di Wolf Bukowski*
È il 1937. Il nonno materno di Oscar Farinetti vuole “la luce” in casa, ma prima deve convincere il vicino recalcitrante ad accettare che i cavi elettrici passino sul suo tetto. In cambio offre l’allaccio gratis ma soprattutto mette in scena “una performance descrittiva senza precedenti”. Senza precedenti ma anche senza l’esito sperato, ahilui. Così il nonno attende che Pinotu, il vicino, porti le mucche in transumanza, e procede egualmente all’allaccio. Quando la seduzione fallisce si ha diritto a forzare la mano, è la quasi-morale di questa storia. La contrarietà, nel mondo dei Farinetti, non ha altro fondamento che l’ignoranza o il malanimo: Pinotu, i dipendenti di Eataly che osano lo sciopero, i No-Expo eccetera sono accomunati dal non capire in quale direzione vada il futuro; Oscar Farinetti, suo nonno materno e Renzi, invece, lo sanno. E hanno quindi il diritto – quasi il dovere – di imporlo ai maliziosi e ai duri di comprendonio.
Quel futuro, che talvolta Farinetti chiama “meraviglioso” (ovvero: precarietà, brutale meritocrazia e impoverimento da turismo/export), ha bisogno di un passato che sia alla sua altezza. Per trovarlo è necessario riscrivere la storia fondativa della democrazia italiana, quella della Resistenza, in modo da renderla il più docile possibile. Senza scardinarla rumorosamente, ma anzi sollevandola leggermente in modo da ridurre l’attrito (sociale e politico) quasi a zero. Ecco: Mangia con il pane, il libro resistenziale di Oscar Farinetti (Mondadori, 2015) è proprio questa riscrittura. Il testo muove da un’intenzione prossima e nobile: difendere la memoria del padre partigiano Paolo dalle calunnie postbelliche sulla partecipazione a un furto e l’appropriazione del “tesoro della IV armata”, calunnie che hanno ricominciato a circolare insieme alla sovraesposizione mediatica di Oscar Farinetti. Ma arriva, il libro, quasi senza parere, a ricostruire la storia della Resistenza traducendola in quella di una start-up, di un successo imprenditoriale. Come se Eataly, in fondo in fondo, non fosse che il compimento della Liberazione.
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Questa parabola tra memoria individuale e storia collettiva, e tra storia civile e agiografia aziendale, è tracciata da Oscar Farinetti (esuberante, incontenibile, nei capitoli iniziali e finali) e da Fabio Bailo, storico piemontese radicato in rapporti con Carlin Petrini e con la sinistra istituzionale. Bailo adatta i clichés resistenziali a una visione dirigistica che mette il comandante Farinetti in primo piano (eroe generoso, determinato, in definitiva solo) lasciando tutti gli altri partigiani sullo sfondo, proprio come nella copertina disegnata da un Gipi deludentemente celebrativo. Tale è la pulsione verso la costruzione dell’epopea del leader che i due autori, sbagliando e non di poco, finiscono per non saper inquadrare gli episodi di calunnia subiti da Paolo Farinetti nel diffuso clima di persecuzione antipartigiana del dopoguerra. A leggere il libro sembra infatti che il comandante Farinetti sia il solo a essere accusato ingiustamente di essersi intascato un “tesoro”, nonché di furto a mano armata. Quando invece maldicenza, calunnia e accusa giudiziaria sono strumento ricorrente della lotta politica dei reazionari, che screditando i protagonisti della Resistenza vogliono colpire le istanze rivoluzionarie che attraversano la Resistenza stessa. Essi temono che le armi usate contro fascisti e invasori possano servire, in quel dopoguerra, a liberarsi anche dei padroni e cercano quindi, con il fango, di alienare ai partigiani il consenso popolare. Il Paolo Farinetti raccontato dal figlio, naturalmente, non è rivoluzionario; ma in quanto partigiano in vista è egualmente perfetta vittima di calunnia. Mentre nel racconto di Oscar le maldicenze che colpiscono il padre vengono da chi “non concorre mai alla costruzione di progetti, insomma non intraprende, perché troppo impegnato a osservare gli altri con bieca malizia” (pag. 173) – e sono le stesse accuse che altrove, ripetutamente, rivolge ai No-Expo, agli scioperanti di Eataly o ai giornalisti non allineati. E tutti questi, diversamente dal povero Pinotu, non hanno neppure l’attenuante dell’ignoranza.
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Come in una storia aziendale si snocciolano i numeri degli assunti ma mai quelli dei licenziati, allo stesso modo la Resistenza di Mangia con il pane è edulcorata. I rapporti con il territorio e i suoi abitanti sono semplificati e lubrificati, le scoperte di spie e traditori sono affrontate con un fair play davvero poco credibile e le istanze di giustizia sociale sono depotenziate e rappresentate in prima persona da Paolo Farinetti stesso: «Io, prima di andare militare, lavoravo dodici ore al giorno, più la domenica fino a mezzogiorno […] e la domanda che mi ponevo era questa: ma qui cosa ci siamo venuti a fare? Vogliamo cambiare sì o no qualche cosa?». E ancora: la responsabilità di comando di Paolo viene resa, anche nei termini, quasi un ruolo di Amministratore Delegato:
«Prova a immaginare di avere alle tue dipendenze un gran numero di persone […] per prima cosa bisogna provvedere al cibo […] gli uomini affamati non ragionano».
Ne deriva che i partigiani sono “dipendenti” e, se affamati, non ragionano. Mentre i dipendenti (lavoratori) affamati (ovvero, contestualizzando, che guadagnano poco), se non hanno senso civico, potrebbero rubare: questo afferma Farinetti nel 2013 quando emerge la vicenda delle perquisizioni a fine turno dei lavoratori di Eataly a Roma. Ma d’altra parte anche i dipendenti (lavoratori) possono essere chiamati dal leader a essere “partigiani” schierandosi dalla parte del padrone, come nella raccolta firme contro gli scioperanti promossa dalla proprietà nell’Eataly fiorentina nell’estate del 2014. Il cortocircuito semantico è assicurato; la sola certezza è che, senza uomini decisi al comando (uno dei Farinetti a scelta, oppure Renzi) i “dipendenti” non saprebbero certo prendere in mano il proprio destino.
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Ogni episodio del libro è costruito come una favola (l’eroe incontra l’ostacolo, gli antagonisti, trova la soluzione…) con un andamento narrativo tanto forzato e semplificato da non non potersi inserire in un quadro di ampio respiro. La memoria individuale non rinvia dunque a una storia collettiva, non diventa un dettaglio dell’affresco ma rimane una sorta di sineddoche, di parte per il tutto: un pezzettino di storia che viene proposto come se fosse tutta la storia. Questo è il primo motivo per cui non va scambiato il legittimo omaggio di Farinetti alla memoria del padre per un libro sulla Resistenza. Ma il secondo e forse ancor più pressante motivo è che Oscar Farinetti fa del volume un’arma di lotta culturale per la sinistra padronale. Per quanto detto sopra su leader e dipendenti, ma anche con le perle di saggezza aziendalista e autocelebrativa che infila in successione: il padre, pur essendo un imprenditore, «non si era mai sentito un padrone. Lui era un comandante, come era stato da partigiano» (pag. 7, e ne deriva che essere o meno padrone è uno stato d’animo, non un rapporto sociale); «ancora oggi io mangio con il pane […] nel senso che cerco di comportarmi bene, di non prevaricare» (p. 9, da mettere in rapporto con i vantaggi per Eataly dovuti alle prossimità politiche di Oscar) o «non abbiamo mai smesso di mangiare con il pane e ci è andata bene» (p. 189, o della meritocrazia); e infine nobilitando con il motto «le persone sono più importanti delle cose» la scelta di mantenere in famiglia e tra gli azionisti storici la maggioranza di Eataly (pag. 194).
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Eppure, esercitando un poco d’ottimismo anche noi e sottraendolo allo schieramento che ha fatto del “Gianni!” di Tonino Guerra l’inno delle proprie battaglie reazionarie, possiamo dirci che se i padroni ancora cercano di depotenziare la portata rivoluzionaria della Resistenza, se ne sentono il bisogno a settant’anni dalla Liberazione, vuol dire che, sotto cumuli d’oblio, inganni e tradimenti, qualcosa brucia ancora. [Grazie a Elena Monicelli per i suggerimenti, WB]
* Autore di La danza delle mozzarelle. Slow Food, Coop, Eataly e la loro narrazione (Alegre, Roma 2015)
A proposito della copertina del libro: a quanto mi risulta, Paolo Farinetti era nelle brigate “Matteotti”, quindi il fazzoletto al collo dovrebbe essere rosso.
Ecco i link alle spendide foto twittate da @monster_chonja che demistificano pure la copertina:
https://twitter.com/monster_chonja/status/594090022174851072
https://twitter.com/monster_chonja/status/594090254858121217
https://twitter.com/monster_chonja/status/594093346118881280
“nella copertina invece uno scialbo tricolore, che di questi tempi si porta con tutto”..
Grazie Monster Chonjacky!
Quindi, se fosse stata necessaria un’ulteriore conferma di quanto scritto, è arrivata grazie alle osservazioni di Tuco e Monster.
Nonostante il bianco e nero, i fazzoletti sembrano proprio rossi.
http://www.metarchivi.it/dett_FASCICOLI.asp?id=2699&tipo=FASCICOLI
Partito il tasto prima di ringraziare @asinomorto per il link: https://twitter.com/AsinoMorto/status/594843530671038464
è stato un bel lavoro collettivo
w
#EATALY FESTEGGIA L’AMBARADAN
cioè festeggia questo:
(da Point Lenana di Wu Ming 1 e Roberto Santachiara).
Lo stesso Farinetti spiega così la scelta del nome della promozione:
E come definirebbe Eataly?
È una bella domanda, perché tutti andiamo sempre in difficoltà nel dire con esattezza che cosa sia Eataly. È un mercato, ma è anche un negozio, una serie di ristoranti, una scuola… Io ci ho messo tre anni, ma finalmente l’ho capito: Eataly è un “ambaradàn”. Tra poco lo diremo con una grande campagna pubblicitaria. E poi ci lavoreremo sopra: i piatti dell’ambaradàn, la festa dell’ambaradàn, il mese dell’ambaradàn, che sarà il contrario del Ramadan, cioè un periodo in cui si mangerà e si berrà divinamente…
Prossimamente avremo la fiera gastronomica “Fosse Ardeatine”? Il festival della mortadella “Marzabotto”?
Quando lo si è fatto notare su twitter, Eataly ha replicato così:
“Festeggiamo l’Ambaradan, in italiano ‘baraonda’, non la battaglia di Amba Aradam, nome simile ma significato molto diverso.”
e poi così:
“abbiamo scelto una parola per il suo significato, senza pensare di offendere nessuno. Se lo abbiamo fatto ce ne scusiamo.”
Come dire: pezo el tacòn del buso.
Quel che resta di questa storia penosa è l’ennesimo esempio di edulcoramento e rimozione dei crimini del colonialismo italiano.
Il partito della nazione nutre il pianeta.
Anche “il contrario del Ramadan, cioè un periodo in cui si mangerà e si berrà divinamente” è una frase che mette addosso il freddo. Spia di arroganza etnoculturale e di una notevole ignoranza.
già… http://en.wikipedia.org/wiki/Iftar
(ho messo il link perché chissà mai che Farinetti legga questo thread e impari qualcosa)