«I pifferai incantano ancora». Intervista sul Fatto Quotidiano e altre storie, viaggi, letture #ArmatadeiSonnambuli

Scaramouche visto da Alessandro Caligaris. Clicca per vedere altre immagini ispirate al romanzo.

Scaramouche visto da Alessandro Caligaris. Clicca per vedere altre immagini ispirate al romanzo.

Esattamente tre mesi fa, l’8 aprile 2014, usciva L’Armata dei Sonnambuli. Dieci giorni più tardi usciva Bioscop. Il minimo che si possa dire è: sono stati mesi impegnativi. Mesi di «viaggi e intemperie», per dirla con due Graziani (Ivan e Filippo) che ci piacciono, al contrario di quell’altro, quello dei vespasiani.
Viaggi e intemperie. Con oltre quaranta date già nell’odometro, non siamo nemmeno a 1/3 del Révolution touR. Tra un paio di settimane pubblicheremo le date della seconda tranche (agosto – novembre 2014). Ricordiamo che wir fahr’n fahr’n fahr’n auf der autobahn fino all’aprile 2015. L’ultimissima presentazione, probabilmente, la faremo al Museo medievale di Bologna. Tra nove mesi. Siam mica gente che naviga a vista!
Intanto – ma già lo sapete, se seguite Giap – il libro ha scatenato e continua a scatenare discussioni, risposte, commenti, Arts & Crafts, prestidigitazioni, dgsrtdb, pw8oauvòn, 5y23rw8vk5e… Anche il disco fa parecchio parlare di sé, e presto pubblicheremo un nuovo speciale.
Ieri, 7 luglio, Il Fatto Quotidiano (del Lunedì) ha pubblicato due paginate di intervista a WM1, realizzata da Salvatore Cannavò. La riproponiamo qui (occhio al video linkato nell’intro!). A seguire, linkiamo altre interviste molto ben riuscite – in quella su Doppiozero abbiamo «aperto l’officina» della lingua sanculotta – e recensioni apparse in rete. Ultima cosa: segnaliamo che nella colonna qui a destra si può scaricare la scheda del reading-concerto Zó bòt! del gruppo Cvasi Ming (Francesco Cusa, Vincenzo Vasi e WM1).
Buona lettura e buon ascolto.

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WU MING: «I PIFFERAI CI INCANTANO ANCORA»
La rivoluzione francese è l’ambientazione del nuovo romanzo del collettivo bolognese. Nel libro, il tema del leader e del sonnambulismo di chi lo segue. Dopo gli anni di B. ora tocca a Renzi?

di Salvatore Cannavò

Centocinquanta presentazioni in quello che hanno battezzato Révolution touR. Sale strapiene. I Wu Ming sono tornati. «Ogni due o tre anni qualche trombone ci dichiara morti ma siamo ancora qui, resistiamo da quasi venti anni. Abbiamo cominciato nel 1995». Wu Ming 1 lo incontriamo a Roma, nel quartiere San Lorenzo, prima di due presentazioni consecutive, una al centro Casetta Rossa della Garbatella e l’altra a Strike [qui il video completo della serata, con Giuliano Santoro e il Teatro Bi.Pop Zaccaria Verucci, N.d.R.]. Quando ha presentato il volume, la prima volta, al centro Communia, ad ascoltarli c’erano più di duecento persone. Per la presentazione di un libro non è uno spettacolo frequente. Il loro ultimo lavoro, L’Armata dei sonnambuli , dedicato allo scrittore bolognese [ferrarese, e ci teneva a precisarlo :-) N.d.R.] Stefano Tassinari, morto due anni fa e riferimento degli sceittori “impegnati” di quella città, è ambientato nel cuore della Rivoluzione francese, raccontato con il linguaggio del popolo, basato sul protagonismo delle donne, la forza della rivoluzione ma anche della controrivoluzione suscita un coinvolgimento che oltrepassa la letteratura e sconfina nella politica. «C’era molta attesa su questo lavoro. Si sapeva che avremmo scritto del Terrore rivoluzionario. Mentre lavoravamo al libro, si è tornato a parlare di Rivoluzione francese, la ghigliottina è entrata di nuovo nel linguaggio politico. Anche Berlusconi si è messo a citare Robespierre e Marat. Abbiamo intercettato un flusso di immaginario collettivo e la partecipazione alle presentazioni, oltre che le vendite del libro, lo dimostrano.»

Chi sono i sonnambuli?

Julius EvolaNel libro, l’Armata dei Sonnambuli è una banda armata fascista ante litteram. Le elucubrazioni del suo capo echeggiano, con un anacronismo voluto, la retorica della destra radicale del ‘900. C’è Evola, c’è Codreanu. C’è Gentile. Ma più in generale, nei sonnambulizzati ognuno può vedere tante cose del nostro presente. Le masse irretite, l’opinione pubblica addomesticata, il controllo delle menti…

Parliamo anche dei “grillini”? Voi avete condotto una battaglia netta contro il grillismo.

Grillo sul gommoneSonnambuli sono quelli che vanno dietro al pifferaio di turno, lasciandosi suggestionare dal “carisma”. C’è gente che segue Grillo qualunque musica esca dal suo piffero. Ma di pifferai in giro ce ne sono tanti, e quindi anche di sonnambuli.

C’entra anche Renzi?

RenziRenzi è senz’altro un pifferaio. Occupa una precisa casella nell’ordine simbolico, la casella del «Ci vuole quello lì». Prima per molti era occupata da Berlusconi, poi da Grillo, adesso spopola Renzi. “Quello lì” è il capo senza il quale il Paese sembra incapace di parlare di sé stesso. C’era anche nel “popolo comunista” un culto del capo, una visione acritica e fideistica di figure come Togliatti e Berlinguer. Se uno guarda a come si è ridotta la base residua del vecchio Pci, a quello che ne è rimasto, e guarda indietro, si accorge che c’era già molto sonnambulismo, ad esempio nel pensare che «il segretario ha sempre ragione». Oggi il segretario è Renzi, che eredita anche quel sonnambulismo.

Renzi però non è l’espressione di quel vecchio Pci.

Renzi è un cocktail, un miscuglio eterogeneo di molte cose, c’è molta “gioventù democristiana” ma anche molto divismo, molta della celebrity culture che permea le generazioni più recenti. Ma si afferma, almeno per ora, in un Paese che ha sempre avuto il culto del capo, un culto trasversale per capi diversissimi tra loro (Mussolini, Togliatti, Berlusconi), comunque sempre per “quello lì”, mister “ci vuole lui”, il personaggio senza il quale il discorso pubblico sembrava non potesse articolarsi.

Il capo sarebbe oggi il leader.

Sì, ma il triste ritornello del «ci vuole un leader», «manca un leader», «Tizio non è un vero leader» ha fatto breccia a sinistra proprio perché il vecchio “popolo comunista” aveva già quell’impostazione. Non è solo un portato della “politica-spettacolo televisiva”, della “americanizzazione delle campagne elettorali” e quant’altro. La questione è più complessa, e andrebbe storicizzata.

Qual è l’antidoto al sonnambulismo?

La partecipazione che si realizza delegando il meno possibile. Responsabilizzazione, autogoverno. Se si guarda al movimento No Tav ci si accorge che non ha leader riconoscibili, non ha culto del capo. I media mainstream hanno provato a isolare Perino, a descriverlo come un capo per poterlo sbranare, ma hanno fallito perché il movimento NoTav non funziona così e non ha mai offerto all’altare sacrificale il leader da fare a pezzi. Errore che invece fecero, a inizio millennio, le varie correnti del movimento impropriamente chiamato “no-global”.

No Tav
Eppure i No Tav votano Grillo.

E’ un segnale che hanno dato sul terreno elettorale, mantenendo intatta la loro autonomia sul territorio. In Valle è il movimento No Tav a battere il tempo, e i partiti (M5S compreso) devono adeguarsi: pro o contro. Ed è facile verificare che da quelle parti il M5S ha avuto i voti ma quanto a radicamento è davvero poca cosa.

Tornando al libro, come opera e da chi è contrastata l’Armata dei sonnambuli?

Si forma dopo Termidoro, nel momento della “svolta a destra” della Rivoluzione. Sguazza nel caos delle vendette contro i giacobini, ma con un disegno tutto suo che lascio scoprire ai lettori.

Il libro propone quindi l’attualità della rivoluzione?

Tutti i nostri libri parlano, da Q. in avanti, di rivoluzione, della sua possibilità, di come si sopravvive alla rivoluzione e alla controrivoluzione.

C’è però chi vi accusa di fare propaganda, di redigere dei pamphlet.

Basta leggere un nostro libro per smontare queste stupidaggini, dette da chi non si è mai minimamente informato sul nostro conto. Di romanzi a tesi non ne abbiamo scritti mai, come non abbiamo mai fatto sconti ai rivoluzionari. Ci piacciono troppo la complessità e la molteplicità. Noi scriviamo liberamente. La politicità dei nostri romanzi non sta nello scrivere un romanzo a chiave in cui c’è un rapporto diretto tra la trama del romanzo e ciò che accade nel presente. Cerchiamo di prendere la rivoluzione da tutti i lati possibili, farne vedere anche lo scabroso o il velleitario senza farne mai una facile apologia.

Con questo libro fate un uso accurato delle fonti storiche e in particolare del linguaggio. Come nasce questa scelta?

La citazione diretta dei documenti serve anche a compensare la fiction estrema di cui il romanzo si nutre. È stato un modo per ancorare il romanzo a un certo rigore (anche se verso la fine le fonti sono mischiate con la finzione, in un gioco quasi alla Borges). Per quanto riguarda il linguaggio è stata un’operazione ambiziosa. Bisognava costruire una lingua che restituisse lo sguardo popolare sugli eventi. Ci serviva la lingua del “popolo basso” con tutti i suoi stati d’animo, in grado di raccontare situazioni tragiche e scene comiche. Per quanto all’inizio possa sembrare bizzarra, abbiamo cercato di costruire una coerenza di impianto.

Voi utilizzate molte frasi e idiomi assolutamente non convenzionali, parole come “soquanti”, “negoddio”…

Parlez-vous Sans Culottes?La prima viene dall’emiliano, la seconda dal dizionario di Michel Biard Parlez-vous sans-culotte? Abbiamo preso veri modi di dire dell’epoca, adattandoli all’italiano, poi abbiamo “riportato tutto a casa”, al nostro dizionario sentimentale, quindi con molti prestiti e ricalchi dai dialetti emiliani (bolognese e ferrarese), cercando di “scaldare” la lingua.

I Wu Ming hanno sempre scritto romanzi storici. È finita questa fase?

Continueremo a lavorare sulla storia ma il filone cominciato con Q finisce con l’ Armata dei sonnambuli. Le nostre narrazioni avranno sempre a che fare con la storia ma vogliamo azzardare altre cose. Adesso stiamo scrivendo un libro per bambini, e l’anno prossimo usciamo con un libro di storie vere della Prima guerra mondiale. Singolarmente, io sto lavorando a un libro sui No Tav, anzi, sulla Val di Susa.

A che punto siete oggi, come collettivo?

Certamente non siamo più solo scrittori, ad esempio siamo diventati anche una rock band, Wu Ming Contingent (due di noi più due amici musicisti) e le collaborazioni con artisti di altre discipline sono importanti quanto i romanzi. Intorno a noi c’è una nube quantica di narrazioni portate avanti non solo con gli strumenti della letteratura. Musica, teatro, illusionismo, arti grafiche… L’obiettivo è raccontare storie con ogni mezzo necessario. Il nostro blog, Giap, non è più solo “il blog di Wu Ming” ma una comunità di lettori, in grado di fare inchiesta con una comunicazione in rete che sfrutta le potenzialità dei social network, in primis Twitter. Quello che facciamo è diventato molto più grande e complesso. Il romanzo non è più il centro di tutto, ma è vero che quando esce un nostro nuovo romanzo diventa una specie di “pietra miliare”, nel senso che ti dice a quale chilometro siamo arrivati.

L’Armata, dicevamo prima, è un romanzo sulla Rivoluzione. Vista come e da dove?

Dal basso, e da punti di vista inattesi, spiazzanti, come quelli dei magnetisti, quelli dei folli, o quello di un attore di teatro italiano. Una delle cose a cui tenevamo di più era raccontare il protagonismo delle donne nella rivoluzione francese. Le donne erano in prima fila, molto spesso erano le più radicali e i club rivoluzionari femministi (anche qui ante litteram) hanno posto una minaccia seria e furono sciolti nell’autunno del 1793.

Quindi è anche un romanzo “femminista”?

Sicuramente la questione di genere, dei generi, è centrale.

Qual è stata l’intuizione originaria?

Raccontare le gesta di un supereroe, Scaramouche in guerra contro i reazionari. Poi è venuto il resto, specialmente quando abbiamo scoperto gli scritti sul magnetismo.

Robespierre è un personaggio positivo?

E’ stato diffamato in tutti i modi, presentato come un pazzo assettato di sangue. Il Terrore è stato raccontato come uno “sbroccare” suo e di pochi suoi accoliti. In realtà cercò di mediare e incanalare nella politica le istanze radicali che venivano dal basso, il Terrore era chiesto dal popolo di Parigi. Oggi lo chiameremmo un “pompiere”, comunque il popolo di Parigi gli volle bene, e cercò di difenderlo.

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La targa che commemora Robespierre alla Conciergerie, identica a quella che fu rubata nel 1986. In quell’occasione lo storico Michel Vovelle scrisse: «Questa manifestazione di vandalismo controrivoluzionario non stupisce, nel contesto dell’attuale scatenata campagna contro tutto quanto ricordi la Rivoluzione, in particolare la Rivoluzione dell’anno II.»

E Marat?

Era il più benvoluto di tutti. Per questi uomini, la definizione di pazzi o sanguinari è stato sempre un modo per spoliticizzarli, per toglierli dal contesto in cui agirono. Fecero certamente errori, ma bisogna ricordare che in quei giorni era tutto “ex novo”, certe esperienze si facevano per la prima volta nella storia dell’umanità. Nessuno di loro era preparato. Le rivoluzioni falliscono ancora oggi, figuriamoci allora.

È ancora attuale la Rivoluzione francese?

Sì, e sta anche tornando centrale. Un anno di svolta è il 2011. Le primavere arabe hanno riattivato un discorso, quello dello spodestamento dei tiranni, che fatalmente ti fa ritornare là.

Vale anche per società occidentali e democratiche, dove non c’è il tiranno?

Non c’è il tiranno, ma c’è parecchia tirannide. E ci sono molte armate di sonnambuli in azione.


Un’intervista lunga e densa ce l’ha fatta Enrico Manera ed è apparsa su Doppiozero: «Wu Ming: sopravvivere alla controrivoluzione». Domande su Marie Nozière, sul magnetismo, sulla lingua dei sanculotti (la nostra risposta è sinora la spiegazione più dettagliata di come l’abbiamo costruita) e sul quinto atto. Risposte di WM1 e WM2.

Un’altra intervista lunga e densa, stavolta a Wu Ming 4, la trovate sul sito di uRadio, pubblicata in due puntate (uno e due). Realizzata a Siena, in occasione del seminario sulla figura dell’eroe epico tenuto nel giardino di Fieravecchia e della presentazione de L’armata dei sonnambuli, entrambi dello scorso 12 giugno. Domande di Santo Cardella e Martina Firmani.

Un’altra intervista lunga e densa, stavolta a Wu Ming 5, la trovate sul portale Tiscali. Realizzata al festival «L’isola delle storie» di Gavoi (NU) il 6 luglio scorso. Domande di Claudia Mura.

Un’altra intervista – meno lunga ma comunque densa – di nuovo a WM1 e realizzata a Roma lo stesso giorno di quella del Fatto Quotidiano, la trovate su COREonline. Domande di Fabio Ferrari, Federico Patacconi e Irene Salvi.

L'Armata dei Sonnambuli alla Garbatella

Presentazione de L’Armata dei Sonnambuli alla Casetta Rossa, Garbatella, Roma, 3 luglio 2014.

«Ma è soprattutto a un’altra suggestione di Darnton che il romanzo attinge: ossia che il mesmerismo, con il suo ideale di ritorno all’armonia naturale, non abbia contribuito solo alle origini culturali della Rivoluzione, ma abbia alimentato anche posizioni reazionarie, come nella parabola che vide Bergasse prima difensore di Luigi XVI, poi teorico della Santa Alleanza. Una delle vicende centrali del romanzo prende l’avvio da un documento che è una delle rare tracce in età rivoluzionaria del mesmerismo, passato di moda prima del 1789 per rifiorire nella Restaurazione. In esso Brissot denuncia un complotto volto a trasmettere per influenza magnetica al re le istruzioni comunicate dalla Madonna a una sonnambula visionaria che gli consentirebbero di riprendere il suo vacillante potere. Testimonia come le scoperte di Puységur abbiano favorito una riappropriazione in chiave religiosa dei fenomeni irrazionali del magnetismo, ma è anche lo spunto per una domanda che si svilupperà nell’800 come mostra un altro classico riedito, La sonnambula meravigliosa di Clara Gallini (L’Asino d’oro). Può un individuo in stato di ipnosi essere indotto a compiere il male verso se stesso e gli altri? La trama del romanzo smentisce l’ottimismo filantropico del marchese […] »
– Estratto da: David Armando, «Magnetismo rivoluzionario», Left n.23, 21 giugno 2014.

«“La rivoluzione è donna”, diceva qualcuno, e al giorno d’oggi lo dicono anche i muri. E difatti in questo romanzo, la donna è motore propulsore della fabula, riuscendo a stigmatizzare gli eventi truculenti del Terrore e post-terrore parigino […] Come potrebbero Marie Nozière o Claire Lacombe, rivoluzionarie, accontentarsi del perimetro delle vicende? Impossibile. Queste figure nello sviluppo della fabula hanno vissuto un divenire parallelo alla storia stessa, e nei cunicoli di questa hanno forgiato gli elementi affinché l’ingranaggio potesse continuare a funzionare.
Peccato che molti giornalisti o sedicenti tali abbiano fatalisticamente ignorato questo aspetto. Non a caso Wu Ming 1 durante recenti interviste ha spesso parlato di un “divenire donna” che il collettivo ha imposto alla creazione dei loro “oggetti letterari”. Senza dubbio, la maturazione è giunta. Lo si coglie anche nel linguaggio, giunto ad un mistilinguismo veramente gustoso […] Ma ciò che è interessante è come il linguaggio riesca ad accoppiarsi ai soggetti, giungendo anche ad elevarsi a voce collettiva, riuscire cioè a fornire la plebe, il popolo, di un linguaggio vero e proprio, che vive nel romanzo come una nube sempre gravida di tuoni e fulmini, pronta a esplodere nei colori di contaminazioni dialettali, in brulicanti canali di informazione ora distorta, ora gonfiata, pronti a riversarsi nelle onde dell’immaginario collettivo, spesso vivo grazie a quelle fatali “voci di corridoio” e “leggende metropolitane”.»
– Estratto da: Valerio Sebastiani, «Wu Ming, L’Armata dei Sonnambuli e il potere della contronarrazione», controlacrisi.org

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11 commenti su “«I pifferai incantano ancora». Intervista sul Fatto Quotidiano e altre storie, viaggi, letture #ArmatadeiSonnambuli

  1. Commento quà visto che su twitter è complicatto sprimersi bene.
    Condivido in parte il problema del culto al leader puo diventare un problema, certamente in Italia lo è stato. Ma credo sinceramente che si legge tra le righe un problema rispetto ai leader in generale. Io questo credo che sia un errore, perche si guardiamo le grande rivoluzioni, o anche i cambi plotici importanti questi sono stati sempre fondamentali. In Cuba los Castro, Che Guevara, Camilo Cienfuegos, in Venezuela Chavez, in Rusia Lenin o anche lo stesso Trostky e cosi possiamo continuare fino al infinito.
    Credo che è buono che esistanno figure di riferimento per la base della sinistra dove potere appoggiarsi.
    Evvidentemente più sono dentro di ogni lotta, meglio è perche la realtà diventa più ricca, e i leader continuano a essere persone invece di dei.
    Credo che un comment nel blog sul latinoamerica e i procesi sarebbe interessantisimo.

    • Se mi citi Camilo Cienfuegos, uno che è morto subito dopo la rivoluzione che aveva fatto, mi sa che stai mettendo insieme cose diverse, e in generale stiamo parlando di cose diverse.

      Il problema a cui mi riferisco nell’intervista è l’eredità conformistica del *culto del capo*, una forma di delega politica e simbolica assolutizzante che ha molto a che fare con la storia europea del Novecento, coi modi in cui è avvenuta la “nazionalizzazione delle masse” in questo continente (Russia staliniana compresa): il capo è l’incarnazione del popolo, è il capo a pensare per noi, il capo sa cosa è giusto, se lui dice X anche noi diciamo X. Questo è stato vero a destra come a sinistra. La critica ai “culti della personalità” che segnalavano la degenerazione dei processi rivoluzionari appartiene al marxismo critico da decenni.

      Enrico Berlinguer, di cui oggi tutti parlano bene e sembra una figura incriticabile, comunicava i cambi di linea politica sui giornali (non sempre sul giornale del suo partito, a volte anche sui giornali borghesi), la base lo veniva a sapere in quel modo e si adeguava, spesso mugugnando, ma si adeguava. Chi non si adeguava usciva dal partito. Era quasi tutto calato dall’alto. La base era in gran parte “spoliticizzata”, non aveva nessuna comprensione autonoma delle fasi politiche, e si è visto dal fatto che in maggioranza ha seguito a mo’ di gregge tutti gli ubriacanti volteggi e le giravolte fatte dal vertice, il PCI che diventa PDS che diventa DS che si fonde con quel che rimane della Democrazia Cristiana e diventa PD e dice tutto e il contrario di tutto, appoggia l’Austerity e critica l’Austerity ecc.

      Questa eredità, in Italia, si è mischiata con altri elementi, tipici della mentalità televisiva e più recentemente dell’interazione sociale su Internet, e ha prodotto varie sintesi, prima il berlusconismo, poi il grillismo, adesso sembra che ci sia il renzismo.

      Quest’analisi non va confusa con il rifiuto a priori di qualunque forma di delega, anche meramente operativa, o con il rigetto ultra-ideologico di ogni ruolo di dirigenza e orientamento. Tra l’altro, tu hai citato esempi di leadership molto diversi tra loro, ma se andassimo a sviscerarli entreremmo in un ginepraio pazzesco…

      Aggiungo che comunque la parola “leader” mi piace poco, mi suona sinistra perché tradotta letteralmente in tedesco diventa “Führer” e in italiano “duce” o “condottiero” (entrambi derivanti dal latino “ducere”, condurre, guidare).

      Nel 2011 uno studioso inglese, Nicholas Thoburn, ha scritto un saggio dove collegava la nostra poetica, la nostra politica autoriale e la critica marxista al “culto della personalità”. E’ una lettura molto interessante, si intitola To Conquer the Anonymous: Authorship and Myth in the Wu Ming Foundation, si scarica in pdf qui.

      • Ve l’ho già segnalato su Twitter, ma non avevo ancora letto il post.
        Ho scritto un pezzo su Guanyem Barcelona, la piattaforma di movimento che si presenta alle prossime elezioni amministrative di Barcellona. Qui: http://www.zic.it/spagna-guanyem-barcelona-cosa-vuol-dire-vincere-barcellona/
        Che c’entra? In parte c’entra perché questa piattaforma ha a tutti gli effetti una leader, Ada Colau, ex-portavoce del movimento PAH e questa cosa è può essere un problema, soprattutto se si ha come background i casi italiani elencati in questo post.
        Spiegare la sua forma di essere leader non è facile, se non si conosce il contesto, ma comunque ogni sua azione e parola per anni è nata dal frutto di assemblee e soprattutto lotte con le persone colpite da sfratti. Se guardate le pagine di Guanyem, vi rendete conto che questa autorevolezza ha una base ampia e del tutto composita. (Qui: https://guanyembarcelona.cat/ )
        Insomma pure il Subcomandante Marcos ora Galeano era un leader, ma c’è una differenza, seppur sottile e ambigua, tra il mettersi a disposizione e “fare” cose con altri, o essere un eroe solitario. E se non sbaglio con questo problema Scaramouche fa un frontale ben violento.
        Guardando questi casi specifici si capisce che esistono delle accortezze tecniche che si possono adottare per non diventare un capo mediatico e carismatico senza cadere nel facile leaderismo. Mai una volta per tutte, ma ogni volta facendo calcolando le proprie mosse. Tra l’altro nel discorsone fatto sulla morte della figura di Marcos di materiale ce n’è in abbondanza.

    • Questione interessantissima perché chi frequenta i lavoratori comuni sa benissimo che nel sentimento popolare convive il fastidio strafottente verso i potenti e l’attesa costante verso un capo che ci tiri fuori dalle grane diventando a sua volta il prossimo potente di cui lamentarsi.

      Non ho però mai visto una lotta, anche piccola, che non si coagulasse attorno a dei dirigenti oppure, se partiva acefala, che non generasse i suoi dirigenti strada facendo. E un dato di fatto è che spesso i dirigenti avevano un ruolo decisivo nello sviluppo della lotta, in molti casi frenandola o tradendola o gestendola male, ma in diversi casi anche spingendola più in là di quanto le dinamiche spontanee della base avrebbero potuto fare.

      Non si può negare che ci siano stati momenti storici in cui le masse sceglievano come capo qualcuno che era meno confuso di loro e che convinceva le masse stesse a muoversi in un modo rivoluzionario. Nei tre Paesi citati da @juanborge le masse si sono mosse per obiettivi più immediati scegliendo chi sembrava più adatto a guidarli in quella direzione:
      – liberarsi di Batista e della prepotenza straniera nel caso di Cuba;
      – uscire dall’austerity e dalla corruzione del regime bipartitico “puntofijista” nel caso del Venezuela;
      – uscire dalla Prima Guerra Mondiale e dal latifondismo nel caso della Russia.
      I gruppi dirigenti incaricati di avere un ruolo direttivo del processo hanno poi accompagnato le masse, in modo cosciente nel caso della Russia e sostanzialmente trascinati dagli eventi negli altri due casi, nella logica consequenziale della rivoluzione, dove in genere una cosa tira l’altra (per esempio le nazionalizzazioni in tutti e tre i Paesi sono state spinte in avanti dalla necessità di rispondere al boicottaggio padronale e alle trame imperialiste, più che da un preciso piano d’azione politico).

      Gruppi dirigenti diversi che fossero stati scelti in modo meno accorto per le stesse motivazioni avrebbero condotto il processo altrove, e non è automatico che le masse avrebbero saputo liberarsene con la giusta tempistica. Uno dei motivi per cui la Rivoluzione d’Ottobre è stata più consapevole di altre è perché le masse hanno fatto due rivoluzioni di fila a distanza di pochi mesi, ovvero hanno cambiato gruppo dirigente. Questo è successo anche nella Rivoluzione Francese naturalmente, sia verso sinistra sia verso destra, e chi ha letto il romanzo ne sa fin troppo. :-)

      Penso che la tempistica sia la chiave del discorso: una rivoluzione è troppo veloce perché si formi un gruppo dirigente coi tempi di maturazione della coscienza di massa, le masse possono stare con Kerensky nel Febbraio e con Lenin nell’Ottobre, ma non sono in grado di produrre un Lenin in meno di nove mesi. In nove mesi puoi produrre un neonato, non un gruppo dirigente rivoluzionario. Quello che faranno le masse, se le cose van bene, è *selezionare* un Lenin già pronto. Lenin stesso però era ben consapevole di essere stato selezionato da un movimento di massa che esisteva fuori da lui e che sarebbe esistito anche senza di lui; pare che ancora a gennaio 1917 abbia detto in una conferenza in Svizzera «Io ho ormai una certa età e non credo che farò in tempo a vedere una rivoluzione socialista, ma voi giovani…». Non sono i capi che fanno le rivoluzioni.

      Il discorso dei “pifferai” secondo me è legato a questo discorso generale, ma è più specifico. Riguarda in particolare una questione molto italiana, ma nei suoi tratti universali credo che riguardi un fenomeno diverso dalla semplice accettazione e selezione di un gruppo dirigente. Faccio notare che anche Marie e le altre nel libro hanno un rapporto conflittuale ma costruttivo verso il gruppo dirigente giacobino; secondo me è ben rappresentato un certo tipo di dinamica che si manifesta in molti fenomeni rivoluzionari, dove le masse “usano” a loro volta i propri capi e non ne vengono solamente utilizzate. C’è un abisso tra le petizioni incazzose e spesso un po’ minacciose rivolte dai sanculotti ai deputati della Convenzione e le parate militari in onore di Stalin.

      I pifferai sono un tipo particolare di leader, che “te la contano su”. Non penso che ogni leader debba essere necessariamente un pifferaio, esistono “leader di servizio”, esistono “leader naturali”, esistono anche semplicemente leader che pur sapendo utilizzare la retorica da comizio e la connessione sentimentale con le masse strutturano il loro rapporto col popolo in un modo non patologico o meno patologico. Penso che fare un dogma del movimento acefalo sia pericoloso come tutte le scorciatoie sulle forme organizzative, perché impedisce di scendere sul merito di come i dirigenti dirigano, lanciando un anatema generalizzato su ogni dirigenza che finisce per essere la voce di uno che grida nel deserto.

      Ci serve invece studiare gli spartiti dei pifferai, la loro capacità di usare sempre parole senza contenuto, di spostare l’attenzione su sciocchezze (se c’è una cosa che accomuna più di tutte lo stile di Berlusconi-Grillo-Renzi è il gusto per le stronzate, per le battute “brainless”, per i tormentoni ipnotici), di incoraggiare la passività. Ecco, un pifferaio non molla mai il piffero, e invita gli altri a non occuparsi di musica, al massimo battete le mani a tempo ché alla melodia ci penso io. Tutti i grandi capi rivoluzionari che meritano rispetto e affetto, al di là degli errori che avranno magari compiuto e delle debolezze che sicuramente avevano o della fine che hanno fatto, invitano alla partecipazione attiva, alla critica, alla messa in comune dei ruoli dirigenti.

      Svegliarsi invece che assopirsi è quello che distingue la rivoluzione dai suoi contrari.

      • PS: Volevo aggiungere una pulce nell’orecchio. In fondo il rapporto tra i sanculotti e Scaramouche non è un rapporto masse-leader? Elaborare sul tema. :-)

        • Uhm, no, questo non mi sembra proprio, e comunque nel romanzo noi mica indichiamo il supereroe come soluzione ai problemi :-) Il velleitarismo e iper-individualismo di Scaramouche (Léo diventa Scaramouche soprattutto per narcisismo e vendetta privata) si scioglie con una sola frase di Marie, “Uno solo mica basta”, dentro una parte di romanzo che si chiama “Alleanze”. E [SPOILER] non sarà Scaramouche a risolvere la partita con Yvers. Quello che fa Scaramouche è fornire spunti per un immaginario non sconfittista, ma non è un leader, tuttalpiù è un mito di lotta.

          Sull’analisi del pifferaio e sul fatto che non ogni gruppo dirigente sia destinato a generare un pifferaio, è chiaro che sono d’accordo, non è di questo che parlavo. Invito sempre a *storicizzare*, i ruoli e le dinamiche cambiano coi contesti e le fasi.

          Nell’intervista ho scritto che l’antidoto al sonnambulismo consiste nella partecipazione attiva e nel “delegare il meno possibile”, cioè, per restare nella metafora, *occuparsi di musica*, imparare a suonarla, abituarsi a fare il contrappunto.

          Per questo, attenzione a pensare che il movimento No Tav sia “acefalo”: un movimento acefalo non va avanti per 23 anni, radicatissimo nel contesto sociale, organizzato come pochi, con una visione strategica che si può criticare (su alcune cose rimango pochissimo convinto, es. sul fatto che serva a qualcosa votare M5S) ma che c’è ed è costantemente discussa e adattata. Il movimento le “teste” le esprime eccome, e ha le sue figure di riferimento, che potremmo senz’altro chiamare gruppo dirigente. Ed è un movimento – per quanto possa sembrare strano a chi diffonde una vulgata più anarcoide che anarchica di quel che succede in Valle – che non ha certo paura di delegare… né di revocare la delega.

          Il punto è che – e secondo me in questo funzionano come i migliori partiti rivoluzionari nei momenti migliori della storia – i No Tav non offrono al nemico una figura spettacolare facilmente individuabile e isolabile per farne la “antropomorfosi” del movimento, in modo da usare il suo nome e cognome al posto del nome del movimento.

          Per fare un esempio – e senza voler fare una valutazione sulla persona perché non stiamo parlando di persone ma di ruoli, di funzioni – i No Tav non hanno offerto “il Casarini” o “l’Agnoletto” o, quasi peggio, “Casarini e Agnoletto”, per farci titoli come “Casarini e Agnoletto dicono…”, laddove “Casarini e Agnoletto…” sostituivano il soggetto dell’enunciazione collettiva, cioè il movimento, anzi, i movimenti.

          Una volta che ai media si offre una figura da additare strumentalmente come “il leader” (e spesso non corrisponde nemmeno a un ruolo di dirigenza reale), ogni passo falso di quella figura, ogni balbettamento, ogni frammento di gossip idiota, verrà usato contro il movimento tutto, con moltiplicarsi di rancori all’interno, ostilità reciproche, frammentazione. Questo, finora, i No Tav lo hanno evitato, e non mi sembra che ci si sia ragionato sopra abbastanza.

  2. Grazie per la risposta, interessante come sempre.
    Credo che sono critiche compatibili, come direbbe Aristotele esiste il vicio per ecesso e il vicio per diffetto. Voglio dire che una parte della sinistra demoniza tutti tipi di leadership (per ussare un termino diverso, in spagnolo liderazgo non è mai stato cosi leggato al fascimo, loro usabano il termino caudillo o caudillismo per riferirse a Franco o i capi del Movimiento). Pure quelli plurali di qualsiasi tipo, in Spagna per esempio c’è una parte dei movimento sociali, sindicalismo ecetera che nel ha sempre criminalizato qualsiasi tipo di presa di protagonismo di persone concrete.
    Credo che è molto negativo quando l’ideologia viene sono dal alto, ma che tutto diventa impossibile si non ci sono riferimenti.
    Allego una riflessione di Zizèk
    http://www.youtube.com/watch?v=dhnLqAUdYKk
    (Scusate per l’italiano che non è la mia lengua madre)

  3. La questione del leader è la madre di tutte le aporie del concetto “rivoluzione”. Il problema può essere posto anche in altri termini, ovvero: è la massa olente che solleva le istanze, che poi un gruppuscolo elitario fa proprie ed eventualmente “tradisce” in nome dell’inevitabile realismo post-sovvertimento, o è l’elite che isola le priorità e in tal senso dirige il popolo (la manodopera rivoluzionaria) verso l’ottenimento del potere?
    Il riferimento a Berlinguer e all’approccio didattico-didascalico del PCI nei confronti della “base” è esemplare in tal senso. L’incriticabile Berlinguer era un raffinato politico, capace di sottilissimi distinguo ideologici e di capovolte strategiche indiscutibili (nel senso che si prendevano così, senza discutere, oppure si era fuori), quasi un personaggio da corte di Bisanzio, ma queste “rivoluzioni” della linea non erano affatto discusse con la base, con gli iscritti, gli elettori, i simpatizzanti. Qualcuno potrebbe dire che egli era come un “intercettore” di trend politici (e torniamo all’aporia di cui sopra), ma questo magari vale solo per i grandi temi (esemplare e virtuoso, a mio parere, è il percorso del PCI sulla regolamentazione dell’interruzione di gravidanza), non per il cabotaggio politico di quegli anni, la cui somma di piccole rotte aveva come risultato la linea sostanziale e complessiva del PCI.
    Oggi ci troviamo di fronte all’estremizzazione di tale concetto. Renzi è il completamento fisiologico di Grillo e Berlusconi rappresenta l’antefatto. Ma la figure centrali rimangono i leader. Con tutte le contraddizioni del caso. Vedi Grillo e la fase riformista. Si sta rimangiando tutto e con le stesse tecniche con cui aveva aizzato la sua base. Adesso cancella i post di chi attacca Renzi, ieri quelli di chi immaginava aperture verso Bersani. Anche se, sono sicuro, la stragrande maggioranza degli elettori e degli attivisti a cinque stelle non se ne sta accorgendo. Come non se ne accorsero i milioni che votavano PCI o la prima Forza Italia.
    Ci vorrebbe uno Scaramouche anche qui, per risvegliare i sonnambuli dei giorni nostri. Un altro leader, forse, a ben vedere.
    E siamo di nuovo con tutti e due i piedi dentro l’aporia…

    • Constato che la voglia di figure grandi e rivoluzionarie, che GUIDINO il popolo, pur se declinata con mille distinguo, si perpetua. Ma credo che oggi qualsiasi tigre salita in cima alla barricata si rivelerà di carta. Perché siamo in tempi in cui la narrazione guida il narrato, i media ti raccontano il personaggio, lo indirizzano, lo bruciano in fretta. Credo che auto informazione collegialità e un po’ di voglia di sbattersi diffuso, coraggioso e consapevole siano una risposta, per quanto molto difficile, più immaginabile. Abbasso sempre il livello delle discussioni a quota terreno, ma sarà forse la mia limitata conoscenza di storia politica , di leader rivoluzionari che stimolassero la critica a sé, ne ricordo pochi. Che la delega ci sia, ma per rappresentare ove necessario, non per sostituirsi nelle scelte al delegante.

  4. Berlusconi con publitalia, mediaset ecc.
    Grillo con la Casaleggio Associati
    Renzi con la CHIL Srl, società di servizi di marketing di proprietà della sua famiglia nella quale ha lavorato.
    Tutti e 3, di base, sono professionisti del marketing e della comunicazione.

    • Questo è un dato di fatto, eppure non credo che essere un “professionista del marketing e della comunicazione” sia di per sé un elemento negativo. Anzi, per un politico potrebbe anche essere costituire un “plus”, un valore aggiunto.
      Il problema è magari se questi tre comunicatori (curiosamente tutti e tre pregiudicati) raggruppano la maggior parte dell’elettorato italiano pur orchestrando le loro manovre politiche dall’esterno del Parlamento (chi per un motivo chi per un altro, anche se poi Renzi ci è entrato direttamente da Presidente del Consiglio).