di Tuco aka Martino Prizzi
Il 23 maggio 2015 a Gorizia è successo qualcosa.
Al “Parco della Rimembranza”, su un palco di legno, c’era un tizio che si chiama Simone Di Stefano – mai visto prima da queste parti -, che parlava di sangue e terra. Sangue italiano e terra italiana. Al suo fianco c’era l’assessora Silvana Romano, di Forza Italia. Davanti a lui un migliaio di sonnambuli che sventolavano tartarughe e tricolori. Di Stefano diceva che bisogna essere pronti a morire per l’Italia, come i fanti del 1915, perché l’Italia sta precipitando nell’abisso per colpa dei traditori e dei nemici della Nazione.
L’assessora al suo fianco applaudiva compostamente. I sonnambuli pure. Erano arrivati da tutte le regioni e avevano attraversato in corteo un dedalo di strade secondarie deserte, per celebrare l’entrata in guerra dell’Italia e per ribadire la sacralità dei confini della Nazione, disegnati col sangue. Ispirandosi alla leggenda della fondazione di Roma, avevano raccolto in uno scudo manciate di terra portate appositamente da tutte – quasi tutte – le province d’Italia.
L’unione di terra e sangue può solo far venire il tetano.
Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiarò guerra all’Austria – cui era legata da una trentennale alleanza difensiva -, dopo aver contrattato con Francia, Inghilterra e Russia, e ottenenuto in cambio dell’intervento non solo Trento e Trieste, ma anche la Dalmazia, l’Albania, la provincia turca di Antalya, e non meglio precisate “compensazioni coloniali”. L’intervento dell’Italia nella prima guerra mondiale non fu la quarta guerra d’indipendenza, ma imperialismo dispiegato, come proclamò senza ipocrisie Ruggero Timeus. L’intervento fu preparato da una campagna propagandistica martellante e pervasiva, cui diedero il loro contributo attivo la quasi totalità degli intellettuali italiani, primo tra tutti D’Annunzio. La propaganda guerrafondaia era incentrata sul concetto che un sacrificio umano di dimensioni colossali fosse necessario per costruire la Nazione. Per questo motivo i soldati italiani furono mandati deliberatamente al macello, per conquistare poche centinaia di metri di terra. E quando la propaganda non fu più sufficiente a stimolare l’ ”eroismo dei nostri fanti”, cioè quasi subito, allora entrò in scena il plotone d’esecuzione. Furono migliaia le fucilazioni per diserzione e “codardia di fronte al nemico”.
Gorizia nel 1915 era una città di 30.000 abitanti, dei quali poco meno della metà erano italiani (includendo i cittadini di madrelingua friulana), 11.000 erano sloveni, 3.000 erano tedeschi, 2000 di altre nazionalità. Considerando invece la città con la sua “provincia”, gli italiani non arrivavano al 35%, ed erano concentrati, oltre che a Gorizia stessa, nelle cittadine di Cervignano, Monfalcone e Gradisca. Tutta la zona a nord e a est di Gorizia era abitata compattamente da sloveni. I goriziani abili alle armi combatterono nelle fila dell’esercito austroungarico. Per loro la guerra era cominciata già nel 1914, in Montenegro contro i serbi, e in Galizia contro i Russi. Dopo l’attacco dell’Italia, nel maggio 1915, gli sloveni furono in gran parte spostati sul fronte dell’Isonzo: nonostante molti di loro aspirassero all’autodeterminazione rispetto all’Impero, il fatto di combattere a difesa della propria città e dei propri villaggi contro un esercito invasore costituiva una forte motivazione per rimanere leali all’esercito austroungarico. Se nella vulgata italiana Gorizia è diventata il simbolo delle terre da “redimere”, cioè da conquistare, nella memoria reale di chi a Gorizia ci viveva, soprattutto gli sloveni, Gorizia è diventata invece il simbolo delle terre da difendere contro l’invasore italiano.
Gorizia fu l’unica città conquistata con le armi dall’esercito italiano. La conquista della città costò la vita, in una settimana, a 30.000 soldati, tra italiani e austroungarici. L’ 8 agosto 1916 i fanti italiani entrarono in una città ridotta in macerie, abbandonata dalla quasi totalità dei suoi abitanti. Di 30.000 ne erano rimasti 3.000. Di questi, alcune centinaia, soprattutto sloveni, furono immediatamente internati in Sardegna. Gorizia, o ciò che ne restava, fu riconquistata dagli austroungarici nell’ottobre 1917, in seguito alla battaglia di Caporetto. Passò infine all’Italia dopo il collasso dell’Impero e l’armistizio nel novembre 1918. Ciò che subì Gorizia durante e dopo la prima guerra mondiale fu un urbicidio, paragonabile a quello subito da Mostar in tempi più recenti. Le devastazioni della guerra e la politica di italianizzazione violenta portata avanti dal fascismo distrussero irrimediabilmente il carattere multietnico e multiculturale della città.
Per raccontare queste cose, mentre i fascisti del terzo millennio mescolavano terra e sangue nei loro alambicchi, noi abbiamo attraversato la città in corteo. Abbiamo cantato O Gorizia tu sei maledetta, abbiamo portato in corteo 200 croci di legno su cui avevamo scritto nomi italiani, tedeschi e sloveni, nomi veri, presi dalle tombe del cimitero di Gorizia. Eravamo più di mille: comunisti, anarchici, cristiani pacifisti, e tante persone senza una specifica militanza. Molti di noi erano goriziani, altri erano arrivati da Trieste, Udine, Lubiana, alcuni persino da Zagabria. Eravamo italiani, sloveni, friulani e croati. Tante voci, tante storie, tutte accomunate da una precisa scelta di campo politica: l’antifascismo. Ed esistenziale: la diserzione rispetto alle chiamate alle armi in nome della Nazione.
Ma la città non c’era. I negozi avevano le serrande abbassate, le strade erano deserte. La gente era barricata in casa, oppure ad ascoltare Saviano che parlava di legalità – l’evento mondano dell’anno in questa città alla periferia di qualunque cosa. La città era indifferente a noi, come era indifferente ai fascisti. Indifferenti anche il PD, la CGIL, l’ANPI e la politica ufficiale slovena. Tutt’altro che indifferente invece la destra italiana e la stampa locale in lingua italiana, che negli ultimi 15 giorni aveva condotto una campagna di terrorismo psicologico per convincere i cittadini che il nostro corteo avrebbe portato il Disordine. Mentre si era premurata di assicurare ai cittadini che i fascisti avrebbero sfilato in buon Ordine. Sventolando tricolori.
Trieste, 24 maggio 2015. Le celebrazioni ufficiali per il centenario dell’ingresso dell’Italia nella prima guerra mondiale si concludono con l’arrivo della staffetta “L’esercito marciava…” e con un concerto della cantante Ivana Spagna in Piazza Unità. 600 militari hanno portato il tricolore attraverso tutto lo stivale, partendo da Trapani, “con lo scopo di rappresentare il movimento di avvicinamento a Trieste dai punti più lontani dell’Italia”. L’ultimo tedoforo è il Ministro della Difesa Roberta Pinotti. Nei giorni precedenti sulle Rive si sono svolte diverse esibizioni dimostrative di reparti scelti dell’esercito: lanci di paracadutisti, sbarchi di lagunari, fanfare di bersaglieri. Le locandine che pubblicizzano l’evento spiegano che il ruolo svolto dall’esercito nella prima guerra mondiale è stato fondamentale nella costruzione dell’identità nazionale italiana, e che le celebrazioni del centenario
“intendono proseguire idealmente questo processo identitario (… ) nell’attuale momento storico, dove la richiesta di identità valoriale e riconoscimento culturale sono fortemente sentiti dalla collettività”. La risonanza con gli slogan di Casa Pound è evidente.
Ma anche a Trieste, anche per l’esercito italiano, la città non c’è. La piazza è vuota per tre quarti. Poche centinaia di passanti e di turisti curiosano tra i carri armati, nella “città redenta cara al cuore di tutti gli italiani”.
Durante la prima guerra mondiale Trieste non conobbe le distruzioni di Gorizia. Nel dopoguerra condivise però con Gorizia la violenza del fascismo di confine e della sua politica di italianizzazione forzata. La città perse la funzione strategica di porto dell’Impero, e la sua borghesia, scopertasi italianissima, vivacchiò per un ventennio all’ombra del regime, per poi dannarsi l’anima al ritorno degli “austriaci” nel 1943. Tornata al centro della retorica nazionalista italiana nel secondo dopoguerra, la città vive tuttora in uno stato di schizofrenia, tra rigurgiti nazionalpatriottici e nostalgie asburgiche irrancidite. Gli ultimi anni hanno visto l’emergere di un movimento neoindipendentista e la trasformazione in triestinissimi di molti italianissimi. Sotto il diverso velo identitario si vedono le stesse facce, si sentono gli stessi discorsi di sempre. Ma è evidente che il tricolore non scalda più i cuori.
Qualcuno potrebbe farsi prendere dall’ottimismo, potrebbe trarre la conclusione che tutta questa indifferenza dimostra che finalmente ci si è liberati dal passato, da quel passato. Ma basta fare un giro nei bar, o nei social network che è lo stesso, per rendersi conto che non è così. Il passato è ancora tutto lì, pesa come un macigno, con il suo carico di odio pronto a scatenarsi contro il primo bersaglio disponibile: i rom, i profughi africani, l’eterno nemico slavo… Se n’è avuto un saggio in occasione del primo maggio, quando la presenza nel corteo di una bandiera jugoslava con la stella rossa – a celebrazione del settantesimo anniversario della liberazione di Trieste, avvenuta appunto il primo maggio 1945 ad opera dell’esercito di liberazione jugoslavo – ha scatenato la reazione veemente della destra fascista, cui si è diligentemente accodato il costituendo Partito della Nazione di Renzi. E’ un odio vissuto privatamente, che per ora non riesce a coagularsi in un’identità collettiva. E’ un odio sordo che monta nel vuoto di prospettive esistenziali generato dalla crisi economica e dalla disoccupazione di massa. In questo vuoto le parole di Di Stefano si confondono coi comunicati stampa dell’esercito italiano. Diventano parte della normalità, assumono un ruolo quasi “istituzionale”. Su un sito di news abruzzese si legge: “Si sono svolte a Gorizia le celebrazioni per il centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Le celebrazioni hanno ospitato anche l’annuale manifestazione di CasaPound Italia che ha scelto proprio di intitolare il proprio evento ITALIA risorgi, combatti e vinci!”
Noi abbiamo provato a portare in questo vuoto parole e storie diverse, a riallacciare i fili di un racconto interrotto, a ricordare che dobbiamo restare umani. Ma è successo qualcosa a Gorizia, il 23 maggio, qualcosa di brutto, e ci vorranno anni per capire cosa.
Per ora possiamo solo provare a mettere in evidenza alcuni elementi costitutivi del frame in cui si è svolta questa giornata sghemba:
1. Lo sdoganamento ricevuto da Casa Pound dopo essersi agganciata al carrozzone Salvini. Di questo prima o poi Renzi dovrà pagare il prezzo politico. La costruzione di “Salvini” fatta a tavolino dai grandi elettori di Renzi, dal suo punto di vista, è stata un capolavoro: da un momento all’altro “Salvini” è apparso nei giornali e nelle Tv – e non ne è mai più uscito – interpretando il ruolo di un Leader del centrodestra su misura per far vincere Renzi ancora per un po’. Ma a che prezzo lo stiamo vedendo.
2. La data e il luogo. Scegliere Gorizia, città periferica ma con un fortissimo valore simbolico dentro la retorica nazionalista italiana, ha fatto sì che tutto sommato Casa Pound potesse cavalcare l’onda del momento, sicuramente molto più di noi antifascisti. In questi giorni abbiamo visto scorrere un fiume di retorica patriottica sulla grande guerra, sulla patria, sui nostri morti, su Gorizia, su Trieste italiana, ecc. In questo fiume troviamo dentro tutti, da Mattarella alla Pinotti che arriva di corsa in piazza Unità, ai bambini che vanno a vedere i soldati sbarcare o atterrare. I media hanno fatto la loro parte e l’hanno fatta bene. Emotivamente non c’è stata storia: da una parte “i nostri morti” e “il prezzo pagato per essere italiani”; dall’altra quelli che rischiavano di devastare Gorizia (dopo il primo maggio a Milano una sola scritta diventa devastazione).
3. L’appoggio della destra locale che si è schierata apertamente con Casa Pound. Evidentemente non è più “disdicevole”. Ci sono le polemiche, ma si può comunque fare: culturalmente è sdoganato.
4. Il defilarsi di Pd, Anpi, Cgil ecc.. A fronte di questa retorica emozionale, non hanno voluto schierarsi. L’antifascismo va bene se è confinato nelle celebrazioni ufficiali del 25 aprile, ma il 23 maggio paga sicuramente di più non stare contro i “nostri morti”. Perché questo è stato, “mediaticamente”, il 23 maggio: Casa Pound che andava a omaggiare i morti, i caduti, l’onore nazionale, il ricordo, l’Italia… E poi gli Altri – cioè noi – che minacciavano sfracelli.
5. L’ indifferenza della politica ufficiale slovena. Mentre a livello di base, nel litorale sloveno, c’è stata una mobilitazione spontanea che si è concretizzata nella partecipazione al corteo transnazionale di Gorizia insieme agli antifascisti italiani, la politica ufficiale slovena si è disinteressata della provocazione fascista, annunciata da settimane a ridosso del confine. L’unica presa di posizione ufficiale è stata una tardiva nota di protesta del Capo di Stato sloveno il 22 maggio. La Slovenia – non diversamente dall’Italia – è attraversata da una profonda lacerazione tra chi considera l’antifascismo principio fondante di una democrazia reale, e chi invece in nome della Nazione vuole riabilitare il collaborazionismo dei Domobranci. Come in Italia, la sinistra politica è incapace di – o giudica inutile – opporsi a questa deriva.
6. La disarmante ignoranza di gran parte degli italiani su tutto ciò che riguarda il “confine orientale”. Fuori da queste borderlands, pochissimi hanno colto il senso profondo di ciò che è accaduto a Gorizia: la saldatura tra la retorica ufficiale di Stato e quella dei fascisti del terzo millennio, emersa in modo esplicito nelle celebrazioni della grande guerra, vero mito fondativo dell’identità nazionale italiana. La saldatura si è manifestata proprio in queste terre, dove le ferite causate da quella guerra non si sono mai rimarginate, né da una parte né dall’altra del confine. E’ veramente sconfortante che persino testate vicine ai movimenti si siano interessate ai fatti del 23 maggio solo in relazione a una scaramuccia di confine, la vicenda della scritta “TITO” sul monte Kokoš. Una scaramuccia che probabilmente non ha nessun legame diretto con la manifestazione di Casapound e che rientra invece in una pluridecennale “guerra delle pietre” tutta locale sulle colline del carso.
Ringrazio Maja, Luca, Andrea, Alessandro e Wu Ming 1 per il brainstorming da cui è nato questo post.
Bellissimo post. Concordo in pieno sul fatto che nazionalismo e fascismo stiano diventando una cosa “normale”, anzi una mentalità egemone. In ciò credo sia fondamentale quello che tu chiami “defilarsi” di PD, CGIL e ANPI. Da ex-diessino rimango sempre basito quando constato il cedimento su valori e pratiche che dieci anni fa neppure il più “destro” all’interno della sinistra riformista avrebbe messo in dubbio. Rimane da capire cosa è accaduto in questi dieci anni. Io proporrei una chiave di lettura basata sull’idea che lo sdoganamento dei nazionalismi è figlio del fallimento della prospettiva europeista così come la declinavano le forze socialdemocratiche. La crisi ha reso palese a tutti ciò che era facile capire leggendo i trattati europei: non esiste nessun Europa solidale basata sull’ “economia sociale di mercato” e sul Welfare state, anzi non esiste neppure un vero processo di unificazione europea. L’Unione Europea è solo un ring su cui i vari capitalismi nazionali si affrontano secondo una serie di regole, tutte naturalmente di rigida ispirazione liberista. Di qui il fatto che nazionalismi tornino in auge sia in versione soft (Renzi): “Tutti intorno alla bandiera per essere competitivi all’interno dell’Unione Europea e nel mondo”, sia in versione strong (Salvini): “Tutti intorno alla bandiera per uscire dall’Unione Europea che ci costringe a fare i conti con un mondo in cui non siamo più competitivi”.
Questa dialettica mi pare sia in corso in tutti i paesi europei tranne che in quelli (Grecia e Spagna) in cui si è saputa elaborare una proposta politica capace di mettere in dubbio i dogmi del liberismo.
Credo sia necessario da parte di chi è coerentemente antifascista un “salto di qualità” nell’elaborazione politica, cioè farsi carico di quella missione storica che la socialdemocrazia non è stata in grado di realizzare e che ha abbandonato: la costruzione di un’Europa davvero unita e realmente portatrice di un modello sociale alternativo al capitalismo liberista. In pratica cercare di immaginare una nuova forma di stato (magari che raccolga la spinta alla democrazia diretta di cui si parla nel post su Barcellona) che segni il superamento dello stato-nazione. Temo che se non sappiamo mettere in campo una nostra idea di stato radicalmente nuova e trasformarla in un obiettivo per cui lottare il malcontento “anti-sistema” finirà per rafforzare le spinte “sovraniste” oggettivamente reazionarie.
La cosa straordinaria è come i leader dell’Unione Europea lavorino di fatto contro ogni reale unità europea. Oggi gli unici veri europeisti sono gli antifascisti. Gli unici legittimi eredi di Spinelli e Rossi, gli unici legittimi intestatari del “Manifesto di Ventotene” sono i “devastatori” scesi in piazza contro Casa Pound a Gorizia.
Scusa, in quanto ex-diessino sei libero di amare gli spinelli, sognare nuove forme di stato e sorprenderti che i politicanti facciano i loro porci comodi elettorali, ma…
Posso chiederti di *non* infilare surrettiziamente nel discorso l’equazione antifascisti=europeisti? A me non l’ha ordinato il dottore di unire l’Europa in una federazione senza chiedere il permesso a nessuno – né le tue “oggettive” considerazioni valgono più di quelle dell’eurocomunismo che ha portato a questi bei risultati.
Al contrario vorrei essere libero di combattere, in quanto antifascista, un progetto deflazionistico, paternalista, mercantilista e contro i lavoratori come l’U€. Grazie.
Aggiungerei che oggi la UE è il nemico (in tutti i sensi, anche in quello antifascista visto l’appoggio che danno ai nazisti ucraini) e che la battaglia contro la UE non va lasciata a Salvini e ai suoi sodali di Casa Clown. L’europeismo senza aggettivi è sinceramente proprio furi posto. A proposito della manifestazione: sacrosanta, ma a Trieste abbiamo avuto una settimana di propaganda bellica e nazionalista da parte dell’esercito con il culmine il 24 con Mattarella a celebrare l’entrata in guerra senza alcuna mobilitazione antifascista, antimilitarista o quello che fosse. Il fatto che le massime istituzioni dello stato e le sue forze armate sostengano lo stesso racconto dei 4 (fossero anche 4000 non cambia) coglioni di Casa Clown mi pare molto più grave e pericoloso.
Concordo, infatti dicevo che l’europeismo senza aggettivi è stato uno dei fattori che hanno portato l’odierna socialdemocrazia al suicidio. A mio parere l’UE non è sinonimo di Europa unita, ma il suo contrario. La vera unità europea può basarsi solo sull’antifascismo e sul superamento dell’attuale assetto economico, presupposti per liberarci dallo stato nazione.
Approfondisco qua nei commenti un aspetto della prima guerra mondiale che probabilmente non è molto conosciuto in Italia. In queste terre non ci fu soluzione di continuità tra la politica italiana durante la guerra, nel primo dopoguerra e dopo l’avvento del fascismo. Già nei primi giorni di guerra l’esercito italiano mise in atto rappresaglie contro le popolazioni civili accusate di “connivenza col nemico” (le fucilazioni di Villesse in Friuli e di Idrsko nell’altro Isonzo) – accusa assurda in quanto rivolta a cittadini austroungarici. Ne parla Wu Ming 1 nel suo reportage su Internazionale. Nelle zone occupate nel 1915/16 venne avviata immediatamente una politica di italianizzazione. Dopo l’armistizio del novembre 1918 e prima del trattato di Rapallo del 1920, la “Venezia Giulia” fu sottoposta a un regime di amministrazione militare, che iniziò subito una politica di espulsioni etniche contro tedeschi e sloveni impiegati nei settori strategici, e di repressione del movimento operaio. Il 31 ottobe 1918, alla caduta dell’Impero, i socialisti triestini guidati da Vidali issarono la bandiera rossa sul municipio di Trieste. Furono le truppe italiane a farla sparire, e a proibire immediatamente le attività politiche dei socialisti. Le azioni squadristiche contro sloveni e socialisti cominciarono molto presto, già nei primi mesi del ’19, e fu subito chiara la connivenza dell’Esercito. Connivenza che si dispiegò in modo plateale nell’incendio del Narodni dom nel luglio 1920. La vulgata italiana secondo cui il fascismo nacque dalla frustrazione seguita alla “mutilazione della vittoria” andrebbe profondamente rivista: gli ingredienti del fascismo c’erano già tutti quando il fascismo in senso stretto ancora non esisteva.
La tesi che emerge dal già citato libro di Mark Thompson, “La Guerra Bianca”, Il Saggiatore 2014, è precisamente questa. Il fascismo non come conseguenza della Prima guerra mondiale ma come ingrediente della Prima guerra mondiale, che ne diventa la fucina. Sul piano storiografico e politico è uno slittamento importantissimo. Sul piano dell’analisi del “dispositivo” il saggio di Thompson è veramente acuto e riesce a spiegare alcuni apparenti paradossi, svelandone in realtà la coerenza, soprattutto per quanto riguarda il ruolo degli intellettuali. Da questo punto di vista la sua riflessione su D’Annunzio e Ungaretti impegnati sul fronte dell’Isonzo è veramente ficcante quanto impietosa.
E si continuerà a non capirlo – e quindi non si capirà l’uso politico del centenario nella fase attuale, che è di “rinazionalizzazione delle masse” e preparazione di nuove guerre – se si continuano a ignorare le dinamiche passate e attuali dell’estremo Nordest e del confine orientale. Per questo “pestiamo” tanto su quel che sta accadendo in quelle zone. Per questo ripropongo qui la registrazione del mio intervento al convegno di Ronchi dell’anno scorso (convegno di cui parlo anche in Cent’anni a Nordest).
Nomi tossici, Grande guerra e nuovi fascismi – Wu Ming 1
Wu Ming 1 – Nomi tossici, Grande guerra e nuovi fascismi
Intervento al convegno «Di cos’è il nome un nome? La toponomastica a Ronchi e nella “Venezia Giulia” tra imposizione e mistificazione”, Ronchi dei Legionari dei Partigiani (GO), 14/06/2014.
Sguardi obliqui per disintossicare – L’estremo Nord-Est come osservatorio privilegiato – Continuità tra Grande guerra e fascismo – Nel resto d’Italia, una sorta di schizofrenia nel pensare alla Grande guerra – Il cliché «grandi soldati, piccoli generali» – Sanitarizzazione ed estetizzazione della morte: Redipuglia e il Milite ignoto – La Grande guerra come viatico per riabilitare il fascismo: il caso Graziani/Affile – Le piazze e vie intitolate a Cadorna – Tecnocrazia UE e nuovi fascismi: l’incudine e il martello – Cambiare i nomi, sì, ma farlo bene, perché non sia un lavarsi la coscienza «all’italiana» – Ronchi dei Partigiani si sta muovendo bene – Cadorna e il rischio di «eccezionalismo» – La specificità della Grande guerra e della sua odonomastica – I nomi vanno tolti per ricordarli – Gli italiani brava gente: è sempre colpa di qualcun altro.
Durata: 31’06”
Non aggiungo riflessioni, ma solo la testimoninaza che questo ribaltamento consequenziale tra fascismo e prima guerra mondiale è una vera illuminazione.
E’già scritto nella storia, ma metterlo a fuoco è un’altra cosa. Grazie.
Ciao e grazie per questo post. Leggendolo dalla Francia ci è sembrato così utile per avere uno spaccato della situazione in Italia che abbiamo deciso di tradurlo (e poi c’è un sacco di gente qui che canta “O Gorizia” senza avere un’idea troppo chiara del contesto), quindi è on line introdotto e annotato su questo sito: https://marseille.mediaslibres.org/que-s-est-il-passe-a-gorizia-le-23-148. Non escludiamo di inviarlo anche a qualche rivista militante, sempre se tu sei d’accordo.
Grazie a voi per l’ottimo lavoro! Ovviamente potete inviarlo a riviste militanti ecc., più circola meglio è ;-)
[…] 23 maggio scorso, su questa stessa frontiera ma poco più a nord, a Gorizia. In quel caso era stata la chiamata patriottica dei fascisti di Casa Pound a essere vissuta come la cosa più normale al mondo, al punto di ricevere il plauso di un pezzo […]
Ah, c’era una cosa che mi domandavo a questo proposito (ammesso che si tratti dello stesso evento). Dovreste veddere questo video:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-1c7c1b9e-6beb-4bda-aa28-73553018ac32.html#p=0
Il tipo che si vede all’inizio, che dà quella fantasiosa ricostruzione storica (l’esercito italiano che si arma per fermare l’avanzata delle truppe austroungariche?) da dove l’ha presa? Cioè, prendendo alla lettera il testo della canzone, ok, ma ci fosse stato uno che gli ha fatto una pernacchia! Uno!
Comunque, passiamo oltre. Serie di commenti spiritosi dei commentatori. Poi comizio di Meloni, con commento di presentatore e giornalista: “hehe, si è scordata giusto la repubblica di Salò”. MA come ci si è arrivati alla repubblica di Salò, l’imperialismo italiano che ha portato praticamente l’Italia all’isolamento diplomatico, tanto che Hitler ha potuto prendersi l’Austria?
Come giustamente dice Roberto, nel discorso degli italiani la colpa è sempre di qualcun altro!
Questo video è veramente grottesco.
No, non si tratta dello stesso evento. Quest’altra pagliacciata si è svolta sul Piave, 100 km a ovest di Gorizia.
No, beh,al fatto che la manifestazione sul Piave non possa essersi tenuta a Gorizia, ci arrivavo anch’io. A meno che non fossi stato uno di quelli che pensano che il Piave sia sull’attuale confine. Mi chiedevo se faceva parte, come dire, dello stesso cartellone.
Anche in collegamento con l’articolo più recante sui Topolini, visto che lo slogan della giornata era”Non passa lo straniero”…