[Riprendiamo su Giap un saggio/recensione del compagno Bifo, che noi abbiamo sempre chiamato «Franco».
Un anno e mezzo fa un giornale bolognese si è inventato uno scazzo tra noi e lui, dopodiché un giornalista voleva una nostra dichiarazione al riguardo. Lo abbiamo mandato affanculo. Il giornalista, non Franco. Il giornalista non franco.
Uno di noi lo ha incontrato in treno. Franco, non il giornalista. Doveva essere fine giugno o inizio luglio. Ci ha detto che stava scrivendo qualcosa su di noi. Poi ha aggiunto che, se lo scazzo ci fosse stato, avremmo avuto ragione noi.
Il testo è apparso su Facebook il 9 settembre. Lo pubblichiamo affinché abbia una circolazione anche nel mondo di fuori. Nella versione che appare qui, le sottolineature sono nostre. Buon divenire rivoluzionari(e).]
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«Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.»
(William Shakespeare, Macbeth)
Deleuze nell’Abbecedario dice che le rivoluzioni falliscono, tutte. Chi fa la rivoluzione per vincerla è un ingenuo o un mascalzone. Gli ingenui, coloro che pensano che la rivoluzione faccia passare il mal di denti sono delusi perché il mal di denti non gli è passato e qualche volta anzi va peggio. I mascalzoni prendono il potere, e la loro vittoria è per l’appunto la sconfitta della rivoluzione.
E allora, perché abbiamo partecipato a tutte le rivoluzioni che ci capitavano a tiro in questi ultimi duecento anni, e perché volentieri parteciperemmo alla prossima, se ci fosse?
Interessanti, dice Deleuze ancora, non sono le rivoluzioni, ma i rivoluzionari, o meglio quel che capita ai rivoluzionari, quello che cambia nelle loro vite.
Ribellarsi, parlare con altri che si ribellano, organizzarsi, immaginare soluzioni strampalate, darsi appuntamento nel cuore della notte, bastonare l’assassino che ti ha ammazzato il fratello, provare in un modo provare in un altro. Alla fine il mal di denti non se n’è andato, ma stai pensando ad altro e al mal di denti non ci pensi più, almeno per un po’.
Prendere parte al movimento rivoluzionario significa comprendere che la tua vita non è scritta nei piani del potere, ma puoi scriverla tu, almeno fino a un certo punto. Tutto si gioca su quel certo punto. La felicità individuale, la giustizia collettiva, un grado di eguaglianza crescente, e soprattutto la fratellanza: un sentimento di fratellanza, la forza che deriva dalla fratellanza, l’amicizia che si fa regola universale dei riporti fra gli uomini e le donne. Fino a un certo punto, lo so. Ma quanto tempo passa prima che i padroni riprendano il sopravvento, prima che la fratellanza si incrini, prima che il mal di denti torni a farsi sentire? Tutto qua. Prova a farla durare una vita, la fratellanza, prova a mantenere i padroni a distanza per una vita intera, prova a non subire lo sfruttamento per tutto il tempo in cui vivi. Ecco l’utopia realizzata, anche se la rivoluzione non vince mai. La rivoluzione ti insegna che è possibile una linea di fuga dall’inferno terrestre.
Mitopoiesi e genealogia
L’armata dei sonnambuli è (per ora) l’ultimo libro dei Wu Ming, un gruppo di scrittori senza nome che discende da una ormai lunga storia che comincia con i Luther Blissett nella seconda metà del decennio ’90.
L’ultimo in ordine di tempo, prima che l’immaginazione narrativa di quella piccola banda inventi un altro mondo e un altro tempo. Ma anche l’ultimo di un ciclo lungo che costituisce forse la più grande impresa epica nella letteratura del nostro tempo.
L’opera dei Luther Blissett poi divenuti Wu Ming costituisce una sorta di ricostruzione della mitopoiesi moderna, una rivisitazione genealogica (nel senso propriamente foucaultiano) delle narrazioni che costituiscono il fondo mitologico su cui si fondano e si motivano i processi di soggettivazione dell’epoca moderna.
Mitopoiesi infatti è l’azione che costruisce narrazioni condivise nelle quali è possibile riconoscere il passato, il destino, il presente, l’utopia, l’aspirazione e il possibile di collettivi che riconosciamo come movimenti.
Alla fine del secolo scorso, quando ancora si firmavano Luther Blissett, con una composizione leggermente diversa da quella con cui oggi si firmano Wu Ming, questa piccola band letteraria pubblicò il romanzo Q che ottenne un vasto successo di pubblico. Subito dopo il gruppetto compì un gesto assolutamente irragionevole. Affermare un nome, un’etichetta, è l’operazione più difficile per uno scrittore esordiente. Loro ci riuscirono al primo colpo, poi cambiarono nome con sublime sprezzo delle regole del marketing. Presero un nuovo nome che significa non-nome, e continuarono con una serie di romanzi tra i quali a mio parere eccellono 54, New thing, Altai.
Un’epigrafe foucaultiana apre L’Armata dei sonnambuli. Foucault è visibilmente il riferimento filosofico di molte delle scelte narrative, di molte ambientazioni e riferimenti disseminati in questo libro dedicato alla Rivoluzione Francese.
Michel Foucault dedicò la prima parte del suo percorso intellettuale alla ricostruzione genealogica delle forme epistemiche e delle forme di vita che definiscono la modernità e Foucault è sempre presente sullo sfondo delle opere a carattere storico dei Wu Ming. Se il contributo di questi scrittori consiste in una sorta di genealogia della mitopoiesi moderna, il contributo di Foucault si è manifestato in forma di genealogia dell’episteme moderna. Sia la mitopoiesi della piccola banda sia l’episteme foucaultiana hanno come centro pulsante la corporeità, il corpo che parla, che manda segni, che dissemina segni nella sofferenza, nell’esaltazione, nella follia e nella rappresentazione.
La storia come follia e come rappresentazione
Ho letto un sacco di libri sulla storia della Rivoluzione francese, eppure non posso dire di aver capito bene: perché un giorno Robespierre è il capo riconosciuto e amato e il giorno dopo gli vogliono far la pelle perfino molti dei suoi sostenitori? Perché si prendevano decisioni che non avevano alcun senso e perché dopo aver volato sulle ali dell’entusiasmo ci si ritrovava a dover fronteggiare un’imprevista ondata di malinconia popolare o di furibonda violenza? Questo romanzo (puntuale, ricco, preciso dal punto di vista della documentazione storica) mi ha permesso di capire la cosa essenziale: che non c’è proprio niente da capire. Non c’è una legge storica che agisca dietro le quinte, non c’è una necessità economica o sociale che diriga i movimenti e la reazione. C’è un palco, su cui si svolge la rappresentazione, e c’è la follia,che muove le sue pedine. Il giorno dopo lo chiamiamo storia, e ci mettiamo pure la S maiuscola: la Storia.
Ma quel giorno lì, nel giorno in cui le cose accadono davvero quel che conta è il dolore individuale e l’illusione collettiva, insomma il flusso di desiderio e di paura che corre attraverso la città.
Per raccontare la storia della rivoluzione francese i Wu Ming concentrano l’attenzione narrativa sulla follia e sulla messa in scena. Tra i personaggi principali del romanzo ci sono una tricoteuse e un attore: Marie Nozière e Léo Modonnet.
Marie Nozière è una delle tante operaie tessili, sartine e ricamatrici che negli anni della rivoluzione si trasferirono sulla piazza dove la ghigliottina faceva il suo lugubre lavoro. Il corpo di Marie Nozière parla, eccome se parla: parla della violenza sessuale subita da un padrone feudale che la ingravidò poi la scacciò con un figlio, parla dell’amore per un uomo che le è stato portato via dalla guerra, parla della solitudine e della fatica del lavoro e della maternità. E parla anche dell’odio per gli aristocratici, del desiderio di violenza, del desiderio di fargliela pagare col sangue. Quella che gli psichiatri hanno a lungo definito “isteria femminile” viene riletta come espressione politica di un corpo troppo a lungo represso. Si tratta di un corpo sessuato individuale, ma anche di un affollarsi di corpi che stanno sullo sfondo poi a un certo punto si fanno avanti, invadono la scena, si toccano, si battono, si accarezzano.
Léo Modonnet è un bolognese fuggito a Parigi dove si guadagna la vita facendo l’attore. Nel vortice degli eventi Léo confonde la rappresentazione teatrale con l’azione collettiva, confonde il palco con la strada e il teatro con la vita. Per questo perde il lavoro. Ma perduto il lavoro di attore finalmente può scoprire che un nuovo teatro sta nascendo, un teatro che si fa azione, che entra nella storia collettiva della rivolta così che la rivolta riconosca la propria teatralità, mentre l’arte si fa vita vissuta. Léo diviene Scaramouche per mettere in scena la fusione tra arte teatrale, azione criminale e processo rivoluzionario. Ciò che i Wu Ming descrivono attraverso le vicende di Léo Modonnet è l’inizio della storia dell’avanguardia, collocando la sua prima esplosione nella rivoluzione francese.
Questo romanzo racconta la storia delle rivoluzioni moderne come follia del corpo che cerca il suo linguaggio e lo trova nei manicomi, nelle urla incomprensibili,nella violenza. Ma racconta anche l’altra faccia del medesimo processo: racconta la formazione del potere secondo le stesse linee della rivolta. Se la rivolta è follia, anche il potere ha qualcosa a che fare con gli stati alterati della mente, anche il potere trae la sua forza dalla s-ragione. Qui il potere nasce dall’ipnosi.
Se la rivolta è liberazione dei corpi, il potere lavora sulla sofferenza dei corpi, sulla paura della libertà e sul bisogno di rassicurazione, di ordine, di sottomissione.
I narratori ci parlano del rapporto tra Illuminismo e Ipnotismo mesmerista rivisitando magistralmente alcuni luoghi foucaultiani come i manicomi cittadini, Bicetre, la Salpetriere, dove i folli mettono in scena il trionfo della ragione.
Follia ragione potere
Nel libro che porta il titolo Histoire de la folie à l’age classique Foucault analizza la formazione della società disciplinare moderna attraverso l’intreccio della Ragione e della De-Raison. La follia deve essere nominata, separata, segregata, perché la razionalità borghese possa affermare il suo primato. Ma questo atto di separazione istituisce le due sfere separate (ragione e s-ragione) come se fossero indipendenti, mentre non lo sono affatto. La luce della Ragione è indissociabile dall’oscurità della de-raison: la ragione penetra profondamente negli spazi dell’Inconscio sociale, modellandolo secondo le sue strategie produttive, mentre la s-ragione dilaga negli spazi nascosti dellavita quotidiana rivelandosi talora con esplosioni improvvise, e a volte e rompe prepotente, dominatrice e maggioritaria.
La storia della modernità si arrampica proprio lungo questi tornanti della ragione che sottomette la vita, ma anche della ragione che si ribella contro l’oppressione,rivendicando razionali valori di giustizia e di uguaglianza. Questa ragione è però indistricabile dalla follia che permette al corpo incatenato di scatenarsi, e dalla follia che cerca rassicurazione e rifugio e perciò si sottomette all’ipnosi del potere come servitù volontaria.
Nell’Inconscio si trova il motore più forte dei processi di identificazione e di espressione collettiva, perché l’inconscio non è un teatro (in cui si svolge un dramma già scritto) bensì un laboratorio in cui le linee del dramma si scrivono collettivamente, nell’andirivieni continuo tra desiderio e interesse,eccitazione e paura. Il conflitto e la fusione di flussi mitopoietici differenti animano questo inconscio. Qui agisce la poesia, qui agisce la narrazione, qui agisce la produzione artistica: nel punto di incontro tra mitopoiesi ed inconscio, che è il punto in cui si formano le attese di mondo. Non la speranza, non l’utopia, ma l’attesa di un mondo immaginato e quindi possibile.
Costruendo una metafora che ha movenze narrative di tipo fantascientifico, Wu Ming racconta non solo la storia dei tormenti e delle speranze dei rivoluzionari, ma anche quella di un reazionario che vuole restaurare il potere. Non il potere della Monarchia capetingia, retaggio del passato, ma il potere razionale e produttivo della modernità. Chi sono i sonnambuli mesmerizzati e indotti a subire? L’armata dei sonnambuli sono le folle dei commuters della subway londinese all’ora di punta, sono le folle che si accalcano all’entrata del supermercato il giorno in cui c’è uno sconto, sono i milioni di oppressi che vanno a votare per il loro oppressore, sono l’immenso pubblico della televisione multiforme e uniforme.
Grazie all’azione ipnotica di un cospiratore reazionario si forma l’armata dei sonnambuli: un esercito di schiavi che si identificano con il loro padrone e ne eseguono ciecamente i disegni perché la loro coscienza e la loro sensibilità sono state ipnotizzate, anestetizzate. Da questo punto di vista il romanzo racconta(anche) il divenire automa dell’umanità moderna.
E allora perché ribellarsi?
L’armata dei sonnambuli è un libro terribilmente amaro, doloroso, disperato forse. L’attesa di una società migliore, la pretesa di un governo razionale sul corso degli eventi si rivelano illusioni. Tagliare la testa al re non ci libera dalla fame, e neppure incarcerare gli accaparratori di farina ci permette di avere quello che ci occorre.
E proprio dalle rivoluzioni il potere trae la sua potenza. La potenza che le rivoluzioni esprimono, la potenza del lavoro e del teatro, del sapere e del desiderio si ossifica nelle forme sempre nuove del potere.
E allora cosa resta? E allora perché ribellarsi?
Marie Nozière a un certo punto se lo chiede, quando si rende conto del fatto che tutte le speranze suscitate dalla rivoluzione si sono dissolte, quando Robespierre che fino a ieri era il beniamino del popolo e il capo riconosciuto dell’Assemblea viene abbandonato dal popolo e giustiziato per volere dell’assemblea. E Marie Nozière risponde alla sua propria domanda.
Risponde che la rivolta serve a sapere che esistiamo, serve a dare un senso alla sofferenza e anche alla sconfitta. Prima non sapevo di esistere e subivo la violenza del potere come se fosse naturale: la rivoluzione mi ha permesso di riconoscermi, ho capito che potevo ribellarmi, ho capito che esisto, che posso rifiutare e quindi cominciare a essere, ho capito che posso posso incontrare altri che come me si ribellano, ho conosciuto l’amicizia, impensabile prima della rivolta.
L’esperienza della rivolta rende possibile la costruzione di senso, cioè quell’indipendenza dal potere che consiste nella coscienza di sé, nel disprezzo e nell’odio. L’esperienza della rivolta rende anche possibile l’amicizia, la tenerezza, l’avventura, sconosciute a chi subisce l’ipnosi del salario, della paura, della legge.
Te lo si conta noi
L’Armata dei sonnambuli è anche, forse la più compiuta espressione del metodo di narrazione che prima Luther Blissett poi Wu Ming hanno dichiarato e adottato fin dalla metà del decennio ’90 . Sempre il loro metodo si è fondato sulla mobilità del soggetto narrante e sulla fuga continua dell’identità. I personaggi di Q e di Altai cambiano nome molte volte, durante le loro peripezie, le loro fughe, le loro clandestinità. Gert dal Pozzo, personaggio centrale di Q, ricompare con molti nomi diversi durante le vicende di quel romanzo, per poi ritornare in Altai, invecchiato, ma più lucido e carismatico che mai, sotto il nome di Ismail.
Il metodo narrativo di questa banda di scrittori che non sono soltanto scrittori ma anche molte altre cose (musicisti, ribelli, teorici, storici, e soprattutto compagni) viene fuori con particolare chiarezza dalle pagine di un libretto che ebbe una certa risonanza quando uscì nel 2009 con il titolo New Italian Epic:
«il punto di vista narrativo continua a slittare da un personaggio all’altro grazie al vecchio espediente del discorso libero indiretto, vecchio ma ancora in grado di sorprendere se usato al momento giusto e con la giusta intensità»,
scriveva Wu Ming 1, che aggiungeva in nota una spiegazione utile: il discorso libero indiretto consiste nell’adottare il punto di vista del personaggio pur continuando a scrivere in terza persona, cioè consiste nel far sentire la sua voce senza virgolettarla.
In realtà dietro questo espediente ci sta di più che una scelta di tecnica narrativa, cista una concezione dello svolgersi storico, che nel libro sulla rivoluzione francese emerge con nettezza. Leggendo questo romanzo è come se ci trovassimo di fronte a una folla dalla quale vengono fuori delle voci che non possiamo identificare in maniera molto precisa, voci che ci raccontano la stessa storia da punti di vista diversi in modo tale che da uno slittamento all’altro la storia procede,si arricchisce di nuove possibilità interpretative, e talvolta presenta contraddizioni irrisolte, irrisolvibili, perché la realtà storica non può essere identificata con alcuna verità interpretativa di ultima istanza.
Non solo i personaggi cambiano nome identità orizzonte, ma la voce narrante si sposta fino al punto che in certi momenti non possiamo identificarne l’origine. L’espressione «te lo si conta noi com’è che andò» diviene quindi una sorta di shifter che permette di spostare sia la scena in cui la narrazione si sta svolgendo, sia il narratore individuale o collettivo. Te la si conta noi. Noi chi?
La voce narrante è quella di una folla che si sta muovendo, una folla che tende l’orecchio, che si nasconde o che sbuca fuori dal buio all’improvviso. E l’effetto che ne risulta è quello di trovarsi al centro di un evento magmatico,in perenne movimento, ma anche di trovarsi in un mezzo a un flusso di eventi il cui senso medesimo cambia, sprofonda, si rovescia.
Nell’Introduzione al suo libro Du Sens (1970) scrive Algesirdas Greimas:
«La significazione non è altro che questa trasposizione d’un piano di linguaggio in un altro, di un linguaggio in un linguaggio diverso, mentre il senso è semplicemente questa possibilità di transcodifica. Drammatizzando un po’ la cosa, si potrebbe dire che il parlare metalinguistico è soltanto una serie di menzogne e che la comunicazione è soltanto una successione di malintesi.»
L’infosfera
Il tema delle tecnologie di comunicazione come fattore di mutamento decisivo del processo storico, e particolarmente dei processi di soggettivazione è una costante dell’opera LB/WM.
In Q la diffusione della tecnologia di stampa è lo sfondo su cui si disegna un mutamento relazionale, culturale, etico, che prepara il mutamento sociale.
In Q e in Altai si parla continuamente della stampa e diffusione della Bibbia e di opuscoli religiosi e politici. La diffusione della stampa è l’evento tecno-mediatico che nutre la coscienza della borghesia urbana nei secoli della prima modernità. La predicazione di massa tra i contadini degli Anabattisti e degli altri eretici di quel tempo si accompagna alla distribuzione di volantini ricavati dagli scarti dei volumi della Bibbia.
Ma la replicazione del testo mette in questione l’identificazione della verità, rende possibile la falsificazione, l’invenzione. La replicazione del testo mette in moto un’inflazione del senso. Il diffondersi del verbo produce un salto nella sfera dell’immaginabile, e quindi nella sfera dell’esperibile. Segue allora un riassetto traumatico della sintonia Mente/Infosfera. La parola si diffonde in circuiti che la decodificano secondo codici imprevisti, imprevedibili, e i codici sono sottoposti a una pressione che li deforma, li trasforma, o li cancella.
Con questa consapevolezza del rapporto tra media e linguaggio Wu Ming si misura con l’infosfera di rete.
La deterritorializzazione costante del luogo da cui proviene la parola è il sound dell’Armata dei sonnambuli.
Solo una voce narrante molteplice e mobile può esprimere la soggettività dell’epoca della rete.
E adesso?
Leggendo L’armata dei sonnambuli mi sono chiesto: qual è il futuro di questa piccola banda? Con questo libro hanno portato a compimento una ricognizione sull’immaginario delle rivoluzioni moderne, ma alla fine ci hanno portato nel cuore dell’epoca presente. Chi aprirà la strada a un’immaginazione del secolo che viene?
L’epoca delle rivoluzioni è finita, ma anche l’epoca dell’illusione razionalista e democratica è finita. La mitologia contemporanea è piena fino alla saturazione di narrazioni distopiche, nelle forme ciniche di Hunger Games (romanzo di Suzanne Collins, film diretto da Gary Ross) o in quelle rabbiose di The Purge (il film splatter di James de Monaco), o in quelle orwelliane di The Circle (il romanzo di Dave Eggers), o in quelle disperate dei film di Je Zhang Khe (Unknown pleasures, Still life, A touch of sin).
È possibile immaginare il nuovo secolo fuori e oltre le categorie distopiche che emergono dall’immaginazione estetica contemporanea?
È possibile immaginare vie di fuga dall’inferno del capitalismo finanziario e della guerra frammentaria totale?
È possibile pensare i processi di formazione di una soggettività cosciente al di fuori dalla tenaglia: automazione bio-finanziaria/identità aggressive di tipo etnico religioso o nazionalista?
Alla poesia, alla narrazione tocca il compito di immaginare le vie di fuga dal totalitarismo bicefalo che disegna il prossimo secolo come un inferno.
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Ecco la parte di Abbecedaire dove Gilles Deleuze riflette ad alta voce su futuro delle rivoluzioni e divenire rivoluzionario. «G comme Gauche», filmato del 1986. Sottotitoli in italiano. Franco riassume quel ragionamento – estremizzandolo da par suo – all’inizio del suo testo, e può essere utile risalire direttamente alla fonte.
«Che le rivoluzioni falliscano, finiscano male, non ha mai fermato la gente, non ha mai impedito di divenire rivoluzionari […] Le situazioni in cui l’unica via d’uscita per l’uomo è divenire rivoluzionario… Il problema concreto è come e perché le persone divengano rivoluzionarie.»
Abbecedario di Gilles Deleuze – G “Gauche” – di Rivoluzioni, Diritto, Partiti, Sinistra from Africa Insieme on Vimeo.
A me, da militante appassionato, queste rappresentazioni delle rivoluzioni come tutte destinate inevitabilmente al fallimento, danno l’orticaria. Non mi contento dell’acquisita coscienza di me come “ribelle” come unica possibile acquisizione all'”orizzonte” del mio agire. Mi sembra una favoletta morale, anche pericolosa a ripetersi. Leggo libri come l’Armata dei Sonnambuli perchè, per quel che vi leggo io, insegnano a non accontentarsi. Insomma, questa recensione proprio non mi aggraga.
Però secondo me la questione che Franco pone, al di là di alcune boutades (che in realtà gli servono a “gettare il corpo nella scrittura”) e delle “tare” che ciascuno di noi riterrà necessario fare, è molto importante e non viene affrontata da tempo: la rivoluzione come processo prima che come risultato; come la rivoluzione trasforma la vita prima che il mondo, come far durare nel tempo ed estendere nello spazio gli esiti di questa trasformazione della vita, anche quando l’esito politico è sfavorevole. Badiou, che con Franco ha poco a che fare, si interroga, lungo linee parallele, su come “essere fedeli all’Evento”, in questo caso la rivoluzione, che ha fatto irrompere qualcosa di nuovo nel mondo, ha fatto esistere ciò che, nell’ordine dominante, era catalogato come inesistente.
Anche a me la recensione di Bifo ha fatto pensare a Badiou, in particolare alla separazione tra politica e stato, ovvero tra processo rivoluzionario e Storia, in cui il filosofo francese privilegia il reale di una prduzione di soggettivitá rispetto ai cambiamenti che essa puó eventualmente introdurre nel campo dello stato. C’é da dire peró che il cambiamento dell’ordine dominante é un orizzonte fondamentale nel desiderio di un militante politico. Negare a priori che questo sia possibile, e fondarlo statisticamente sui fallimenti delle rivoluzioni precedenti é pericoloso e controproducente.
Sul privilegiare il processo rispetto al risultato c’é un’articolo bellissimo di Amador Fernandez Savater intitolato “¿Cómo se organiza un clima?” (http://blogs.publico.es/fueradelugar/1438/%C2%BFcomo-se-organiza-un-clima), che probabilmente conoscete giá, dove si riflette sul movimento 15M, sul fatto che non abbia avuto un impatto “strutturale”, ma a livello delle molteplici esperienze soggettive vissute da chi vi ha partecipato
Ci tengo però a chiarire che, nel mio commento precedente, il mio uso dell’espressione “prima di” è proprio cronologico, diacronico, e non vuol dire “meglio di” o “al posto di”. La rivoluzione è processo *prima di* essere risultato, e trasforma la vita *prima di* trasformare il mondo. Per me le rivoluzioni devono vincere e cambiare il mondo, ma il fatto che spesso non ci riescano non significa che siano state sconfitte su tutti i piani. Come rendere irreversibile, o più difficilmente reversibile, la trasformazione che la rivoluzione ha impresso alla vita, alle abitudini, alle relazioni? Quando Deleuze parla di “divenire rivoluzionario” come problema completamente diverso da quello del “futuro della rivoluzione”, intende dire questo, intende difendere l’autonomia di percorsi nati dal porsi un certo problema, quello della rivoluzione che ti ha *comunque* salvato la vita, rendendola degna di essere vissuta, anche in una situazione in cui la rivoluzione è stata sconfitta sul piano dei mutamenti strutturali. Che però, se ci sono, è meglio.
Sono d’accordo.
Aggiungerei solo (spero di spiegarmi) che il cambiamento delle vite individuali, quel cambiamento delle singole vite che può perdurare oltre le “sconfitte”, dipende proprio da quelle piccole o grandi “vittorie”, da quelle temporanee, parziali, locali, reversibili trasformazioni del mondo (che qualcuno chiama “rivoluzioni fallite”, e altri “trasformazioni storiche” o Storia).
Diciamo pure che trovo la battuta di Deleuze, altamente stereotipata, frutto della non compiuta elaborazione di determinati lutti storici ed ideologici e di certo non l’ideale per discutere articolatamente di qualsiasi processo rivoluzionario. Tant’è che la favoletta dei Rivoluzionari “ingenui ed idealisti” da un lato o “che tradiscono” dall’altro è oramai senso comune reazionario dei media di regime e compare in qualsiasi opera che approcci determinati temi, oscurando i veri conflitti e le vere problematiche dei processi rivoluzionari (perchè è vero che ve ne sono). Vero è, che vi è stata una mitizzazione dell’Evento-Rivoluzione, che la rivoluzione è un processo e non un evento, che questo processi vanno letti secondo criteri e categorie diverse da quelli della “presa del potere”. Falso e mistificante è introiettare la sconfitta a tal punto da propormi come risultato di un processo del genere un’acquisizione di coscienza in stile “servo-padrone” di hegeliana memoria. Se, allora, devo usare dei riferimenti per superare la mitologia dell’evento mi tengo Marcos e la lentezza degli zapatisti (per dirne solo una) che sono usciti dalla selva nel 1994 ed ancora stanno lì a resistere. Ed hanno attraversato tutti i vari “eventi” del loro processo rivoluzionario (il levantamiento, il silenzio dopo la mancata applicazione degli accordi di Sant’Andres, la ricomparsa nel 2012, la morte di Galeano e via dicendo) senza essere ingenui o idealisti ma con una straordinaria lucidità e determinazione. Ed è solo un esempio, solo uno tra mille altri possibili.
Quale battuta di Deleuze? Non dice né ha mai scritto da nessuna parte quello che gli attribuisci. E se c’è un pensiero che, costitutivamente, ha fatto a meno della dialettica servo-padrone ed è totalmente estraneo all’hegelismo, è proprio quello di Deleuze.
Tra l’altro, molti discorsi e pratiche zapatiste hanno una sorprendente risonanza con l’immaginario deleuzo-guattariano. “Sorprendente” per chi non ha conoscenza di quest’ultimo, naturalmente.
Be’, però non è appunto un esempio scelto a caso. Proprio l’esperienza zapatista dimostra come si possa praticare il conflitto e rivoluzionare la vita e la società senza scommettere tutto su una palingenesi rivoluzionaria “concentrata”. La grande novità rappresentata dallo zapatismo, che salutammo con grande favore negli anni Novanta, è proprio il superamento della dicotomia tra l’idea “ingenua” di un trionfo della rivoluzione e l’opportunistico orizzonte riformista. Infatti, come fai notare, quell’esperienza dura da vent’anni senza sclerotizzarsi, con alti e bassi, ma certamente avendo evitato molte delle trappole novecentesche.
Colgo l’occasione per dire che il 16 ottobre a Palermo (booq – bibliofficina occupata di quartiere), a presentare L’armata dei sonnambuli ci sarà anche Berardi Bifo. Anche per noi Franco.
Capisco certe riserve, tuttavia vorrei spezzare una lancia in favore della lettura di Bifo. O meglio, vorrei provare a interpretarla in una chiave meno soggettivistica.
Se consideriamo la rivoluzione come un evento storicamente collocato, prodotto da un’infinità di fattori coincidenti, non ci sono dubbi che sia destinata a “fallire”. Perché la storia va avanti, produce nuove contraddizioni, spinte contrapposte, rinculi, riflussi, ecc. La rivoluzione non è l’apocalisse, anche se qualcuno a volte ha fatto confusione. Come evento dunque la rivoluzione viene superata. Le avanguardie rivoluzionarie si trasformano in classi dirigenti, che a loro volta avranno bisogno di essere rivoluzionate, e se non lo saranno allora è facile che si trasformino in ceti o apparati oligarchici. La rivoluzione non elimina il conflitto dalla storia.
Ciò non toglie che il lascito di una rivoluzione – e la conseguente fedeltà all’evento di cui parla Badiou – possa durare per un tempo infinitamente più lungo dell’evento stesso. A seconda delle letture politiche e dei gradi di fedeltà possiamo dire che la rivoluzione francese è finita con il colpo di stato di Termidoro, o con quello di Bonaparte, oppure con il Congresso di Vienna. Ma la coda di quell’evento dura da due secoli. Per certi versi la rivoluzione francese è ancora in corso.
Non accettare questa dialettica storica, questo divenire, significa in effetti o essere “ingenui” o essere “mascalzoni”, come dice Bifo, perché nell’un caso si crede davvero che l’Evento sia un punto di non ritorno, una palingenesi, quando invece la storia prosegue e spesso si contraddice e torna sui suoi passi; nell’altro caso si pensa di spostare la rivoluzione su un piano retorico per approfittarne. Dire questo non significa negare importanza all’impatto storico della rivoluzione, all’instaurazione di una società diversa che possa anche durare, ecc. Ma una visione materialistica della storia non può portarci a pensare che la storia finisca (come hanno cercato di spacciarci i propagandisti liberali alla fine del secolo scorso).
Bifo in realtà non parla specificamente di tutto questo. Parla invece del divenire rivoluzionari/e, cioè sposta il discorso sul piano della trasformazione di sé nella storia. Però è un discorso compatibile con quanto detto fin qui.
“Prendere parte al movimento rivoluzionario significa comprendere che la tua vita non è scritta nei piani del potere, ma puoi scriverla tu”.
Il punto è che questa consapevolezza una volta acquisita non te la toglie più nessuno, comunque vada a finire l’evento rivoluzionario. Avere fatto la rivoluzione significa avere fatto la storia da attori e non da comparse, per dirla con Léo/Scaramouche, anzi, significa avere scritto il copione per se stessi. Questo ti resterà per sempre e resterà per sempre in tutti quelli che hanno vissuto quell’evento. E siccome la storia è anche la combinazione di tutte le nostre storie singole messe in relazione tra loro, la nostra trasformazione è tutt’altro che poco incisiva o ascrivibile solo a una sfera soggettiva. Cambiare la vita è cambiare il mondo, diceva Breton. O almeno un buon punto di partenza per iniziare a farlo.
Patto di prova di tre anni? come legalizzare il neo-schiavismo http://xcolpevolex.blogspot.it/2014/09/patto-di-prova-di-tre-anni-come.html
Il post che mi permetto di linkare, è il migliore esempio di quello che sta accadendo nel mondo del lavoro,dunque quello che dovrebbe interessare praticamente a tutti visto che è quello che, a livello di mobilitazione e lotte, in Italia, è stato l’ambito più significativo nella costruzione anche ideale di un mondo diverso ed opposto al presente. Nel mentre di tutto ciò, nel mentre della riscossa piena del sistema padronale, tace il dissenso, tace la rivolta, salvo qualche piccola eccezione che non è la regola, perché questo è il momento della rivolta silente, perché questo è il momento della massima esasperazione dell’individualismo. Troncata la catena della solidarietà, troncata ogni speranza ed illusione ed anche utopia di qualsiasi processo rivoluzionario, vige e domina la regola non scritta della salvezza, del sia fatta la tua volontà, dell’uccisione del libero arbitrio e della propria volontà, pur di sopravvivere. Questo è il momento della controrivoluzione e dei sonnambuli! Una sorta di passione e martirio, figlia di elementi altamente dopanti religiosi, che hanno massacrato lo stato di coscienza e di consapevolezza di qualsiasi agente, lavoratore, soggetto attivo diventato passivo, perché non ha scelta, eppure la scelta sarebbe sempre possibile. Questo è il momento della passività affermata, si subisce, si patisce, si piange, immense lamentazioni invadono ogni mura domestica, perché non si riesce ad intravedere nessuna prospettiva. E’ un periodo storico incredibilmente difficile, dove si processa anche la sola idea di resistenza ideale e democratica, pur essendo la carta fondamentale nata, in parte, dalla resistenza, quella resistenza che deve rimanere come atto anacronistico e nelle pagine di alcuni libri di storia, eppure ogni limite è stato travalicato. Eppure tutto tace.Un silenzio che rinforza il potere padronale. Però, è anche vero, che quando qualche voce di opposizione si eleva, quella che riesce ad unire e ad affermarsi anche a livello sistemico e mediatico, questa, oggi, è prevalentemente reazionaria, nazionalistica, di destra sociale. L’Italia s’è destra, come l’Europa s’è destra. E’ in corso una nuova fascistizzazione della società, ma la modernità inganna, un grande inganno che non viene compreso o peggio ancora è accettato. D’altronde se in Italia è emerso il fascismo il popolo, nell’uno per tutti e tutti per uno, una ragione,per quanto folle, ci sarà stata o no? Uno degli acronimi diffusi durante il fascismo era PNF uguale per non morir di fame….
Il realismo di Franco conduce al pessimismo,sì, sono fortemente pessimista, perché realista, ma non per questo si deve cedere o chiudere baracca,anzi è proprio nei momenti di massima difficoltà che è fondamentale mantenere viva la mente critica ed il dissenso in qualsiasi forma esso venga espresso o manifestato. Posso dire che condivido pienamente quando si dice che alla poesia ed alla narrazione antitossica tocca ripulire questo mondo da tutte quelle schifezze che ci hanno condotto al presente per porre uno o più piatti di scelta, però, è innegabile che è difficile,altamente difficile, andare oltre l’inferno che viviamo senza dimenticare che spesso si diventa rivoluzionari per necessità di sopravvivenza, che le rivoluzioni spesso nascono da processi di guerra, spesso la rivoluzione è uno stato di necessità, quello che io mi domando oggi sussiste realmente questo stato di necessità ? Quanto è condiviso? Perché è sempre facile cadere, invece, in processi controrivoluzionari? Il sonnambulismo reazionario ha vinto? Domande retoriche,dalla risposta scontata, forse, appunto, è proprio nel forse, in quel maledetto forse, che cadono tutti i miei interrogativi. mb
”La battuta di Deleuze” è a dir poco eufemistico…invito chiunque parli di idealismo hegeliano a proposito del pensiero di Deleuze a leggere, quantomeno, il ”Theatrum Philosophicum” di Foucault in Differenza e Ripetizione.
Qui scrive:“E tuttavia, come non riconoscere in Hegel il filosofo delle massime differenze, di fronte a Leibniz, pensatore delle minime? A dire il vero, la dialettica non libera il differente; anzi garantisce che sarà sempre ripreso. La sovranità dialettica dello stesso consiste nel lasciarlo essere, soggetto però alla legge del negativo, come il momento del non-essere. Si crede di veder risplendere la sovversione dell’Altro, ma in segreto la contraddizione lavora per la salvezza dell’identico. Non occorre rammentare l’origine perennemente istitutrice della dialettica.”
(per fugare ogni dubbio di tal sorta)
Capire Deleuze mi pare anche l’ unico modo per smascherare la vacuità dei filosofemi negriani.
Posto che, per me, le valutazioni sulle dottrine filosofiche vanno compiute non agendole dall’interno ma guardandole dall’esterno e cioè per i loro esiti storici. Per questo non vedo differenza tra la teorizzazione hegeliana di una dialettica che si ripete all’infinito (seppure nella forma della spirale) ed asserzioni apodittiche ed astoriche che assegnano alla ciclicità dei processi rivoluzionari esiti sempre costanti. Dico di più: mi annoiano, assieme a tutto quello che ci si costruisce attorno. Detto questo, un altro sbaglio clamoroso mi pare regalare/relegare la dialettica allo spirito hegeliano. Marx (chissà, forse andrebbe letto seriamente anche lui) gliel’ha prometeicamente sottratta, donandola a noi storici (nel senso di uomini concreti, immersi nella storia) come promessa di cambiamento. Non rendiamo questo atto vano ricadendo in vecchi vizi.
Ma qualcuno, qui, ha letto il saggio di Bifo oltre il primo capoverso?
Mi chiedo come reagirebbero molte persone se, si parva licet, dopo la lettura dell’incipit del “Manifesto del partito comunista”, qualcuno si fermasse lì e dicesse: non proseguo oltre, la frase è assurda, gli spettri non esistono.
Io sovente trovo stridenti certe boutades di Franco (ce n’è una su Lenin in “Dopo il futuro” che secondo me fa un pessimo servizio a quanto c’è di buono nel resto del libro), ma se questo pezzo l’abbiamo ripubblicato integrale vuol dire che lo riteniamo interessante *nel suo complesso*. Va bene fare i rilievi critici del caso, è il senso del dibattito, ma che dopo settimane si sia fermi come paracarri a una sola frase che appare subito all’inizio è avvilente.
A me non escono risposte, menchemeno conclusioni. La spirale e’ aperta, si arrovella, si attorciglia, scompare e riappare. Nessun porto sicuro, nessuna conferma a partire dalle aspettative. Nessuna linearita’ nessun finalismo nessun legame causa-effetto, se non nei variegati modi di produzione capitalista a cui corrispondono vissuti concreti e storicizzabili. Nemmeno il capitalismo comunque e’ piu’ fedele a se’ stesso, e cito Adriano Sofri, quando dice che il Capitalismo attuale “si e’ annullato diventando tutto”.
Questa e’ la cornice.
Quanto al saggio di Bifo.
E’ vero. E’ augurabile a tutti gli esseri umani di trovare un senso di se’ nel mondo attraversando un atto e un momento rivoluzionario. Mi pare pero’ che nel mondo attuale vi sia un numero enorme di palliativi e calmanti che sono piu’ forti di qualsiasi volonta’ di riaffermazione di se’ stessi attraverso un processo rivoluzionario. Faccio un esempio concreto: questa estate ho guidato un viaggio per studenti universitari in Serbia e Bosnia, culminato con una serie di attivita’ organizzate e realizzate assieme ad una comunita’ rom. Persone che non avevano avuto mai un contatto reale con “gli zingari” hanno interagito con loro per 5 giorni interi. Questa esperienza li ha cambiati, se non altro ha rivoltato il pregiudizio ingombrante che ancora oggi alberga nei confronti di rom e sinti e nomadi in generale. Penso sia stato rivoluzionario: servira’ loro per essere migliori cittadini, migliori genitori, migliori persone. Ma non riesco piu’ a pensare che tali esperienze siano *automaticamente* foriere di impegni e lotte, di una cultura e una prassi rivoluzionaria che si sviluppi nel tempo. Potrebbe benissimo succedere che tutto cio’ si perda nel tempo, come esperienza importante ma non significativa, surclassata da troppe altre cose che riempiono conscio e inconscio delle persone.
Credo che l’uscita dal Novecento ci abbia consegnato un invito: innanzitutto a smettere di sperare (Pasolini, Monicelli), e se possibile, a mettersi a fare, stare in strada e lottare, senza aspettarsi chissa’ cosa. E’ tremendo questo da affrontare, per chi ha avuto un piede e una testa nel Novecento. Ma non si torna indietro.
Troppo intricata e’ la strada che collega un’idea iniziale (rivoluzionaria, riformatrice) al suo effettivo svolgimento, alla sua effettiva realizzazione.
Ci sono eccezioni: lo zapatismo (che a mio parere rappresenta una forma intelligentissima di lotta collettiva), e le lotte come quella dei NoTav. Tutte le lotte che seguiamo e quelle che non seguiamo esistono e sono vive.
Ma il contesto generale mi sembra quello.
Diego
Faccio uno sforzo per essere meno dogmatico e provare a raccogliere lo stimolo ad andare oltre. La recensione Bifiana legge il romanzo guardandolo attraverso una “chiave” storica e cioè quella dell’accumulazione “molecolare” della coscienza subalterna. Che sopravvive anche ai peggiori Termidori. Ovviamente è una grande verità, questo fatto. Esiste questa dinamica. Permette di immaginare “vie di fuga”. Nulla si crea e nulla si distrugge come è stato detto nel corso di una presentazione del romanzo, la nostra capacità di immaginare può aprire la strada a forme di vita nuova, narrazioni apocrife e deterritorializzate nelle quali l’esperienza delle rivoluzioni passate rimane ed in un certo senso si consolida. E’ tutto vero. Ma esiste anche il rovescio di questo ( lo accennavano Marco e Punkow). C’è anche l’Entropia. C’è la materia nera della coscienza che si accumula ai margini delle rivoluzioni (voi la incarnate nei muschiatini e nei sonnambuli) e che cresce. Anche questo processo di accunulo molecolare della coscienza vive una sua precipua forma di dialettica, ha un suo negativo. E non solo nei propri antagonisti perchè le sconfitte, quando le accumuli, possono crearla la coscienza ma anche distruggerla, disperderla, seppellirla assieme alle forme di relazione e di vita che trascinano con sè. Quanti ex ribelli (l’esempio tipico è l’ex sessantottino) abbiamo visto così lontani da quello che erano un tempo, così dentro il loro posto di lavoro, così bravi a raccontare quello che avevano fatto e così incapaci di rimettersi in gioco. Le sconfitte sono delle brutte bestie.
Proverò ad essere ordinato e a dire cosa mi lascia perplesso della recensione di Bifo, che, a dispetto di tante buone e chiare affermazioni, pare, talvolta, aver importato il vizietto d’ Oltralpe di nascondere e confondere .
“Prendere parte al movimento rivoluzionario significa comprendere che la tua vita non è scritta nei piani del potere, ma puoi scriverla tu, almeno fino a un certo punto[…]
E proprio dalle rivoluzioni il potere trae la sua potenza. La potenza che le rivoluzioni esprimono, la potenza del lavoro e del teatro, del sapere e del desiderio si ossifica nelle forme sempre nuove del potere.”
Due parole su quanto Bifo dice proprio sulla concezione di potere: spiega il divenire rivoluzionario per cui- come ha ricordato Wu Ming 4, ”cambiare la vita è cambiare il mondo” (diceva Breton giustapponendo Marx e Rimbaud), riprendendo la distinzione di Spinoza tra ”potenza” e ”potere” ovvero tra ciò che un corpo può, ciò di cui è capace un corpo e ciò che ”non si può”, il luogo dell’ impotenza; il potere come potere che non si possiede, ma si esercita attraverso elementi vincolanti: la famiglia, le relazioni sessuali, ma anche la casa e i vicini (parafrasando Foucault).
Anche *per la brevità della recensione* alcune espressioni mi paiono ambigue: su tutte, quella di folla (forse per non usare la meno neutra ma più significativa ed efficace ”moltitudine” ?).
2) Pars costruens dell’ aritcolo (ultima parte della recensione di Bifo, quella delle domande).
Che esistano tendenze storiche che spingono alla liberazione e che vengano sottomesse spesso dalla tendenza dominante alla conservazione, è evidente. Queste pratiche liberanti trovano fondamento in quella che Marx definisce ”coscienza degli interessi storici” o Gramsci ”nuclei di buon senso” o Spinoza ”idea adeguata” : nella capacità di sistematizzare queste pratiche nel senso della liberazione.
Esiste, pertanto, un potenziamento reciproco tra l’ idea adeguata delle pratiche e la potenza raggiunta da queste pratiche, nonostante i tentativi di dominarle dall’ interno.
Qui sta l’ efficacia del vostro lavoro: nella riattualizzazione del passato, nell’ aver accettato la sfida del momento. L’ Angelus Novus nella Tesi IX sul concetto di storia di Benjamin vorrebbe ”ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi”.
Voi riuscite da anni efficacemente con i vostri testi, senza rinunciare all’ ebrezza, alla felicità e al divenire rivoluzionario, a ”destare i morti” che camminano caparbiamente e a riconnettere i frantumi della storia, a riattualizzare il passato nel presente, così come Robespierre estraeva dalla storia l’ antica Roma e ”la Rivoluzione francese pretendeva di essere una Roma ritornata”.
Così come il ricordo, anche l’ oblio non è un meccanismo passivo: sono costruzioni permanenti, non nel senso di narrazioni senza fondamento, ma in quello di una ricreazione costante del passato.
Alcune pratiche del passato, oggi diventano centrali e viceversa altre lasceranno il posto al nuove pratiche che faranno tramontare quelle precedenti- da qui la centralità del concetto di ”prassi”, ovvero il nucleo che ordina azioni e pensiero, come ho detto sopra en passant.
Non mi piacciono le domande di Bifo: sembrano non lasciarci possibilità di scelta: nega addirittura la realtà della categoria di possibilità.
Il possibile non è attuale, ma pur sempre reale . Sta unicamente a noi attualizzarlo e non solo in termini poetici o narrativi, come ”vie di fuga” (ma da quale luogo poi ?) quanto in termini ”poietici”. Un ”lavoro del lutto” che è sempre perdita e guadagno, che quanto più sembra interminabile tanto più può divenire tempo del lavoro creativo.