Il libro di Wu Ming 1 Cent’anni a Nordest sta facendo molto discutere, on line e dal vivo.
La prima presentazione del «Ventre della Bestia Tour» si è tenuta al Lunatico Festival di Trieste, nel parco di S. Giovanni (dove un tempo c’era il manicomio, quello smantellato da Basaglia e compagni), la sera dell’8 agosto 2015. Sono arrivate non meno di duecentocinquanta persone, il dibattito è stato intenso e in questo post ne proponiamo la registrazione, divisa in due parti, ciascuna dotata di un indice ragionato. Durata complessiva: un’ora e quarantacinque minuti. Proponiamo anche un video di Fausto Vilevich ispirato a un momento della serata. Fausto è uno dei fondatori e gestori del Knulp, il locale triestino dove si svolge anche una scena di Cent’anni a Nordest.
Negli ultimi giorni sono uscite svariate nuove recensioni, ciascuna con un “taglio” differente, in alcuni casi basate su sguardi obliqui che mettono in luce aspetti della tematica non appariscenti ma cruciali. Un esempio non a caso: la recensione di Omar Onnis, teorico di un indipendentismo sardo che rifiuta nazionalismi ed essenzialismi. Anche la recensione di Stefano Lusa, maturata nel mondo delle comunità italiane in ex-Jugoslavia, è utile e fornisce una prospettiva discutenda e, più che spiazzante, spiazzata. Altre recensioni interessanti sono quelle di Daniele Barbieri, Franco Berteni e Pietro Amati (quest’ultima è una videorecensione).
Intanto, prosegue e si evolve il dibattito sull’austronostalgia avviato su Giap alcune settimane fa a partire dalle primissime reazioni al libro. Quello che poteva sembrare un post “settoriale” su un argomento “di nicchia” ha invece toccato diversi punti nevralgici del vivere a Nordest, e sta fornendo preziosi spunti per capire la cultura di destra e le sue miscele, oggi, in Italia. Non a caso, dal mondo dell’autonomismo trentino arrivano le prime reazioni piccate, addirittura scurrili: «immane stronzata», «vaccate»… Tsk, tsk, tsk… Di fronte a un simile linguaggio, cosa direbbe Sua Maestà Imperiale? ***
Interessanti, a loro modo, anche le recensioni brevi e “tirate via”, le stroncature non argomentate che si trovano in calce alla scheda del libro su alcune librerie on line e social network dedicati alla lettura. Di alcune è facile scoprire il movente ideologico, non aggiungiamo altro perché può diventare un bel gioco di società.
Non si registrano recensioni sulla stampa italiana mainstream. E, a dire il vero, non se ne sente la mancanza.
La prossima tappa del tour sarà a Ronchi dei Partigiani (Gorizia), la sera del 31 agosto. Dettagli a seguire, rimanete sintonizzat*.
Buon ascolto e buona lettura!
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CENT’ANNI A NORDEST AL LUNATICO FESTIVAL, TRIESTE, 8 AGOSTO 2015
[N.B. L’audio integrale della serata è scaricabile anche come cartella zippata, 201 mega]
1. SI FA PRESTO A DIRE «NORDEST»
PRIMA PARTE – SI FA PRESTO A DIRE «NORDEST» – 49’26”
Introduzione di Alessandro Metz: La scrittura collettiva nell’interconnessione tra Giap e i libri – Il contributo della comunità dei giapster – I fantasmi della Grande guerra aleggiano nella nostra città e nel Nordest – Perché Trieste, perché il confine a Nordest, da 54 in avanti.
WM1. Un “regnicolo” a Trieste – Come si presentano qui le tendenze che attraversano l’intero Paese – Di Trieste la maggioranza degli italiani ignora quasi tutto – Sul confine orientale le tendenze sono più marcate – La continuità tra Grande guerra e fascismo: il fascismo non come conseguenza della Grande guerra ma, ante litteram, come suo elemento scatenante – L’ideologia della “memoria condivisa” si capisce meglio parlando del confine orientale – Persino la questione del “degrado” urbano si presenta in modo parossistico – Da Point Lenana a Cent’anni a Nordest – Che cos’è il “Nordest”? È l’irrisolto della Grande guerra – Com’è nato il reportage – Il centenario e il pus – La ministra Pinotti e «l’esercito marciava».
Andrea Olivieri. Il modo di lavorare della comunità che si ritrova su Giap – L’accusa di “esagerare” nel guardare agli epifenomeni – La visione “eccezionalistica” dei triestini – Il lavoro di WM1 è prima di tutto geografico, di racconto del paesaggio – La devastazione del paesaggio del Nordest durante la Grande guerra e oggi – “Poche pagine” – Nel libro Trieste è costretta a stare dentro una narrazione corale, a stare dentro il Nordest – Su Giap «si parla troppo di Trieste» o no? – Un altro modo di vedere la realtà triestina.
Metz. Quali sono le reazioni quando, in altre parti d’Italia, racconti della destra austronostalgica e del neoindipendentismo triestino?
WM1. Venetisti e neoborbonici – In entrambi i casi si parte da alcuni dati di verità per arrivare a conclusioni grottesche – Le “due destre” del Nordest, la loro complementarità e le loro differenze – La questione dello sguardo obliquo: mai guardare i fenomeni in modo frontale – Il centro è cieco, la visione dell’insieme si ha dal margine – Ancora una volta: la mattonella di Piazza del Nettuno – [N.B. A questo momento della presentazione si è ispirato Fausto Vilevich per il video Carolo Sex, che proponiamo più sotto] – Anche su Giap funziona così – Nella frase “il centro è cieco”, quel centro è il discorso dominante – Che cos’è la Wu Ming Foundation: i gruppi di lavoro nati intorno a Giap – Cent’anni a Nordest non sarebbe stato possibile senza questa dimensione collettiva – Che cos’è Cent’anni a Nordest? È un resoconto psicanalitico – Si prenda ad esempio la scrittura di Sigmund Freud – L’inconscio collettivo del Nordest: gli aneddoti sono i sogni, le variazioni nei racconti sono i lapsus – «Scrive di cose futili», ma quelle «cose futili» sono le manifestazioni dell’inconscio del Nordest – I quattro fucilati di Cercivento e i “lapsus” degli Alpini – Un altro esempio di lapsus è l’uso dell’espressione “multiculturalismo triestino” come arma contro i migranti – Bisogna saperci fare, col sintomo – L’austronostalgia è diffusa in tutto il Nordest – Cosa c’entra l’austronostalgia con i venetisti “serenissimi”? C’entra – L’anno chiave è il 1866 – Come il Veneto fu annesso all’Italia in modo truffaldino – La battaglia navale di Lissa come “ultima grande vittoria della Serenissima” – Nella visione degli indipendentisti veneti, l’impero di Franz Joseph fu un continuatore della Serenissima – L’audiodocumentario Gott über alles di Jonathan Zenti – Di cosa è sintomo l’austronostalgia? – Stiamo continuando a pagare la corsa a nord e a est dell’imperialismo italiano.
SECONDA PARTE. DIBATTITO, TRA PUTIN E I DISERTORI
SECONDA PARTE – DIBATTITO, TRA PUTIN E I DISERTORI – 55’40”
Domande 1 e 2. Un parere sui libri di Massimo Carlotto? – Tuco: il confine orientale come cartina di tornasole per identificare elementi di destra a sinistra – il recente revival “arditista” e “fiumano” nell’estrema sinistra, soprattutto a Roma – È possibile risemantizzare simboli rimasti a lungo a destra, simboli usati dal fascismo? – È esistito “il compagno D’Annunzio”? – Il racconto dell’impresa di Fiume è sempre stato italocentrico e ne ha ignorato il carattere imperialista e razzista.
WM1. Claudia Cernigoi ha esposto un metodo empirico per riconoscere i rossobruni – Lo “sforzo di sintesi” di Tuco – Da dove è partita la “rivalutazione da sinistra” dell’impresa fiumana – I danni fatti da Hakim Bey – Gli studi più seri di Claudia Salaris – Giustissimo recuperare la memoria degli Arditi del Popolo, però poi si è sbracato – L’intossicazione di certi simboli è irreversibile, si veda la svastica – «Da Roma di queste cose non potete capire un cazzo» – A proposito dei RASH (Red & Anarchist Skin Heads), una precisazione doverosa. – Riguardo a Carlotto: è un grande esploratore del Nordest, inteso come Veneto, del quale ha mostrato la mostrificazione antropologica.
Domanda 3: quali sono le differenze tra l’austronostalgia triestina e quella veneta? – Intervento di Peter Behrens, segretario provinciale del PRC: la multiculturalità triestina di cent’anni fa era un prodotto delle immigrazioni, anche oggi saranno le immigrazioni a fare di nuovo di Trieste una città multiculturale – Domanda 4, Olivieri: la «rinazionalizzazione delle masse».
WM1. La dialettica tra globalizzazione neoliberista e rinazionalizzazione delle masse – Il rapporto tra problema e falsa soluzione – I capri espiatori: migranti e zingari – Gli studi di George L. Mosse sulla genesi dei fascismi – Fondamentale la notazione di Behrens, la retrospezione rosea sul multiculturalismo austroungarico. – Sulla differenza tra le austronostalgie – in Veneto e in Trentino è presente l’elemento del tradizionalismo cattolico, a Trieste (città storicamente laica) molto meno.
Metz. La questione del putinismo, tutti a tirare Putin per la giacchetta – Manca un’inchiesta sui rubli che arrivano in Italia.
WM1. Precisiamo che i “rubli” sono una metafora, Putin paga in dollari e in euro – Di soldi russi ne sono sicuramente arrivati anche a Trieste – Il referendum on line per l’indipendenza del Veneto e la TV di stato russa: a gh’è quèl ac tragia – Perché la Russia di Putin non è una forza antimperialista – Il fascino delle teorie “eurasiatiste” e di Aleksandr Dugin – Dugin è l’aedo della politica estera di Putin – Quasi tutte le estreme destre d’Europa sono duginiste e putiniste – C’è anche una fascinazione per Putin come “uomo forte” – Putin che cavalca a torso nudo rivela l’omosessualità latente dei fascisti.
Intervento di Alberto Volpi della libreria «In Der Tat» – Ci voleva un libro più approfondito – Non sono d’accordo col discorso di Andrea, che sminuiva le particolarità di Trieste – Nel corso della sua vita, mio nonno ha cambiato appartenenza statale cinque volte, senza mai lasciare Trieste – L’industria di questa città è stata smantellata dall’Italia – Domanda di Olivieri: i fantasmi della diserzione.
WM1. Perché un libro “breve” – Cent’anni a Nordest è un file zippato e fa parte di una rete di discorsi – «Ho appena finito di leggere Cent’anni a Nordest» – Il libro serviva adesso, il centenario è adesso – Metamorfosi etniche di Piero Purini e la collana «Resistenza storica» delle edizioni KappaVu – Le particolarità di questo territorio devono essere giocate per raccontare l’Italia intera – Anche a Bolzano si potrebbero enumerare molte appartenenze statali successive negli ultimi cento anni – Ci sono altre zone d’Italia dove la rivendicazione indipendentista parte dalla denuncia di uno smantellamento dell’industria locale: anche i neoborbonici fanno quel discorso. – E ora i disertori – Riabilitare i disertori di cent’anni fa significa parlare di oggi, promuovere la diserzione di cui c’è bisogno oggi – L’Italia sta per partecipare a nuove guerre – Ci stiamo armando fino ai denti – L’insospettata importanza delle lotte per cambiare toponimi e nomi delle vie – Via l’assassino Cadorna dai nomi di piazze e vie – Nel momento in cui dominano il culto del capo e il «ci pensa lui», la diserzione è importantissima – Bentornati, fantasmi della diserzione.
[N.B. L’audio integrale della serata è scaricabile anche come cartella zippata, 201 mega]
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I FANTASMI DELLA GRANDE GUERRA E NOI SARDI
di Omar Onnis, dal suo blog «Sardegna Mondo»
Partiamo da un libro: WU MING 1, Cent’anni a Nordest. Viaggio tra i fantasmi della guera granda, Milano, Rizzoli, 2015.
Il testo era uscito in una versione breve in tre puntate sul settimanale Internazionale, nella primavera scorsa. È un’indagine condotta in modo particolarmente intelligente ed empatico su cosucce come la Grande guerra e la questione dei confini orientali dell’Italia, il loro riproporsi come fattori dell’attuale dibattito politico e culturale, i nazionalismi europei. Temi su cui negli ultimi vent’anni si è esercitato un lavorio profondo che ha fatto riemergere in Italia, al livello dei mass media mainstream e delle massime istituzioni statali, una narrazione patriottarda, nazionalista, centralista e molto spesso persino militarista. Per altro strutturalmente legata all’accentuarsi della virata antidemocratica e autoritaria del sistema di governo italiano, all’aumento delle diseguaglianze, al consolidarsi dello sfruttamento indiscriminato del lavoro, del territorio e delle risorse.
È una lettura molto consigliata. Direi in modo particolare ai Sardi. Per varie ragioni. Una emerge dalle parole che seguono (tratte dalle pagg. 36 e 37, il grassetto è mio):
In tutta Europa avanzano partiti e movimenti nazionalisti, populisti di destra, xenofobi, razzisti. Talora sono dichiaratamente fascisti/nazisti, ma il più delle volte sono criptofascisti, molto “tattici” o ipocriti nel definirsi. Spesso dicono di non essere “né di destra, né di sinistra”.
Questi movimenti sfruttano un’illusione molto diffusa, quella di poter trovare conforto e salvezza nella restaurazione di sovranità passate, entità dai tratti più mitici che reali: piccole patrie e/o imperi di qualche belle époque e/o tribù ancestrali vagheggiate nel buio della notte dei tempi.
La narrazione è quella classica della “Caduta”. Se le vecchie patrie sono in sofferenza, se i vecchi imperi sono crollati, è perché forze oscure hanno tramato per distruggerli.
La retorica è sempre antropomorfizzante, diretta non contro le logiche fallaci e distruttive del neoliberismo, ma contro alcuni personaggi. I cattivi, i villains, sono le “lobby transnazionali”, i vampiri del capitale finanziario “privo di radici”, la casta degli €urocrati, giù ruzzolando fino alla massoneria (il prezzemolo sta bene con tutto) e alla longa manus dei perfidi giudei. Tutti agenti della degenerazione, contrapposti a un Popolo dipinto come unico e indifferenziato, corpo sano per definizione, onesto e orgoglioso, le maniche sempre rimboccate.
Wu Ming 1 non scrive certo pensando alla Sardegna, al nostro mito identitario, al nostro processo di autodeterminazione. Eppure chiunque abbia un interesse sia pur critico per questi temi non può non sentire il richiamo di queste parole.
La narrazione della Grande guerra in Sardegna ha un sapore nostalgico ed edulcorato e fa parte integrante della poltiglia indigesta che ci è stata fatta ingoiare fin dalla culla. Il mito dei Sardi chiusi, testardi, magari violenti, però ospitali e generosi, pittoreschi e genuini. Ed eroici combattenti. Sa bida pro sa Patria, recita il motto sul gonfalone della Brigata Sassari. La patria in questione naturalmente è l’Italia. Cosa questa mitologia possa aver significato per gli stessi reduci dal conflitto lo sappiamo per via di eccellenti testimonianze.
Gramsci racconta degli incontri con i leader sardisti che accompagnavano la Brigata Sassari a Torino, in missione per sedare le occupazioni delle fabbriche, subito dopo la Prima guerra mondiale. I soldati sardi, per lo più di estrazione rurale, erano convinti che la loro fosse un’azione contro i “signori”: così erano stati loro rappresentati gli operai in sciopero. Il fatto che spesso gli operai delle industrie strategiche fossero stati esentati dall’arruolamento era del resto un ottimo motivo di risentimento. Opportunamente indirizzato, in questo caso. Gramsci, che non si capacitava di tale fraintendimento, non aveva tardato a riconoscerne la matrice nei discorsi dei leader sardisti, fautori di una sorta di nazionalismo minorizzato e populista, sgangherato ma evidentemente efficace.
Naturalmente non c’è solo questo nella storia della Grande guerra nella sua declinazione sarda. Purtroppo però anche a questo proposito bisogna segnalare un pericoloso vuoto storiografico, sia relativamente al periodo che la precedette, sia al suo svolgimento (nelle sue due facce: sul fronte e sull’isola) e sia al periodo immediatamente successivo (che sappiamo quanto sia stato rilevante). L’unico materiale di cui disponiamo, fin troppo largamente, è una letteratura agiografica e celebrativa o al più rivendicazionista dell’epopea sassarina, ben lungi dal rappresentare una ricostruzione serena, onesta e documentata di fatti, circostanze, processi sociali e culturali.
Ma queste sono storie di cento anni fa, si dirà. Va bene, ma dobbiamo pur constatare l’attuale e sempre sollecitato favore per la Brigata Sassari e la retorica militaresca, imperversante e compiaciuta a tutti i livelli; elementi discorsivi spesso utilizzati come armi di distrazione di massa, o come strumenti di egemonia culturale. L’elemento mitologico della Brigata Sassari fa parte integrante del nostro mito identitario. Su questo credo non possano esserci dubbi di sorta.
Il nostro mito identitario contemporaneo è un assemblaggio tecnicizzato utile a garantire la dipendenza e la subalternità della Sardegna, dentro un assetto di forze a cui noi partecipiamo come pedina sacrificabile. Lo ripeto qui per comodità, ma sono questioni su cui in questo blog si possono facilmente reperire approfondimenti, argomentazioni e pezze d’appoggio. Così come nel libro Tutto quello che sai sulla Sardegna è falso. Gli esiti concreti, storici, della persistenza di tale mito sono evidenti.
A questo si aggiunge oggi il pericolo che la crescente consapevolezza della necessità di un processo di autodeterminazione sia pesantemente inquinata da interessi e orientamenti tutt’altro che emancipativi. Sfuggito al recinto della marginalità politica cui sembrava destinato fino a qualche anno fa, il problema della nostra emancipazione economica, culturale e politica è ormai un fattore del “gioco del trono” contemporaneo, sull’isola. La classe dominante sarda e i suoi padroni lo sanno perfettamente. Riuscire a incanalare tale fenomeno complesso, ancora non del tutto definito, dentro una cornice economicamente e socialmente conservatrice sarebbe l’ideale per poterne eliminare gli spunti più liberanti e magari cavalcarlo per promuovere la più classica delle rivoluzioni passive. Un pericolo a cui da queste parti si è accennato più volte.
Bisogna dunque stare attenti all’evidente spostamento verso destra dell’ambito indipendentista, sovranista, neo-sardista. È una deriva che ben si sposa con i movimenti in corso in tutta Europa, così come richiamati da WM1, e per questo ancor più preoccupante.
Certe narrazioni esaltate sul nostro glorioso passato nuragico (vero o presunto), le polemiche a volte morbose intorno ai Giganti di Mont’e Prama, l’insistenza su una mitopoiesi spacciata per riappropriazione della nostra “vera storia” (negata, nascosta, ecc.), ma sempre e solo in riferimento al nostro lontano passato, sono operazioni ben poco spontanee e che rimandano con troppa facilità ad analoghe istanze emerse qua e là sul continente. È tutto materiale da maneggiare con estrema cura e non senza averlo analizzato per bene.
Il che è anche un paradosso, dato che storicamente l’indipendentismo sardo ha avuto più a che fare con i processi di decolonizzazione, con gli indipendentismi mediterranei (prevalentemente di sinistra e antifascisti), con i movimenti per i diritti e per l’ambiente, che con i nazionalismi classici.
Vero è che certe passate comparsate ai raduni della Lega nord di alcuni esponenti piuttosto in vista dell’indipendentismo sardo lasciano intravvedere rapporti duraturi su quel fronte. Così come certa retorica pre-grillina con cui si intendeva presentare l’indipendentismo sardo “moderno” come “né di destra, né di sinistra”. In molti casi lo si diceva “da sinistra”. Ma non sempre e oggi sempre meno.
L’operazione di egemonizzazione destrorsa e reazionaria è tutt’altro che compiuta. Per scongiurarne la riuscita bisogna innalzare la soglia di attenzione e mantenere un forte senso critico su quel che si muove nello scenario politico sardo. Ricordando sempre che siamo nel bel mezzo di una fase storica estremamente difficile, alla quale si può partecipare o nella veste di un soggetto collettivo riconosciuto e dotato di propria voce in capitolo, oppure in quella del mero oggetto storico.
Questa seconda è la nostra condizione attuale, com’è evidente. Non ne usciremo traducendo la giusta e necessaria pulsione dei Sardi alla propria autodeterminazione in un papocchio vetero-nazionalista, nostalgico e reazionario. Il percorso della nostra indipendenza o sarà emancipante, rivoluzionario, dichiaratamente votato ai diritti civili, all’eguaglianza sostanziale, ai beni comuni, alla democrazia, alla relazione pacifica e proficua con gli altri popoli europei e mediterranei, o sarà solo l’ennesima occasione mancata. Se non un precipizio che ci condurrà dalla padella alla brace.
Direi di approfittare di uno sguardo esterno come quello offerto dal libro di WM1 per aggiornare la nostra riflessione sulla Sardegna di ieri e di oggi, sui suoi miti fondativi – specie quelli più evidentemente velenosi – e sulle sue prospettive, tenendo sempre conto di ciò che ci accade intorno e che ci tocca direttamente, che ci piaccia o no.
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Da Panorama, periodico in lingua italiana pubblicato a Fiume/Rijeka, anno LXIII, n. 14, 31 luglio 2015:
WU MING FOUNDATION, UN COLLETTIVO DI ARTISTI SCOMODI
di Stefano Lusa
Hanno scritto uno dei migliori libri italiani dell’ultimo decennio, Manituana, uscito nel 2007, ambientato negli anni trenta del XVIII secolo: un’esaltazione del meticciato, un vero monumento di quello che l’America avrebbe potuto essere e che invece non è stata, ma soprattutto un monito, in tempo di polemiche sull’immigrazione, a non avere paura del diverso.
Wu Ming fin dall’inizio è stato un collettivo di artisti scomodi. Al loro esordio con Q, quando ancora si firmavano con lo pseudonimo Luther Blissett, disertarono il Premio Strega, liquidandolo come “più truccato di Sanremo” ed annunciando, con mesi di anticipo, che lo avrebbe vinto Dacia Maraini. Alla fine andò così.
Hanno la capacità di fare arrabbiare, persino infuriare. Gian Paolo Serino su “Il Giornale” li ha definiti “Venditori di inchiostro al dettaglio (…) un’associazione a delinquere di stampo immaginario”, mentre Libero si è chiesto: “come diavolo scriveranno a dieci mani i favolosi cinque? Capitan Sovietico scrive un capitolo e SuperGuevara un altro? Oppure scrive tutto l’Uomo Maoista e gli altri fanno l’editing?”. Diverso il tono di The Indipendent: “Come facciano questi cani sciolti italiani a ottenere narrativa di tale potenza e complessità da un lavoro collettivo resta un enigma, ma possano i loro tamburi suonare a lungo”.
E i tamburi continuano a suonare; anzi sono sempre più una piattaforma culturale per una sinistra povera di uomini e soprattutto di idee. Intanto loro pubblicano apprezzamenti e soprattutto critiche in bella vista su Giap, il loro seguitissimo
Blog. Un sito, quello della Wu Ming Fondation, che rappresenta un piano letterario in movimento, una critica per nulla remissiva nei confronti dei potenti e dei miti del passato.
Tempo fa hanno fatto andare su tutte le furie i veneziani, per Altai, la storia, ambientata nel 1500, di un ebreo fuggito da Venezia e approdato a Costantinopoli, che sogna di trasformare Cipro in un regno per i suoi correligionari. Ci fu chi tacciò il libro di essere antiveneziano e anticattolico. Libero lo definì “una boiata”.
Un collettivo di sinistra quello di Wu Ming, che non vuole nascondere di esserlo, che non provoca per il solo gusto di provocare, ma che non si trincera mai dietro il paravento dei buonismi e del politicamente corretto.
Le pellegrinazioni artistiche del gruppo nel Nordest non sono nuove. 54, uno dei loro primi libri, narra una complessa storia di bolognesi, comunisti e partigiani, che passa anche da Trieste e dall’ex Jugoslavia.
Nel gruppo bolognese quello che sta riflettendo con più insistenza su quest’area d’Italia è Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui. Una vera e propria passione, per lui, che probabilmente gli deriva anche dai suoi legami famigliari, che spesso lo portano a Trieste.
L’autore, insieme a Roberto Santachiara, in Point Lenana, ha voluto prendere a pretesto la vita di Felice Benuzzi – complessa figura di diplomatico, scrittore e alpinista – per parlare di colonialismo, irredentismo, confine orientale, fascismo e resistenza.
Aperta la strada non sembra voler distaccarsene. Ha scritto spesso di Nordest sul suo blog, parlando di indipendentisti veneti e triestini. Alla fine ha elaborato per il settimanale Internazionale una serie di considerazioni dissacranti e poco ortodosse
per “celebrare” il centesimo anniversario dello scoppio della Grande Guerra. Da questo lavoro, che ha raccolto migliaia di commenti in rete e anche piccate polemiche, ne ha tratto un libro edito da Rizzoli dal titolo significativo: Cent’anni a Nordest – Viaggio tra i fantasmi della guera granda.
Si tratta di una profonda analisi, nata in due anni di viaggi e “infinite discussioni”, una chiara radiografia di quel complesso mondo chiamato Nordest. Zone con confini mobili e popolazione meticcia, aree di grande arretratezza, che in meno di quarant’anni, come è avvenuto in Veneto, sono passate “dalla miseria di una società contadina” ad una “ricchezza perseguita con pochi freni”. Una regione dove se c’è qualcosa che non manca “è la disponibilità a dare tutte le colpe agli ‘altri’”. In sintesi zone dove attecchiscono cripto fascismi, nazionalismi e neoindipendentismi, in cui i ”difensori della patria italiana e i difensori della patria veneta o triestina o tirolese indicano gli stessi nemici esterni. Soprattutto i migranti (…)”
Sono aree in cui si sogna l’aiuto del presidente russo Putin, si teorizzano le sue origini venete e si riscoprono nostalgie per l’Austria-Ungheria. Più ci si avvicina al confine orientale, più la popolazione diventa mista e più affiorano le sue ansie identitarie, che emergono in opinioni nazional patriottiche o in localismi esasperati.
Wu Ming 1 indaga sulle facce oscure del Nordest ed anche sul peso che ancor oggi riveste la prima guerra mondiale, celebrata come compimento finale del grande sogno dell’unità nazionale. Un sogno che ha lasciato sul campo ferite profonde e molti nodi irrisolti. Un conflitto a cui Wu Ming 1 toglie la dimensione patriottica, per esaltare l’aspetto dell’assurda mattanza, per commemorare i disertori ed i fucilati per capriccio dei comandi militari. In sintesi Roberto Bui fa i conti con il nazionalismo italiano aggressivo e militante e i suoi progetti di conquista e di italianizzazione forzata in un area multietnica per vocazione. Un bel libro su cui, però, sembrano pesare le sue frequentazioni triestine, che spesso, nelle più radicali forme di antifascismo militante, fanno fatica a confrontarsi con l’identità anche italiana di quella che fu la Venezia Giulia. Un nome questo che rappresenta una regione di frontiera di grande complessità, che per essere compresa appieno deve fare i conti sia con il nazionalismo e le brame di bonifica etnica italiana, sia con progetti di slovenizzazione e croaticizzazione forzata, celati sotto le insegne della stella rossa.
Un commento di Wu Ming 1
Ringrazio Stefano Lusa per la bella e partecipata recensione, e per il complimento (lui stesso, su Twitter, lo ha definito tale!) che mi ha fatto scrivendo della mia vicinanza agli ambienti dell’antifascismo militante più radicale. Tuttavia, non posso non dire che la parte finale della recensione mi sembra fuori fuoco.
Cent’anni a Nordest indaga un concetto geografico-storico preciso, l’attuale “Nordest italiano”, dove non mi risulta che nessuno abbia cercato di imporre una “slovenizzazione” né una “croatizzazione“. Vanno smontati e combattuti tutti i nazionalismi, anche quelli che in Slovenia e in Croazia si spingono a rivalutare i Domobranci e gli Ustascia, però il mio libro non parla di Slovenia e Croazia, parla dello stato-nazione in cui vivo, e in particolare del suo attuale cantone nordorientale. E per parlare di Nordest è indispensabile raccontare l’italianizzazione forzata dei territori poi divenuti la regione Friuli-Venezia Giulia e la provincia autonoma di Bolzano. Inoltre, sono convinto che ciascuno debba iniziare la critica dai propri miti nazionali e dal proprio imperialismo. Si chiama “critica radicale” perché va alle radici, e le radici dei problemi dell’Italia, c’è poco da fare, stanno in Italia. Di denunciare i razzismi altrui, in fondo, son buoni tutti.
In Italia, fuori da ambiti storiografici specialistici e piccole nicchie militanti, dei crimini dell’imperialismo italiano non sa niente quasi nessuno. Il senso comune sulle terre che stanno a est di Trieste è plasmato, quando va bene, da pastrocchi vittimistici come il Magazzino 18 di Bernas e Cristicchi (spettacolo che sul Panorama fiumano è stato incensato). Peggio ancora se parliamo del colonialismo italiano in Africa. Insomma, il lavoro da fare è tanto, dire che se si parla dell’italianizzazione bisogna parlare anche della croatizzazione è un’indicazione a rischio di benaltrismo, o al meglio di “par condicio”: X lo abbiamo detto, adesso per compensare diciamo anche Y. È una logica nella quale non posso riconoscermi.
Lusa è antifascista e so bene che nelle sue intenzioni non c’è né il benaltrismo né la “par condicio” tra fascisti e partigiani. Anche per questo il suo rilievo nei miei confronti non mi convince. Ci sarà modo di discuterne, magari proprio qui su Giap, magari proprio nello spazio commenti qui sotto.
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MEMORIE SELETTIVE E MATASSE PIENE DI NODI
di Daniele Barbieri, dal suo blog «La bottega del Barbieri»
«Dobbiamo fare i conti con questi intrichi di identità, con le nostre memorie selettive, con matasse piene di nodi»: così Wu Ming 1 in «Cent’anni a Nordest» (Rizzoli: 274 pagine per 17 euri) uscito a giugno e dedicato ad Antonio Caronia.
Se la firma è Wu Ming (in collettivo o singolarmente) i libri sono sempre belli, perlopiù tendenti all’ottimo. Lo conferma questo viaggio nella ragnatela che si avvolge attorno al Nordest.
Si inizia con un cimitero in fiamme (agosto 2013) e con un cimitero «errante» (giugno 2007). Sino all’ultima riga – «Bentornati, fantasmi della diserzione» – non ci si annoia mai. Persino «i titoli di coda» (in sostanza le indicazioni biblio-sito-grafiche, qualche nota e ulteriori suggestioni/provocazioni) non hanno il noioso sapore della pappa per “specialisti”.
E’ un reportage narrativo? O un racconto-inchiesta? O un montaggio di storia, cronaca, mappe e dubbi? La definizione, qui più che mai, interessa zero. La quarta di copertina suggerisce il cammino: «A Nordest il passato si confonde con il presente, tra memorie rimosse ed eredità inconfessate. Così ho deciso di studiare, intervistare, mappare, scrivere».
Nordest vuol dire i luoghi della prima guerra mondiale, «la guera granda, nelle parlate venete». Qui c’è il fiume della retorica, «la Piave» ribattezzato maschio perché gli eroi – si sa – non possono essere femmine. Qui Gorizia, «tu sei maledetta». E qui Caporetto, «o meglio Kobarid». Trento e Trieste, sempre citate insieme pur se sono lontane e diverse. Ed ecco Bolzano «che non era “irredenta” né italiana, ma già che ci siamo prendiamola».
In questo centenario del grande massacro il Nordest è pieno di ambigue, macabre, talvolta fasciopatriottarde “offerte turistiche”.
La pianura veneta – sintetizza Wu Ming 1 (d’ora in poi WM1) – è «divorata dalla psoriasi del mattone e del cemento». In meno di 40 anni «questa terra è passata dalla miseria […] a una ricchezza perseguita con pochi freni», al leghismo-razzismo, alle spinte secessioniste. A me torna sempre in mente l’esplosivo mix di soldi e ignoranza cantato dai Pitura Freska per spiegare come/dove nascono i Pietro Maso.
«Suolo e sangue. Blot und Boden»: da queste parti, più che altrove, torna a risuonare l’antico, terribile; commenta l’autore, citando Karl Kraus, «l’unione di sangue e terra provoca il tetano». La prima parte del libro si muove fra indipendentismi, austronostalgie, «mitologie tossiche» (e perlopiù inventate). Molta merda, tanto kitsch e dunque torna utile a WM1 la definizione di kitsch che venne proposta da Milan Kundera: «Un mondo dove la merda è negata e dove tutti si comportano come se non esistesse».
Ma ogni tanto, nelle pieghe del passato inventato, affiora anche qualche complicata verità: a esempio, «con l’annessione all’Italia, Trieste non sembra aver fatto un buon affare». Muovendosi – 100 anni dopo – fra le spinte “identitarie” di Trieste incontreremo persino Bruce Springsteen: una grottesca vicenda del giugno 2012.
Attenzione: «la nostalgia per gli Asburgo può nasconderne una più lercia: quella per le SS». Pochi lo ricordano ma «dal 10 settembre 1943 al 1 maggio 1945, con la creazione della Zona Operazioni Litorale Adriatico, de facto Trieste fu annessa al Terzo Reich». E c’è oggi chi rivendica quei “bei tempi”.
In molti punti il reportage di WM1 deve fare i conti con l’assurdo. Per citarne solo due.
La rivendicazione di un Putin dalle origini venete tocca i vertici della insensatezza. I dettagli sono importanti. E allucinanti. Visto che la desinenza “in” è «tipicamente veneta», alla fine WM1 taglia corto: «Vero. Lenin era di Montebelluna, Rasputin di Monselice, Gagarin di San Donà di Piave».
Pazzesca è anche la vicenda del fascistissimo fregio dello scultore Giovanni Piffrader che, dopo 70 anni di repubblica nata dall’antifascismo, è ancora lì a Bolzano, in bella vista, con «il motto CREDERE OBBEDIRE COMBATTERE» (e anzi i lavori non erano finiti perciò si provvide a sistemare l’opera nel 1957, «in occasione di una visita del presidente Gronchi»).
«Si fa presto a dire Nordest» ma – spiega WM1 – quelle tre regioni sono diversissime fra loro.
«Non parleremmo di “Nordest” senza la Prima guerra mondiale. Il Nordest è il prodotto di quella guerra che operò una cesura irreversibile […] Il Nordest è figlio della guera granda in ogni suo aspetto a cominciare dal paesaggio». Di nuovo, con bravura, Wu Ming 1 intreccia passato e presente: a esempio tentando di rispondere a una ben scomoda domanda, ovvero come mai nel Trentino e Alto Adige (dove «c’è un Welfare che altrove te lo sogni») «ci si ammazza più che altrove?».
Dopo aver ragionato sul mito degli Alpini e degli Schutzen, sulle «due destre» e sulla memoria antimilitarista che ogni tanto riaffiora, il libro prova a fare i conti con alcuni nodi – «vanno sciolti con pazienza, uno a uno» – del passato, chiedendosi se «il centenario della Grande guerra, coi suoi 4 anni di ricorrenza» potrebbe essere un’occasione per un ragionamento collettivo. (A parer mio è una domanda retorica se rivolta alle istituzioni ma serissima se la consideriamo l’invito a un brainstorming popolare).
I grandi cimiteri nazionalisti e fascisti. O il Carso, «che in tedesco si chiama Karst, in sloveno Kras». Ronchi che usa il suffisso «dei Legionari» ma qualcuno vorrebbe ribattezzare «dei partigiani». Le infamie di Cadorna, di Andrea Graziani, del Duca d’Aosta. Le fucilazioni sommarie di Villesse, di Cervicento, di … («durante la guerra si svolsero ben 162.563 processi» per diserzione). Il «monumento al disertore di tutte le guerre» a Rovereto (nel novembre 2004). Ma anche il presidente Napolitano che elogia «il superiore senso dello Stato» del fascista Giorgio Almirante. L’oggi degli aerei da guerra F 35. Il cambio di nome a Udine del «piazzale Cadorna» nell’agosto 2011… Sono alcune tappe del viaggio di Wu Ming 1.
Storie sepolte: dalla retorica e dalla censura più che dal tempo. Ma che qualcuno oggi racconta. Come l’attore e regista Alessandro Anderloni: come il drammaturgo Massimiliano Speziani; come – aggiungo io – la lettura «Ancora prigionieri della guerra» (*). Come questo libro importante, anzi indispensabile. «Perché diserzione e disobbedienza non sono “acqua passata sotto i ponti” ma domande poste al presente, a chi vuole fare la guerra oggi».
(*) Essendo parte in causa (co-autore con Francesca Negretti) non mi dilungo sulla lettura «Ancora prigionieri della guerra»; chi vuole saperne di più troverà informazioni qui in “bottega”.
(**) Questa sorta di recensione va a collocarsi nella rubrica «Chiedo venia», nel senso che mi è capitato, mi capita e probabilmente continuerà a capitarmi di non parlare tempestivamente in blog di alcuni bei libri pur letti e apprezzati. Perché accade? A volte nei giorni successivi alle letture sono stato travolto (da qualcosa, qualcuna/o, da misteriosi e-venti, dal destino cinico e baro, dalla stanchezza, dal super-lavoro, dai banali impicci del quotidiano +1, +2 e +3… o da chi si ricorda più); altre volte mi è accaduto di concordare con qualche collega una recensione che poi rimaneva sospesa per molti mesi fino a “morire di vecchiaia”. Ogni tanto rimedio in blog a questi buchi, appunto chiedendo venia. Però, visto che fra luglio e agosto ho deciso di recuperare un bel po’ di queste letture e di aggiungerne altre, mi sa che alla fine queste recensioni recuperate e fresche terranno un ritmo “agostano” quasi quotidiano, così da aggiornare in “un libro al giorno toglie db di torno” quel vecchio detto paramedico sulle mele. D’altronde quando ero piccino-picciò e ancora non sapevo usare bene le parole alla domanda «che farai da grande?» rispondevo «forse l’austriaco (intendevo dire “astronauta” ma spesso sbagliavo la parola) oppure «quello che gli mandano a casa i libri, lui li legge e dice se van bene, se son belli». Non sono riuscito a volare oltre i cieli, se non con la fantasia; però ogni tanto mi mandano i libri … e se no li compro o li vado a prendere in biblioteca, visto che alcuni costano troppo per le mie attuali tasche. «Allora fai il recensore?» mi domandano qualche volta. «Re e censore mi sembrano due parolacce» spiego: «quel che faccio è leggere, commentare, cercare connessioni, accennare alle trame (svelare troppo no-no-no, non si fa), tentare di vedere perché storia, personaggi e stile mi hanno catturato». Altra domanda: «e se un libro non ti piace, ne scrivi lo stesso?». Meditando-meditonto rispondo: «In linea di massima ne taccio, ci sono taaaaanti bei libri di cui parlare perché perder tempo a sparlare dei brutti?». (db)
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Segnaliamo la videorecensione di Cent’anni a Nordest realizzata da Pietro Amati per la rubrica «Nero su bianco: libri a confronto”, in onda sulla web-tv Seregno TV.
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UN VIAGGIO LUNGO E STRANO, SENZA TIMORE DEI FANTASMI
di Franco Berteni (Mr. Mills), dal suo blog «This Machine Kills Fascists»
Il racconto-inchiesta di Wu Ming 1 è presentato, nella dedica ad Antonio Caronia, come atrocity exhibition. Nel secolo che vi è raccontato dal punto d’osservazione di quello che fu prima nominato le Tre Venezie, successivamente Triveneto e che oggi indichiamo come Nordest, cent’anni fa le atrocità furono quelle della guera granda, che con ipocrita grandeur la retorica patriottarda insinuata nel discorso pubblico si ostina a nominare Grande Guerra. Cosa possa esserci di grande in una guerra è difficile da immaginare, l’unica grandezza che possiamo misurare di quegli eventi, che secondo Wu Ming 1 rappresentano l’origine stessa dell’identità di quella porzione di territorio italiano che conosciamo come Nordest, è il numero delle morti causate dall’assurdità della guerra e dal nazionalismo, dalla follia di chi diresse le operazioni belliche spingendo al massacro migliaia di ignari uomini fatti soldati. Così è che di questo viaggio lungo e strano che come lettori ripercorriamo nelle pagine del libro i cimiteri abbondano, ché l’autore non è tra quelli che affrettano il passo attraversando i cimiteri, e preferiscono parlare di teatro piuttosto che d’inferno: la narrazione prende avvio dalla descrizione della performance di Alberto Peruffo intitolata The Burning Cemetery, rappresentazione di un cimitero in fiamme che ricorda i 41 cimiteri che erano disseminati sull’Altopiano dei Sette Comuni, prima linea del confine italo-austriaco durante la Prima guerra mondiale; ci si sposta poi in visita al cimitero di guerra austro-ungarico di Prosek/Prosecco e varie pagine sono dedicate al sacrario di Redipuglia, un immenso ossario che è un esempio concreto di quella che Mark Thompson, nel suo La guerra bianca, chiama «teologia surrogata».
A partire da ognuno di questi luoghi l’esplorazione corre avanti e indietro nel tempo, si sposta seguendo i punti cardinali nella geografia del Nordest, nel tentativo di comprendere come gli eventi accaduti un secolo fa influenzino ancora oggi un’identità che non si esaurisce nella dimensione locale, poiché ciò che è il Nordest per gli italiani – immagine parziale, acritica e omogeneizzante – di ritorno plasma la costruzione dall’alto della “identità nazionale”. Cent’anni a Nordest non affronta solamente il tentativo di costruzione di un’identità nazionale in cui «il passato è una sorta di pappa omogeneizzata» – come ebbe a dire Furio Jesi interrogato sulla caratteristica peculiare della cultura di destra – ma le tendenze del populismo xenofobo e identitario europeo di cui queste aree sono un laboratorio, proprio a partire dal ruolo e soprattutto dai rimossi attinenti la guera granda: l’esempio più significativo è il caratteristico «mélange di austronostalgia e putinismo [che] caratterizza tutti gli indipendentismi dalla riva veneta del Po ai confini con Tirolo, Carinzia e Slovenia.»
Un mélange questo che è culto della tradizione – poco importa se quest’ultima è artificiosamente modellata (quale tradizione non lo è?), se il risultato è un insieme di messaggi e discorsi inconciliabili e contradditori – in cui si sfonda il limite del ridicolo arrivando a identificare presunte origini venete dello stesso Putin, ma anche del folkloristico, quando aree dell’indipendentismo veneto e della galassia rosso-bruna russa si saldano sulla base di una pseudo-teoria “venetica” alla ricerca delle medesime origini pre-indoeuropee. Una fascinazione nei confronti di questo discorso, che decostruito risulta essere una stratificazione di suggestioni, caratterizza altri movimenti indipendentisti come il TLT – Movimento Trieste Libera, oppure a Trento e Bolzano – nelle provincie autonome di – nell’area culturale impegnata a costruire una cornice di discorso che riaffermi una comune “identità tirolese”. Al netto di quello che viene affermato nelle presentazioni e nei discorsi ufficiali, quello che accumuna questi som-movimenti è un identitarismo spinto – che al grado zero si definisce sull’uscio della propria casa – con il relativo portato di xenofobia e il dito indice sempre puntato minacciosamente verso qualche capro espiatorio – Le nutrie! I clandestini! È colpa delle nutrie clandestine!
I fantasmi della diserzione sono le entità evocate nell’ultima parte del libro, quella schiera di renitenti, disertori e insubordinati che cercarono di sottrarsi all’abominio della guera grande, particolarmente numerosi sul versante italiano del fronte e che furono in molti casi passati per le armi dai solerti carabinieri senza processo o dopo processi farsa. Se il loro ricordo e le ragioni del loro agire sono mistificati nella retorica ufficiale, i generali – in primis quel Luigi Cadorna che inettamente spinse all’inutile carneficina migliaia di uomini – ancora oggi sono celebrati in ogni città d’Italia con piazze e vie che portano il loro nome. Oggi, negli ultimi anni, la messa in discussione di questi tributi sembra avviarsi proprio dal Nordest, mentre a partire dal recupero delle storie personali di renitenti e disertori le tragiche vicende del fronte italo-austriaco trovano l’occasione per assumere la profondità e la complessità che gli sono state per un secolo negate nella memoria pubblica. Possono sembrare inezie queste risposte immunitarie se confrontate con il panorama socio-culturale esplorato pagina dopo pagina in questo Cent’anni a Nordest, narrazioni ancora minoritarie che hanno l’arduo compito di contrastare narrazioni tossiche sedimentate in decenni; ma è il primo passo, il primo rifiuto di una narrazione che ci cammina sulle teste, proprio come fu il rifiuto di quei fantasmi della diserzione che nelle loro scelte guardarono al futuro e che dai cimiteri oggi rappresentano un’esortazione a fare altrettanto.
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*** Il tizio non sappiamo chi sia, né perché dica che su Giap il suo IP è bannato. Boh. Ognuno si vanta di quel che gli pare.
E’ evidente che le nostre prospettive sono diverse. La sensazione che ho provato quando ho letto il tuo articolo su Internazionale e che ci fosse una certa difficoltà a confrontarti con il carattere anche italiano della Venezia Giulia, soprattutto di quella parte che poi è passata, dopo la Seconda Guerra mondiale, in amministrazione jugoslava. Quello che volevo dire io era che per capire veramente un’area complessa come quella della ex Venezia Giulia, di cui tu parli ampiamente nel libro, era necessario fare i conti con tutti i nazionalismi.
P.s. Immagino che né io né te concordiamo sempre su quello che scrivono i giornali e le riviste dove i nostri articoli vengono publicati.
Stefano, il carattere italiano della “Venezia Giulia” è praticamente l’unico di cui si parla qui da noi, nel Regno d’Italia, da più di cento anni. È quello che ci hanno insegnato alle elementari, “terra nostra”, la Grande guerra, Trieste… Che quella terra abbia anche altri nomi in altre lingue è un non-detto tra i tanti. Gli unici crimini sul confine orientale di cui si parla nel mainstream sono quelli (reali e presunti) dei “titini”, perché l’unico annessionismo di cui è lecito parlare è “l’annessionismo slavo” su cui martellava molto il Quirinale nello scorso settennato. L’invasione della Jugoslavia da parte dell’Italia nel 1941 è un rimosso. La narrazione dominante sul confine orientale è italocentrica (e spesso italo-suprematista) su tutti gli aspetti e a tutti i livelli.
Come minoranza italofona in Slovenia e Croazia avete tutto il diritto, e il dovere, di opporvi ai nazionalismi sloveni e croati. Noi che viviamo nella stragrande maggioranza italofona in un’Italia priva di memoria e di consapevolezza, satura di narrazioni deresponsabilizzanti e di retaggi fascisti, attraversata da razzismi, abbiamo il dovere di decostruire il discorso dominante che ci soffoca. È *questa* priorità che esprime il mio lavoro.
P.S. La notazione su Cristicchi e Panorama non voleva chiamare in causa te, ma dire en passant che la narrazione à la Cristicchi non fa presa solo qui ma anche tra gli italiani tuttora viventi in Istria.
Beh, visto che siamo spesso e volentieri d’accordo, questa volta possiamo concludere che siamo d’accordo di non essere d’accordo! -)
Ma che stavolta non siamo d’accordo era la premessa, mica la conclusione :-)
Vorrei segnalare un contributo di qualità, da una tribuna di qualità:
http://www.huffingtonpost.it/paolo-romani/post_9882_b_7992600.html
Roba seria, guardate l’autore: è l’imprenditore che mise in luce le sue qualità con Colpo Grosso, sino ad ottenere importanti incarichi di governo. Uno che di buoni sentimenti se ne intende.
Qualche ora fa in prima pagina di Repubblica e dell’HP.
Ecco, appunto. Questa è la sbobba di regime e di stato nel Regno d’Italia. Sembra un discorso della ministra Pinotti. E si legge e ascolta pure di peggio. Se mi si dice “Non ti occupi della croatizzazione”, non posso che rispondere facendo notare a quali bassezze si collochino, qui da noi, la consapevolezza storica, la conoscenza del ruolo imperialista dell’Italia nella prima metà del XX secolo e la percezione di quali conseguenze le contraddizioni generate allora continuino ad avere sulle nostre vite oggi.
Però mi sembra interessante leggere i commenti, la maggior pare evidenzia come quell’articolo altro non sia che un concentrato di retorica sostanzialmente neofascista (anche se c’è pure uno che lo fa da un punto di vista “francescogiuseppista”). Mi sembra interessante perché mi pare sintomo di un minimo di diffusione della consapevolezza dei danni che quella retorica ha fatto e può fare.
Nel post ci siamo scordati di ringraziare Francesco di Radio Fragola (Trieste), che ha lavorato sulla registrazione ambientale e ne ha migliorato la resa.
A parte ringraziare doverosamente per il rilancio del pezzo, vorrei segnalare due cose ulteriori.
La prima è che una certa qual passione per Putin si sta facendo strada anche in Sardegna, sia negli ambienti più o meno rossobruni, sia in una certa area dell’indipendentismo (a quelli contigua), sia anche in alcuni settori della sinistra extrapartitica, anti-atlantista (diciamo così). Per dire che il fenomeno è piuttosto ampio.
La seconda è un fatto, sul quale vorrei fare delle verifiche, perché mi sembra oltremodo inquietante. Nei giorni scorsi c’è stata la commemorazione dell’eccidio di due carabinieri, avvenuto vent’anni fa in quel di Chilivani (SS). L’episodio di cronaca rimane tuttora avvolto in una nebbia di interrogativi irrisolti, ma rimane un fatto di sangue piuttosto cruento, che a suo tempo suscitò molto scalpore. Ebbene, pare che nel corso della commemorazione dei due militari sia stata eseguita la Canzone del Piave.
Da veneto di montagna trasferito in Sardegna trovo molti spunti, per ora mi limito a un breve aneddoto di quest’anno. Qui, ad Alghero, il 25 aprile – oltre alla conclusione del corteo davanti al monumento che commemora i caduti delle due guerre (repubblichini, aggiunti vicino ai partigiani, compresi) mentre Fertilia per l’occasione festeggia San Marco – la Canzone del Piave insieme all’inno di Mameli batteva Bella ciao (non più bandita come qualche anno fa) e Fischia il vento almeno 4 a 1: ripetuta di fronte a ogni monumento dedicato ai combattenti (dell’aria, del mare, ecc.) e per il gran finale. A me è sembrato molto grottesco, sebbene non incomprensibile e un po’ (troppo) familiare, e gli intrecci con le vicende di Cent’anni a Nordest continui e molteplici.
Mi inserisco nel flusso per segnalarvi alcune piccole crepe fresche di giornata nel mantenimento del mito nord-est.
Tensioni tra Lega e basso clero ci sono sempre state in questi anni, senza quasi mai coinvolgere le gerarchie ecclesiastiche, soprattutto a causa dell’umanità stitica degli amministratori leghisti.
Le cose sono cambiate da qualche giorno, coinvolgendo la CEI e i vescovi in genere, e l’inimicizia ieri si è manifestata diretta dove più fa male e dove meno te la aspetti: nei riti di appartenenza.
http://www.ilgazzettino.it/NORDEST/TREVISO/censura_cison_valmarino_alpini_polemiche/notizie/1518813.shtml
La “preghiera dell’alpino” è molto importante (per gli alpini) e non è chiaro quale versione pretendessero gli alpini a passo San Boldo, probabilmente la più vecchia, che è appunto uno dei pilastri del “mito”, quella che recita:
“fa che le nostre armi siano infallibili contro chiunque osi offendere la nostra Patria, la nostra millenaria civiltà, la nostra bandiera gloriosa”.
http://www.noialpini.it/preghiera_1946.htm
Insomma, un prete giovane ha lavato la bocca agli alpini col sapone. Non capita tutti i giorni.
e siccome tutto si tiene… non poteva mancare la presa di posizione di fabio tuiach
https://twitter.com/monster_chonja/status/633870403291770880?lang=it
Sulla “preghiera dell’alpino” e sulla vicenda “censura” a Vittorio Veneto segnalata da @Franti vale la pena spendere qualche parola in più. Se i toni con cui viene riportata la notizia dai media sono quelli da scudi alzati a difesa degli alpini dell’A.N.A., cercando qualche informazione in più in rete l’episodio si sgonfia e rimangono le “sparate” dei Salvini e de Il giornale. Il giovane prete non avrebbe censurato nulla – questo è confermato anche da una nota del direttore della rivista L’alpino e dalle dichiarazioni del vescovo di Vittorio Veneto e Sacile – ma avrebbe chiesto di sostituire due passaggi del testo che sarebbe dovuto essere letto prima del termine della funzione religiosa. Le parola che si chiedeva venissero sostituite erano “armi” con “animi” e “contro” con “di fronte”, il risultato sarebbe stata una versione semplicemente meno “bellicosa”. Gli alpini non hanno accettato e il risultato è stato che la loro preghiera è stata recitata dopo la funzione religiosa fuori dalla chiesa, finita qui. Inizia qui invece la polemica, evidentemente pretestuosa, oltre che costruita su fatti “gonfiati” da un certo pseudogiornalismo: si usa questa vicenda per attaccare sulla questione migranti, che nulla centra. A nessuno è invece passato per la testa che il testo di questa preghierina – che recita “rendi forti le nostre armi contro chiunque minacci la nostra Patria, la nostra Bandiera, la nostra millenaria civiltà cristiana” – possa risultare disturbante perché trasuda un nazionalismo di cui, nel 2015, proprio non se ne sente il bisogno; una narrazione da “dio – patria – famiglia” che sembra abbia attraversato il Novecento con un salto a piè pari cancellando un secolo di storia, autoassolvendo gli Alpini da vicende che hanno segnato la loro storia perché, forse è il caso di ricordarlo come fa Wu Ming 1 nel suo libro, le armi non sono state usate solo per difendersi contro “chiunque
minacci la nostra Patria”, ma anche in chiave offensiva.
La “preghiera dell’alpino” è stata modificata varie volte, la prima nel 1949 quando vennero cancellati i riferimenti al duce e al re, poi altre volte. Attualmente – da una veloce ricerca – pare che le versioni che possono essere recitate siano due, a seconda dell’esclusiva presenza di iscritti all’A.N.A. o meno ad una cerimonia.
Questo per dire che a partire anche da qui, dall’evoluzione di questo testo, la storia delle penne nere risulta meno liscia di come viene rappresentata sotto la luce monocromatica del discorso pubblico egemone, in cui sono rappresentati esclusivamente come benefattori, senza macchie a inquinare il loro passato.
Come scrive Wu Ming 1 in Cent’anni a Nordest «Quest’oleografia nasconde troppe cose» – i magna i beve i fa del bén –, sarebbe per tutti salutare lavorare a smontare il discorso agiografico attorno agli alpini.
Caspita questa della preghiera è, spero di non essere equivocata, una censura abbastanza strabiliante. “Armi” che diventano “animi” ce ne vuole. Ma pure la doppia versione non è male, quella per gli adepti e quella per tutti. Alla fin fine, capisco se il prete non se la sentiva di pronunciarla in quel modo, eppure, un cambiamento così profondo di significato ricorda che ne so, l’espurgazione dell’Indice. Tento di spiegare: o un testo viene sul serio rivisto e abbandonato nei suoi aspetti insostenibili in modo aperto e ufficiale, o operazioni del genere lasciate ai singoli, per di più preti, mah, meglio sarebbe evitare proprio di pronunciare la preghiera invece di political correctlyzzarla a forza: se la dicano da soli, dato che è storicamente quella che è, travestirla è un falso. Insomma se la battono due oppressioni, la chiesa sulle menti e i guerrieri sui più deboli. Scegliere tra l’una e l’altra, scelta non è.
Giusto per precisione. «”Armi” che diventano “animi” ce ne vuole», ma neanche troppo essendo che la frase precedente della stessa preghiera termina con “armati di fede e di amore”, che sarebbero quindi le armi degli alpini. Peccato che storicamente e per definizione il corpo di un esercito di armi ne utilizza altre, ma questo è un altro discorso… anzi, è il discorso che a me interessa e in cui ho cercato di inserire questa vicenda: il discorso agiografico attorno agli Alpini, difeso a destra e a manca, che viene servito sempre allisciato, senza ombra di pieghe.
Poi la destra fascia e patriottica vince sempre nei toni, tanto che mi è capitato di leggere a proposito della preghiera dell’alpino che «fa parte del patrimonio culturale, patriottico e tradizionale non solo degli alpini, ma dell’Italia tutta. Una preghiera il cui testo è capace di lasciare un segno anche negli animi meno sensibili.» E qua dovrebbe scattare una sonora pernacchia…
Ovvio, le armi della retorica parlano sì di fede e amore, ma quando si va in guerra si benedicono altre armi. Rientra in una normale propaganda questo. E senza voler parlare di cultura dell’Italia tutta! (ohibò), è innegabile che riti e subculture militari ufficiali, parafrasate magari da quelle di destra, esistano e la benedizione delle armi deve farne parte dall’epoca della caccia al bufalo, almeno (che era altra cosa, certo). Insomma un discorso da smontare, ma pure da analizzare, nei suoi rapporti con il potere e il mito militare. Da qui al condividere ovviamente ce ne corre.
Gli Alpini sono soldati e come tutti i soldati in guerra hanno scelto di fare innanzitutto quello che gli viene ordinato di fare, che non è protezione civile. E’ vero d’altra parte che il rapporto che hanno con il territorio e le comunità in certe zone è diverso da quello che possono avere altri corpi. Forse in un certo senso hanno mantenuto, riciclandolo però sul popolaresco e l’aiuto più o meno spicciolo, un po’ del pittoresco che potevano avere un tempo i militari di guarnigione nelle piccole città, quel lato parata, nastri, pennacchi e animazione che costituiva anche un’attrazione, per quanto questo possa sembrare orribile. Questi aspetti contrastanti pongono appunto un problema interessante da indagare, perciò, buona idea e buona fortuna!
P.S.: e un’altra cosa che incuriosisce sarebbe indagare i rapporti tra un corpo come gli Alpini o meglio i suoi membri, e la destra, rispetto ad altri corpi, come i parà o i carabinieri. Non so se sia mai stato fatto.
Ciao a tutti, ho letto con attenzione la ricostruzione storica di “cent’anni a Nordest” ed ho apprezzato l’osservare le vicende sul confine per parlare dell’Italia tutta. Vi scrivo perché vorrei sottoporvi una nuova “inquadratura” sul concetto di nostalgia. Provare ad osservare cosa succede nel Paese dove vivo, il micro Stato di San Marino racchiuso dall’Italia, come dovessimo guardare dentro uno strano ‘microscopio del tempo’. Ebbene, da tempo a San Marino ormai sono finiti i giorni del “paradiso fiscale” dove circolavano valanghe di denaro, anche di dubbia provenienza, dove tutti erano abbondantemente comodi ed accomodanti. La cinghia si è stretta, lo Stato ha tirato i remi in barca ed è arrivata la “crisi” (ed una tangentopoli tutt’ora in corso). In questa crisi è rinato un sentimento che potrei definire un misto tra orgoglio e nostalgia dei tempi in cui c’era il trenino Bianco Azzurro.
La costruzione della linea fu completamente finanziata con capitali pubblici italiani dal governo fascista di Benito Mussolini dopo che era stata stipulata, il 26 marzo 1927, una convenzione di esercizio fra i due stati; i lavori per la sua costruzione iniziarono il 3 dicembre 1928 e la ferrovia venne inaugurata il 12 giugno 1932. La vita della piccola ferrovia internazionale fu molto breve: danneggiata in parte dal Bombardamento di San Marino del 26 giugno 1944, dal 4 luglio 1944 non effettuò più servizio regolare, e l’ultima corsa si effettuò il 4 luglio 1944 con un treno che trasportava sfollati da Rimini.
Qualche anno fa è stata istituita l’associazione “Associazione Trenino Bianco Azzurro” per il recupero di alcuni vagoni dalle gallerie abbandonate, operazione di grande rilevanza per la nostra comunità, quel treno/simbolo era ed è ancora molto sentito. L’Associazione, assieme ad alcune Segreterie di Stato (i nostri ministeri), hanno finanziato un “docu-film”: Tutta la storia del treno bianco azzurro, tutto tranne che un documentario, è più una celebrazione retorica del mito dell’uomo solo al comando.
A guardare il film si nota subito un lento ma inesorabile tentativo di far passare nel Paese certe rimozioni storiche con naturalezza, un’insensata voglia di revisione storica che in molti animi cova ancora e nemmeno troppo in profondità qui nell’Antica Repubblica. Nella pellicola, Benito Amilcare è ritratto come un solitario, candido visionario “uomo della provvidenza”, rimuovendo tutta la visione critica sul personaggio storico ed una visione da ‘fascismo buono’ che a San Marino ha costruito niente di meno che la ferrovia. L’intento è chiaro, come avete evidenziato più volte nei vostri passaggi su Giap, rendere il passato una “pappa omogenizzata” come direbbe Furio Jesi. Ora, vista in questi termini la questione potrebbe sembrare più un goffo tentativo, macchiettistico, di rievocare un passato ormai defunto rapportandolo a ciò che sta montando sul confine a Nordest. Ecco però un altro tassello che mi ha mosso a scrivervi.
Nel nostro ordinamento è presente un istituto di democrazia diretta chiamata “Istanza d’Arengo”, una sorta di petizione popolare dove i cittadini presentano richiesta di “pubblico interesse” direttamente ai Capitani Reggenti ( i nostri due Capi di Stato che vengono eletti ogni 6 mesi). Le istanze depositate giudicate ammissibili vengono discusse e votate obbligatoriamente dal Consiglio Grande e Generale (Parlamento) entro il semestre di durata in carica della Reggenza che ha ricevuto le istanze.
Ebbene è stata presentata l’istanza n.1 del 05/04/2015 di richiesta di Abrogazione della legge n.24 del 29 Agosto 1950 e pubblicata il 1° Settembre del 1950 “Per la difesa della Repubblica”. Si chiede, di fatto, di abolire la legge che vieta la riorganizzazione del Partito Fascista e sancisce il reato di apologia del fascismo. Il firmatario (basta anche una sola firma per la presentazione) chiede l’abrogazione perché la legge è in contrasto con la dichiarazione dei diritti dei cittadini e dei principi fondamentali dell’ordinamento sammarinese ed in contrasto con la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Onu). Credevo di essere di fronte ad uno scherzo di pessimo gusto (oppure ad una persona con turbe mentali) ma l’Istanza è stata ammessa (pubblico interesse?) e verrà discussa in una seduta del CGG a Settembre, in diretta streaming.
Che dire….?
Update su quanto avevo scritto:istanza discussa la settimana scorsa in aula, bocciata all’unanimità. Ovviamente per chi tempo fa difendeva l’istanza come ‘libertà d’espressione’ ora ha ovviamente criticato la discussione in aula come inutile perdita di tempo perché i problemi sono ben’altri.
[…] possibile ascoltare in streaming o scaricare l’audio di quella serata in questa pagina di Giap, il blog dei Wu Ming. Se volete saperne di più sul libro leggete la mia recensione che potete […]
segnalo un episodio accaduto in questi cent’anni a nordest che secondo me meriterebbe di essere investigato e raccontato. Io mi sono imbattuto quasi per sbaglio nella pagina di wikipedia e ve lo segnalo. è una storia di rivolte contro l’autorità religiosa, di preti partigiani considerati taumaturghi, di pope ortodossi, futuri papi, prostituzione, droga, incendi, riti bizantini e riti nestoriani nella provincia di treviso. c’è materiale sufficiente per un best seller o per un “pellegrinaggio molotov”.
https://it.wikipedia.org/wiki/Scisma_di_Montaner
[…] Cent’anni a Nordest nei luoghi del libro. Nel ventre della bestia, appunto. Il giro è iniziato a Trieste ed è finito a Trento, non a caso… Al CSA Bruno, in una sala affollatissima, a dialogare con […]