta e quindi cosa di più inviso agli schiavisti di questo?
marò ho scritto ‘libiano’ ! scusate tutti. ‘… non c’è nessun libico…’ stavo sotto la doccia quando m’è venuto il flash ho detto ‘ma porc !’ mi correggo.