[Mentre nella città in cui viviamo, Bologna, le autorità sgomberano occupazioni – anche abitative – in modo forsennato (ben 3 sgomberi negli ultimi 4 giorni) e buttano in mezzo alla strada famiglie con bambini; mentre il nuovo questore fa clintìstvud davanti allo specchio e il declinante sindaco spara dichiarazioni retrive; mentre in Italia l’Armata dei Sonnambuli, mesmerizzata da un piazzista di Rignano sull’Arno, invoca Legge, Ordine & Decoro, a Barcellona il movimento di lotta per la casa vince le elezioni comunali e una nota “facinorosa” – una che a Bologna il sindaco Merola coprirerebbe di insulti – diventa sindaca. Riceviamo e pubblichiamo questo resoconto, fatto a botta calda e dal vivo degli eventi, da due compagni italiani che vivono là. Buona lettura.]
di Gabriele D’Adda e plv
Scriviamo ancora con l’entusiasmo addosso e il ricordo fresco di una notte indimenticabile. Dopo anni in cui il sistema politico è stato dominato da partiti corrotti, dal capitalismo sfrenato e dalle ingiustizie sociali che hanno portato la città ad avere i record di sfratti in tutta Spagna, Barcellona ha scelto di cambiare volto, eleggendo come alcaldesa Ada Colau, ex portavoce della PAH (Plataforma de los Afectados por las Hipotécas) e ora leader della lista civica di Barcelona en Comù. Fino all’ultimo nei sondaggi si è trattato di un testa a testa con Xavier Trias, sindaco degli ultimi 4 anni e esponente di CiU, storico partito di centro-destra e baluardo della politica indipendentista catalana.
Sono anni che la città di Barcellona è in mano alle entità finanziarie e ad un turismo esasperante che ha distrutto l’identità di interi quartieri (consigliamo a questo proposito il documentario Bye Bye Barcelona). Al contempo Barcellona storicamente si è opposta al potere anche nella complessità di un contesto come quello catalano, che sempre ha lottato per la propria autonomia e negli ultimi anni ha proposto con forza il tema dell’indipendenza dalla Spagna. Un contesto intricato, dunque, che di per sé è difficile da illustrare linearmente. Tuttavia il compito è reso ancora più arduo: nei giornali italiani leggiamo di un quadro che ha poco a che vedere con Barcellona, con la Catalunya e con la Spagna in generale.
Chi titola esclusivamente sulla vittoria di Podemos inneggiando alla figura di Pablo Iglesias o non ha capito o non vuol capire, quindi forse vale la pena chiarirci subito: Podemos è stato certamente fondamentale per la conquista di Barcellona e per il risultato insperato di Madrid. Ma il mondo, per fortuna, è più complesso dei titoli di Repubblica, del Corriere e del Fatto Quotidano.
Grande è la confusione sotto il cielo
L’unica verità che i giornali restituiscono è la crisi di legittimità del bipartitismo che ha dominato la scena politica spagnola negli anni successivi alla fine del franchismo. Il PP, il partito di destra guidato dal primo ministro Mariano Rajoy, ha spudoratamente appoggiato le politiche della troika, arricchendo (è il caso di dire) la propria politica con casi di corruzione e una repressione violenta nei confronti delle proteste di piazza.
D’altro canto il PSOE non è assulutamente in grado di rappresentare una possibile alternativa ed è parte integrante di un sistema politico corrotto e in crisi. Il movimento del #15M ha palesato questa situazione affermando «Que no nós representan», non ci rappresentano, riferendosi ad entrambi i partiti, incapaci di rapportarsi a questi movimenti se non in chiave repressiva e denigratoria. Il crollo dei grandi partiti, significa per alcuni (tra cui Pablo Iglesias), il crollo del «regime del 78», l’anno in cui viene promulgata la Costituzione spagnola. Per questo i nuovi movimenti e i nuovi partiti propongono un cambio che riguarda tutto il sistema politico.
Questo quadro politico viene rotto a livello nazionale da Podemos, che si presenta alle urne per le europee del maggio 2014,conquistando a sorpresa l’8% dei voti. Alla sua guida c’è Pablo Iglesias, professore di scienze politiche e attivista noto al grande pubblico come conduttore del programma televisivo “La Tuerka”, che nel suo primo discorso al Parlamento Europeo assume il linguaggio e le tematiche dei movimenti spagnoli.
Non ci dilunghiamo sul riferimento di Podemos al populismo di Ernesto Laclau e sulla retorica attraverso la quale oppone il “noi”, società civile colpita dai tagli, al “loro” rappresentato dalla vecchia classe politica (per questo rimandiamo ad un articolo di Giuliano Santoro). Ciò che è più interessante in questo momento è vedere come l’ingresso di Podemos ha destabilizzato il panorama politico spagnolo, rendendo inquieti i grandi poteri sovranazionali. Nei sondaggi del novembre 2014 Podemos figura come una forza dirompente, in grado di competere con i partiti tradizionali. In questo momento tuttavia sta crescendo Ciudadanos, un partito di destra nato nel 2006 a Barcellona, che a suon di retorica populista contro la vecchia politica sta guadagnando punti percentuale nei sondaggi a livello nazionale. Con le elezioni politiche alle porte (novembre 2015) l’unico dato certo è che il bipartitismo sta agonizzando.
In tutta la Spagna le candidature alle municipali hanno confermato questa tendenza. Oltre al caso di Barcellona, diverse coalizioni formate da movimenti e partiti alternativi a quelli tradizionali hanno infatti tentato l’assalto ai consigli comunali con risultati straordinari: è il caso di La Coruña, Saragoza, Valencia, Cadiz e soprattutto Madrid, dove Manuela Carmena, candidata della lista Ahora Madrid, potrebbe diventare alcaldesa se il partito socialista (ormai allo sfascio) decidesse di sostenerla. Si chiuderebbe così un dominio del PP che a Madrid dura da ventiquattro anni. Nelle elezioni municipali di domenica Podemos ha deciso di aderire alle liste, rinunciando a correre da solo mettendosi al servizio di una molteplicità di soggetti.
Il caso catalano rende ancora più complesso il panorama. Dal 2012 in particolare, dopo una netta chiusura del PP alle richieste di maggiore autonomia da parte della Catalunya, il processo indipendentista catalano ha una forte accelerazione. Si tratta di un movimento che ha una sua forte base popolare, ma al contempo è guidato dalle principali forze politiche catalane, con una partecipazione bipartisan: dalla destra liberale e democristiana ai partiti della sinistra.
L’indipendenza catalana è stata negli ultimi anni uno dei principali temi del dibattito politico in Spagna, rafforzando di fatto due nazionalismi, comunque differenti fra loro: molto più duro e netto quello del governo di Madrid (d’altronde vai a dire a un fascista come Rajoy che ciascuno ha il diritto di parlare e insegnare in una lingua che non è quella nazionale…), ricco di differenze e al contempo contraddittorio quello catalano. Mentre si scannavano sul tema dell’indipendenza catalana, lasciando in secondo piano ogni discorso sulla crisi, il PP, a livello nazionale, e CIU con l’appoggio esterno di Esquerra a livello catalano, hanno condotto politiche molto simili: tagli, privatizzazioni e austerity.
La lista di Barcelona en Comù e la candidatura di Ada Colau entrano a gamba tesa in questo panorama cambiando radicalmente l’agenda politica. La posizione ufficiale della lista riguardo all’indipendenza è la rivendicazione del «diritto di decidere», per esempio facendo un referendum vincolante a livello cittadino sul fatto che il Comune di Barcellona entri a far parte dell’associazione di municipi per l’indipendenza. I temi principali però sono altri: il diritto alla casa, la lotta contro la precarietà, la creazione di un welfare per tutti e non per pochi, la valorizzazione dei quartieri e un modello di turismo sostenibile. Barcelona en Comù ha conquistato domenica il 25% delle preferenze, vincendo contro tutti e contro ogni previsione e Ada Colau diventerà la prima alcaldessa di Barcellona.
Un poco di vergogna, un tanto di dignità e molta (moltissima) organizzazione
Parole, parole, parole.
Di fronte all’ultimo dibattito televisivo dei candidati sindaci sembrava di assistere ad un paradosso: erano tutti d’accordo! Tutti volevano meno sfratti, tutti volevano ridurre le disuguaglianze, lottare contro la precarietà, regolamentare il turismo, rendere Barcellona un punto di riferimento internazionale. L’unico nodo caldo in effetti sembrava l’indipendenza.
Solo che le parole sono differenti quando sostenute dai fatti e questo andrebbe spiegato a quei giornali italiani che parlano di populismo dei nuovi movimenti: un conto è parlare di giustizia sociale, altra cosa è parlarne e insieme costruirla e praticarla. Chiunque ascolti gli attivisti e le attiviste di Barcelona en Comù, chiunque ascolti gli interventi di Ada Colau quando si riferisce alla «gente», alle «ingiustizie della casta», al «diritto alla casa»e a «questioni di genere» sa a cosa si sta facendo riferimento: a lotte dannatamente concrete condotte per anni in un clima assolutamente ostile. Ada Colau ha fatto parte di queste lotte assumendo il ruolo di portavoce della PAH, il movimento di lotta per la casa nato nel 2009 proprio a Barcellona.
La PAH rappresenta un nodo decisivo, in quanto lascia il segno sia a livello di pratiche che a livello di linguaggio nei movimenti spagnoli degli ultimi anni. Il grande merito della PAH è stato quello di coinvolgere chi era colpito dalla crisi dei mutui in un processo di empowerment e di partecipazione diretta alle negoziazioni con le banche e alle mobilitazioni che le accompagnavano. È così che la PAH (che ad oggi conta più di 200 sedi in tutta Spagna e ha bloccato definitivamente oltre 1600 sfratti, con migliaia di altri procedimenti aperti) ha contribuito a formare una generazione di attivisti e attiviste estremamente competenti che condividono pratiche comuni e un linguaggio privo delle ambiguità a cui invece l’Italia ci ha abituato. Per comprendere meglio questo movimento suggeriamo il documentario Sí se puede (sottotitolato in Italiano qui).
Quando la PAH, nel 2013 viene invitata a intervenire al Congresso de los Diputados sull’emergenza sfratti, a parlare è proprio Ada Colau che non esita a definire “criminale” il rappresentante delle banche intervenuto prima di lei.
La svolta avviene nella primavera del 2014: Ada Colau lascia il suo ruolo di portavoce della PAH e, negli stessi giorni in cui Podemos si afferma come nuova forza a livello nazionale, lancia il progetto/processo «Guanyem Barcelona»: vinciamo Barcellona!
I ritmi sono febbrili fin da subito e già in estate iniziano i dibattiti nelle piazze di Barcellona, non solo quelle più note ma anche quelle dei quartieri periferici. A tutti è chiaro che per vincere è necessario coinvolgere e mobilitare le persone che normalmente non votano, gli abitanti dei quartieri più poveri che non fanno parte del volto turistico di Barcellona. Di fatto è una sfida vinta: alle comunali la partecipazione è cresciuta del 8%, con un aumento ancora più alto in quartieri popolari come NouBarris e Sant Andreu. E soprattutto sono decine le assemble di quaritere che ormai si riuniscono settimanalmente per produrre e accompagnare il lavoro di Barcelona en Comú.
La prima preoccupazione infatti è stata quella di mettere a disposizione una struttura che permettesse di entrare nel processo secondo le proprie competenze e le proprie possibilità (per comprendere la struttura e l’organizzazione del progetto rimandiamo a questo link.
Anche la questione dei soldi viene risolta rivolgendosi alle persone e ai sostenitori di questo progetto, in particolare grazie ad una campagna di crowdfounding che permette di “mantenere un autonomia rispetto alle banche”. L’operazione raccoglie oltre 90.000 euro a cui si aggiungono quasi 200 mila euro di microprestiti.
In inverno, non senza difficoltà, si definisce la confluenza elettorale e qui avviene il primo miracolo: in Guanyem Barcelona (nel frattempo diventata Barcelona En Comù) entrano ICV, Podem Barcelona (il nome Podemos in Catalunya), Procés Constituent e Equo. Non si tratta di un cartello elettorale, ma di un processo politico comune in cui ciascuno, partiti, sigle, movimenti, rinuncia alla propria identità proponendo una sfida: vincere le elezioni a partire da una forma politica partecipata e alternativa della politica tradizionale. Questo è il motivo per cui dire che Podemos ha vinto a Barcellona è riduttivo e non restituisce la complessità e la ricchezza di questo percorso.
Sebbene sia Pablo Iglesias che Ada Colau si riferiscano ad una “rivoluzione democratica”, lo stile dei loro discorsi è piuttosto differente. Il 9 maggio in piena campagna elettorale, dove Pablo Iglesias introduce Ada Colau. Il discorso di Iglesias è caratterizzato da una retorica combattiva, semplice e indignata. Ada Colau mette in gioco prima di tutto se stessa e le sue emozioni, dando un respiro personale alle proprie posizioni politiche. Due registri differenti, ma entrambi comunque legati alle pratiche politiche dei movimenti degli ultimi anni. Il nemico è comune: l’1% rappresentato dalla vecchia oligarchia, la “casta”. Un linguaggio che dalle nostre parti è già noto e che è stato svuotato del suo significato. Ciò che sembra caratterizzare l’assalto alle istituzioni da parte di queste nuove realtà politiche è dunque la voglia e la necessità di dialogo con una società mobilitata, non solo con i movimenti: una società che invece di essere assopita è assoluta protagonista.
La scommessa è che questo dialogo, tutt’altro che lineare, possa essere produttivo: ciò che è evidente a tutti è infatti che questa vittoria sarà assolutamente inutile e, anzi, controproducente se chi è fuori dalle istituzioni, i singoli movimenti, non continueranno a rivendicare i propri spazi e a lottare, se daranno per scontato che i rappresentanti eletti possano da soli risolvere la situazione. Nulla di più sbagliato, Ada Colau lo ha detto esplicitamente nel discorso di domenica notte: senza la forza dei movimenti non si va da nessuna parte. Tuttavia la sfida proposta da Barcelona en Comù, da Ahora Madrid e Podemos riguarda anche le istituzioni stesse: si tratta infatti di vedere se alla prova dei fatti è possibile produrre politiche alternative alla troika . Si punta in alto e il rischio di cadere senza ottenere nulla è concreto, ma questa moltiplicazione, questa varietà di voci e questo livello di partecipazione collettiva rappresentano il presupposto necessario per compiere questo tentativo.
Perché il problema è questo: l’entusiasmo collettivo che domenica ci ha spinto a parlare con chiunque ci fosse a fianco, quel sentimento “de panza” che ci ha fatto partecipare a questo percorso, ciascuno nei limiti delle proprie possibilità, è l’unica cosa che non possiamo spiegare. Ciò che più stupisce di Barcelona En Comù, evidente anche nelle più piccole cose, è la voglia e l’energia di mettersi in gioco in prima persona, con attenzione e cura. Questa attitudine non si inventa, si costruisce giorno dopo giorno con costanza e generosità nei confronti degli altri, senza aut aut o lezioncine sul cosa si deve o non si deve fare.
Quella generosità e quella voglia di mettersi in gioco vengono prima di ogni altra cosa.
Sí se puede.
Credo che molte cose dette siano poco precise, forse un po’ retoriche, sicuramente per l’emozione di alcuni, ma che creo che negano una realtà importante.
E mi stupisco. Mi stupisco di come non si parli MAI di una intera realtà politica che in catalunya è legata all’indipendentismo anticapitalista.
Questa realtà é la differenza regionale-nazionale del territorio dello stato spagnolo. E limitandoci agli ultimi 4 anni, diventa possibile riconocere queste differenze, che a mio avviso hanno un peso molto forte.
Partiamo dalla prima questione: il 15M e Podemos.
Molte persone hanno spiegato che il podemos é l’istituzionalizzazione del 15M. L’affermazione, in sé, è parzialmente vera. Perchè bisogna differenziare tra il 15M di Barcellona e quello di Madrid. La Catalunya e come conseguenza Barcellona hanno una tradizione libertaria molto forte, e, proprio il 15M di plaça catalunya aveva una componente fortemente legata all’area anarchica, segno distintivo dell’autoorganizzazione territoriale. Il lemma “que no ens rapresenten” acquista quindi un significato non solo di opposizione al bipartidismo, ma anche di desiderio di auto-organizzazione, non tramite un nuovo partito, ma tramite l’azione diretta delle persone che partecipano e continuano a partecipare in modo minore alle assemblee di quartiere impulsate dal 15M.
Questo ha generato ovviamente anche un discorso nazionale non eliminabile. L’auto-organizzazione prevede anche, in alcune sue declinazioni, l’indipendentismo.
Proprio per questo podemos, podem in catalunya, ha un peso minimo. E proprio per questo, quando nacque Guanyem Barcelona Podem, che non era assolutamente organizzato ha deciso di dare sostegno al progetto, entrando, e parallelamente sviluppare il proprio progetto.
Come ovvia conseguenza non possiamo dire che sia Podemos che abbia vinto a Barcellona, ma che sia stata un’altra lista in cui ha anche partecipato Podemos.
La ossessione di parlare di Podemos viene dal fatto semplice, e questa è una opinione personale, fatto che chi tende a compiere una equazione semplice: Podemos=Syriza. E come credo sia ovvio, strutture partitiche simili, o con notevoli somiglianze, non sempre hanno gli stessi percorsi, soprattutto a seguito di differenze territoriali importanti.
Altri dettagli.
Il processo di Guanyem Barcelona non nasce dal niente. Non è stata una idea di Ada o di Jaume, che un giorno che bevevano una clara a plaça del pi, hanno deciso di fare. Per molti che sintetizzano, o che peggio ignorano, un giorno una militante della PAH decide di entrare nella vita pubblica dopo aver visto i risultati di Podemos.
Le cose non sono andate propriamente cosí.
Nasce prendendo spunto (se non copiando), da un altro processo partecipativo, spinto dall’area della sinistra indipendentista e anticapitalista catalana (la cosiddetta esquerra indepe) dopo una serie di appoggi da parte di un parito politico che sta scomparendo. Prima di Guanyem Barcelona c’era la TPM, la trobada popular municipalista, che ricalca un processo municipalista della CUP, la Candidatura d’Unitat Popular.
In questo spazio organizzazioni come Procés Costituent già partecipavano, cercando di aprire un percorso di candidatura municipalista.
Proprio nel momento in cui i rappresentanti della CUP in catalunya mostravano il problema dell’indipendtismo di CiU, fatto per nascondere i tagli sociali
Nei primi spazi di confluenza spinti da Guanyem è stato chiesto alla TPM, quindi alla CUP e alla Esquerra indepe di partecipare.
Decisione che ha dato esito negativo, dovuto al fatto che il carattere fortemente anticapitalista dell’area della sinistra indipendentista cozzava con l’area di Iniciativa. Per diverse ragioni. Iniciativa (nazionale) ha dei debiti di circa 11 milioni di euro con la Caixa, Iniciativa (catalana) ha sempre cercato di non sporcarsi con il processo indipendentista catalano (senza mai posizionarsi a favore o contro), Iniciativa (popriamente di guanyem) voleva stipendi per i rappresentanti di 2200 euro e la Cup di 1600, Iniciativa (quella barcellonese) è stata al governo con ERC e PSC nel famoso tripartido, e per questo è stata considerata come responsabile della situazione economica tanto catalana quanto spagnola (Ricordiamo che fu il sostegno a Jordi Hereu dal 2006 al 2011, sindaco antecedente a Xavier Trias).
Paradossalmente, proprio in negli anni di Hereu Ada Colau, nelle vesti di di V per Vivienda, andava a protestare sul problema della casa nei comizi dei rappresentanti di ICV.
Altre cose.
L’eredità di ICV, non è una cosa da poco. Guanyem e poi BeC ha ereditato tutti i privilegi direttamente legati all’essere considerata legata a ICV: spazi televisivi, copertura finanziaria, visibilità istituzionale.
Tramite questi aiuti il discorso ha spinto da una parte in modo importante tutta la campagna e tutto il discorso politico, considerando oltretutto i candidati alternativi.
E sul “dret a decidir”?
Ada Colau, solo il giorno dopo le elezioni e con il risultato elettorale di vittoria, ha visto che non poteva governare. Già prima delle settimane di campagna elettorale il discorso indipendentista non è mai stato toccato, anzi, evitandolo.
Perchè? Perchè buonaparte dei votanti a cui puntava la Colau erano, e dati alla mano sono, le classi lavoratrici dei migranti e il “cinturó vermell”, la cintura rossa socialista, storicamente spagnola e anti-indipendentista. La stessa Gala Pin disse che BeC puntava ai votanti socialisti, che alla fine coincidono con il bacino dei votanti di Podemos.
Ora riprende un vecchio discorso, proprio dei socialisti, che parlano del “diritto a decidere”, che per alcuni è una scusa. Cosa vuol dire “diritto a decidere”? Secondo quello che ha detto Pablo Iglesias è la opportunità di votare, in maniera democratica, un referendum sulla unità nazionale. Peccato che legalmente l’unico modo sia farlo tramite una riforma costituzionale dove l’attuale rei Felipe dovrebbe pronunciarsi. Riforma che né Podemos, né Psoe, né PP vogliono fare. In pratica è proporre una soluzione che non è una soluzione, ma una scusa per non lasciare chiaramente l’opportunità a territori come Euskal Herria e Catalunya di scegliere se voglino rimanere o no dentro il territorio spagnolo.
E perchè quindi riprende ora questo discorso? Perchè l’unico governo possibile è assieme a Esquerra Republicana, la CUP e il PSC. Esquerra ha dichiarato che fino a quando la questione nazionalista non verrà chiarita non vedrà nessun accordo possibile. E parlare di qualcosa come il “dret a decidir” che possa aprire varchi ad un governo è l’unico modo possibile.
É anche importante dire che il Dret a decidir é stato uno dei tentativi di accordi del 2012 tra l’area socialista e Mas, presidente de la Generalitat. No è assolutamente una novità, anzi.
(e nel mentre Mas ha detto che ci sono accordi nazionali e chi non rispetta i patti non sarà piu’ un amico, parlando di ERC a Barcellona)
Ci sono cose che come dicevo mi stupiscono.
Si cita quando Ada va in parlamento e definisce “criminale” il rappresentante delle banche.
Nessuno parla mai di quando David Fernandez, parlamentario della CUP al parlamento di catalunya definisce Adolf Todó Rovira, presidente esecutivo di Catalunya Caixa come Ladro, o quando dice “gangster mafioso ci vedremo all’inferno” a Rodrigo Rato, presidente di Bankia e membro del PP colpito in molti scandali di corruzione, mostrandogli un sandalo e spiegandogli cosa vuol dire in irak.
Nessuno mai parla di come esiste una intera area politica che sta entrando lentamente nella rappresentanza non in una città ma in un intera regione con un discorso fortemente di rottura a livello economico, politico, di gestione. Il sistema assembleario praticato dalla sinistra indipendentista, da Endavant, Arran, MDT e anche quindi dalla CUP si basa agli anni 70. Una struttura che si è evoluta lentamente, per non farsi mai corrompere dal potere. E la massima espressione istituzionale, la CUP, ha mostrato grandi risultati, entrando nel parlamento di Catalunya. La stessa organizzazione che si è presentat in tutto il territorio catalano avrà,nonostante il silenzio mediatico, 4 sindaci: Arenys de Munt, Vilamadat, Navàs e Celrà. Un partito che passa dal 2% al 7%.
Stranamente, del risultato della CUP non se ne parla. Probilmente l’alcaldia di una città vale piú di una espansione territoriale importante (che si puó vedere in questo link https://twitter.com/15MBcn_int/status/603096492816097280) e di un processo che da anni prosegue, sempre molto attenti a giocare con il potere e a mantenere processi a pratiche che si oppongano all’europa dei mercati.
Se gli occhi devono essere puntati sulla catalunya e su Barcellona, va guardato tutto. E non solo perchè il tam tam mediatico fa pensare che Podemos sia la soluzione e allora dobbiamo metterci una pezza e spiegare un po’ cosa è successo.
Spieghiamolo bene e fino in fondo. Spieghiamo che Barcellona è una città, ma c’è un territorio dietro.
mi piacerebbe rispondere punto per punto perché secondo me nel tuo commento mescoli alcune verità con distorsioni e interpretazioni molto parziali. ma vado al sodo: la grande novità di PAH, movimenti anti-gentrificazione, anti centri di internamento migranti, diritti digitali, ecc. ecc. e poi 15M, e poi Podemos e Partido X, e poi Barcelona En Comú, Ahora Madrid e decine di altri (citati nell’articolo) è appunto quello di sfidare apertamente la politica identitaria.
È un’operazione certamente rischiosa, ma che risponde a una strategia culturale prima ancora che politica fondamentalmente diversa: la posta in gioco sono le nostre vite materiali e emotive e quelle dei nostri amici, parenti e figli. Quindi non possiamo più permetterci di parlare solo con quelli che già in partenza sono d’accordo con noi e che riconosciamo. Definiamo poche priorità fondametali, quelle che una volte attaccate e risolte permettono di risolverne altre. Chi è d’accordo che partecipi e insieme “vinciamo” (Guanyem / Ganamos). E avanti così.
Gli “indepes” autonomi e anarchici sono movimenti identitari che per altro fanno leva su un’identità “hijackabile” l’identità nazionale.
Questo il punto chiave.
Se poi vuoi entrare in altri dettagli (p.es. strategia politica della CUP, contraddizioni latenti in Barcelona En Comú, distorsioni mediatiche, ecc) lo possiamo anche fare però dubito che abbia moto senso qui.
Trovo che questo discorso sia molto piu’ confuso del mio.
In primis non capisco cosa vuol dire per te “sfidare la politica identitaria”.
La politica dominante a catalunya è sempre stata CiU, che ha sempre avuto una corrente fortemente catalanista in CDC piu’ che in UDC e che nulla aveva a che spartire con il bipolarismo PP-PSOE.
Se la politica identitaria è parlare della politica con un tratto chiaramente soberanista, il tema si confonde ulteriormente. Dal centrodestra all’estrema sinistra vi è questo elemento e non credo che BeC voglia sfidare tutto questo arco politico. Anzi, giustamente con alcuni sta cercando alleanze (ERC e Cup).
Affermare che tutti i movimenti contro gli sfratti(Pah in primis), che tanquem els cies, il 15 (quello barcellonese soprattutto) ha votato la colau o si è alleato ad un progetto anti-identitario a mio avviso è falso.
L’assemblea di 9 barri cabrejada, ad esempio, che viene dal 15M ha votato in parte CUP (essendo alcuni dei membri legati alla sinistra indipendentista anticapitalista) e in parte BeC, come era ovvio.
Molte assemblee di quartiere del 15M avevano una anima fortemente libertaria (Sants ad esempio) e immaginarmeli andare a votare ICV mi pare abbstanza lontano dalla realtà.
Aggiungo: da prima della nascita di Guanyem l’opposizione alla politica dei tagli la faceva anche questa area politica, che è stata silenziata. E continua ad esserlo. Solo le aree politiche dei movimenti che hanno a cuore Euskal Herria e il processo indipendentista Basco, per riflesso e similitudini, ne hanno un po’ parlato. Mentre invece, tutta l’area piú riformista lo ha sempre evitato, principalmente per la caratteristica fortemente anticapitalista di questa area.
Ora, possiamo dire che dobbiamo parlare lasciando da parte le identità, ma già si faceva prima e si continua a fare. La costruzione del Poder Popular, nei quartieri è propriamente questo.
La questione è un’altra. La volontà del controllo del potere istituzionale.
La questione è sempre la stessa e la sottolineo.
Si guarda un solo caso, con occhi italiani su una realtà trasponibile alla realtà italiana, e altre realtà, tipiche locali-territoriali che hanno elementi interessanti, non vengono assolutamente commentate, perchè, basicamente non vengono capite o non possono essere trasportate con un parallelismo al caso italiano.
A mio avviso sarebbe piú onesto dirlo apertamente.
Victor, tieni conto che la stragrande maggioranza dei lettori di Giap NON vive a Barcellona. I tuoi commenti danno per scontati tanti riferimenti che ai più sfuggono. Sarà senz’altro un problema quando si guarda a Barcellona con occhiali italiani (ma non penso sia il caso di Bani che vive lì da 15 anni), però anche indossare occhiali barcellonesi rivolgendosi a lettori italiani è un vizio di impostazione, no?
Si senza dubbio.
Il mio vizio è la paura (e la mia incapacità) di spiegare in maniera semplice qualcosa di fortemente complesso.
Personalmente credo che molti italiani che vivono qui continuo ad avere gli stessi occhiali (non so Bani non lo conosco personalmente).
Se mi chiarisci dove non spiego bene, posso cercare di essere piú chiaro, cercando di essere sintetico.
È che ci vorrebbe un glossario, qualcosa del genere, perché chi legge senza conoscere la realtà barcellonese e catalana si trova di fronte un proliferare di sigle, acronimi, riferimenti impliciti, cronistorie “zippate” di scazzi pregressi senza gli strumenti per poterle “decomprimere”, e giocoforza la fatica cognitiva aumenta e l’attenzione cala… Paolo e Gabriele si saranno concentrati solo su una parte di quanto accaduto, ma quella parte si sono sforzati di raccontarla nel modo più comprensibile a chi parte da zero o quasi.
Si forse.
Ma resta una narrazione legata al potere mediatico che nega una realtà in toto. Una realtà non proprio piccola.
Visto che ora si parla di Ada, del resto non si parla. E mio avviso non è solo perchè è difficile, ma perchè ci sono conflitti personali-politici-linguistici sulla questione indipendentista.
Il fatto che sia molto difficile trovare a Barcellona città italiani militanti (e non votanti) nell’area della sinistra indipendentista è un fatto emblematico, mentre invece non hanno problema a partecipare a Barcelona en Comú. E parliamo della prima comunità straniera nella capitale.
Sembla impossibile, ma è cosí.
p.s.Se vuoi, io mi ci metto a scrivere passo passo e provo a farlo nella maniera piú chiara possibile, tutta una parte totalmente messa in silenzio che ha un peso politico importante piú in la della città di barcellona e che coinvolge l’intero ambito regionale catalano.
“Ma resta una narrazione legata al potere mediatico che nega una realtà in toto”
scusa, ma non riesco proprio a condividere. Barcelona En Comú e altri esperimenti municipalisti sarebbero protagonisti di una narrazione mediatica? Credo che viviamo su pianeti diversi.
“Che nega una realtà in toto”? A questo punto sono convinto che sia tu che dai troppo peso alla realtà mediatica, perché la notte elettorale nella sede di Barcelona En Comú ogni volta che veniva fuori un risultato positivo della CUP (=indipendentisti di base, municipalisti della prima ora) c’erano scrosci di applausi. Suvvia, non rosichiamo, siamo tutti dallo stesso lato, anche se con diverse strategie.
A veure,
non si tratta di rosicare o meno, visto che io non partecipo in nessuno dei due spazi come militante, ho altre posizioni.
Né dico che non ci sia affinità e simpatia tra CUP e BeC.
Quello di cui parlo è la narrazione dei risultati elettorali fatta soprattutto dagli italiani per gli italiani.
Se ora a fatica si sta spiegado che ada colau non è podemos, continuo a chiedermi perchè non si parla di una intera area politica, quella della sinistra anticapitalista indipendentista, che in catalunya ha ottenuto 200 mila voti, non venga assolutamente nominata da nesusn italiano in nessun commento in nessun articolo.
Chi lo fa, per spiegare una parte della realtà del municipalismo, che credo sia il tema basico di cui stiamo parlando, in genere viene o snobbato, o criticato (dando del rosicone).
Al netto delle necessarie integrazioni, a me sembra che questo post di Podemos/Podem ne parli molto poco, anzi, contesta apertamente la lettura podemcentrica dei media italiani. Iglesias è a malapena nominato. Titolo e necessarie ricostruzioni a parte, parla poco anche di Ada, e non mi pare proprio dica, come hai scritto tu, che “Guanyem Barcelona nasce da un’idea di Ada”. L’accento, da lettore esterno, io lo sento pressoché costantemente su processi di convergenza e autorganizzazione dal basso. Dopo averlo letto, avevo in testa immagini di lavoro collettivo e capillare.
Sensazione mia, e sicuramente mi sbaglio.
Io l’accento lo sento su Barcelona en comú, non sui processi che stanno avvenendo. Su un processo, quello, per l’appunto, di Barcelona en Comú.
Processi simili e paralleli sono avvenuti negli ultimi anni e stanno avvenendo ora.
Prendiamo un esempio: Maria José Lecha, prima della lista della CUP (candidatura d’unità popolare, della sinistra indipendentista anticapitalista, che riunisce molte organizzazioni indipendentiste ed anticapitaliste catalane) oggi ha detto una cosa molto importante.
Oggi ha detto che la decisione di dare sostegno o no ad Ada Colau non spetta a lei, ma spetta alle assemblee. Quindi, fino a quel momento, non si dirà nulla.
Una struttura che a lungo è stat criticata (l’assemblearismo) e che ancora una volta mostra il suo funzionamento e le potenzialità che ha.
Processo che io trovo molto interessante, che rompe con i classici schemi di rappresentanza.
La mia critica e il mio stupore è questo principalmente. Il silenzio su tutta una area che è molto vicina a quella di cui se ne parla, e da cui se ne puó parlar ben bene. E che a mio avviso è legata solo ad una cosa: l’indipendentismo.
Sintetizzo: come è possibile che si parli di tutto un poco e di una cosa proprio no?
Allora spiega cosa l’esperienza dell’indipendentismo anticapitalista catalano può insegnare ai movimenti italiani, ché di questo stiamo parlando, non di altro. L’indipendentismo anticapitalista catalano è figlio inimitabile di una situazione molto specifica, singolare, peculiare, come quella catalana di oggi, oppure ha qualcosa di (usiamo una parola un po’ del cazzo, per capirci) universale? Ai lettori di Giap interessa sapere cosa di quel che sta succedendo nello stato spagnolo può darci indicazioni sul che fare in Italia. Non è un forum della sinistra catalana, è un blog italiano.
D’accordissimo con Victor Serri, il quadro è estremamente complesso per gli occhi italiani, la realtà catalana è particolarmente viva e, per quanto l’articolo sia ben scritto, informato e utilissimo per capire la vittoria di Colau, è giusto puntualizzare il più possibile.
soprattutto sul discorso dell’indipendentismo, a mio avviso il più difficile da tradurre per gli italiani: come fare (ad esempio) ad essere anarchici e al contempo nazionalisti? quanto è importante la soberanìa, l’indipendenza? quanto è trasversale politicamente?
mi ha colpito molto il fatto che la stessa Colau abbia evitato di parlare di indipendenza per paura di perdere i voti del cinturò vermello; quando, al contrario, CUP ed ERC (in che rapporti sono?) fanno dell’indipendentismo catalano la pietra angolare su cui costruire una politica di sinistra popolare.
chiudo consigliando la visione di un documentario, Ciutat Morta, proprio sulle proteste contro sfratti e sgomberi e la durisima repressione di Guardia Civil e Mossos d’Esquadra(polizia catalana)
Alla manifestazione per ricordare una ragazza morta dopo la persecuzione poliziesca a Barcelona c’erano milioni di persone, famiglie, anziani e “società civile”.
In Italia, alle manifestazioni per Cucchi o Aldrovandi ci vanno gli ultras, i centri sociali, i parenti e gli amici. poche migliaia.
Ecco, forse sono cose del genere che rendono la realtà catalana difficilmente comprensibile agli occhi del pubblico italiano
Piccolo Appunto.
Ciutat morta non parla di sfratti e sgomberi né di repressione di Guardia Civil e Mossos d’Esquadra.
Parla di un caso dove c’è stata una montatura della magistratura catalana, assieme alla Guardia Urbana (i vigili di barcellona) ai danni di “persone dall’aspetto alternativo” accusate di essere colpevoli di un tentato omicidio della guardia urbana. In questo caso, in cui si cercava di bloccare una festa in un cso veniva ferita una Guardia Urbana, e da li è iniziata la Tortura a delle persone che non c’entravano nulla e il montaggio della magistratura che si è basata solo sulla testimonianza della polizia.
Repressione per annullare il movimento alternativo barcellonese e instaurare un regime del “comportamento civico” a beneficio del turismo.
Alla manifestazione del 4 Febbraio (giorno in cui si ricorda quando avvennero i fatti), non c’erano milioni di persone. Al massimo un paio di migliaia.
Hai fatto benissimo a correggermi, le mie “fonti” sono amici siciliani emigrati a Barcellona che evidentemente hanno fatto confusione o hanno esagerato nei racconti. colpa mia che mi sono fidato :)
Interessante anche il rapporto fra movimenti alternativi e turismo di massa: capita di vedere per barcellona striscioni esposti nelle okupas indirizzati ai turisti per spiegare come la loro presenza comporti un aumento dei prezzi delle case e un aumento della repressione.
Sarà interessante vedere come la Alcaldesa Colau si rapporterà a queste questioni.
sappiamo bene che in Italia ogni grande evento turistico è accompagato a sgomberi e repressione. Barcelona si sta trasformando in un “divertimentificio” globale perpetuo, ed è normale che ciò incida nelle scelte delle amministrazioni.
Sull’entusiasmo dell’articolo posso essere d’accordo: io e Gabri e gli altri compagni, siamo effettivamente entusiasti. Anche perché proveniamo (e io ci vivo ancora) da un contesto politico come quello bolognese, di cui gli altri post di WM dicono abbastanza.
La situazione in Catalunya è decisamente ampia e frammentata e hai fatto bene a completare il quadro: io e Gabri non abbiamo una lunga esperienza sul territorio e ogni tanto rischiamo scivoloni. Tuttavia faccio mio l’intervento di Bani sulla questione identitaria e non aggiungo altro.
Due precisazioni vanno fatte, però: di “dret a decidir”: Ada Colau ne ha ampiamente parlato in campagna elettorale di questa questione (qui un link a caso fra i mille: http://www.elperiodico.cat/ca/noticias/barcelona/colau-presenta-seva-candidatura-4019945 )e mi sembra che la schiacci un po’ troppo su un problema di governo attuale della città e su una logica di posizionamento che non mi convince.
L’altra precisazione riguarda sull’analisi del voto, su cui forse anche noi siamo stati un po’ semplici. Mi sembra una lettura un po’ schematica e ho idea che BComù cercasse sì i “voti popolari”, ma che come stile di candidatura sia riuscita a tagliare in maniera trasversale e ad aprire non poche contraddizioni su diversi livelli.
Per il resto direi che uno dei motivi che ci ha spinto a scrivere di Barcelona en Comù si basa sul fatto che si tratta di un esperimento simile e al contempo è diverso rispetto alcune cose che abbiamo fatto nella nostra vita, in altri contesti. Occupazioni, modalità partecipativa, rinuncia alla propria identità in favore di processi trasversali: sia io che Gabri abbiamo provato a praticare su cose più o meno simili nei nostri percorsi con scarsi risultati e sconfitte che ancora bruciano. Per questo la “vittoria”, per noi che guardiamo a più ambiti nello stesso momento, è fondamentale.
Cerco si essere il più chiaro possibile: io, che ormai da qualche anno vivo preso tra almeno tre città e tre stati europei differenti, sento la necessità fisica di vincere qualcosa e di farlo con pratiche, modi, slogan in cui mi riconosco. È successo in uno dei posti che frequento: viva! Quello che posso fare, in un blog come questo, è tentare di analizzare come è successo e iniziare a capire come e se questa processo si può tradurre altrove e possa prendere altre forme, qualunque forma. Se guardiamo al caso di Barcellona, ora, la posta in palio mi sembra questa.
Scusa, ho visto ora il commento e rispondo.
Il tema “dret a decidir” sono cose concettualmente diverse. Uno è del popolo catalano per l’indipendenza di un territorio. L’altro, quello che in campagna è stato usato da Ada ha una visione sociale. Sono parole uguali per concetti molto diversi. Uno è legato all’indipendentismo, l’altro è il discorso diciamo di opposizione al potere piu’ generealizzato, ma non ha assolutamente una sfumatura legata al processo di indipendenza della catalogna.
E credo che affermare che siano la stessa cosa sia un abbaglio.
La mia sensazione, e sicuramente mi sbaglio, è che in realtà, molte di queste cose sono praticamente uguali nell’area dei movimenti sociali, che sono molto ampi e trasversali. E molte cose sono ribadisco, uguali all’interno di questa area.
Non sto colpevolizzando nessuno di non parlare di una area politica, mostro le mie perplessità.
Ma le cose sono molto complesse e a mio avviso vengono polarizzate, vendendo un prodotto che non è quello che è. Ad esempio Pau Llonch, storico militante della PAH Sabadell, legato alla CUP, partecipa e si felicita per il risultato della cup in una lista che si chiama “Crida per sabadell”. EOttimo risultato. Sabadell è piccola, ok. ERa anche nei vari “acte” della CUP a Barcellona. E vabbé.
Ma la questione è che non c’è una linea che separara l’area dei movimenti, neppure in ambito elettorale. E, pensando si parlasse di movimenti, di opposizione, mi stupisco del fatto che non si sia parlato del totale, ossia delle due liste almeno, dei differenti progetti, dei differenti positivissimi risultati.
Invece, quello che io vedo è una polarizzazione da parte di tutti i media, e anche di questo spazio di quanto è brava Ada e quanto BeC sia la rivoluzione.
Vero. Ma in parte. Ci sono proprio li di fianco altre cose belle e altre cose rivoluzionarie. E guardacaso sono sempre negate, mai nessuno ne parla mai, e mi tocca a me andare a rompere le balle.
Questo è.
Per la questione delle identità, boh, io non capisco di che parlate. Ognuno ha le sue di identità, ma non è che io sono indipendetista, né della cup, né tiro il carro di altri.
Io mi occupo di altre cose, di militanza in molti spazi in cui mi trovo tra molte identità, e cerco di fare informazione, con i mezzi che ho. Sicuramente mi oppongo alla chiusura mentale media di molti immigrati italiani rispetto alla complessità catalana, soprattutto sulla questione indipendentista, ma perchè la vedo come una forma di razzismo da quattro soldi. Tutto qui.
“chiusura mentale media di molti immigrati italiani rispetto alla complessità catalana, soprattutto sulla questione indipendentista”
…di cui in questo thread per altro non c’è la minima traccia. in quanto (finora) unico “immigrato italiano” della discussione la tua affermazione mi pare gratuita.
Bani, anche se mi chiamo Victor, sono italiano, e vivo a Barcellona da anni.
Siamo in due ad essere immigrati italiani.
Parlo perchè con molti italiani che ho conosciuto qui ho visto un rifiuto totale (politico e culturale) sull’area dell’indipendentismo.
Era un discorso dettato dall’esperienza e dalle relazioni che ho avuto (non poche) con molti membri della comunità italiana.
Mi spiace che ti sia sentito offeso, non era questa la mia intenzione.
Grazie per questo articolo, approfondito e appassionato.
Sono d’accordo che ridurre l’elezione di Ada Colau a una vittoria di Podemos sia un errore, e l’immagine restituita dai giornali italiani è come spesso (sempre?) accade parziale e distorta. In particolare il discorso sul movimento contro gli sfratti, particolarmente in risonanza con gli altri articoli apparsi di recente su Giap a riguardo della situazione bolognese.
Un aspetto tuttavia non mi convince del tutto. La distinzione Iglesias-sinistra vs Ciudadanos-populista. In particolore quando si dice che Ciudadanos sta guadagnando consensi “a suon di retorica populista contro la vecchia politica”. Mi risulta che la stessa definizione sia applicabile a Podemos. In fondo “populista” non dovrebbe avere un’accezione negativa di per sè, singifica solo essere da un lato contro le elite (la casta corrotta) e dall’altro esaltare la partecipazione popolare (la gente onesta) al processo democratico. Grillo è populista, Salvini lo è, Marine Le Pen, Geert Wilders, ma anche Evo Morales, Tsipras e potrei continuare a lungo. Podemos è chiaramente un partito populista, di sinistra. Mi dispiace vedere perpetrata questa confusione tra populismo e demoagogia di destra. Podemos e Ciudadanos sono due partiti populisti, e affiancano al populismo due ideologie diverse.
Collegato a questo: di Ciudadanos ho letto qualcosa ma non molto, so che si definiscono di centro-sinistra, ma che spesso vengono considerati di destra. Potreste dare qualche informazione a riguardo?
Grazie e complimenti ancora per l’articolo.
Ciudadanos è un partito di centro-destra, nato a Barcellona circa 10 anni fa (nel 2006 se non sbaglio). In realtà loro non si definiscono di centro-destra ma liberali e democratici(-cristiani), ognuno però si può chiamare come vuole, la sostanza resta.
Da quello che leggo qua in Spagna, Ciudadanos è il mezzo in cui si sta cercando di contrastare Podemos: i giornali (e le tv) parlano continuamente di Ciudadanos, invitandone gli esponenti nei programmi (un pò come Salvini in Italia) e dando particolare attenzione a tutto quello che dicono/fanno. Tra l’altro questa operazione ha avuto parziale successo alle regionali in Andalucia (ancora non so a queste amministrative, non ho avuto molto tempo di leggere i giornali spagnoli) dove Podemos ha preso meno voti di quanti se ne aspettavano.
Se interessa, posso aggiungere altre informazioni.
Per quello che riguarda il populismo, so che in scienze politiche definiscono i governi di Chavez, Morales e altri in Sud-America governi populisti. Ora la definizione non è neutra, perchè al populismo bisogna associare una certa linea politica. Voglio dire che non esiste una ideologia populista, il populismo è un mezzo con cui si cerca di ottenere sostegno popolare per far passare una certa politica. Se quella politica è di destra, il populismo è di destra. Non c’è bisogna di specificare tra populismi di destra e sinistra, sono le politiche che fanno la distinzione.
Quindi si può dire che sia Ciudadanos che Podemos usano il populismo come mezzo per far passare certe politiche, però le politiche di Podemos sono di sinistra (anche se negli ultimi mesi, un pò annacquate), quelle di Ciudadanos di destra, certo non un destra fascista e intollerante come la lega nord (almeno non ancora), più una sorta di Partido Popular senza l’eredità franchista (e senza Rajoy)
Solo due opinioni.
Ciutadanos e Podemos avevano lo stesso discorso su territori diversi e hanno deciso di farsi concorrenza nel momento in cui Ciutadanos é uscito dal territorio catalano per istaurarsi nella penisola iberica.
É ache questa una differenziazione territoriale importante. L’aumento di fama di ciutadanos che poteva recuperare una parte dei voti del PP che si perevano a seguito dei casi di corruzione, della incapacità dei propri dirigenti, etc, è andato a finire in ciutadans. Anche, statistiche alla mano, di gente che era intenzionata a votare podemos.
http://electomania.es/wp-content/uploads/2015/03/paismetr-800×600.png
Per la variazione di voti a barcellona qui c’è un grafico
https://pbs.twimg.com/media/CGAR3qoWoAA2xhg.jpg:large
Ribadisco, c’è una intera parte di cui non si parla.
@luca m
Sul populismo hai ragione: è uno strumento. Da usare con attenzione, sia chiaro, soprattutto in Europa, vista la storia che abbiamo. In questo senso ho anche alcune perplessità su Podemos, nonostante in questo momento mi sento di dire che lo appoggio e nonostante il fatto che ammiro profondamente i compagni che lo portano avanti. Anche per l’intelligenza che hanno mostrato in queste elezioni a rinunciare a parte di se stessi.
I due discorsi di Colau e Iglesias (entrambi potentissimi) che abbiamo segnalato vanno visti proprio per sviscerare questo tema: il populismo è uno strumento, ma non uno strumento definito una volta per tutte. A questo proposito guardate che stile differente di parola e di dividere in due la società. Eppure entrambi vanno nella stessa direzione.
Però il passaggio che tu riprendi in effetti è troppo netto e forse andava aperto in questo senso.
Su letture specifiche su Ciudadanos purtroppo ti so aiutare poco, l’impressione deriva più da come si sta definendo il panorama politico contemporaneo negli ultimi mesi e da una proiezione che guarda alle elezioni politiche dell’autunno prossimo, dove ne vedremo delle belle. Per riferimenti precisi ti segnalo due articoli su Diagonal, che dal mio punto di vista è sempre un giornale molto buono per informarsi su quanto che avviene in Spagna:
Questo illustra come Ciudadanos si pone come cambio “naturale” al mondo della politica, https://www.diagonalperiodico.net/global/26240-c-s-la-bala-la-recamara-del-regimen-del-78.html
Questa invece è un intervista ad un esponente di Podemos con alcune domande che riguardano Ciudadanos. Interessante come confronto di punti di vista differenti ma che hanno qualcosa in comune: https://www.diagonalperiodico.net/global/26060-ciudadanos-nos-disputa-voto-protesta.html
@plv grazie per la risposta e per i link, molto interessanti.
Volevo tornare su un punto che hai sollevato. Podmeos ha “rinunciato a parte di se stesso” in questa occasione, ma chiaramente non lo farà alle prossime elezioni nazionali. Juan Carlos Monedero, co-fondatore del partito, prima delle eleizoni locali ha lasciato perchè ha rilevato uno scollamento tra partito e base. Dato che proprio l’essere radicato in una base forte e orizzontale è la caratteristica di Podmeos, mi chiedo come verrà gestita in futuro questa frattura: Podmeos rimarrà quel frutto di movimenti e assemblee dal basso che ne ha decretato (finora) il successo, o si cristallizzerà in forma-partito verticale (con click-activism di contorno)?
Non credo ci siano risposte certe al riguardo per il momento, ma non serve la sfera di cristallo per vedere che il rischio c’è, e non va sottovalutato.
Gli stessi attivisti 5 stelle, o almeno molti di quelli in buona fede, lamentano di continuo di essere ignorati e sviliti dato che le decisioni piombano sempre dall’alto. Ora, non credo proprio che Podemos stia andando incontro a una messa in scena dell’attivismo dal basso come nel caso del grillismo, ma deve seriamente interrogarsi su come muoversi in futuro. Come mossa strategica, mi pare che in queste elezioni locali si sinao mossi benissimo, e sono rimasto piacevolmente sorpreso dal fenomeno di convergenza e rinuncia all’identità che avete descritto. Tuttavia, ho il timore che non possa essere ripetibile sul piano nazionale.
Che ne pensate?
Conosco meno la struttura di Podemos rispetto a quella di BComù, però forse vale la pena chiarire che Podemos non nasce da un processo di assemblee dal basso partecipate e moltitudinarie. Raccoglie l’eredità del 15M ma la sua nascita è un’idea legata ad una piccola parte che poi esplode sia in vista delle elezioni europee che dopo.
Questo rende il rischio che tu dici ancora più concreto. Fino ad ora ho l’impressione che comunque abbiano affrontato la situazione molto bene, ma staremo a vedere.
Rimane il fatto che comunque tra base e partito la vicinanza c’è, anche solo perché 4 anni fa si era tutti in piazza a costruire il 15M giorno dopo giorno in maniera collettiva. Quello è un fondamento dal quale non ci si può distaccare più di tanto. I M5S non hanno avuto un evento simile che catalizzasse le energie in grado di imporre una forma e uno stile.
Sul piano nazionale non ti so veramente dire nulla, bisogna aspettare che finisca l’effetto delle municipali e che comincino a lavorare e creare organizzazione
Podemos e Ciudadanos sono entrambi populisti dal punto di vista di costruzione del discorso: interpellazione del “popolo”, della gente. Costruzione di un “noi” e di un “loro”, uno spazio semiotico di identificazione, ecc. E ne segue tutto il resto: costruzione di una nuova egemonia culturale e simbolica, nuove catene di significanti, ecc.
Podemos a differenza di Ciudadanos ha cercato e cerca di costruire un populismo anche pratico, costruendo piccole e grandi strutture di comunicazione e organizzazione più o meno dal basso. Anche per questo c’è chi li critica di rinnegare l’assemblearismo e aver reinventato la forma partito. Diciamo che IMHO c’è del vero in entrambe le posizioni. La capacità di usare le reti (vedi apertura di sub-Reddits, voto on line serio non farlocco come M5S, ecc) sicuramente è indice di un’intenzione sinceramente populista per ricostruire il link fra gente e rappresentazione.
Ciudadanos, oltre a essere chiaramente di destra, non è neanche lontanamente vicina al grado di populismo pratico e infatti ha avuto vari casi di sfaldamento di liste in queste ultime elezioni. Come Podemos ha ricevuto una enorme copertura mediatica e ha un feeling naturale con le élites produttive, quindi ha attratto una grande fetta del voto ex-Partido Popular (che è ormai un tumore di corruzione endemica).
mi sono dimenticato di fare i complimenti per l’articolo. ho vissuto da vicino e in parte da dentro l’esperienza di Barcelona En Comú, oltre a vivere a B. da 15 anni. miglior articolo che abbia letto in italiano sulle vicende di questi ultimi giorni.
PS: mi scuso se non sempre esprimo bene concetti politici, io nella vita mi occupo di arte! (EPIC FAIL) :-P
Consetitemi una ingenua considerazione, qualche tempo fa i Wu Ming si augurarono che il M5S perdesse “la testa” in un processo di democratizzazione interna, processo che lo avrebbe portato vicino alla struttura di Podemos.
E’ evidente che all’M5S non mancano le braccia o i cervelli, ma possiede ancora una testa di troppo e sopratutto non ha una storia di attivismo dal basso, quella che invece possiede l’associazionismo e l’attivismo della sfera sinistrorsa.
Non vedo queste strade convergersi nell’orizzonte, e mi chiedo quali altre possibilità abbia l’Italia per trarsi fuori da questa palude.
Intanto grazie per l’articolo… e scusate se parto per la tangente ma c’è un punto dell’articolo che mi ha riportato a quanto accade invece qua da noi:
“La scommessa è che questo dialogo, tutt’altro che lineare, possa essere produttivo: ciò che è evidente a tutti è infatti che questa vittoria sarà assolutamente inutile e, anzi, controproducente se chi è fuori dalle istituzioni, i singoli movimenti, non continueranno a rivendicare i propri spazi e a lottare, se daranno per scontato che i rappresentanti eletti possano da soli risolvere la situazione.”
Ecco, vi ricorderete che a Messina ormai quasi due anni fa ha vinto le elezioni lo storico attivista No Ponte Renato Accorinti, sbaragliando il candidato PD al ballotaggio (il quale continua a perdere anche i ricorsi che qualcun’altro, ovviamente, presenta). Una candidatura nata dal basso, una raccolta firme per convincerlo e un lavoro a tappeto nei quartieri anche i più difficili. Da allora pare sia passato un secolo, quello che sento più frequentemente è malcontento, sfiducia, lamentele, addirittura qualcuno lo definisce il peggior sindaco di sempre (che ci potrebbe pure stare, in teoria, se non avessimo precedenti oltremodo scandalosi… uno su tutti Genovese – sempre PD, al momento in carcere per avere,pare, fatto i soldi con i corsi di formazione… ecco… e fanno pure i picchetti di solidarietà davanti al carcere, parlando di disumanità della condizione del malcapitato!).
Ecco credo si sia perso lo slancio, e che gran parte del malcontento derivi dalla mancata partecipazione, e resta da capire se le colpe siano tutte dall’alto o vadano redistribuite “dal basso”. Il problema è che la vedo come un’occasione mancata e… niente, le parole che ho riportato sopra mi risultano amaramente vere.
Rispondo qui perché non mi lascia rispondere al filo aperto primo. Anche se, onestamente, ho la sensazione che alcuni miei commenti non vengano ben accettati.
A mio avviso esistono differenti elementi interessanti, da cui prendere spunto e che possono mostrare come progetti e processi differenti possono essere applicati altrove, con i giusti livelli di comprensione.
La prima cosa da farsi è cercare di spiegare un po’ cosa è la sinistra indipendentista catalana (Esquerra Indepe) e perchè la CUP (candidatura d’unitat popular) è solo la parte piú istituzionale. Nel finale degli anni 60, si sviluppa un movimento nell’area dell’indipendentismo catalano una frattura sorprattutto con il settore piú a sinistra, che, influenzato dai movimeni degli anni 70, rielabora il pensiero indipendentista con un taglio fortemente marxista, di rottura rispetto all’indipendentismo classico (che semplicemente voleva il controllo di un territorio e la sua indipendenza, che quindi cadeva spesso in ideologie di destra, o formente nazionaliste, nel senso italiano della parola). Nasce il PSAN (partit socialista d’alliberament nacional) sviluppa la corrente ideologica dove l’indipendenza della catalunya (o meglio, dels paisos catalans, i territori di parla catalana) unita alla liberazione sociale, considerando che l’indipendenza non sarà sufficiente se si mantiene il sistema capitalista e di classi nel territorio. E questo è il punto base di questo movimento che inizia a diventare un microcosmo di organizzazioni e partiti (che non si presentano alle elezioni fino alle municipali del 1986, visto che la spagna ancora vigeva un regime dittatoriale). altro elemento importante, semplice effetto diretto delle influenze delle autonomie é il funzionamento assembleario e la libera autorganizzazione.
Diventa quindi una area, con differenti organizzazioni politiche e sindacali che lavorano sul territorio anche se non rappresentati, tramite pratiche di occupazione, auto-organizzazione, denuncia e protesta. E solo per fare alcuni nomi, che per molti saranno criptici: Arran (organizzazione giovanile), Sindicat d’estudiants dels Paisos Catalans, Moviment de Defensa de la Terra, Endavant, etc. Nel 1986, nasce la CUP, come unica candidatura che riunisce tutto le diverse aree politiche della sinistra rivoluzionaria. I risultati elettorali sono scarsi e quindi il processo è stato quello di lavorare piu’ a livello di base. Mantendendo la importanza delle lotte nelle strade e nelle piazze
Fino a quando, domenica, sono arrivati a 7%, senza comparire quasi alla televisione, semplicemente tramite il funzione del lavoro fatto sul territorio, tramite assemblee.
E questa è la parte piú storica.
Ora, identifichiamo alcuni punti basici della direzione politica e della sua pratica.
La cosa risulta complessa e cercheró di farlo il meglio possibile.
A livello ideologico la CUP (come tutte le organizzazioni che la compongono) si definisce anticapitalista, socialista, femminista e indipendentista. Già per me é molto interessante il fatto che ci sia una candidatura che si definisce femminista, capace di raccogliere le lotte delle donne per un aborto libero, per il diritto di decidere sul proprio corpo, e di opposizione al sistema patriarcale.
Inoltre, si è dichiarata fortemente contraria al potere dei mercati causa della crisi economica (e fin qui…). Quindi il progetto della CUP è la costruzione di una società piú giusta, tramite la riformulazione del sistema economico, ampliando il tessuto associativo, impulsando il sistema cooperativista, il mercato sociale, e le alternative economiche al capitalismo attuale.
Tutto ció viene sviluppato principalmente tramite l’idea della unità populare, ossia un contenitore delle diverse realtà legato alle lotte di base, lotte di classe dei lavoratori, alla riorganizzazione a livello locale e comunale, tramite ateneus e casals (organizzazioni culturali, punto di ritrovo delle organizzazioni politiche).
Questo vuol dire che la idea è l’ingresso nelle istituzioni come funzione per rafforzare le lotte, e non tapparle o istituzionalizzarle e passarle al lato partitico. Essere quindi la rappresentazione diretta della volontá popolare.
Praticamente come avviene questo? Tramite il sistema assembleario, in cui non son i rappresentanti a prendere delle decisioni ma sono le assemblee a determinare quali sono le scelte possibili che i rappresentanti possono avere, in funzione delle linee tracciate. Le assemblee sono assemblee di quartiere, comunali e nazionali, le quali, con la caratteristica che hanno possono variare molto in funzione dell’affluenza delle differenti organizzazioni. Si applica quindi una democrazia diretta, e non una rappresentativa, o almeno cercano di farla.
Una delle critiche base è la incapacità di avere una democrazia diretta su un grande territorio, e guardando i risultati elettorali sembra che invece, convinca. Convince perchè la non si cade dentro una logica lideristica, ma essendo le assemblee quelle che hanno il potere scelgono i rappresentanti e li sostengono. Questa, ad esempio, è una differenza basica su come è strutturata Guanyem. Prima che Fernandez si candidasse al parlamento, o Maria José Lecha si candidasse alle comuniali, i militanti li conoscevano, ma non erano personaggi mediatici, né avevano avuto la idea di formare un partito/organizzazione. Funzionando in modo assembleario sono le assemblee che decidono chi voglino come rappresentanti in funzione delle strategie che scelgono.
Molti militanti restano stupiti dal fatto che ci sia in Italia una attenzione tale verso i leader. Il sistema assembleario lotta direttamente contro la logica lideristica, a cui, io temo molti italiani sono ancora legati.
Esempio: nelle elezioni europee la CUP non è presentata perchè ha preferito fare un lavoro alungo termine cercando di istaurarsi di piú nel territorio. Un risultato che ha premiato perchè la espasione é stata evidentissima (come si poteva vedere dai grafici nei precedenti commenti). Il che la identifica come l’unica alternativa anticapitalista, capace di reinventare e di opporsi alle politiche di tagli sociali del territorio dei paesi catalani. Preciso, di una regione, non di una città, dove il discorso municipalista puó dare
Questo perchè i catalani, o quelli della cup sono piú bravi? No. Sono come tutti e tutte. Perchè le condizioni dell’indipendentismo sono la base? No. Il discorso è si indipendentista ma é fortemente di classe.
Ed è proprio qui dove io resto stupito. Perchè, per il tema dell’indipendentismo, che è complesso da capire, si neghi tutto questo discorso di classe, tutta la pratica politica assemblearia, e tutte le strutture.
Anche qui una differenza che ho già detto e ripeto. Barcelona en Comú ha avuto i privilegi di essere composta da un partito che tempo fa è stato al governo in quanto a copertura mediatica, trattamento da parte dei giornali etc. Invece, la sinistra indipendentista ha lavorato dalla base, senza la possibilità di proporsi alle masse non politicizzate come alternativa in base al discorso fatto. Ed anche qui una differenza. I possibili accordi con la Colau, non li sceglie la Lecha. Le scelgono le assemblee, come ha detto giustamente stamane.
Non parlo di voti online, gruppi di meeetup, o quant’altro. Parlo di vere e proprie assemblee.
Cosa si puó quindi estrapolare da questo contesto?
In primis il fatto che nel movimento italiano c’è una difficoltà nello sviluppare un progetto ampio, che inizi dal locale, passi dai comuni e arrivi fino alle regioni o alla nazione, ma che un progetto di questo tipo non è impossibile, anzi.
Che un progetto deve avere la volontà principale di rafforzare la protesta e non di istituzionalizzarla e di portarla ad un altro piano. Una frase di Isabell Vallet nell’atto di chiusura della campagna delle municipali è stata “il progetto della CUP non ha senso senza la violenza organizzata nelle strade”. Quindi non è la soluzione al problema, ma è un processo per poter portare i conflitti ad una risoluzione.
Altro dettaglio importante. Non si tratta ora di vedere possibile politiche della CUP o della sinistra indipendentista in opposizione al potere, perchè ci sono già. Tutta la rete di ateneu, tutto il sistema di cooperative, atenei, etc, è già una pratica di opposizione al sistema, all’austerità importa dall’europa. La formazione di reti alimentarie, delle occupazioni a scopo ricreativo e abitativo è già presente nell’area, anche senza il logo in concreto di una organizzazione, ma anzi, nella libertà di ognuno di sviluppare il proprio progetto in modo autoorganizzato. E non si ripone nella CUP nessuna speranza, perchè la speranza è tutta nelle lotte pratiche che si fanno dagli anni 80.
E credo che ora qualcosa da cui poter prendere spunto per foture lotte ce ne sia.
Per capire ancora meglio quale è il discorso che viene fuori dalla CUP e soprattutto da tutta l’area della sinistra indipendetista e rivoluzionaria potete vedervi questo video che è sottotitolato in italiano. https://www.youtube.com/watch?v=MdgAuwI06QI
Spero che ora si un po’ piu’ chiara l’intenzione della mia spiegazione e il mio stupore.
benissimo, aggiungiamo complessità al quadro. fa solo bene.
però cerchiamo anche di vedere i dati macroscopici: Barcelona En Comú (così come Ahora Madrid e molti altri progetti in altre città) hanno ottenuto partendo da zero o quasi il 20-25% dei voti in elezioni per altro con meno astensionismo del solito.
e stiamo parlando mica di M5S o delle patetiche zuppadisiglesiglette che ogni tanto si vedono anche in Italì. si tratta di progetti con meccanismi assembleari, capaci di coinvolgere praticamente centinaia (se non più) di persone sensibili ma non politicizzate, con varie strategie di autofinanziamento, nato da basi attiviste MOLTO solide, con l’intenzione di conciliare dinamiche locali con altri strumenti di partecipazione in rete ecc. ecc.
Il grande limite di iniziative come quelle che citi – alle quali per altro tutti riconoscono grandi meriti – è quella di affibbiare a sé e agli altri etichette di purezza (“unica alternativa anticapitalista”, “veri indipendentisti” e via dicendo). queste sono le dinamiche identitarie di cui parlavo.
PS: che poi è paradossale perché il successo della CUP si deve anche alla capacità (non saprei dire se studiata o spontanea) di far presa a livello “populista” sulle reti e in parte nei media.
Allora, con ordine.
La frase “unica alternativa anticapitalista” l’ho detta io. Quindi non sono loro che lo hanno detto, é una opinione mia personale.
“veri indipendentisti” non so chi l’ha detto, forse tu.
A me sta storia della purezza, mi puzza di scusa. Mi spiace eh, ma qui “tutti riconoscono grandi meriti” mi chiedo, chi? Chi ha riconosciuto in questo spazio, o in qualunque altro spazio il lavoro fatto dalla sinistra indipendentista catalana?
Per me la questione è sull’indipendentismo che per qualche motivo ruga. Soprattutto a molti italiani che vivono in qui.
E’ bello vedere le percentuali. Ma vediamo il totale dei voti. Il totale della rappresentanza.
Non dico che una sia meglio dell’altra, ma mi pare un po’ sciocco comprarare il risultato elettorale di un municipio con il risultato elettorale su un territorio dove ci sono 6 milioni di persone.
Ma scusa, non sono processi assembleari quelli della CUP?
E scusa, la base di un movimento che ha ha anni di storia non è MOLTO solida?
Preciso: io critico il fatto che in Italia, di questa area politica, quasi nessuno ne parli.
E ieri ho analizzato gli articoli dei movimenti e solo Infoaut ne parlava.
Per me, le due, sono entrambe degne, entrambe meritevoli di essere citate, e non è che perchè una ha preso molti voti in una città e basta allora le altre non meritano attenzione (anche perchè se dobbiamo fare la gara a chi ce l’ha piú lungo, ribadisco, sono 4 i comuni che ora controllerà la CUP, non 1 e con problemi, ma 4. Non ha 11 rappresentati in una città, ne ha 370 in un intero territorio). Hanno processi molto simili (Assembleari), hanno visioni molto simili (di opposizione al mercato e ai governi conservatori spagnoli) con progetti diversi (territoriali, locali etc) e sfumature (piu’ o meno refo o anticapitalisti).
E non parlare di uno perchè c’è un conflitto con l’indipendentismo, solo perchè non c’è un leader chiaro, o perchè non si capisce o non si vuol capire una area politica, boh, a me lascia perplesso. E mi sembra un peccato perchè c’è, come ho scritto in quel commento lunghissimo, un sacco di cose interessanti da cui poter prendere spunto, o su cui poter riflettere.
ok, per te tanto l’esperienza Barcelona En Comú quanto la CUP sono meritevoli di essere citate. bene. siamo d’accordo. l’hai fatto scendendo pure nei minimi dettagli. ok, grazie.
detto questo, ricordo che le due città più grandi della Spagna hanno due sindachesse elette grazie a processi simili e in stretto contatto anche personale, e che hanno le caratteristiche descritte MOLTO BENE da questo post. possiamo essere d’accordo che per queste ragioni è un fenomeno che merita tutta l’attenzione possibile, soprattutto dall’Italia?
PS: quanto a presunte ossessioni anti-indipendentiste, è una tua opinione personale e IMHO molto parziale.
No ci stiamo capendo.
Se non venivo io a rompere le balle sulla CUP, nessuno se la cagava di pezza.
Per me i processi sono importanti entrambi, e io, personalmente, ci do attenzione e credo che siano interessanti (poi non so cosa su cosa debba fare l’italia o meno).
Quindi, in questo post dove si parla di processi importanti per poter riflettere sulle differenze e similitudini e non vengono citati alcuni processi, io non posso far altro che mostrare anche gli altri e non dire che uno è meglio dell’altro, o che uno merita piú attenzione dell’altro, anche perchè sono diversi su una base temporale importante: uno ha un anno di vita, l’altro quasi 30.
Sul anti-indipendentismo se vuoi parliamo poi.
Quello che tu dici secondo me ricorda molto i movimenti locali italiani: NoTav, NoMose, ecc. Dove c’è di sicuro un discorso ad ampio raggio (anticapitalista, anti-imperialista, ecc.) e di sicuro c’è un’esigenza di decidere sul proprio territorio. In Italia questi germi ci sono e però hanno difficoltà a espandersi.
Certo questi movimenti non si danno con la declinazione utilizzata dalla CUP. Manca (per fortuna) una connotazione che ricade nazionalista (o regionalista): la nazione da contrastare è anche i quei casi (sebbene questo riferimento non si usi spesso) l’1%.
Se ci si pensa anche la Libera Repubblica Popolare di Maddalena è in realtà un’invenzione che non ha nulla a che vedere col discorso classico nazionalista. Riprendere in mano il tricolore (o bandiere di territori regionali) a me causa repulsione e per quel che riguarda l’idea di lottare in nome del tricolore (anche utilizzando una declinazione di lotta di classe), mi sembra che il momento sia passato da un bel po’.
Leggendo il post successivo: per quel che mi riguarda sì, se devo pensare ad un modello da tradurre in Italia la questione dell’indipendentismo mi crea molte difficoltà e non ci vedrei alcuna possibilità di emancipazione. Ripeto, perché sono già incappato in discussioni simili: sto parlando dell’Italia, non mi interessa parlare del catalanismo, che ci porterebbe in un flame clamoroso (e già ci siamo vicini)
Condivido la visione sulla situazione italiana. E proprio per questo motivo credo che lo spunto non sia su un discorso locale, ma su un discorso piú ampio.
Ossia la mancanza di un progetto-bacino che unisca le lotte, nelle loro diversità, tramite sistemi assembleari, tramite strutture aperte, e tramite modi di comunicare, essendo molti di questi germi lontani tra loro, o che coprono un territorio molto ampio. Una città non è una nazione, ovviamente.
Proprio per questo considero che un progetto piú ampio possa dare ulteriori spunti.
Alla domanda: Come uniamo lotte distanti in un territorio ampio? Il metodo di confluenza ce lo puó mostrare Ada (ma l’assemblearismo è già presente in italia, non è una novità), ma il metodo di gestione forse piú la CUP, di progetto e di resistenza a lungo termine. Anche perchè il rischio di abbassare il discorso è elevato, come già é successo a Podemos.
Opinione mia.
Il rischio di un processo locale, strutturato orizzontalmente e vincente, ma che non vince a maggioranza assoluta (il sistema di alleanze della colau renderà la questione complessa a livello di governo) generarà frizioni interne al progetto stesso, perchè si tratterá di vedere quali sono i pesi interni alla lista di Barcelona en Comú (cosa che ancora non sappiamo).
Infine. Identifico due dinamiche che credo siano un problema per la capacitá di imparare qualcosa dalla sinistra indipendentista catalana: il primo è legato alla complessità del microcosmo della sinistra indipendentista, il secondo è l’indipendentismo in sé.
Questo genera un blocco che non permette vedere la parte positiva e utile per i movimenti italiani, e la causa di questo blocco sono i propri militanti italiani che non sono capaci di vedere questo lato positivo della realtà catalana, limitandosi ad una che è sempre un discorso nazionalista, e in quanto tale di destra quando qui è tutto il contrario e l’indipendentismo va a di pari passo con la lotta di classe (Consideriamo che qui la storia è diversa e una estelada è un simbolo non di opressione, ma di resistenza)
Non vederlo, o invisibilizzarlo penso sia un problema per i movimenti italiani, che sono fortemente frammentati, mentre qui no. Quante volte avete visto assemblee libertarie andare assieme a autonomi e comunisti, che riescono anche ad aggregarsi a sindacati (combattivi)? Io, poche volte, mentre qui è abbastanza comune. Da questo possiamo (Credo, eh, opinione mia) imparare molto.
E in nessun momento ho detto che dobbiamo essere indipendentisti per risolvere i problemi di movimento italiano. Dico solo di non guardare male o non guardare un movimento perchè non lo capiamo.