Intervista a Harry Browne, autore di «The Frontman. Bono (Nel nome del potere)»

Harry Browne

Harry Browne

[E’ uscita da pochi giorni in italia l’inchiesta di Harry Browne su filantropia, affari, fandonie e potere di Bono Vox. Quella che segue è la prima intervista italiana all’autore, in esclusiva per Giap. Le domande sono di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti (curatori dell’edizione italiana) e dello scrittore Max Mauro. Quest’ultimo conosce bene Dublino, dove ha vissuto e fatto ricerca sulla cultura popular e le questioni di razza e classe nelle realtà urbane irlandesi. Un suo saggio su “razzializzazione” e calcio giovanile in Irlanda è incluso in questo libro. La traduzione di domande e risposte è di WM1.]

AP. Il tuo libro dà un contributo importante a un genere che ha valore anche dal punto di vista narrativo. The Frontman è una biografia, un saggio, un pamphlet politico, una miscela di tutti questi generi. Come mai hai deciso di impostare la tua scrittura su quest’ibridazione? Stavi seguendo qualche esempio, forse nella tradizione della pamphlettistica radicale?

HB. Sono lieto che lo riteniate un contributo importante! La cornice concettuale e di genere di The Frontman si deve a Verso, la casa editrice britannica, che pubblica la collana “Counterblasts”. L’idea di fondo della collana è rivitalizzare la tradizione del pamphlet tipica del diciassettesimo e diciottesimo secolo, con libri dedicati a singoli personaggi, che sono saggi biografici duri e polemici in forma di pamphlet estesi. O, per usare un’espressione vernacolare del XXI secolo, sono dei “takedown“. Io ero già abituato ai takedown di un migliaio di parole, ne avevo scritti a dozzine su varie pubblicazioni, e alcuni riguardavano già Bono, ma sono rimasto sorpreso quando da Verso mi hanno fatto sapere che dovevo scrivere un “pamphlet” di settantamila parole! Mentre lo scrivevo, comunque, non avevo consapevolezza di quali generi stessi usando o di come li stessi miscelando. Per gran parte del tempo, ero concentrato sullo scrivere un “libro di fatti” più che una polemica, un serbatoio di fatti veri che anche gente di opinioni diverse avrebbe trovato difficile confutare.

Bono, Briatore e l'altro non sappiamo chi sia

In guerra contro la povertà.

WM1. Ci sembra che da diversi mesi Bono stia rispondendo a The Frontman senza mai nominare il libro. Le sue prediche e interviste più recenti sono piene zeppe di excusationes non petitae. Le sue spiegazioni su quanto bene ha fatto suonano come risposte a domande che i giornalisti gli fanno di rado ma che sono state il punto di partenza per il tuo libro. E’ corretto?

HB. Penso di sì. Va detto che io non sono il primo autore ad aver scritto certe cose su Bono, ma probabilmente è vero che il libro e la visibilità che ha avuto gli hanno fatto capire che doveva pur rispondere, o almeno provarci, o almeno dare l’idea di farlo. L’esempio più vistoso è un’intervista su The Observer del settembre scorso, dove, senza esplicitare il prestito, già nella titolazione si riprendeva la parola “potere” direttamente dal sottotitolo del mio libro. «Bono: c’è differenza tra ingraziarsi il potere ed essere vicini al potere». Nei commenti sotto il post, l’autore dell’intervista (che ci era andato molto leggero), ha ammesso – in tono spregiativo – di aver letto The Frontman. Ma Bono è andato più vicino a menzionare il libro di quanto abbia fatto il giornalista! Nessuno dei due, comunque, ha affrontato o risposto davvero alle critiche principali.

Uomini di pace. George W. Bush e Bono

Uomini di pace.

WM1. Nel tuo libro fai un ritratto molto duro dei media mainstream irlandesi, li descrivi più o meno come una servizievole schiera di leccaculi, sempre pronti a guardare Bono e gli U2 attraverso lenti rosa. Qual è stata la loro reazione al libro?

HB. Ci sono state reazioni diverse. Intanto, nessun importante organo di stampa irlandese mi ha intervistato. Io non ci avevo fatto caso, poi sono andato in Spagna e in Messico a promuovere l’edizione in spagnolo, e tutti i giornali e periodici più importanti mi hanno intervistato! I due giornali più influenti d’Irlanda hanno stroncato il libro (senza far presente che dentro li avevo criticati), ma nemmeno gli autori di quelle stroncature hanno difeso in toto Bono: hanno dovuto riconoscere (vista la diffusa antipatia popolare nei suoi confronti) che criticare Bono è giusto, ma hanno aggiunto che il mio particolare modo di criticarlo non andava bene, per via delle mie opinioni politiche o del mio presunto “fanatismo” [Tutto il mondo è Belpaese, N.d.T.]. Resta il fatto che quei giornali, e anche altri, Bono lo criticano di rado.

Uomini di pace. Bono e Tony Blair nel 2008.

Uomini di pace. Bono e Tony Blair nel 2008.

WM1. Puoi spiegare ai nostri lettori che non hanno ancora letto The Frontman come mai la stampa irlandese è così reverente nei confronti di Bono, mentre nella società è spesso bersaglio di derisione e satira? E’ solo perché è un pilastro dell’establishment, o c’è una ragione culturale più profonda? 

HB. In generale, bisogna almeno che una persona ricca e influente venga condannata per un crimine prima che i media irlandesi decidano di parlarne con un po’ di spina dorsale. E’ probabilmente così in molti paesi, ma in un posto piccolo come Dublino l’effetto è ingrandito. Alcuni esponenti dell’alta società irlandese mi hanno detto, in privato, che hanno adorato il libro ma non possono dichiararlo in pubblico. Una qualsiasi conversazione da pub a qualunque livello della società irlandese è molto, molto più corrosiva di The Frontman, ma l’Irlanda ha un’antica tradizione di gossip che prospera sulla (e si crogiola nella) differenza tra quel che si dice in privato e quel che si pubblica. Per quanto riguarda Bono, va aggiunto che lui e gli U2 sono il più famoso prodotto da esportazione del paese dopo la Guinness. Quindi, c’è un certo perverso orgoglio nel tenere per noi i nostri peccati. Detto questo, molto del materiale che ho usato in The Frontman è tratto da fonti pubblicate, e alcune erano irlandesi!

I Pitstop Ploughshares

I Pitstop Ploughshares. Processati per aver sabotato la guerra di Bush e Blair.

MM. Quello che hai detto sul criticare Bono in privato ma non in pubblico risolleva un’annosa questione: la mancanza di pubblico dissenso nell’Irlanda contemporanea e postcoloniale. Mi sembra che, sotto questo aspetto, tu sia uno dei pochi ad andare controcorrente. Nel tuo libro precedente, Hammered by the Irish, hai raccontato la storia dei Pitstop Ploughshares, cinque pacifisti irlandesi che nel 2003 hanno causato un danno da due milioni e mezzo di dollari alle forze militari USA. Si dice che, per via del tuo esplicito appoggio al movimento contro la guerra, tu abbia perso la tua rubrica sull’Irish Times. Adesso prendi un’icona nazionale e ne fai a pezzi l’immagine. Mi chiedo se la tua libertà intellettuale e la tua audacia abbiano qualcosa a che fare con la tua biografia: sei nato in Italia da un prete cattolico [padre Harry J. Browne] e una femminista e docente universitaria [Flavia Alaya], sei cresciuto negli USA e sei “emigrato” in Irlanda quand’eri già adulto. Ti senti mai un outsider?

HB. Comincio dalla parte finale della domanda: di certo non mi sento mai un insider! La storia della mia vita contiene molti elementi che influenzano questa condizione, e naturalmente c’entrano anche gli spostamenti geografici. Per esempio, io ero uno dei pochissimi ragazzini “bianchi” in un quartiere tutto nero e latino di Paterson, New Jersey, poi sono andato all’università in un college d’élite dove ero il primo a provenire dalla mia scuola. Detto ciò, non sono eccezionalmente audace, né mi sento solo. Sono una voce tra tante in Irlanda che, sebbene trascurate dal mainstream, fanno sentire forte il loro dissenso. Non credo che qui in Irlanda siamo più messi a tacere che in altri paesi: raramente passa un mese senza una mia intervista in TV o alla radio. Certo, il mio percorso l’ho scelto, ma è dipeso anche molto dal caso. Per esempio, i due libri sono nati da inviti che sentivo di non poter – o dover – rifiutare. L’esempio dell’attivismo dei miei genitori ce l’ho sicuramente in testa, da qualche parte, a ricordarmi cos’è importante. Sono abbastanza fortunato da avere un buon lavoro e la libertà che ne deriva. Uno dei Pitstop Ploughshares diceva spesso che il vero significato della parola «respons-abilità» è «capacità di rispondere». La mia posizione privilegiata mi dà un po’ di questa capacità, più di quanta possano averne molte persone in questo mondo di crudeltà e precarietà. Disprezzerei me stesso (ed è dir poco!) se non ne facessi uso.

Stephan Schmidheiny

Stephan Schmidheiny

AP. Il tuo libro non è solo su Bono, ma su tutto lo spettacolo della filantropia. Di recente, uno degli uomini più ricchi d’Europa, il miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, è stato condannato in Italia per la morte di 3000 lavoratori e cittadini esposti alle fibre di amianto dentro e intorno alle sue fabbriche. In giro per il mondo, Schmidheiny è ben conosciuto e rispettato in quanto filantropo. Non solo: un’università americana gli ha dato una laurea honoris causa per il suo presunto impegno a favore dell’ambiente. In Italia lo hanno giudicato colpevole di disastro ambientale. Cos’è che spinge questi ricchi bast… ehm, individui? La loro filantropia serve solo a lavarsi la coscienza? Oppure, difendendo questa o quella causa, diventano ancora più ricchi? Pensi che il capitalismo abbia un bisogno sistemico di filantropia?

HB. E’ un’ottima e difficile domanda, alla quale sarei tentato di rispondere, semplicemente, «Sì». Ma cercherò di dire qualcosa di più! Ovviamente, la filantropia ha una lunga storia, è più vecchia del capitalismo, e penso che vi sia un elemento di quello che Peter Buffett, figlio del “grande filantropo” Warren, chiama «riciclaggio di coscienza sporca». Ma il fenomeno neoliberista del «filantro-capitalismo» va ben oltre: i i filantro-capitalisti sostengono che i processi di accumulazione di ricchezza, da un lato,  e la beneficenza dall’altro, in realtà siano intrinsecamente collegati, non solo in sequenza (diventa ricco, poi dona qualcosa), ma in modo organico: prosperare facendo del bene. Buffett ha scritto di come gli enti di beneficenza vengano incoraggiati a parlare del loro «ritorno sugli investimenti». Questo progetto ideologico, naturalmente, va oltre l’auto-giustificazione dei ricchi bast… ehm, individui. E’ un discorso egemonico, un insistere sul fatto che non c’è alternativa a questo mondo che è non-proprio-il-migliore-ma-è-in-rapido-miglioramento dei mondi possibili. Bono, quando proprio vuole sembrare radicale, al massimo dice qualcosa tipo:  «A volte mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa al capitalismo». Il che equivale a negare ogni possibilità di vero cambiamento. E anche in quel caso, tornerà subito al suo argomento centrale: che non c’è motivo di attaccare, o anche solo ridimensionare, il potere dei ricchi autocrati, perché saranno proprio loro a salvare i poveri.

Bono, Trimble e Hume

Per via di quest’unica foto dove stringe la mano a due politici destinati all’irrilevanza, da tre lustri Bono racconta di essere stato uno dei protagonisti del processo di pace in Irlanda del Nord. The Frontman racconta anche la storia di questa foto e il suo vero significato.

MM. “Politicamente” parlando, Bono è stato più attivo a livello globale che in Irlanda. Una delle poche eccezioni, mi sembra, fu quando si occupò delle tensioni in Irlanda del Nord. Tu, però, critichi Bono per le sue posizioni di condanna della sola IRA. Puoi spiegarci perché pensi che sbagliò a muoversi come fece? Avrebbe potuto fare diversamente, visto cos’erano e sono gli U2 (per la “pace”, per il papa ecc.)?

HB. In The Frontman, le critiche alla posizione di Bono sull’Irlanda del Nord riguardano due periodi distinti: la prima metà degli anni Ottanta, quando erano in corso i Disordini, e la seconda metà degli anni Novanta, durante il processo di pace seguito al cessate-il-fuoco.
Per prima cosa, gli anni Ottanta: anche se gli U2 erano “per la pace” (chi non lo è?), all’epoca non erano particolarmente “per il papa”, e non solo perché erano in gran parte protestanti! Influenzati dalla teologia della liberazione, simpatizzavano con movimenti rivoluzionari in America centrale e Sudafrica. Ma quando si trattava di esprimersi su quel che accadeva vicino a casa, avevano le stesse posizioni dell’establishment britannico e di quello irlandese, cioè: condanna solo per la violenza irlandese-repubblicana, silenzio sulle sue cause e sul ruolo stragista dello stato, persino quando, come nel caso di Sunday Bloody Sunday, usavano il nome di una strage di stato!
Mi ha un po’ stupito che qualcuno se la sia presa con The Frontman per aver fatto notare questo. La storia degli anni seguenti ha provato, a detta di quasi tutti, che la strada da percorrere era il dialogo inclusivo, non certo la demonizzazione unilaterale. Anzi, oggi i politici e opinionisti irlandesi si vantano spesso di avere un modello da esportazione di processo di pace inclusivo. Io ho ricordato che una volta non la pensavano affatto così, e la cosa non gli fa piacere. Ci furono eccezioni, naturalmente, persone che aiutarono ad aprire la via per la pace, ma è del tutto normale che Bono non sia stato tra queste! Certo, come dico nel libro, in una cosa si è dimostrato leggermente migliore di altri personaggi dell’establishment: di recente, parlando di come ex-membri dell’IRA partecipavano con successo al governo dell’Irlanda del Nord, ha avuto la decenza di dirsi imbarazzato per il senso di superiorità morale che aveva da giovane.
Questo, però, non scusa i suoi vergognosi e fuorvianti proclami sul ruolo che ebbe nel processo di pace degli anni Novanta. Come spiego nel libro, la sua partecipazione si limitò a una banale photo-opportunity poco prima del referendum del 1998 sul cosiddetto “Accordo del Venerdì Santo”. Negli anni a seguire, lui e The Edge hanno detto che quella foto risolse una delicata situazione di stallo e convinse la gente a votare Sì. Puro nonsense: tutti sapevano che il Sì avrebbe vinto, e il margine di vittoria nel Nord fu superiore al 40%. Questo è uno dei peggiori esempi di come Bono ingigantisca il proprio ruolo, e una delle cose che più mi ha fatto arrabbiare mentre facevo le ricerche per The Frontman.

Copertina di The Frontman

The Frontman è pubblicato da Alegre, edizione italiana a cura di Wu Ming 1 e Alberto Prunetti.

Harry Browne presenterà The Frontman a Roma durante la Festa di Letteraria (5-7 giugno).

[Già che ci siamo, anticipiamo che durante la stessa festa noi presenteremo L’Armata dei Sonnambuli. Dettagli a seguire.]

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25 commenti su “Intervista a Harry Browne, autore di «The Frontman. Bono (Nel nome del potere)»

  1. La filantropia è una iattura.
    I ricchi si convincono di essere tra le stelle piu’ lucenti del firmamento. Guardano la terra dall’alto, luminosi e irraggiungibili. Non solo creano posti di lavoro, e gia’ questo basterebbe a santificarli, ma donano anche i loro averi ai piu’ bisognosi. I poveri pensano che l’unico modo di risolvere i loro problemi sia seguire quelle luci brillanti nel cielo. Il sogno e’ diventare ricchi e poi filantropi. Per aiutare le loro comunita’. E la ruota del capitalismo continua a girare.

  2. Interessantissimo personaggio l’autore e meritoria opera demistificatoria il pamphlet.
    Mi sovviene che in tempi lontani Fermin Muguruza (quello dei Kortatu e dei Negu Gorriak) in un suo disco dl 1999 dedicò un pezzo alle pose di bono, dal titolo “radical chic”, però il pezzo è cantato in euskera, credo che un libro in inglese avrà sicuramente più diffusione.
    A proposito di filantropia, secondo i giornali di oggi Soros sta facendo campagna acquisti in Italia…

  3. Riguardo la “pelosità” della filantropia neo (e vetero) liberista cito anche questo video di Zizek sul tema http://www.youtube.com/watch?v=hpAMbpQ8J7g

  4. C’era da aspettarselo, l’uscita di The Frontman ha provocato reazioni scomposte, stroncature, risolini di compatimento per l’autore e i curatori. Banalmente si potrebbe dire: bene, significa che ha colpito nel segno. Non fosse che l’impressione data da molti di questi commenti tra lo scandalizzato e il “se-potessi-vi-querelerei-per-lesa-maestà” è che il libro, questi commentatori, non lo abbiano letto, ma solo sfogliato frettolosamente. La tentazione di uscire subito con l’articolo sensazionalistico è mooolto più forte dell’esigenza di prendersi il tempo necessario a ponderare la mole di fatti, dati e materiale bibliografico squadernata da Browne. Perché il merito principale del libro è di “prendere sul serio” il “dispositivo-Bono/U2”: se Browne avesse scelto di usare solo l’ironia nei confronti di Bono e della sua pomposità e vacuità, come molti suoi critici hanno fatto sino ad ora, The Frontman non sarebbe stato altrettanto potente. Ironizzare, tutto sommato, è la strada più semplice da percorrere. Invece l’autore ha condotto un’inchiesta vera e propria, usando le tecniche del giornalismo, consultando (e rendendo fruibili a tutti) gli atti costitutivi e i bilanci delle società di Bono e degli U2. Ma ha usato anche le tecniche della narrativa, ad esempio raccontando uno stesso fatto da diverse angolature, per mostrarne le diverse sfaccettature e implicazioni, contro la pretesa di Bono di affermare il suo solo punto di vista. Bono incontra Keith Richards? Vediamo come la racconta Bono e come Richards. Bono lancia una campagna per combattere l’AIDS con sponsor e endorsement “che contano”? Vediamo come la racconta Bono e cosa ne pensano gli attivisti e gli intellettuali africani.

    In retorica si direbbe che Browne adotta una “istanza logica” in contrapposizione con la “istanza patetica” del discorso di Bono. E “patetico” in questo caso si può intendere in due modi: nel senso di suscitare patos (o più probabilmente compassione), nelle intenzioni di Bono, e nel senso di riuscire patetico alla prova dei fatti.
    Browne non cede all’invettiva, non fa il gioco di Bono, non moralisteggia: sposta la dialettica sul campo dei fatti, coglie le aporie del filantro-capitalismo, ne smonta la retorica pezzo per pezzo, a colpi di logica.

    A fronte di tutto questo, escono recensioni in cui il lavoro di Browne viene trattato con sufficienza, recensioni il cui sottotesto è:”ma cosa pretende di dimostrare ‘sto Browne?”. Versione postmoderna e supponente del sempiterno “tutto bene, madama la marchesa”..
    Chi ha seguito su twitter lo scambio tra Wu Ming 1, il giornalista del quotidiano Europa Nicola Mirenzi (autore di una recensione a The Frontman) e un’altra utente ha avuto un ennesimo esempio di come la complessità del dibattito venga rigettata con le armi (spuntate) dell’ironia, del “ma prendetevi meno sul serio! Non ci tediate!”.

  5. okee dokee – il libro sembra interessante e lo leggero’ sicuramente, pero’ come promesso su tuitter mi osno andata a riguardare il testo della canzone Sunday Bloody Sunday e devo dire che Browne sembra aver volutamente travisare il significato (anche se sembra impossibile): la canzone parla di un evento spaventoso, una strage contro civili che manifestavano a Derry, mentre e’ un po’ troppo semplicistica (“usiamo il nome di una strage molto vicina alla coscienza di tutti – negli 80 – per parlare piu’ genericamentedi come si vedano morti e feriti in TV tutti i giorni e sia sbagliato”), non c’e’ alcuna giustificazione dell’azione e solo condanna della strage.

    Dopo che avro’ letto il libro potro’ forse avere altri commenti…

    • Infatti, prima di commentare su questo, consiglio davvero di leggere il libro.

      La canzone non parla della strage di Derry del ’72, ne usa solo il nome nel titolo. Al contrario, Sunday Bloody Sunday nasce come canzone inequivocabilmente anti-IRA, tanto che nella prima versione il verso d’apertura è «Don’t talk to me about the rights of the IRA», ma in un secondo momento la band decide di rendere il testo più generico, indefinito, e Browne spiega bene che conseguenze sul breve, medio e lungo termine abbia avuto questa scelta.

      Solo che poi la vera natura della canzone riemerge varie volte, soprattutto nelle parti parlate che Bono ci infila dentro nel corso degli anni ’80. Ce n’è un esempio chiarissimo in Rattle and Hum, dove la canzone viene usata per condannare la violenza di una parte sola, quella dell’IRA, e Bono, per essere sicuro che il messaggio si capisca, dice: “Fuck the revolution”. Browne ricostruisce tutta la genealogia e analizza il ruolo che ebbe la canzone nel costruire il mito degli U2 “impegnati sulla questione nordirlandese” (cosa falsissima, se ne sono sempre sbattuti i coglioni, fatta eccezione per la “photo opportunity” di cui sopra).

      Del resto, cosa significa l’affermazione «This is not a rebel song» che Bono faceva al momento di attaccare la canzone? Per «rebel songs» in Irlanda e Irlanda del Nord si intendono le canzoni contro gli inglesi, dove si parla di prigionieri politici, di vittime della repressione ecc. Anticipando che Sunday Bloody Sunday non era una rebel song, Bono non stava facendo un’affermazione qualsiasi: si stava parando il culo. Anche il clima che negli anni ’80 induceva gli artisti della Repubblica d’Irlanda a pararsi il culo, ribadendo e ribadendo e ribadendo la (superflua, pleonastica) condanna nei confronti dell’IRA è magistralmente ricostruito da Browne nella prima parte di The Frontman. Gli U2 facevano parte di una scena rock dalla quale non partì mai alcuna parola di condanna per l’occupazione coloniale britannica e per la repressione da parte dello stato, solo genericissimi discorsetti contro “la violenza”.

      Browne ricorda anche che gli U2 annullarono la partecipazione a un St. Patrick’s Day a New York perché c’era un carro dedicato a Bobby Sands.

  6. Browne parla anche di Bono nella sua veste di speculatore edilizio. Nell’intervista e nelle recensioni non se ne è parlato, ma è una delle parti più forti del libro.

  7. La recensione di “The Frontman” più grottesca, rancorosa e ideologica è qui :-D

    Ma soprattutto, è la più sciatta uscita sinora: non dico leggere il libro, ma almeno imparare il nome dell’autore! Si chiama “Harry Browne”, non “Harry Brownie” come scritto e ripetuto nell’articolo.

    Da catalogare tra le “reazioni scomposte” a cui accennava Casarotti.

    Mirenzi è Lester Bangs, al confronto.

  8. Come da scambio twitter e prima di addentrarmi nella lettura di The Frontman, segnalo un’intervista a Cristina di Giorgi del 2009, per inquadrare il contesto musical-ideologico dell’autrice.

    • «Io suono la chitarra e qualche volta canticchio anche, ma sono una persona molto molto timida… cantare di fronte ad una platea di camerati però è sempre stato un mio sogno nel cassetto, che per il mio carattere dubitavo di riuscire a realizzare…»

    • Dunque oggi abbiamo imparato che “Giovinezza” è una canzone di “musica alternativa”, che ‘non bisognerebbe mai “fare le pulci” a chi fa beneficenza’ e che i comunisti hanno cambiato gusti: una volta mangiavano i bambini, ora i “Brownie”: http://2.bp.blogspot.com/-jGvTh1ChV7k/TdOPTMi07UI/AAAAAAAAACU/n9yh2z7TfnY/s1600/Brownie.jpg
      Se non altro ci si è affinati in ambito alimentare.

  9. Episodio marginale, ma significativo. Alla fine degli anni ’80 spopolava nel fiorentino una cover di “With or Without You” eseguita dalla band demenziale “Edipo e il suo complesso”: M’e’ morto i’gatto. Ne esista anche una versione in cui la canta Piero Pelù (che non riesco a ritrovare). Questo brano non è mai uscito in vinile (ha circolato solo come bootleg) per l’intervento degli U2, che tramite il legale della loro casa discografica ne hanno impedito la pubblicazione. Il diritto era dalla loro parte: è una cover, e sulle cover si pagano i diritti d’autore. Però che una multinazionale del rock, nel 1990 (quando gli Edipo stavano per pubblicare il loro primo disco, “Pura lana”) si muova per impedire una cover in quel di Prato è una sorta di “tu non sai chi sono io”: facevano prima a mandargli una bottiglia di olio di ricino, agli Edipo (così facevano contenta anche Cristina Di Giorgi).

    • Harry Browne ricostruisce un episodio simile in cui gli U2 agirono di prepotenza pur avendo torto: quando riuscirono a far ritirare dal commercio un disco dei Negativland. Anni dopo, lo stesso The Edge ammise, in un’intervista, che il diritto *non* era dalla loro parte, ma non hanno mai chiesto scusa e i Negativland ne ebbero un danno enorme.

      • In generale, le nefandezze di Bono e degli U2 sono tante, ma proprio tante. Qualcuno dovrebbe scriverci sopra un lib… Ooops! :-D

  10. Secondo Fabrizio Simoncioni (che è diventato più di un qualcuno nel campo della produzione musicale italiana, e che quindi non credo apra la bocca a vanvera su questioni legali) a telefonare fu non il legale, ma Bono in persona – da cui il suo toscanissimo commento: “Bono? Bono ‘na sega!!” (viene buono per una fascetta?)

  11. Per l’Espresso le magnifiche sorti e progressive dell’Europa dipendono da Bono:
    “Bono Vox per l’Europa: verso il risveglio della coscienza europea”

    http://castaldi.blogautore.espresso.repubblica.it/2014/03/09/bono-vox-per-leuropa-verso-il-risveglio-della-coscienza-europea/comment-page-1/#comment-19

    Praticamente un messia.

  12. «…l’intervento di uno dei nostri leader politici, cioè di Bono degli U2, che è un militante del Partito Democratico Cristiano Irlandese – Fine Gael, che sostiene le ragioni dell’Europa dei popoli» [Mario Mauro, ex ministro della difesa]
    http://www.youtube.com/watch?v=Ce-SQ5D-e7Y

    • Interessante il riferimento all’ “Europa dei popoli”. Prima che se ne impadronissero le varie leghe in giro per l’Europa, l’espressione veniva usata, in modo meno becero ma con un senso altrettanto reazionario, da una certa corrente della destra europea che faceva riferimento alla CSU bavarese e in particolare a Otto von Habsburg. Il quale Otto von Habsburg negli anni cinquanta aveva ricevuto da Franco il compito di costruire una rete di contatti con le destre europee per rompere l’isolamento della Spagna ( http://es.wikipedia.org/wiki/Centro_Europeo_de_Documentaci%C3%B3n_e_Informaci%C3%B3n ).

  13. Notizia di servizio:

    Venerdì 4 aprile alle ore 18, Alberto Prunetti presenterà THE FRONTMAN alla libreria Mondadori d Poggibonsi.

    Al termine saranno picchiati tutti i fans degli uddue (da me e il Prunetti medesimo).

  14. Alberto Prunetti e Wu Ming 1 parlano di #TheFrontman a «Flatlandia», trasmissione sui libri di Radio Onda d’Urto
    http://flatlandia.radiondadurto.org/2014/03/31/harry-browne-the-frontman-bono-in-the-name-of-power/