Il testo più utile e chiaro sull’uccisione di Davide Bifolco da parte di un uomo armato in divisa l’ho letto – e invito a leggerlo – sul sito dello Zero81 Occupato di Napoli. Si intitola Non è un paese per poveri: Davide Bifolco e il razzismo di classe in Italia.
Sul serio, andate a leggerlo, e solo dopo tornate qui.
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Lo avete letto? Bene, riprendiamo il discorso.
Il fatto che gli amici di Davide e la popolazione del Rione Traiano non abbiano accettato in silenzio e a capo chino la solita versione del «colpo accidentale» (sono ormai centinaia i «colpi accidentali» da quando fu approvata la Legge Reale), ma abbiano espresso in vari modi la loro rabbia, ha scatenato i vermi brulicanti nel ventre di «quelli che benpensano», come li chiamava Frankie Hi Nrg.
Sono i vermi del razzismo verso chi sta peggio; dell’odio per gli esclusi spinto fino a invocarne l’esecuzione sommaria; del conformismo rancoroso che nutre gli intruppamenti sui social media; dell’inflessibilità verso i poveri che va sempre di pari passo con l’ammirazione per la furbizia dei ricchi, tanto bravi ad aggirare le leggi per farsi i cazzi propri.
«Se l’è andata a cercare», Davide Bifolco. Non si è fermato all’alt. Era in motorino con altri due. Era senza casco. Il motorino era senza assicurazione. Era in giro di notte. Soprattutto, era uno del Rione Traiano e quindi quasi geneticamente pericoloso, camorrista in potenza.
Sulla base di tali pseudomotivi, una parte di opinione pubblica – pungolata dalla marmaglia dei commentatori e opinion maker proni al potere in divisa – trova ovvio che un’auto dei carabinieri speroni un motorino, poi un carabiniere, pur potendo facilmente risalire alla sua identità, si accanisca a inseguire un ragazzo e infine lo ammazzi in mezzo alla strada. Lo trova ovvio e lo giustifica.
O meglio: dice di trovarlo ovvio perché vuole giustificarlo.
Tutto ciò nella completa assenza di qualunque reato. Per chi gira senza casco o assicurazione non è previsto un proiettile in petto, ma una multa o il sequestro del motorino. Eppure, sembra che molta gente abbia letto (parola grossa, lo so) un altro codice della strada:
Sia ben chiaro: anche nel caso di un reato – ad esempio uno scippo – quella del carabiniere sarebbe stata una condotta ingiustificabile.
Anche nel caso con Davide ci fosse stato «un latitante» – circostanza già smentita dal diretto interessato – va ricordato che in Italia non c’è la pena di morte, in teoria. Men che meno irrogata a casaccio e messa in atto da un militare, per strada, senza la seccatura di un processo. In teoria.
Ma no, dicono quelli che benpensano: la vittima non è Davide, la vittima è il carabiniere. Poverino, immaginate lo stress, la rottura di coglioni a dover lavorare in quel quartiere, in mezzo a quella gentaglia. Pure Aldrovandi, in fondo, mica era un santarellino! Applausi ai poliziotti ingiustamente condannati per averlo ucciso! Facile criticare chi mantiene l’ordine! E Cucchi? Un tossico. Gabriele Sandri? Un ultrà. Non se ne può più di questa delinquenza, e tutti ‘sti negri che portano l’ebola, dove andremo a finire, ci vuole il pugno di ferro, solidarietà alle forze dell’ordine ecc. ecc.
A questo punto, di solito, arriva la citazione (a cazzo) di Pasolini. Se questi apologeti della repressione sapessero cos’ha scritto davvero Pasolini sulle forze dell’ordine, direbbero che han fatto bene ad ammazzare anche lui, comunista e pure ricchione.
[Molti, del resto, la pensano già così, e sovente sono gli stessi che lo citano a sproposito per difendere a priori chi manganella e uccide.]
Il 12 settembre scorso ho presentato L’Armata dei Sonnambuli proprio allo Zero81 Occupato, e ho parlato anche di questa vicenda, cercando di inserirla in un contesto ideologico e storico più ampio. Il tema è il vittimismo del potere e di chi ne giustifica o nasconde gli abusi, il «non è mai colpa nostra» come fondamento dell’ideologia dominante italiana, parte essenziale di un dispositivo che plasma le nostre vite tutti i giorni.
Su questa vera e propria macchina mitologica sto scrivendo da tempo un lungo testo, stimolato dalla visione di Magazzino 18 di Simone Cristicchi (lacrimogena apoteosi del «non è mai colpa nostra») e dalla lettura quasi simultanea di tre saggi usciti di recente: Critica della vittima di Daniele Giglioli, Fenomenologia di un martirologio mediatico di Federico Tenca Montini e Il cattivo tedesco e il bravo italiano di Filippo Focardi.
Per finire quel post ci vorrà tempo, ma intanto posso mettere a disposizione l’audio dell’intervento napoletano. È un intervento a braccio, non strutturato in precedenza e dunque con sbavature, ma penso contenga elementi utili. Dura poco più di dodici minuti. Se invece che ascoltare in streaming volete scaricare, cliccate sulla freccia a destra. “Buon” ascolto.
LA MORTE DI DAVIDE BIFOLCO E IL VITTIMISMO DEL POTERE
LA MORTE DI DAVIDE BIFOLCO E IL VITTIMISMO DEL POTERE
Intervento di Wu Ming 1 allo Zero81 Occupato di Napoli
12 settembre 2014 – Durata: 12’23”
L’audio completo dell’incontro si trova qui.
Durata: 1h e 49′.
N.B. A un certo punto ho accennato a prigionieri italiani «nelle carceri indiane» per detenzione di droghe leggere. L’ho detto che parlavo a braccio. In realtà volevo dire «indonesiane», mi riferivo a persone come il torinese Daniele Pierretto, arrestato a Bali nel 2012 perché (secondo l’accusa) in possesso di hashish, e presto dimenticato da quasi tutti. Di lui non ho trovato notizie recenti. Ricordo che in Indonesia per questo genere di reati c’è la pena di morte. La rischiò anche un altro italiano, il maremmano Juri Angione, che se l’è “cavata” con dieci anni di prigione.
Sono più di tremila i nostri connazionali chiusi nelle galere di tutto il mondo, spesso in condizioni terribili e in molti casi per fatti risibili o mai commessi, ma solo ed esclusivamente per i due marò si è assistito a una mobilitazione così affollata di politici, a una campagna tanto satura di bellicose intenzioni, infuocati proclami e momenti platealmente grotteschi. Per l’opinione pubblica mainstream, sono vittime solo Girone e Latorre.
In India, per la precisione in una prigione di Varanasi, ci sono anche Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni, i cui nomi non diranno nulla a buona parte di quelli che si indignano per la «montatura» contro i marò. Di Tomaso ed Elisabetta ha scritto anche il nostro amico Matteo Miavaldi.
DA LEGGERE ANCHE:
Napoli Project – Nun me parlà ‘e strada. Risposta a Cantone e alla Napoli per bene.
ACAD – Associazione Contro gli Abusi in Divisa
Ciao ragazzi, vi segnalo questo articolo che ho scritto a proposito del malatissimo approccio alla legalità veicolato dai media. Penso che possa essere complementare a questo post. Il link: http://www.gruppo2009.it/riconoscere-vittime-caso-davide-bifolco/
Come in altri casi – esemplare, in molti sensi, quello di Federico Aldrovandi – nelle immediate ore successive all’omicidio di Bifolco si è alzata una spessa cortina disinformativa, il cui scopo è di creare l’imprinting nell’opinione pubblica (com’è noto, è la prima affermazione che resta impigliata nei gangli mnemonici, a dispetto delle successive smentite):
– non s’è fermato a un posto di blocco (FALSO: non s’era(no) fermati all’alt, non a un posto di blocco, che fa la differenza tra violazione penale e amministrativa)
– era un giovane carabiniere di 21 anni (FALSO: ha 32 anni, è in servizio da 11, dunque da considerarsi “veterano”)
– è stato riconosciuto un latitante alla guida del motorino (FALSO: il preteso “latitante” è l’unico dei tre ragazzi che non è stato inseguito dai carabinieri, come si vede bene dai video esistenti).
A ciò si aggiunge una contestualizzazione emergenziale – viene riferito che il giorno prima un palazzo abitato dai membri di un “clan” è stato oggetto di sventagliate di kalashnikov, dunque i carabinieri operavano in situazione di “tensione”: bypassando il fatto che non solo di trattava di carabinieri esperti ed edotti delle dinamiche del territorio, ma che la famigerata assenza del casco proprio nelle situazioni di tensione o imminenza di una guerra tra clan ha un preciso significato. Girare senza casco significa (so quello che dico: non vengo da Napoli, ma da una città – Taranto – che in certi anni ha avuto faide di mala più sanguinose di quelle campane) mostrare la propria faccia per far vedere a tutti che “non si è nessuno” – sono ben altri quelli che girano travisati dal casco –, e per evitare di essere confusi con possibili appartenenti alla fazione avversa dal tipo di moto con cui giri. Insomma, proprio il girare in tre (quindi a bassa velocità e operatività) e senza casco avrebbe dovuto rassicurare un carabiniere esperto.
E non a caso non appena è stato nominato come avvocato difensore dei familiari di Davide l’avvocato Anselmo, già difensore – con successo – della famiglia Aldrovandi e di altre vittime dello Stato, c’è stata la “discesa in campo” di Carlo Giovanardi, (quello per il quale la foto di Federico Aldrovandi morto in un lago di sangue era un photoshop, e il sangue dietro la testa di Aldro era un cuscino).
È fondamentale, quindi, lavorare sul doppio binario della confutazione puntuale di ogni singola affermazione deviata o deviante, e della disarticolazione della macchina mediatico-mitologica messa in campo dallo Stato.
Sulle strategie di vittimismo del potere, credo vada letto I buoni di Luca Rastello, quantomeno nella descrizione delle strategie retoriche adottate dal “potere” (in questo caso il micropotere di una realtà strutturata) nei confronti del singolo: elementi operativi di una microfisica del potere tanto più performativi, quanto più inerenti al governo quotidiano della vita.
Purtroppo sappiamo come l’informazione italiana sia tra le più scadenti d’Europa. Mistificare un episodio del genere è facile: c’è un omicidio, a sparare è stato un Carabiniere, a morire è stato un ragazzino di un quartiere popolare di Napoli; un toccasana per i media! Io sono nato e vivo qui (Quartieri Spagnoli per la precisione), conosco più o meno bene questa realtà e conosco anche molti Carabinieri che fanno il loro dovere. Napoli è complicata, contradditoria, è una città dove lo Stato in alcuni quartieri non esiste ed è sostituito dalla Camorra in tutte le sue forme: lavoro, assistenzialismo, economia, giustizia. Purtroppo, questo contesto, che non giustifica alcun proiettile sparato da nessuno, è una base con cui fare i conti ed è la realtà che favorisce eventi del genere. Il Carabiniere dovrà pagare per quello che ha fatto, su questo non esistono altri discorsi, ha sbagliato ha ucciso un ragazzo ed ha rovinato la sua stessa vita. Il fatto che prestava servizio al Rione Traiano non vuol dire nulla, sarebbe potuto succedere anche al quartiere Chiaia (magari con qualche probabilità in meno). Il discorso sulla preparazione di questi Carabinieri, sul fatto che siano o meno pronti a prestare servizio, andrebbe affrontato ma allo stesso tempo non giustifica l’accaduto. Così come, il fatto che Davide fosse o meno un bravo ragazzo, non vuol dire che doveva morire. Lo scopo di uno stato di diritto e garantire quest’ultimo, è garantire servizi, è garantire socialità, è garantire opportunità. Lo stato deve intervenire su questi punti, dare alternative culturali, sportive, scolastiche a questi ragazzi, in questi quartieri ed allo stesso tempo deve dare la possibilità alle forze dell’ordine di poter fare al meglio il loro lavoro. In Italia le divise non sono trattate benissimo e la giustizia quando copre i casi Cucchi, Aldrovandi, Sandri (pagine oscure della nostra storia recente) fa un torto a loro, a noi e regala un punto alla criminalità organizzata. Le verità sono due, semplici e drammatiche: un Carabiniere ha commesso un omicidio, un ragazzo di un quartiere abbandonato a se stesso è morto. Il problema del nostro paese rimane lo stesso, l’ideologia, o si è contro la polizia sventagliando il tetro slogan ACAB o si è “fascistamente” a favore “condannando” a morte i ragazzi come Davide. A Napoli tutto questo si amplifica nel bene e nel male. Mi auguro che la via di mezzo, quella del giudizio sereno, del commento oggettivo, della decisione giusta, arrivi presto, nella mia città e nel mio paese. p.s. sul tema giustizia si è combattuto da Tangentopoli ad oggi e non è mai stata fatta una riforma, il giustizialismo ha sconfitto il garantismo ed i poteri politico e giudiziario sono in conflitto. In un contesto del genere la certezza del diritto e della pena saranno sempre messi in discussione, cosa contraria al dettato costituzionale.
dire qualcosa su questi commenti riportati è impossibile per l’abisso che aprono e che difficilmente si potrà colmare ad di là della buona volontà di qualche cultore della legalità
l’analisi di zero81 occupato è quella più convincente
la guerra contro i poveri è cominciata molto molto tempo fà e se per alcuni decenni hanno dovuto fare finta di non praticarla non era certo per convinzione ma per i rapporti di forza ai ricchi sfavorevoli (bisogna riconoscere che i ricchi la lotta, la guerra, di classe la sanno fare) e adesso che i rapporti sono eccezionalmente favorevoli a loro l’iniziativa non gli manca fino a scatenare appunto una guerra strisciante (per ora)
nel comunicato di zero81 forse quello che manca nella descrizione che fanno del “ghetto” è solo una esplicita similitudine con Gaza, sembra, leggendo, che il modello sia quello, ghetti miserabili in cui rinchiudere quella parte di popolazione “eccedente” (avete mai sentito il dibattito israeliano su come i palestinesi li superino demograficamente, forse anche per questo li massacrano con particolare accanimento contro i bambini) e l’analisi del corriere sul ghettto che riportano quando il commentatore dice “sono insomma ghetti perché riflettono un contesto infernale ma anche perché, in qualche modo, si sentono essi stessi ghetti.” non ricorda forse i commenti occidentali dei bombardamenti su gaza che in fondo sono responsabilità dei palestinesi che tirano i razzi qassam e in fondo sono gli stessi commenti ormai secolari dei cultori della guerra ai poveri perchè in fondo è colpa dei poveri essere poveri
Barabba e Cristo, una metafora per spiegare la vicenda dei marò e di Napoli
Sarà forse ridondante, forse scontato, forse assodato, ma sento la necessità di scriverlo, quando a morire per mano delle forze di sicurezza è un qualsiasi cittadino, si liquida tutto in: “incidente, legittima difesa, tragedia, fatto accidentale”.
Non si parla mai di omicidio,sia esso colposo, preterintenzionale, doloso o di assassinio.
Affermare il concetto di omicidio, o assassinio, quando questo accaduto per colpo di piombo o di frusta di Stato, significa accettare la responsabilità della propria cattiva condotta. Significa assumersi la responsabilità. Significa dire che lo Stato ha sbagliato, che lo Stato ha ucciso. Ma, come giustamente eccepito nel post, di Wu Ming in sostanza l’ossatura del fascismo è ancora viva e presente, la deresponsabilizzazione, che ha condotto questo Paese a compiere uno e più tradimenti, come fatto altamente naturale, è questione scheletrica e strutturale difficile da spezzare.
Italiani brava gente, forze di sicurezza brava gente, sempre a prescindere da qualsiasi atto od omissione. Ma voglio andare oltre, osando una metafora religiosa, perché il nostro Paese, quello in cui viviamo, è profondamente dopato da principi e concetti e dogmi e parabole religiose e per comprendere certi processi si deve analizzare il tutto anche da questa ottica. Sì, vi è anche un condizionamento religioso che nella sua profondità incide molto e ciò non lo si può ignorare. Pensiamo alla questione Barabba e Cristo quello che è passato nell’immaginario collettivo è il seguente messaggio: L’innocente( Cristo) andò sulla croce al posto del colpevole( Barabba). Che poi Barabba fosse solo un ladrone od un brigante e non un assassino, poco doveva interessare, quello che doveva interessare e conta è la colpevolezza di Barabba e l’innocenza assoluta di Cristo. Buona parte del sistema mediatico trasforma l’agente, sia esso delle forze militari che dell’ordine, quando si realizza un fatto come quello indiano o di Napoli, parlo dei più recenti perché sono quelli più caldi, nell’innocente assoluto che non aveva alcuna colpa, che svolgeva il proprio lavoro. Mentre i pescatori di turno sono colpevoli a prescindere, perché pescavano in una zona pericolosa, il ragazzo di periferia è colpevole a prescindere perché i ragazzi della sua età la sera tardi devono starsene a casa a dormire e non andare in giro ecc. Dunque a finire sulla croce, per la voce del popolo maggioritaria, come governata dalle ronde mediatiche di sistema, dovevano essere i pescatori od il ragazzo di periferia, a prescindere da ogni tipo di valutazione preventiva, itinerante e successiva. Perché il sistema di sicurezza è quello deputato a garantire l’ordine e deve essere sempre innocente. Perché il sistema di sicurezza è la parte vitale ed essenziale dello Stato, colpevolizzare il sistema di sicurezza significa colpevolizzare lo Stato. Però, come la religione ha insegnato, sulla croce vi è finito Cristo non Barabba, l’innocente assoluto e non il colpevole che doveva essere il colpevole. E dunque, anche se a morire sono stati i pescatori, o ragazzi innocenti, si deve compiere l’opera mediatica religiosa. Cristo deve finire in croce e si deve affermare la sua “passione” Si deve compiere la sofferenza del Cristo, una sofferenza che deve essere riservata solo per servitori dello Stato, quasi a rimpiangere che non siano loro ad essere stati uccisi. Si attua la seconda fase, quella fase che vuole il martirio, la passione, il calvario, la crocifissione, sino alla resurrezione. Ed ecco che si trasmettono filmati, ricostruzioni, proiezioni, di eroi che hanno perso la vita durante lo svolgimento del loro lavoro, siano essi in missioni guerra, siano essi in servizio in città. Strumentalizzazione della morte a dir poco ignobile. A ciò si ricollega una ricostruzione, spesso forzata e spesso surreale, ma dall’effetto chiaro ed inequivocabile, quale quella di ricondurre tramite gesti ed atti l’intera passione di Cristo nella vicenda dei servitori dello Stato, attualizzata ma sempre efficace, ecco allora la detenzione, la malattia, il vittimismo, la crisi, il dolore, la richiesta del perdono, l’abbandono, gli assalti contro le auto, che ricordano gli assalti contro i discepoli, le offese contro il corpo, fino ad arrivare alla resurrezione, quale la riabilitazione, il ritorno in Italia, o l’oblio, che farà dimenticare la vera vittima, la reale vittima e salvaguardare l’intero corpo, perché Cristo è sempre innocente e la sua innocenza va difesa sempre. Una situazione del genere, spesso decisa dall’alto ed imposta dall’alto non giova neanche a quel tipo di sistema che si vorrebbe difendere con tali mezzucci, perché verrà meno la fiducia, perché le persone che ancora ragionano con la propria testa, non dimenticano mica. Spirito di corpo, di appartenenza e tanto altro, non possono e non devono condizionare certi e dati processi, certi e dati processi che si ripropongono puntualmente sempre con gli stessi schemi. Schemi frutti di consapevolezza o meno, sono una sorta di ipnosi collettiva che risveglia concetti inculcati nel corso del tempo sempre pronti a colpire e ad affondare ogni concetto reale di giustizia, nel nome di quella religiosità che ha mandato in rovina questo Paese, perché l’innocenza di Cristo non si deve discutere, mai.
mb
http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/09/barabba-e-cristo-una-metafora-per.html
Ho trovato molto interessante la riflessione sul vittimismo del potere come dispositivo ideologico a guardia del potere. Condivido molto che sia un aspetto determinante dell’autorappresentazione di questo paese e credo anch’io che davvero penetri a fondo nella nostra quotidianità, anche al di là dei drammatici fatti di cronaca o nell’analisi di eventi storici. Tanto più subdolo perché agisce su più livelli: non un mero atteggiamento difensivo che il potere adotta per giustificare le proprie porcate, ma anche uno strumento per dividere il fronte degli sfruttati, non solo uno scudo ma anche un’arma potente, sia per mettere ancora più all’angolo chi già è ridotto ai margini, sia per produrre e sostenere guerre tra poveri. Provo a spiegarmi. Oltre appunto a nutrire razzismo e risentimento verso chi sta peggio, un certo vittimismo è l’architrave che sostiene la competizione (e la diffidenza) tra sfruttati di vario tipo. Ad esempio mi pare evidente come impregni la quotidianità del mondo del lavoro, e soprattutto come spesso plasmi la rappresentazione che le persone hanno di se stesse nel mercato del lavoro: il precario si sente vittima rispetto al lavoratore, cosiddetto, garantito; il tirocinante a 400euro al mese rinfaccia al precario di avere almeno un contratto di lavoro (e uno stipendio) vero; il disoccupato quasi considera un privilegiato chi ha un cazzo di stage; tutti impantanati in una competizione al ribasso che lascia atterriti, e in cui il vittimismo individualista è il terreno che, anziché produrre reazioni collettive, lascia, perlopiù, tutti chiusi nel proprio risentimento (questo, almeno per quanto mi riguarda, è davvero il quotidiano delle discussioni e dei discorsi che si sentono in giro. Una pandemia della sindrome dei capponi di Renzo. E questo anche senza riferirsi all’emblema della guerra tra poveri che è l’odio nei confronti degli immigrati). Il punto (ma ovviamente scopro l’acqua calda) sarebbe quello di riuscire a trasformare questo vittimismo (in larga parte giustificato), da risentimento orizzontale tra sfruttati (o addirittura verso chi sta peggio), in reazione collettiva verso l’alto (e sull’analisi dei meccanismi ideologici che impediscono questa torsione: dai nazionalismi, al movimento di Grillo, questo blog è un punto di riferimento fondamentale). Dall’altra parte il potere è abile a giocare col vittimismo di chi non se la passa bene e a sfruttarlo per i propri scopi. Esemplare in questo senso sono stati, secondo me e per restare alla stretta attualità, i due minuti del discorso di Renzi contro i sindacati a difesa del “totem articolo 18”: due minuti in cui non fa altro che solleticare il vittimismo (sacrosanto!) di precari e disoccupati, usandolo però come clava contro i diritti di altri lavoratori, per promuovere una riforma al ribasso su tutele e diritti di tutti. Subdolo (anzi proprio da figlio di puttana!) ma, ahimè, probabilmente comunicativamente molto efficace. Insomma il vittimismo non è solo un atteggiamento del potere che, come dicono a Napoli, “chiagne e fotte”, ma è uno strumento di assoggettamento insidioso, capace di far breccia nelle debolezze, che pervade la nostra quotidianità e che, soprattutto in tempi di crisi, è potente ed insidioso. Per questo sul controllo del vittimismo si gioca una battaglia fondamentale, per questo credo sia importante rifletterci a più livelli, e, anche per questo, attendo con ansia il “testo lungo” che WuMing1 sta preparando sull’argomento. Non solo in Italia, ma soprattutto in Italia.
Questo mi sembra il punto fondamentale da analizzare, del quale l’atteggiamento del “popolo del web” verso il caso Bifolco è una conseguenza: preso atto di come e perché il potere utilizza il dispositivo del “razzismo verso i poveri” (il solito discorso “se sei povero è colpa tua” che ci tiriamo dietro da circa tre secoli), come riuscire a bloccare questo meccanismo nel suo farsi coscienza sociale? Come, in sostanza, facciamo capire ai proletari che il problema non sono gli altri proletari che arrancano con meno fatica ma i padroni che fanno arrancare tutti?