Dodici anni dopo la nostra prima e finora unica presenza al Festivaletteratura di Mantova, ci torniamo tra pochi giorni con ben tre appuntamenti. Com’è nello stile del Festival sono eventi a pagamento e per i quali è consigliabile prenotarsi, visto che si svolgono al chiuso e l’ingresso non sarà illimitato. Si comincia nella tarda serata di venerdì 5 e si finisce nel tardo pomeriggio di sabato 6.
– Venerdì 5 settembre, ore 22:30, Teatro Bibiena, via dell’Accademia 47: “LABORATORIO DI MAGNETISMO RIVOLUZIONARIO”, ideato da Mariano Tomatis e Wu Ming, per la regia di Carlo Bono e con la partecipazione degli illusionisti e sonnambulisti Ferdinando Buscema, Angelo Cauda, Nella Zorà, Beppe Brondino. Dopo il grande successo di Torino, riproponiamo lo spettacolo-presentazione ispirato a L’Armata dei Sonnambuli. Grande serata di magnetismo e prestidigitazione! Ingresso: €10. Nel programma del festival è l’evento n. 123.
– Sabato 6 settembre, ore 10:45, Liceo classico Virgilio, via Ardigò 13: “HO RIVELATO IL MIO CUORE AL MONDO PERCHE’ LO PRENDESSERO A FUCILATE”, dibattito con Wu Ming 4 e Chiara Codecà sull’epistolario di J.R.R.Tolkien, pubblicato in Italia con il titolo La realtà in trasparenza (Bompiani). I paradossi dell’editoria italiana: si parlerà di un volume pressoché introvabile in libreria, e che risulta irreperibile anche sui siti di acquisto online come IBS e Amazon. Questo è il trattamento che Bompiani riserva a uno dei suoi autori di punta, dalle cui storie continuano a essere tratti film di grande successo. Pubblicate postume nel 1981 a cura di Christopher Tolkien e Humphrey Carpenter, le 354 lettere contenute nel volume vengono spesso citate e quasi mai contestualizzate. In quelle pagine J.R.R.Tolkien rivela quali temi sono sottesi alla sua produzione artistica, quale visione del mondo e della letteratura, ma legge anche se stesso, rivelando il proprio pensiero sull’impresa narrativa di una vita. Ecco perché l’epistolario risulta un testo assolutamente problematico: fino a che punto è possibile leggere un autore attraverso l’autore stesso? Ovvero leggere un testo “pubblico” attraverso un testo “privato”? E si potrebbe aggiungere: fino a che punto un editore può lasciare fuori catalogo un libro come questo?
Ingresso €5. Nel programma del festival è l’evento n. 136.
Qui la presentazione dell’evento sul sito dell’ARST.
– Sabato 6 settembre, ore 18:30, Liceo classico Virgilio, via Ardigò 13: all’interno del ciclo a cura di Stefano Jossa, “IL RITORNO DELL’EROE”, nel quale due autori mettono a confronto i loro eroi letterari preferiti, Tullio Avoledo e Wu Ming 4 parleranno rispettivamente di Corto Maltese e di George Smiley. L’avventuriero cool di Hugo Pratt incontra il grigio agente segreto di John Le Carré. Da un lato l’avventura, l’esotismo, il mare; dall’altro i meandri fumosi del Circus e le infiltrazioni Oltrecortina. Chissà che non ci sia da divertirsi. Ingresso €5. Nel programma del festival è l’evento n. 178.
[Per la cronaca, gli altri due incontri prevedono: Michela Murgia, che ha scelto la Fata Morgana, insieme a Chiara Valerio, che ha scelto Lady Oscar; Licia Troisi, che tiene Guglielmo da Baskerville (Il nome della rosa) vs Francesco Piccolo con Thomàs (L’insostenibile leggerezza dell’essere).]
Il programma ufficiale del Festivaletteratura 2014.
P.S. Il Wu Ming Contingent sarà a Mantova già il 31 agosto, per presentare L’Armata dei Sonnambuli e per suonare, alla 6a Festa Anticapitalista, presso Arci Cinciana, via G.S. Spiller 19, dalle ore 20:00. Ingresso gratuito. I dettagli sul calendario del “Revolution TouR”.
Visto che siamo alla fine della lunga serie di eventi mi permetto di commentarli tutti insieme, in ordine cronologico, escluso solamente l’incontro di sabato mattina a cui non ho partecipato.
L’incontro del 31 Agosto è stato interessante, in particolare mi sta dando molto da riflettere un tema che è stato trattato quasi di sfuggita ma che probabilmente meriterebbe una discussione a parte, ossia il conflitto pratico tra libertà e uguaglianza, entrambi valori condivisibili ma con delle aree di contrasto (es. proprietà privata). La soluzione all’intricata situazione, seppur tuttora provvisoria, è che i rivoluzionari francesi non erano dei fessi e che hanno accostato alle prime due la fratellanza.
Il concerto dei Wu Ming Contingent è stato un evento che ho molto apprezzato; avevo inizialmente la preoccupazione di non riuscire a goderne in modo opportuno, dato che non ero ancora riuscito a procurarmi il cd, invece è stato coinvolgente e divertente, eseguito in modo ineccepibile e credo abbia lasciato qualcosa, una sorta di euforia, che si può riutilizzare anche una volta finito il concerto.
Il laboratorio al Festivaletteratura, che ho visto qui per la prima volta, mi ha dato qualche problema in più, se devo essere onesto. [spoiler] Senza dubbio è stato un evento godibile e il gradimento del pubblico mi pare fuori di discussione ma mi ha anche sollevato non pochi dubbi: spero di spiegarmi bene perché non vorrei in nessun modo risultare offensivo ma la scelta delle esperienze mi è sembrata, a una prima occhiata, particolare. Oramai il pubblico è decisamente smaliziato per quanto riguarda l’illusionismo e anche l’avvento delle nuove tecnologie permette agli illusionisti di mettere in scena dei trucchi con un grande impatto scenico, dunque perché ci siamo trovati di fronte a dei trucchi più statici, semplici, lenti, seppure indubbiamente affascinanti? Ovviamente non sto chiedendo una risposta ai Wu Ming, che chiaramente risposte i questo tipo non sono tenuti a darne, anche perché una risposta, dopo ore di riflessione, me la sono data da solo. Mi piacerebbe sentire cosa ne pensano anche altri utenti ma secondo me la chiave di lettura sta nel fatto che non si trattava di uno spettacolo di illusionismo ma, semmai, di uno spettacolo di magnetismo e che da un lato dunque ci fosse un limite pratico nella selezione delle scene dovuto all’argomento. Il secondo limite, forse ancora più forte è stato invece quello temporale visto che, se non ho riflettuto a vanvera, si è trattato di trucchi (non volevo usare questo termine ma non riuscivo a trovare più sinonimi, anche se non dubito che ne esistano numerosi più corretti) in massima parte replicabili anche per un mago degli anni ’70 del diciottesimo secolo.
Non vorrei certo scorporare il contributo di WM4, WM5 e Mariano Tomatis, ma le parti che li riguardano sono state, almeno a una prima visione, molto meno traumatiche, anzi, la lettura di WM4 è una delle parti secondo me meglio riuscite dell’intero libro già sulla pagina scritta, sentirle lette ha dato una sensazione ulteriore di tridimensionalità. [fine spoiler]
Infine rimane l’evento di sabato pomeriggio dal tema “il ritorno dell’eroe”, forse la sorpresa più piacevole insieme al concerto del contingent.
Già dalla premessa di Jossa a inizio incontro che metteva in discussione la positività della figura dell’eroe si è capito che forse le nostre aspettative su quanto stava per essere discusso sarebbero state da ridimensionare. Devo dire che tutti e tre i partecipanti sono stati molto bravi, capaci di mantenere alto il livello della discussione sia da un punto di vista formale che per quanto riguarda i contenuti. I due personaggi scelti, inizialmente presentati paradossalmente a partire dai loro difetti (Corto Maltese è un autolesionista emotivo e George Smiley è brutto e sfigato) sono stati più che altro un trampolino di lancio, anche grazie agli interventi mediatori di Jossa, per arrivare a ben altri e più importanti temi. Si è parlato della presenza al giorno d’oggi di eroi in qualsiasi ambito, anche senza meriti apparenti (chissà se solo il mio pensiero in quella sala è volato immediatamente in India), della mancanza de facto di un mito fondativo italiano, probabile causa della carenza sconvolgente di eroi, quelli veri, italiani, reali o letterari che siano, e di tanto altro. Altri argomenti sono stati solo sfiorati e forse sarebbero emersi se ci fosse stato più tempo. Nel complesso, forse il miglior evento di questo festival che si è dimostrato aperto a eventi come il laboratorio di magnetismo rivoluzionario, sulla carta molto lontani da quello che sono soliti proporre. L’unico rammarico è quello solito di aver pensato a delle domande intelligenti da fare solo nel momento in cui gli autori erano già usciti dalla sala.
Limitandoci esclusivamente agli aspetti “prestigiatorii” della serata (e tenendo da parte reading e riflessioni intonro al romanzo) il Laboratorio che abbiamo messo in scena è il primo tentativo di imporre uno stile e dei tempi in controtendenza rispetto al panorama magico contemporaneo, fatto di un gigantismo che dai tempi di Harry Houdini – passando per Sigfried&Roy e David Copperfield – è in continua crescita.
Dopo l’11 settembre, che Umberto Eco descrisse in un suo articolo come «il più grande spettacolo del mondo», alcuni illusionisti si sono resi conto che a New York era andato in scena il gioco di prestigio di sparizione più colossale che si potesse concepire. Coagulatosi intorno ai lavori di Eugene Burger e Robert Neale (e al loro binomio “Magic & Meaning”), un piccolo movimento di prestigiatori ha incoraggiato uno spostamento del pendolo verso una magia più intimista e verso giochi di prestigio sempre più minimali, nel tentativo di evocare stupore attraverso stimoli emotivi e intellettuali distanti da quelli testosteronici e ombelicali dell’illusionismo dominante.
In Italia abbiamo iniziato a parlare di questa tendenza solo di recente. Il primo a introdurla è stato Ferdinando Buscema, con la sua traduzione di “L’esperienza della magia” di Eugene Burger. Ancora più di recente, la lettura di “New Italian Epic” e la scoperta dell’universo Wu Ming mi ha fatto rivedere l’intero illusionismo in un’ottica militante. Di qui il Laboratorio di Magnetismo Rivoluzionario, nato a un trivio di vincoli creativi.
1) Doveva essere la presentazione/celebrazione di un romanzo, e dunque attingere al suo mondo, ai suoi personaggi e alle sue tematiche.
2) Doveva essere espressione di una magia slow/minimale /attenta al ruolo della figura femminile ancora del tutto inedita nel nostro paese, per mostrarne le possibilità narrative e lanciare un messaggio preciso a quella dominante. Non a caso il corto “Magic for Palestine” si chiudeva con la scritta “La magia che non vedrete al FISM 2015” (i mondiali della magia, il prossimo anno ospitati in Italia).
3) Doveva essere – come da primissime parole da me pronunciate durante lo spettacolo – la versione “magica” del Romanzo Storico. Ecco, dunque, il vincolo da te individuato: sì, tutto lo spettacolo sarebbe potuto andare in scena nel Settecento – e sarebbe andato in scena esattamente lì, nel Teatro Scientifico dove si dava prova pubblica delle cosiddette “meraviglie fisiche”.
Come autore posso dirti che i tre elementi dal principio hanno indicato le linee guida da seguire nella creazione di questo strano “varietà”.
Ormai non prescindo più dal punto (2), mentre credo che su (1) e (3) ci sia massima libertà. (1) altri romanzi/UNO si presterebbero a operazioni simili, e (3) premesse diverse consentirebbero di esplorare altre epoche e forme di magia più moderne.
Uno dei temi più interessanti che la magia da palcoscenico può contribuire a esplorare è certamente il problema della “ipnosi incantatoria”, rischio intorno a cui regolarmente si interrogano gli illusionisti coscienziosi, le cui narrative teatrali possono essere tanto convincenti da produrre effetti di vera e propria fede nel paranormale. L’ideale sarebbe mantenere (come spettatori) e coltivare (come autori) un equilibrio che metta insieme incanto e disincanto. Il problema se l’era posto già Furio Jesi, secondo cui ogni mito che voglia denunciare la propria genesi artificiale ha a disposizione la potente arma dell’ironia. Alle stesse conclusioni (per vie completamente diverse) arriverà più di recente Michael Saler in un libro dedicato all’incanto disincantato (“As If: Modern Enchantment and the Literary Prehistory of Virtual Reality”) nelle opere di Lovecraft, Tolkien e Conan Doyle. Saler evidenzia, nelle opere dei tre autori, gli elementi di straniamento ironico consapevolmente inseriti per evitare l’ipnosi incantatoria e incoraggiare quel difficilissimo equilibrio di “lucid self-delusion” o “detached credulity”. Al tema ha dedicato le “Lezioni americane” anche Orhan Pamuk, partendo da una distinzione proposta da Schiller.
Parlandone con Enrico Manera, lui evidenziava la necessità di una discussione intorno alla “*macchina incantatoria* che tiene insieme mitologia e illusionismo e di un suo possibile ‘uso’ non reazionario, che avvenga nella consapevolezza della retorica e dei suoi tropismi e non nella credulità della superstizione metafisica.”
Nella presentazione del quaderno su Jesi curato da Enrico Manera, Wu Ming 1 accosta all’ironia una seconda tecnica: quella di “mettere in evidenza la sutura”. L’idea di offrire materiale mitologico senza nascondere la sutura è alla base di una forma di illusionismo molto contestato, che ha smesso di mettere al centro della propria esistenza il pilastro del segreto élitario (il trucco che costa caro e si nasconde al volgo). Una delle più riuscite incarnazioni di questa idea si deve al genio dei due illusionisti Penn & Teller. Eccone due esempi eclatanti.
Il gioco dei tre bussolotti
http://youtu.be/nrw3euF2cIg
L’uomo tagliato in tre
http://youtu.be/vEB50IfgkA4
Penn & Teller rivelano il trucco di entrambe le performance senza che ciò minacci in alcun modo lo stupore dell’esibizione. Nella prima parte abbiamo l’appello all’emozione e all’irrazionalità, che si manifesta con il gioco di prestigio classico. Nella seconda parte si fa appello a un piacere del tutto razionale, che è quello in grado di apprezzare i tecnicismi dietro la magia, appunto le “suture” che nella prima parte non si vedevano.
Questa per me è una riflessione anche teorica, per quanto straordinariamente pop e accessibile, sulla possibilità di offrire narrative emancipanti nel contesto di un palcoscenico di Las Vegas – dove Penn & Teller fanno regolarmente il tutto esaurito da decenni.
A Mantova la sutura era di natura diversa e del tutto evidente nelle premesse patafisiche della serata: l’idea di far rivivere al pubblico cinque esercizi di magnetismo dell’epoca di Bergasse, grazie alle fotocopie dei quaderni recuperati a Lione. Appena lo spettatore si rende conto che tutto ciò è surreale, “larger than life”, da lì non può credere che ci sia qualcosa di vero in quanto segue. Ma può benissimo accettare la premessa folle e divertirsi.
Quella è una “sutura” che si affida a una capacità certamente non comune nello spettatore: cogliere che il presupposto è assurdo e aver la capacità di accendere e spegnere la razionalità, per godere dello spettacolo ma al contempo ricordarsi che la cornice è finzionale.
Da autore, come posso aiutare una lettura del genere? Aprire lo spettacolo con alcuni fotogrammi da Lady Oscar, ma fornire dati storici inoppugnabili, offre già un intreccio di stimoli contraddittori – coerenti con l’idea di Romanzo Storico e di Atto Quinto de L’armata. La proiezione dei filmati in un’immagine ovale e sfumata, priva dei classici bordi netti e rettangolari, incoraggia a immaginare la presenza in teatro di una vecchia lanterna magica – seppure dietro ci fosse un più freddo PowerPoint.
L’introduzione dell’elemento “fasullo” nella narrazione – i Quaderni di Magnetismo Rivoluzionario – è cammuffata nell’ambito di una ricostruzione storica rigorosa e documentata, può passare inosservata e contribuisce a fornire un appoggio narrativo solido per chi vuole attuare la sospensione dell’incredulità. Al contempo, la bugia è così grossa che è difficile non percepire la strizzata d’occhio. Il gioco prosegue sul sito di appoggio del laboratorio. Qui:
http://www.marianotomatis.it/lab/?pag=9
si trovano i tutorial messi insieme (apparentemente) da qualcuno della scuola di Bergasse. Lo sfondo dei filmati è macchiato, la grana sporca, come se si trattasse di filmati di 300 anni fa. Quando, però, YouTube non c’era. Il torrente è tratto dalla prima puntata di Heidi. L’animazione, dalle ultime puntate di Lady Oscar. Nell’ottica dell’Everything Is A Remix, al fruitore di un oggetto del genere è offerto un collage notevolmente eterogeneo (qualcuno lo definirebbe “postmoderno”?) ma che nulla concede al disimpegno – e qui per me la lezione del New Italian Epic è stata fondamentale.
Insomma, credo che dal tutto emerga la mia visione della magia come di un laboratorio permanente per sperimentare – in un contesto di intrattenimento – forme di comunicazione in grado di evitare l’ipnosi incantatoria e offrire narrative autenticamente emancipanti.
Le cose di cui sono più sicuro le ho scritte nell’altro tread: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=17926#comment-25031.
Qui aggiungo nulla più di un’impressione, ché non conosco affatto la “fenomenologia” degli spettacoli d’illusionismo, e l’impressione è questa: ancora una buona parte di quelli che vanno a vederli, vogliono il grande show, il numero
macroscopicamente impressionante, l’elefante che scompare. A chi vuole questo, interessa il risultato per il risultato, ed è il risultato a determinare la sospensione dell’incredulità: più è colossale il numero più l’incredulità resta sospesa. Cercherò ora di non infilarmi nel campo minato della categoria di spettacolo, ma direi che questo atteggiamento ha anche a che fare con quella.
Ora, se le premesse sono valide e il sillogismo tiene, la conclusione è che, vedendo così le cose, essendo disposti a stupirsi solo della grandiosità, si è molto più propensi a diventare spettatori passivi. Ed essendo spettatori passivi, si è molto più propensi a prestare attenzione solo all’effetto e non alla persona e al
meccanismo che lo determinano. E naturalmente questo è un modo di vedere le cose che va molto oltre lo spettacolo di illusionismo. Non è solo in uno spettacolo di illusionismo che l’incredulità resta sospesa quando non dovrebbe e viceversa, con tutto il corredo di postmodernissimo cinismo e disincanto e perdita di senso critico e insomma sto palesemente citando Foster Wallace.
In questo il laboratorio è utile: utile è lo sforzo teorico che ci sta dietro (approfondito ne L’arte di stupire), su cui vale la pena di insistere. Intendo dire tutto il lavoro sul ruolo del mago, sul rifiuto del principio di autorità (io sono il mago e sono superiore al pubblico credulone), sulla sua sostituzione, al limite, con quello di autorevolezza (lo spettatore deve fidarsi del performer, e il performer deve guadagnarsi la fiducia dello spettatore dimostrandogli che non vuole “fargli del male”).
Naturalmente questo non significa che debba mancare del tutto lo show, né che un performer non debba conoscere e saper fare anche cose macroscopicamente impressionanti: solo che di questo bagaglio tecnico deve sapere cosa farsene, non usarlo acriticamente. Della logica tutta virile del gigantismo, dell’effettistica fine a sé stessa si può e si deve talvolta fare a meno, mettendo l’accento su altro, come si può fare a meno di un musicista incredibilmente virtuoso che suona con la stessa espressività di un file midi, che non si chiede cosa sta suonando e perché, ma gli interessa solo polverizzare scale e arpeggi, più veloce di tutti.
Alla fine si tratta di non farsi perculare dal primo che mostra i muscoli (quelli veri o quelli della comunicazione e della retorica) per far vedere che è più bravo degli altri. E tutto questo è mooolto politico, no?
Il “gigantismo” è un tema interessante, anch’esso da non lasciare ai controrivoluzionari. La tecnica americana dello “Shock & Awe” usa stimoli bellici colossali per produrre uno stupore paralizzante – con effetti esattamente opposti a quelli benefici che si vorrebbero ottenere durante uno show di illusionismo. Invertendo di segno la stessa tecnica, dalla marcia del sale di Gandhi allo sciopero di massa di Martin Luther King, fino al recentissimo murales di Blu a Bologna, il gigantismo può essere usato al servizio della Rivoluzione e della Resistenza.
A Mantova se n’è visto poco, anche se è stato divertente giocare sul contrasto tra il luogo magniloquente e gli stimoli minuscoli su cui si incentrava ciascun “esercizio”.
[SPOILER] Marco Aimone ha calamitato l’attenzione su un fragilissimo uovo, facendone il centro di una serie di apparizioni e sparizioni dalla disarmante semplicità. Il richiamo finale allo zio Giaco è una rutilante esaltazione di questa fragilità, messa i parallelo con i carri armati fascisti.
Angelo Cauda ha focalizzato il suo esercizio intorno a una minuscola chiave – frustrando alla fine la superficiale curiosità di conoscere “Il Segreto”, segreto che non c’è o comunque è poco rilevante.
L’esercizio di Madame Zorà quasi non coinvolgeva oggetti ed era quello più filologicamente accurato, visto che quel tipo di esibizione nacque con il mesmerismo teatrale e oggi è praticamente scomparso.
Ferdinando Buscema ha costruito il suo esercizio intorno ai libri, richiamando il tema della manifestazione che ospitava il laboratorio e richiamandosi a Gramsci e al suo invito a studiare.[/SPOILER]
C’è un motivo ancora più contingente dietro la scelta degli effetti magici: il mio background illusionistico affonda le radici nel mentalismo, una branca della prestigiazione che da sempre abbraccia il minimalismo. Il (patetico) gigantismo del mentalismo non si evidenzia nelle grandi scatole scintillanti sul palco, ma nel modo in cui i mentalisti usano il palcoscenico per offrire dimostrazioni superomistiche, piene di egomania e autocelebrazione.
Il Laboratorio ha tentato di opporsi a questa dinamica scardinando l’idea di un One Man Show e proponendo, piuttosto, un’antologia di esercizi da parte di un collettivo magico senza una stella di prima grandezza, il cui scopo era celebrare un romanzo piuttosto che le singole individualità.