Debunking di un «infame mantra». Un articolo di Wu Ming 1 su Internazionale.
N.B. Apriremo i commenti su Giap dopo il 2 novembre 2015 (quarantennale dei sorrisetti qui sopra) per consentire una lettura ragionata e, nel caso, interventi meditati e pertinenti.
N.B.2. (in forma di tweet incorporato)
Il presidente della Puglia @micheleemiliano ci insulta perché abbiamo corretto sue citazioni sbagliate di #Pasolini. pic.twitter.com/Tm17G2sVZb
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) 1 Dicembre 2015
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Apriamo i commenti, non senza una considerazione che sale dalle viscere.
Questo 40ennale è stato il peggiore degli anniversari a cifra tonda della morte di Pasolini. La santificazione, l’edulcorazione, la “francescanizzazione” hanno toccato vette mai raggiunte prima. Milioni di tonnellate di zucchero di regime. La differenza con il 2005 non è solo quantitativa, ma qualitativa, nel senso che sono diverse le caratteristiche e modalità della celebrazione. Dieci anni fa non c’erano ancora i social network e – in termini di ridondanza – lo scarto si è visto.
Si è visto nel male e nel bene, perché senza i social network non ci sarebbero state altre voci, altre ricostruzioni a erodere dal basso quelle ufficiali e nazionalpopolari.
I social network, ovviamente, esaltano anche i narcisismi bastiancontrari, perché il dispositivo delle “microcelebrità” induce a dire comunque qualcosa, non si può stare zitti durante uno pseudo-evento, ne va della propria reputazione di micro-opinionisti!, e dunque c’è chi ha scelto la facile iconoclastia, confondendo Pasolini con il suo mito tecnicizzato e coprendolo di insulti. Buffo che ci si creda anticonformisti riproponendo, mezzo secolo dopo, l’armamentario retorico della stampa di destra che linciava Pasolini, compresa quella sigla quaternaria, “PPPP” (Pier Paolo Pasolini Pederasta) inventata sulle pagine de “Il Borghese” (da Guareschi in persona, a quanto sembra).
Poi ci sono stati i compagni più compagni de tutti che si sono bevuti fino all’ultima goccia la panzana di Pasolini “che stava con le guardie” e hanno alimentato – da destra, credendo di farlo da sinistra – la leggenda d’odio.
Poi ci sono stati quelli che “Pasolini ha detto tutto e il contrario di tutto”, una supercazzola utile a rimuovere il dato di fatto che alcune cose – tra le più importanti – le ha dette sempre, dagli anni Cinquanta fino alla morte. Una di queste è la condanna della violenza poliziesca. Non è un buon modo di vagliare criticamente i suoi testi mettere sullo stesso piano l’occasionale e il basilare. Pasolini ebbe torto, nel merito e nel metodo, su diverse questioni, ma dipingerlo come un arruffone, uno che colpiva qui e là come gli capitava, impedisce di vedere la precisa linea di parresìa mantenuta fino alle fine, e lo sforzo di dare coerenza alla propria elaborazione teorica (si vedano gli scritti raccolti in Empirismo eretico, il suo libro meno citato in questi giorni).
Nello scrivere l’articolo poi apparso su Internazionale mi sono dato uno scopo molto preciso, e un focus da mantenere a ogni costo: ricostruire i rapporti reali e concreti tra Pasolini e le forze dell’ordine, facendo parlare le sue stesse parole e il suo cursus giudiziario, per smontare le falsità usate come pezze d’appoggio dai supporter del manganello. Volevo scrivere il testo da linkare ogni volta che qualcuno intona l’infame mantra.
Per far questo, era necessario ricostruire, almeno per sommi capi, una realtà che oggi, da dentro la giungla di zucchero filato, sfugge: che immagine aveva Pasolini nel media landscape e nella cultura di massa di quegli anni?
Non è solo lo zucchero filato a obnubilare e generare equivoci. C’è anche il falso mito, inventato negli anni novanta, della lunga “egemonia culturale della sinistra”. Condizione mai esistita, se per cultura non intendiamo ristrette cerchie di artisti ma i mezzi audiovisivi di massa e la pubblicistica che entrava in tutte le case (vedi la nota 14 a questo post). L’Italia che linciava Pasolini presentava, a ogni livello, forti elementi di continuità con il ventennio fascista. Molti di questi elementi sono ancora qui, e alcuni sono più forti di prima, visto che nel frattempo sono collassati alcuni argini, soprattutto nel mondo del lavoro.
Il mio testo apparso su Internazionale è stato molto condiviso in rete e sta circolando tantissimo. Spero di aver mantenuto il focus dall’inizio alla fine. Spero che leggerlo, per molti/e, sia stato liberatorio come è stato liberatorio scriverlo. Spero che d’ora in avanti sia almeno un po’ più difficile sostenere la solita, infondata fregnaccia.
Fregnaccia che, non illudiamoci, continuerà a circolare. E’ circolata anche in questi giorni di 40ennale. Con la differenza che stavolta c’era un link pronto alla bisogna, e qualche informazione in più per contrastarla in modo (spero) efficace.
Buona discussione.
P.S. Qui un po’ di reperti, ritagli di stampa e link. I volti del linciaggio.
Vorrei aggiungere una considerazione, sul punto che mi sembra quello centrale dell’articolo, vale a dire il perché della persecuzione. Penso a questo riguardo che tutte le documentate ragioni addotte dall’autore, per quanto consistenti, manchino ancora di un elemento; un elemento difficile da concettualizzare e da definire nei dettagli, ma che credo decisivo, in particolare per come funziona in Italia la cultura (e in generale la cosiddetta “convivenza civile”). Quando ho letto la biografia di Pasolini scritta da Naldini sono rimasto colpito dal fatto che il PCI si sia espresso più volte in termini fortemente negativi (e “ufficiali”, cioè anche all’interno del direttivo del partito), per stigmatizzare l’opera di Pasolini (mi riferisco in particolare ai due romanzi degli anni Cinquanta, “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”). Se si guarda al merito della questione (anche mettendo in conto il moralismo piccolo-borghese che albergava in quegli anni a Botteghe Oscure), c’è da rimanere sconcertati. In “Una vita violenta” Pasolini mette addirittura una sorta di elegiaca esaltazione della bandiera rossa (ed è la bandiera di una sezione del partito):
“Non era successo niente: una borgata allagata dalla pioggia, qualche catapecchia sfondata, dove ci stava della gente che, nella vita, ne aveva passate pure di peggio. Ma tutti piangevano, si sentivano spersi, assassinati. Solo in quel pannuccio rosso [è la bandiera rossa che Tommaso ha tolto a dei ragazzini che ci giocavano, rovinandola], tutto zuppo e ingozzito, che Tommaso ributtò lì a un cantone, in mezzo a quella calca di disgraziati, pareva brilluccicare, ancora, un po’ di speranza” (ed. Milano 2003, p. 366). A parte questo passaggio, è tutto il libro, credo, che va nella direzione di una sostanziale vicinanza al PCI e al ruolo che avrebbe potuto giocare nella società italiana di quegli anni. Nella stessa biografia è documentato anche il rapporto conflittuale che P. ebbe con la cultura letteraria (con la mancata assegnazione di premi, recensioni spesso ostili e malevole, etc., ). Insomma, la sensazione che ho, ma certo bisognerebbe documentarla meglio e approfondire, è che P., pur volendolo e cercandolo con la sua opera e con i suoi tentativi di intessere relazioni e alleanze, non sia riuscito a costruirsi un’appartenenza politica, una rete di, appunto, relazioni e alleanze. Rimane, anche per quelle forze che avrebbero dovuto sostenerlo e proteggerlo, sempre un outsider, uno che dice delle cose senza che nessuno gliel’abbia chiesto. Trovo in questo una dimensione tragica: c’è un livello della “questione Pasolini” che sfugge alla disamina delle contrapposizioni culturali e ideologiche, e si scontra su una tendenza che direi antropologica della società italiana, dove l’appartenenza è un fatto tribale e “familiare”. P. vuole essere accettato come intellettuale per ciò che scrive e dice, ma questo fatto in Italia viola una legge ferrea, che è la stessa per cui di quello che scrivi o dici, in fondo, non importa niente a nessuno: la domanda è soltanto: “Chi ti manda? Per chi lavori? Di chi sei “figlio”? (una traccia di questo atteggiamento c’è anche nelle divertenti stroncature a Wu Ming che si trovano nel blog). La violenza dell’apparato repressivo su P. è quella, tipica da noi, della violenza delle istituzioni sugli inermi (con il suo logico corrispettivo nell’impunità dei potenti). D’altra parte, in questo senso la figura di P. è unica in Italia, perché, pur ripeto, cercando alleanze, P. rimane sempre fermo su un punto, che è quello di esprimere le sue idee salvaguardando una libertà di iniziativa intellettuale, che è proprio quello che non gli viene perdonato. Vorrei concludere su un’altra questione: sarebbe anche ormai giunta l’ora di una considerazione complessiva – e obiettiva – sul P. ideologo, che risolva il problema (che comunque credo che esista) della supposta contraddittorietà del suo pensiero, che comunque – va detto – si è espresso molto spesso in circostanze occasionali e frammentarie. Personalmente credo che P. vada soprattutto ricordato come un grande artista (mentre si parla spesso di P. ideologo, polemista “profetico” etc., con un più o meno implicito ridimensionamento delle sue qualità di poeta e di scrittore).
Sono pienamente d’accordo, la solitudine di Pasolini è la solitudine del parresiaste, di chi prende la parola di fronte al potere, “non inviato da nessuno”. Ma questo non essere inviato da nessuno è una condizione tragica: Pasolini prende la parola da sé ma non per il proprio diletto né tantomeno tornaconto, lancia messaggi disperati, da un lato invocando, chiamando continuamente altri a entrare nel discorso e testimoniare, cercando sempre di ingaggiare confronti (più spesso tenzoni), dall’altro lato evocando, rimandando sempre a una dimensione collettiva più vasta: volta per volta (a seconda delle fasi) il mondo contadino che sta sparendo, i lavoratori, il popolo, la classe, i giovani, gli intellettuali… Ma resta in buona sostanza solo, ad aggirarsi «come un cane senza padrone». Questo contrasta in modo addirittura orribile con il sovraffollamento del salone dei suoi estimatori postumi. Oggi, a sentirli, sembrano tutti fan di Pasolini. Compresi gli eredi – lerci come i loro precedessori – dei fascisti che lo perseguitarono e massacrarono già in vita.
Arrivato in fondo alla lettura del pezzo di Wu Ming 1 la vista della fotografia richiamata nelle ultime righe è stata la botta finale.
Quel ghigno impresso sulle facce delle guardie è un pugno nello stomaco, subito la mente è andata alle parole di un altro uomo che oggi – ma non da oggi – in Italia è ridotto troppo spesso a “santino”: Antonio Gramsci.
In quel ghigno ho riconosciuto infatti la medesima smorfia che Gramsci descriveva in un articolo pubblicato su L’Ordine nuovo il 30 agosto 1921: la smorfia di Gwynplaine.
L’articolo – duro, potente, impietoso – è uno schiaffo agli sgherri in divisa del potere, che si chiude così:
E quando hanno ammanettato i giovani che difendevano il giornale del loro partito, il giornale della loro classe, il loro giornale, gli agenti hanno avuto un lampo di trionfo, hanno riso. Ma non era un riso spontaneo, giocondo. Era un riso a cui erano costretti dalla rabbia, dal disprezzo degli altri, dalla loro vita, dal destino a cui non potevano sottrarsi. Quel riso era la smorfia di Gwynplaine.
Per chi non l’avesse mai letto, consiglio una lettura integrale, lo trovate qui.
In Italia si lavora sempre, da sempre, perché l’avversione alla violenza poliziesca e la sua condanna – a maggior ragione quando le “voci” di condanna sono autorevoli – vengano rimosse.
Ho letto con molto piacere il link che hai postato. E’ un testo di Gramsci che non conoscevo. Leggendolo mi è tornato in mente uno slogan che cantavamo durante le manifestazioni: “La disoccupazione ci ha dato un bel mestiere/ mestiere di merda/ carabiniere”
Per il resto non ho molto da aggiungere, voglio solo ringraziare Wu Ming 1, per il bell’articolo. Da grande ammiratore di Pasolini, molte volte mi è capitato di discutere con compagni e non, sulla lettera Il pci ai giovani e quasi sempre le persone non conoscevano il testo integrale ma solo il pezzo iniziale.
Aggiungo una nota del tutto marginale (ma che per certi versi mi sembra importante) proprio a proposito della fotografia che immagino sia la stessa a cui si riferisce Roberto Chiesi nella citazione che compare all’interno dell’articolo, parlando di un inequivocabile sorriso di scherno, di disprezzo.
Ecco secondo me quell’espressione, presa da sola, non è inequivocabile: potrebbe anche essere dovuta a qualcosa di completamente scollegato dalla figura di Pasolini. Il resto dell’articolo mi è sembrato molto puntuale, ma quella foto stona: non aiuta a gettare alcuna luce sulla sui rapporti tra Pasolini e la polizia, è solo uno schermo di proiezione.
Anche Paolo Volponi ha scritto di quei sorrisi. Gli amici di Pasolini ne hanno avuto l’impressione che riporta Chiesi. Io, come minimo, ne ricavo che a quei poliziotti, del frocio Pasolini – in seguito spacciato per loro difensore – fregava poco. Mi immagino le battute delle ore successive, saranno state le stesse pubblicate sullo Specchio e sul Borghese, varianti del concetto “voleva il ca..o, s’è preso i cazzotti”, e poi “poeta delle borgate e delle porcate” ecc… Certo, la foto non è autosufficiente, nello specifico. In generale, però, fa vedere due pubblici ufficiali che sogghignano su un corpo massacrato. Non se ne può avere una buona impressione. Se poi la foto la mettiamo nel contesto, e pensiamo pure al menefreghismo con cui (non) furono fatti i necessari rilievi e furono condotte le indagini… Strano modo di impegnarsi per un “difensore degli sbirri”, no? In questo senso, la foto è un elemento in più, eccome se lo è. La riflessione starebbe in piedi lo stesso, ma la foto attiva un supplemento di pensieri.
Questa foto è un’arma, che si può “puntare” contro qualsiasi rappresentante delle FDO che voglia adoperare “l’infame mantra”.
Guarda questa foto, mio caro poliziotto. VOI siete quelli che sghignazzavano sul suo cadavere. E non importa che TU mi dica che non c’eri, magari che TU non eri nemmeno nato, o che TU non eri ancora poliziotto, e comunque erano altri tempi (?) e altro contesto.
Tutto questo non vale, perché TU sei VOI.
TU sei VOI perché quando hai una divisa (anche questo ci dice la dannata poesia) TU non conti, conta la divisa. E un uomo con una divisa è come un uomo con una pistola: nella stragrande maggioranza dei casi è la pistola che comanda, non l’uomo.
TU sei VOI perché il tizio che sghignazzava non sappiamo chi sia o chi sia stato, ma sappiamo che non gli accadde nulla, restò al suo posto e possiamo indovinarlo autorizzato a sghignazzare in altre occasioni su altri cadaveri, quindi io mi sento a mia volta autorizzato a pensare (non credere, pensare proprio) che quel ghigno sia le Forze dell’Ordine.
TU sei VOI perché questa stessa impunità l’abbiamo rivista in anni più recenti e continuiamo a vederla. Perché il più delle volte i rappresentanti delle FDO responsabili di assassinii e torture sono rimasti in organico e non di rado hanno fatto carriera, e se magari possiamo saperne qualche nome quasi di sicuro non ne conosciamo le facce, quindi chiunque di VOI dovessi trovarmi davanti, sarei autorizzato a pensare che potrebbe essere uno di quelli, potrebbe essere un torturatore o un assassino.
E non importa se TU, nella fattispecie, non hai mai torturato o ammazzato. Io posso, e non per scelta mia, vederti soltanto come VOI.
Questo è “lo stato psicologico cui (VOI siete) ridotti”.
“Senza più sorriso”. Rimane solo il ghigno beffardo.
“Senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti”.
Questo pensava Pasolini di VOI, e penso che sia immediato leggere tra le righe di quella sezione della dannata poesia, soprattutto pietà e compassione. L’unico moto d’animo che si può provare per persone, esseri umani, che un giorno potrebbero, per la condizione istituzionale nella quale si trovano, trovarsi a torturare, assassinare, sghignazzare su un cadavere.
“Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia ” in
Il Pci ai giovani
Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
Uhm… Il senso di incollare anche qui il solito stralcio della poesia che tutti incollano sempre ovunque – deturpandolo della sua natura di paradosso e isolandolo dalla vita e dall’opera di Pasolini – sarebbe…?
Ciao,
mi scuso per non aver premesso nulla, nel commento precedemente inserito.
Cerco di riemdiare ora.
Per quello che ho capito, quello che ho incollato non è uno stralcio ma tutta la poesia di Pasolini:
quello che volevo evitare, infatti, era proprio la citazione parziale (che, come hai giustamente ricordato, è fin troppo diffusa) !
Ho solo, inizialmente, estratto il verso sulla conferma di contrarietà all’istituzione poliziesca, per evidenziarlo.
Se mi sono sbagliata, e quella che ho riproposto non è la versione completa, vi chiedo aiuto per poterla reperire in rete e leggere.
Grazie, in primis, per il testo che hai scritto, poi per l’ascolto e la pazienza.
Ciao,
Nicoletta
Perugia
(vedo che non si possono modificare i propri commenti, una volta inviati, quindi mi scuso anche per i refusi)
Hai incollato qui solo l’inizio della poesia, corrispondente – vado a spanne – forse al 15% del testo complessivo. La parte che segue l’ho analizzata, appunto, nel testo apparso su Internazionale. Testo di cui, in teoria, staremmo discutendo.
Valga come riprova, se ce ne fosse stato ancora bisogno, dei danni che ha fatto l’infame mantra. Ha nascosto un buon 80% della poesia e fatto in modo che se ne commentasse, fuori contesto, una fettina.
Non è difficilissimo: http://lmgtfy.com/?q=Il+Pci+ai+giovani
Comunque l’articolo di Roberto secondo me è molto equilibrato su quella poesia, spiega che forse la comunicazione gli è riuscita male (e visti gli esiti mi sembra proprio di sì) ma questo non significa che non si tratti di una slealissima strumentalizzazione ipocrita bella e buona.
Per i pigrissimi (visto che la pigrizia intellettuale sembra proprio uno dei temi della faccenda) ecco qua il testo integrale, con il finale che ribalta un po’ tutte le cose più ambigue che sono scritte prima:
=== Il Pci ai giovani ===
Mi dispiace. La polemica contro
il Pci andava fatta nella prima metà
del decennio passato. Siete in ritardo, cari.
Non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati:
peggio per voi.
Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi
quelli delle televisioni)
vi leccano (come ancora si dice nel linguaggio
goliardico) il culo. Io no, cari.
Avete facce di figli di papà.
Vi odio come odio i vostri papà.
Buona razza non mente.
Avete lo stesso occhio cattivo.
Siete pavidi, incerti, disperati
(benissimo!) ma sapete anche come essere
prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati:
prerogative piccolo-borghesi, cari.
Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte
coi poliziotti,
io simpatizzavo coi poliziotti.
Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino;
i tanti fratelli; la casupola
tra gli orti con la salvia rossa (in terreni
altrui, lottizzati); i bassi
sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi
caseggiati popolari, ecc. ecc.
E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci,
con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio
furerie e popolo. Peggio di tutto, naturalmente,
è lo stato psicologico cui sono ridotti
(per una quarantina di mille lire al mese):
senza più sorriso,
senza più amicizia col mondo,
separati,
esclusi (in un tipo d’esclusione che non ha uguali);
umiliati dalla perdita della qualità di uomini
per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).
Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care.
Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia.
Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete!
I ragazzi poliziotti
che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione
risorgimentale)
di figli di papà, avete bastonato,
appartengono all’altra classe sociale.
A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento
di lotta di classe: e voi, cari (benché dalla parte
della ragione) eravate i ricchi,
mentre i poliziotti (che erano dalla parte
del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque,
la vostra! In questi casi,
ai poliziotti si danno i fiori, cari. Stampa e Corriere della Sera, News- week e Monde
vi leccano il culo. Siete i loro figli,
la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano
non si preparano certo a una lotta di classe
contro di voi! Se mai,
si tratta di una lotta intestina.
Per chi, intellettuale o operaio,
è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente la idea
che un giovane borghese riempia di botte un vecchio
borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera
un giovane borghese. Blandamente
i tempi di Hitler ritornano: la borghesia
ama punirsi con le sue proprie mani.
Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli
che operano a Trento o a Torino,
a Pavia o a Pisa, /a Firenze e un po’ anche a Roma,
ma devo dire: il movimento studentesco (?)
non frequenta i vangeli la cui lettura
i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono
per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici;
una sola cosa gli studenti realmente conoscono:
il moralismo del padre magistrato o professionista,
il teppismo conformista del fratello maggiore
(naturalmente avviato per la strada del padre),
l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini
contadine anche se già lontane.
Questo, cari figli, sapete.
E lo applicate attraverso due inderogabili sentimenti:
la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia
prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione
al potere.
Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti,
nei vostri pallori snobismi disperati,
nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali,
nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo
(solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia
infima, o da qualche famiglia operaia
questi difetti hanno qualche nobiltà:
conosci te stesso e la scuola di Barbiana!)
Riformisti!
Reificatori!
Occupate le università
ma dite che la stessa idea venga
a dei giovani operai.
E allora: Corriere della Sera e Stampa, Newsweek e Monde
avranno tanta sollecitudine
nel cercar di comprendere i loro problemi?
La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte
dentro una fabbrica occupata?
Ma, soprattutto, come potrebbe concedersi
un giovane operaio di occupare una fabbrica
senza morire di fame dopo tre giorni?
e andate a occupare le università, cari figli,
ma date metà dei vostri emolumenti paterni sia pur scarsi
a dei giovani operai perché possano occupare,
insieme a voi, le loro fabbriche. Mi dispiace.
È un suggerimento banale;
e ricattatorio. Ma soprattutto inutile:
perché voi siete borghesi
e quindi anticomunisti. Gli operai, loro,
sono rimasti al 1950 e più indietro.
Un’idea archeologica come quella della Resistenza
(che andava contestata venti anni fa,
e peggio per voi se non eravate ancora nati)
alligna ancora nei petti popolari, in periferia.
Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese,
e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula,
si è dato da fare per imparare un po’ di russo.
Smettetela di pensare ai vostri diritti,
smettetela di chiedere il potere.
Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,
a bandire dalla sua anima, una volta per sempre,
l’idea del potere.
Se il Gran Lama sa di essere il Gran Lama
vuol dire che non è il Gran Lama (Artaud):
quindi, i Maestri
– che sapranno sempre di essere Maestri –
non saranno mai Maestri: né Gui né voi
riuscirete mai a fare dei Maestri.
I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
non le università: i vostri adulatori (anche Comunisti)
non vi dicono la banale verità: che siete una nuova
specie idealista di qualunquisti: come i vostri padri,
come i vostri padri, ancora, cari! Ecco,
gli Americani, vostri odorabili coetanei,
coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando,
loro, un nuovo linguaggio rivoluzionario!
Se lo inventano giorno per giorno!
Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’è già uno:
potreste ignorarlo?
Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione
del Times e del Tempo).
Lo ignorate andando, con moralismo provinciale,
“più a sinistra”. Strano,
abbandonando il linguaggio rivoluzionario
del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale
Partito Comunista,
ne avete adottato una variante ereticale
ma sulla base del più basso idioma referenziale
dei sociologi senza ideologia.
Così parlando,
chiedete tutto a parole,
mentre, coi fatti, chiedete solo ciò
a cui avete diritto (da bravi figli borghesi):
una serie di improrogabili riforme
l’applicazione di nuovi metodi pedagogici
e il rinnovamento di un organismo statale. I Bravi! Santi sentimenti!
Che la buona stella della borghesia vi assista!
Inebriati dalla vittoria contro i giovanotti
della polizia costretti dalla povertà a essere servi,
e ubriacati dell’interesse dell’opinione pubblica
borghese (con cui voi vi comportate come donne
non innamorate, che ignorano e maltrattano
lo spasimante ricco)
mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso
per combattere contro i vostri padri:
ossia il comunismo.
Spero che l’abbiate capito
che fare del puritanesimo
è un modo per impedirsi
la noia di un’azione rivoluzionaria vera.
Ma andate, piuttosto, pazzi, ad assalire Federazioni!
Andate a invadere Cellule!
andate ad occupare gli usci
del Comitato Centrale: Andate, andate
ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Che esso si decide a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Ad ogni modo: il Pci ai giovani, ostia!
Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? Cosa vi sto
consigliando? A cosa vi sto sospingendo?
Mi pento, mi pento!
Ho perso la strada che porta al minor male,
che Dio mi maledica. Non ascoltatemi.
Ahi, ahi, ahi,
ricattato ricattatore,
davo fiato alle trombe del buon senso.
Ma, mi son fermato in tempo,
salvando insieme,
il dualismo fanatico e l’ambiguità…
Ma son giunto sull’orlo della vergogna.
Oh Dio! che debba prendere in considerazione
l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile
accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?
Il penultimo paragrafo è quello che ho più difficolta a decifrare (la strada che porta al minor male, il dualismo fanatico, il ricatto). Voi che significato vi leggete? In che termini pensate possa essere parafrasato il ribaltamento finale?
Pasolini spiegò anche che uno dei problemi comunicativi non fu colpa sua.
“Infatti quei miei versi, che avevo scritto per una rivista “per pochi”, “Nuovi Argomenti”, erano stati proditoriamente pubblicati da un rotocalco, “L’Espresso” (io avevo dato il mio consenso solo per qualche estratto): il titolo dato dal rotocalco non era il mio, ma era uno slogan inventato dal rotocalco stesso, slogan (“Vi odio, cari studenti”) che si è impresso nella testa vuota della massa consumatrice come se fosse cosa mia. Potrei analizzare a uno a uno quei versi nella loro oggettiva trasformazione da ciò che erano (per “Nuovi Argomenti”) a ciò che sono divenuti attraverso un medium di massa (“L’Espresso”)”.
Una delle più dettagliate spiegazioni di Pasolini è in uno scritto, “I cappelli goliardici”, che si legge nei Saggi sulla politica e sulla società. E lì, dopo aver spiegato l’effetto della riduzione operata da “l’Espresso” e l’effetto che fece quella riduzione su un giornale a grande diffusione, rispetto alla ristrettissima cerchia di “Nuovi Argomenti”, Pasolini aggiunge: Non sto a raccontare al lettore di quali ricatti sono stato fatto segno in seguito alla cattiva lettura (lettura di cultura di massa) di questa mia poesia: perfino lettori che se l‟avessero letta su “Nuovi Argomenti” l’avrebbero capita, leggendola sull'”Espresso” sono stati vittime del processo fatale che ho descritto. Ricorderò Occhetto [Achille, all’epoca a capo della FGCI] (su “Rinascita”) che oltre a limitare la sua critica a quei primi due versi, e non alla dozzina che seguiva (se ne sta occupando forse adesso, che il problema della polizia è esploso, e l'”Unità” pubblica lettere di poliziotti che confermano quello che io dicevo!), aveva trasformato la mia espressione «simpatizzavo» con l’espressione, da lui inventata, «tenevo per».
Una delle cose più importanti del post o meglio quello linkato è aver riportato il volto vero del testo Il Pci ai giovani”. Può sembrare una banalità, ma non lo è, ed il motivo è ben spiegato all’interno dei 9 ed articolati punti.mb
Non posso dire di capire del tutto il filo logico della poesia di Pasolini, di distinguere il messaggio da quelle che potrebbero essere contraddizioni. Però non sono d’accordo con questa interpretazione di Wu Ming 1:
Occupare le federazioni del Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé”.
In realtà Pasolini dice il contrario:
Che esso si decide (sic?) a distruggere, intanto,
ciò che un borghese ha in sé,
dubito molto, anche col vostro apporto,
se, come dicevo, buona razza non mente…
Leggo il suo invito come una provocazione: invita gli studenti a occupare il PCI perché rimprovera loro di mirare al potere.
Sì, i vostri orribili slogan vertono sempre
sulla presa di potere.
Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti
[…]
Se volete il potere, impadronitevi, almeno, del potere
di un Partito che è tuttavia all’opposizione
(anche se malconcio, per la presenza di signori
in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote,
borghesi coetanei dei vostri schifosi papà)
ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere.
Vi riporto parte di una lettera che Pasolini scrisse a Ginsberg nel 1967. Mi sembra che offra un’utile chiave di lettura per Il PCI ai giovani.
Caro, angelico Ginsberg, ieri sera ti ho sentito dire tutto quello che ti veniva in mente su New York e San Francisco, coi loro fiori. Io ti ho detto qualcosa dell’Italia (fiori solo dai fiorai). La tua borghesia è una borghesia di PAZZI, la mia una borghesia di IDIOTI. Tu ti rivolti contro la PAZZIA con la PAZZIA (dando fiori ai poliziotti): ma come rivoltarsi contro l’IDIOZIA? Ecc. ecc.: queste sono state le nostre chiacchiere. Molto, molto più belle le tue, e te l’ho anche detto il perché. Perché tu, che ti rivolti contro i padri borghesi assassini, lo fai restando dentro il loro stesso mondo classista (sì, in Italia ci esprimiamo così), e quindi sei costretto a inventare di nuovo e completamente giorno per giorno, parola per parola, il tuo linguaggio rivoluzionario. Tutti gli uomini della tua America sono costretti, per esprimersi, ad essere degli inventori di parole! Noi qui invece (anche quelli che hanno adesso sedici anni) abbiamo già il nostro linguaggio rivoluzionario bell’e pronto, con dentro la sua morale. Anche i Cinesi parlano come degli statali. E anch’io come vedi. Non riesco a MESCOLARE LA PROSA CON LA POESIA (come fai tu!) e non riesco a dimenticarmi MAI e naturalmente neanche in questo momento che ho dei doveri linguistici. Chi ha fornito a noi anziani e ragazzi il linguaggio ufficiale della protesta? Il marxismo, la cui unica vena poetica è il ricordo della Resistenza, che si rinnovella al pensiero del Vietnam e della Bolivia. E perché mi lamento di questo linguaggio ufficiale della protesta che la classe operaia attraverso i suoi ideologi (borghesi) mi fornisce? Perché è un linguaggio che non prescinde mai dall’idea del potere, ed è quindi sempre pratica e razionale. Ma la Pratica e la Ragione non sono le stesse divinità che hanno reso PAZZI e IDIOTI i nostri padri borghesi? Povero Wagner e povero Nietzsche! Hanno preso tutta loro la colpa. E non parliamo poi di Pound!
Un testo molto importante. Anzi, necessario. Aldilà della salutare analisi di tutto “Il Pci ai giovani”, è fondamentale non lasciare PPP agli appropriatori spudorati, penso soprattutto ai fascisti e rosso-bruni nell’Europa di oggi, sempre alla ricerca di nuovi spunti e riferimenti culturali per le loro narrazioni tossiche. Pasolini come “mito tecnicizzato” ha la corazza molto dura, ma questo testo è un colpo importante per spaccarla.
P.S.: Ho tradotto il testo in inglese, per mandarlo a degli amici che non parlano italiano. Se lo vuole qualcuno o se potrebbe interessare i lettori del blog Giap in inglese, lo pubblico qui volentieri. (Non lo metto direttamente perchè non ho chiesto niente a nessuno prima di tradurlo – e siccome “traduttore, traditore”, non vorrei tradire gli autori.)
Il “Giap in inglese” non esiste più da tempo, comunque mandaci il testo in inglese via email che un modo per usarlo lo troviamo, grazie!
Ciao a tutti, mi unisco agli elogi per l’articolo e per la scelta del luogo in cui pubblicarlo-
La discussione si sta un po’ spostando sulla famigerata poesia,come forse era inevitabile, visto che l’infame mantra non ha nient’altro che quella come pezza d’appoggio. Mi pare sia interessante quindi provare a leggere per intero la tavola rotonda che l’Espresso organizzò dopo la pubblicazione di estratti (mi pare) della poesia.
A me pare, rileggendo tutto quanto, che Pasolini fosse quanto meno poco chiaro. Il problema è che, soprattutto in qusti giorni commemorativi, che è complicatissimo provare a fare una discussione provando a discutere criticamente alcuni passaggi che secondo me sono poco difendibili o contraddittori. E si deve perdere purtroppo un sacco di tempo per ribadire l’ovvio, che a quanto pare tanto ovvio non è, magari per evitare di ritrovare Pasolini commemorato dalle forze dell’ordine nel cinquantesimo anniversario della morte.
http://www.pierpaolopasolini.eu/saggistica_tavolarotondaEspresso.htm
Io sono d’accordo con Robydoc: quella poesia, o meglio, un passaggio di quella poesia costituisce la sola e unica pezza d’appoggio dell’Infame mantra. Io infatti nel mio pezzo quei versi non li ho nemmeno citati, mi sembrava molto più importante raccontare quello che i supporter del manganello devono per forza rimuovere, perché renderebbe impossibile intonare il mantra. Non solo quei versi della poesia non li ho citati, ma come ha fatto notare Mauro,non ho nemmeno difeso la poesia, che ho definito “uno sfogo”, “confusa sul piano formale e carente di focus nei contenuti”. Mi premeva fare solo quel minimo di esegesi necessario a dimostrare che la decontestualizzazione di quel passaggio per descrivere un Pasolini “pro sbirri” è pura manipolazione. Mi interessa poco andare oltre, capire con chi c’è l’aveva di più Pasolini nel finale ecc. Egli stesso, come ricordo nel pezzo, disse che ogni verso è ironico, autoironico e come “tra virgolette”. Mi interessa di più il resto, quello che non solo non può essere usato come pezza d’appoggio per l’Infame mantra, ma lo strozza in gola ai salmodianti.
Davvero interessante questa tavola rotonda che hai citato (e che è citata anche nell’articolo di Roberto). I più lucidi mi sembrano gli studenti anonimi, nonostante il loro atteggiamento arrogante e un po’ dottrinario. La loro uscita di scena è molto teatrale! Il più confuso mi sembra proprio Pasolini, che difende la sua provocazione in un modo che ricorda il “purché se ne parli”.
Tuttavia, nessuno di quanti partecipano al dibattito ha il minimo dubbio sul carattere reazionario della polizia italiana e nessuno considera che i poliziotti siano il tema principale della poesia. Parlano semmai del rapporto tra la classe operaia e la piccola borghesia e della posizione sociale particolare degli studenti.
Su questo non la penso affatto come Pasolini, che mi sembra parli ancora degli studenti degli anni Dieci-Venti e non di quelli degli anni Sessanta-Settanta, ma non si può certo dire che il problema dell’estrazione sociale variegata dei sessantottini non fosse una questione intricata che, col senno di poi è fin troppo evidente, ha avuto conseguenze importanti e gravi.
Certo che a leggere discussioni di quel livello viene proprio nostalgia per il tipo di ambiente culturale che si produce nei momenti storici in cui la lotta di classe è più acuta. Immaginatevi che tavola rotonda del piffero verrebbe fuori oggi sull’Espresso in un caso simile…
Sì, leggere questo pezzo è stato assolutamente liberatorio.
Così come ho trovato decisamente liberatoria la frase inserita nel primo commento, riferita ai social network: “non si può stare zitti durante uno pseudo-evento, ne va della propria reputazione di micro-opinionisti!”. Nei social il terreno per la diffusione di “infami mantra” sta infatti diventando sempre più fertile, peggio della televisione!
La “credibilità” delle parole di questa poesia deriva anche da una vita dilaniata da un conflitto di appartenenza: l’ essere nati in una classe privilegiata e l’ essere geneticamente inconciliabili con essa, per profonde “interferenze” di sistema. L’omosessualità come stigma di profonda incompatibilità, la diversità rivendicata con l’ orgoglio rivoluzionario di chi non vuole piegare la testa o rientrare rigidamente nei ranghi, dopo la tempesta. Sentimenti e convinzioni che non possono essere riassorbiti e traditi senza lasciare tracce profonde, senza modificare il DNA. Per questo Pasolini non sceglie solo ideologicamente a quale classe appartenere, ma anche passionalmente. Sono figlia di un operaio, uno di quelli che hanno fatto il ’68 lanciandosi in quel movimento di pura sovversione che è stato quel momento, lo rivendico con la fierezza di chi sente di appartenere per nascita, per storia e per cultura, all’ ” aristocrazia Proletaria”. Eppure nonostante i tradimenti, personali ed ideologici, mio padre non poteva che appartenere alla sua classe e mai, mai, a nessun altra. Con la stessa lucida “comprensione” che Pasolini poteva avere per suoi nemici di “bassa estrazione” e che sarebbe stata impossibile per i suoi nemici borghesi. Perché in alcune facce devi sempre sforzarti di rintracciare quel barlume di rabbia primitiva, per i torti subiti, anche solo in un’ espressione remota, un lontano ricordo, e non l’intellettuale costruzione anti-borghese del figlio di papà. Lo dico proprio mentre, a passeggio, il mio cane mi trascina nella fossa comune dell’abbattimento delle barriere tra specie. Perchè è esattamente li che dobbiamo andare.
Ancora sulla foto dei poliziotti che ridono sul corpo di Pasolini.
Per prima cosa, visto che su Twitter qualcuno mi ha accusato di dare un’interpretazione forzata di quei sorrisi “per giustificare il titolo del pezzo e avvalorare un’ipotesi”, faccio notare che il titolo del pezzo – “La polizia contro Pasolini, Pasolini contro la polizia” – non fa che sintetizzare il contenuto dell’articolo, dove non si avanza alcuna “ipotesi” ma si descrivono gli atti concreti delle forze dell’ordine contro Pasolini e si citano le svariate occasioni in cui Pasolini, vivo e vegeto, attaccò la polizia. Foto o non foto. Su Internazionale, la foto nemmeno c’è; ci sono virgolettati di Pasolini, molto chiari e inseriti nei contesti a cui appartengono, e c’è un’elencazione di fatti. Chi vuole denigrare la mia ricostruzione, dovrà prima negare quei fatti, e dovrà annullare quei virgolettati, le prese di posizione di Pasolini.
Detto questo, l’interpretazione della foto che dà Roberto Chiesi è la stessa di tutti gli amici e compagni di strada di Pasolini che già nel 1977 produssero la pionieristica inchiesta collettiva Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano 1977.
Anche l’impressione di una o più persone di fronte a un’immagine, se registrata, è un documento, una fonte da interrogare per capire le mentalità, l’aria dei tempi, ciò che si sapeva e si pensava in un dato momento.
Nel caso specifico, l’immediata reazione degli amici di Pasolini di fronte a questa foto ci dice qualcosa di molto chiaro: all’epoca della sua morte, nessuno pensava a Pasolini come a un “amico dei poliziotti”, e men che meno ai poliziotti come amici di Pasolini. Per tutti quanti fu naturale pensare subito allo scherno, a uno specifico, focalizzato ed emblematico scherno da parte di quei poliziotti verso il cadavere di Pasolini. La leggenda del Pasolini “segretario del SAP” (per usare un’iperbole di Tuco) è una manipolazione di molto posteriore.
Riporto l’inizio di uno scritto di Paolo Volponi intitolato “Un delitto politico” e incluso nell’inchiesta collettiva citata sopra.
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Il giorno dopo l’assassinio di Pier Paolo Pasolini circolava nelle agenzie di stampa e nelle redazioni dei giornali una terribile fotografia scattata alla luce cruda della mattina appena ritrovato il corpo massacrato. Questo vi appare interamente (la faccia scomposta, il capo reclinato verso destra), deposto su un terriccio da piazzale fuori d’ogni confine.
La naturalezza del legame tra quel corpo affondato e quella terra battuta superava presto l’orrore. Niente era casuale nell’abbandono e in tutte le ferite del corpo, come nella miseria sviscerata del terreno. Come non era casuale la presenza di due poliziotti ai piedi di Pasolini, intenti a prendere misure e a esaminare i dati di quel campo. Uno dei due guardava di traverso e non riusciva a trattenere un sorriso: un risolino furbo, di conferma, che doveva nascergli dalla coscienza della normalità di quella fine, inevitabile siccome giusta: accaduta proprio perché già segnata dalla trita, cinica saggezza della sottocultura e di tutti i suoi scambi e complicità con la cultura delle istituzioni. Lo stesso sentimento che muoveva quel riso da cattivo scolaro, avrebbe percorso qualche ora più tardi, in modo più articolato e sentenzioso, la totalità dei commenti dei grandi organi di comunicazione sull’assassinio del poeta bravo e sciagurato. Lo stesso sentimento che avrebbe indotto il Presidente della Repubblica a non esprimere un cenno di cordoglio alla povera madre di Pasolini, celando così dietro la custodia istituzionale del pregiudizio la somma di un lavoro culturare che ha cercato di arricchire tutti i trent’anni della nostra stentata democrazia. Questo libro si rivolge verso il riso canagliesco di quel poliziotto, verso l’autosufficienza e l’ipocrisia della cultura dominante e verso l’antica, sacra sordità degli istituti anche repubblicani […]
L’articolo è molto bello, notevole, chiarificatore. Solo, mi ha lasciato perplesso il paragrafo conclusivo, il nono, titolato L’uomo che sorride.
Il post precedente di Wu Ming 1 (“Ancora sulla foto dei poliziotti che ridono sul corpo di Pasolini”) mi suggerisce l’opportunità di una premessa, che altrimenti avrei evitato: non intendo in alcun modo accusare l’autore del pezzo di dare un’interpretazione forzata di quei sorrisi allo scopo di avvalorare l’ipotesi che Pasolini fosse contro la polizia e la polizia contro Pasolini. Ecco, il mio scopo non è questo, e spero che le ragioni che stanno a fondamento delle perplessità destatemi dal finale dell’articolo, che vengo ad esporre, lo dimostrino. La critica che muovo attiene al metodo.
Ora, addentrarsi nel foro interiore del poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, attribuendo al suo sorriso denotazione certa e indubitabile di scherno e di disprezzo unicamente sulla base di quella fotografia, è chiaramente operazione impossibile a farsi, veggenza esclusa. Meglio, operazione attuabile (appunto, attuata) che predica vero, sulla base di presupposti esteriori, ciò che non è possibile predicare vero unicamente sulla scorta dei presupposti anzidetti senza sconfinare nell’arbitrio interpretativo.
Forse, al più, mi sembra si possa – qualora si ritenga di farlo, per i motivi che si reputino validi allo scopo e col supporto di elementi ulteriori e convergenti a comprova che consentano di ipotizzare o presumere vero il fatto – supporre che quel sorriso denoti scherno e sprezzo; ma, le parole di Roberto Chiesi, dogmaticamente sicure (“La foto lo mostra in maniera inequivocabile”), non concedono il beneficio del dubbio che l’utilizzo di una formula ipotetica, invece, implicherebbe. Difatti pretendono il vero, non lo ipotizzano. Peraltro, di elementi ulteriori a comprova non viene fatta menzione, e il lettore, ve ne fossero, non li conosce. Poi, se gli elementi a comprova vi fossero e fossero parecchi e concordi, e menzionati, si potrebbe anche superare l’interpretazione ipotetica per arrivare ad un’interpretazione se non perentoria, certamente più decisa; nessuno lo nega.
Constato, peraltro, che neppure le parole di Volponi citate nel post di Wu Ming 1 riportano fatti a comprova del disprezzo e dello scherno di quel sorriso di quel poliziotto in quella foto. Perché di questo stiamo parlando, nonostante “l’aria dei tempi” che sicuramente avrà determinato questa immediata reazione degli amici di Pasolini di fronte alla foto: “Per tutti quanti fu naturale pensare subito allo scherno, a uno specifico, focalizzato ed emblematico scherno da parte di quei poliziotti verso il cadavere di Pasolini”. Qui si ribadisce la naturalezza delle reazioni in relazione al contesto, al clima, ma non si dicono i fatti che vogliono schernente quel sorriso, quei sorrisi, di quei poliziotti.
Attribuire con certezza significato di scherno e di disprezzo anche al sorriso (tra i due, peraltro, forse quello più connotato, ma non è qui il punto) dell’altro poliziotto accovacciato, quello col berretto, come mi sembra si sia inteso fare cerchiando anche il suo volto nella fotografia, raddoppia il problema. Il fatto che la foto non sia stata pubblicata su Internazionale non muove le cose, perché a quella foto ben individuata ci si sta pacificamente riferendo.
D’altronde, anche volendo dare (assumo quest’ipotesi a scopo esemplificativo, ovviamente senza attribuirla a Wu Ming 1) al sorriso del poliziotto, o ai sorrisi di entrambi, non senza sforzo conformistico, lettura di deliberata mancanza di rispetto per il cadavere di Pasolini, o anche solo di generica inopportunità, si sconterebbe fondamentalmente la medesima obiezione, e comunque non si dimostrerebbero scherno e spregio.
A mio modo di vedere l’articolo è significativo e chiarificatore anche perché caratterizzato da rigore metodologico e argomentativo. Lo scopo che esplicitamente si propone, quello di smontare le falsità utilizzate come pezze d’appoggio dai salmodianti del “mantra”, lo realizza efficacemente; infatti, scrive Wu Ming 1 (sempre nel post precedente) riferendosi al suo articolo: “Si descrivono gli atti concreti delle forze dell’ordine contro Pasolini e si citano le svariate occasioni in cui Pasolini, vivo e vegeto, attaccò la polizia”. Vero. A dimostrazione che è proprio col rigore in parola che si smontano le approssimazioni argomentative di cui si sono serviti e ancora si servono disinvoltamente coloro i quali perseguono e realizzano l’intento di strumentalizzare brandelli di versi pasoliniani, traendoli, di volta in volta, fuori dal loro contesto – così privandoli, anzitutto, del confronto sistematico – per piegarne il senso e utilizzarli nei modi e nelle circostanze più congeniali ai propri fini d’occasione.
Ciò detto e fermo, e forse per l’appunto a maggior ragione, la parte conclusiva del pezzo desta le perplessità illustrate laddove allenta l’intransigenza di metodo che impronta tutto il resto dell’articolo; e questo lo fa, a mio parere, nella misura in cui pretende, con Chiesi, di sapere l’invisibile.
Volponi parla testualmente di “riso canagliesco di quel poliziotto”, e questo dopo averlo definito già sorriso “furbo”, “da cattivo scolaro” e averlo radicato nel “cinismo della sottocultura”. Non si limita dunque a vederci scherno, va molto più in là, dice che il poliziotto ride da canaglia. Avevano torto o ragione Volponi, Laura Betti, Rodotà, De Mauro, Franca Basaglia et alii nel pensare che quel sorriso fosse contro Pasolini? Ha torto Chiesi nell’esserne convinto tuttora? Ho torto io nel pensare che abbiano probabilmente ragione? Chi lo sa. Il punto è la naturalezza con cui chi conosceva davvero Pasolini, la sua opera, la sua vita, ha visto scherno – e anche di più – in quel sorriso. E che dei poliziotti manifestino l’atteggiamento di chi – come minimo – se ne fotte dell’uomo che anni dopo sarebbe stato reinventato come loro “apologeta” (quasi come loro martire!), e stiano cazzeggiando sul suo corpo straziato, mi sembra un altro elemento di cui tenere conto. Non si può “sapere l’invisibile”, ma il linguaggio del corpo si può leggere e interpretare. Tanto più che di come furono fatti i rilievi intorno al corpo, cioè con immensa sciatteria, si è scritto parecchio. Mettiamo tutto insieme, e l’interpretazione di Volponi, di Chiesi e degli altri non appare così campata in aria.
Ad ogni modo, il fatto che stiamo parlando di questo, del sorriso del poliziotto sul corpo di Pasolini, forse testimonia che stiamo tutti facendo un passo avanti. Non ci confrontiamo più su Pasolini amico degli sbirri sì o amico degli sbirri no, non siamo più nella battaglia di retroguardia del dimostrare che “Il Pci ai giovani” non voleva dire questo ecc. No, diamo per scontato che quella era una frottola tossica. Stiamo discutendo del dettaglio di un quadro nuovo, diverso da quello che ci hanno imposto i media fino ad ora.
Leggere questa tua risposta a maandrea:
[Volponi] non si limita dunque a vederci scherno, va molto più in là, dice che il poliziotto ride da canaglia.
mi fa pensare che ti sia sfuggito il vero senso della sua critica. E’ una critica che condivido da cima a fondo e trovo sia espressa in modo molto preciso. Provo a riformularla dal mio punto di vista sperando di dare un contributo non inutile o scontato o troppo stracciamaroni alla discussione:
Chi lo sa.
Questa è secondo me la domanda tornasole per giudicare il valore di un articolo che vuole:
ricostruire i rapporti reali e concreti tra Pasolini e le forze dell’ordine, facendo parlare le sue stesse parole e il suo cursus giudiziario
La parte efficace del tuo pezzo (e la maggiore) è così efficace perché si fonda su elementi che non ammettono quella domanda: è, davvero, inequivocabile, e per questo inattaccabile. E’ all’altezza del suo compito.
Nella chiusura del pezzo, invece:
1. usi del materiale vulnerabile a quell’interrogativo, come conferma anche la tua scelta delle parole nelle precisazioni qui sopra (impressioni, probabilmente, interpretare, un’interpretazione che non appare così campata in aria)
2. cosa più grave, nell’articolo presenti questo materiale come auto-evidente: prendi in prestito e fai tue le parole e il tono definitivo di Chiesi senza il minimo distacco di un “probabilmente aveva ragione, considerato che x, y e z”.
Il punto è la naturalezza con cui chi conosceva davvero Pasolini, la sua opera, la sua vita, ha visto scherno – e anche di più – in quel sorriso.
Non c’è traccia di questo punto nell’articolo. Se ci fosse stato, da bravo scettico/spina nel culo l’avrei ritenuto debole rispetto al resto, anche solo per il numero di “indirezioni”:
due poliziotti … in questa foto di un reporter … secondo gli amici … scherniscono Pasolini
Mi conferma comunque nell’opinione che la foto sia (e fosse) più che altro un supporto sul quale una persona che se la sia già formata può proiettare un’immagine mentale ben precisa, maturata (forse: chi lo sa?) anche grazie ad altre prove, altri fatti importanti e inattaccabili, che nell’articolo non compaiono (ad esempio testimonianze di chi era presente, ecc.).
La mia esperienza diretta mi dice che si può condividere il contenuto del tuo articolo senza ricevere alcuna impressione particolare dalla foto, al di fuori del senso di dissonanza rispetto a quanto Chiesi (e per estensione tu, l’autore) date per scontato o pretendete che uno ci veda. (Anche il fatto che in quel particolare istante i due poliziotti non avessero stampata sulla faccia un’espressione triste o compunta, e la possibilità che fossero indifferenti al cadavere di Pasolini, non mi porta a concludere nulla di sicuro e rilevante, né in particolare, né tantomeno in generale. Il farlo con sicurezza mi suggerisce piuttosto l’idea di un forte coinvolgimento oppure di un atteggiamento moralistico dell’osservatore.) Anche questo è un elemento, ed è un elemento che mi sembra assurdo trascurare se si aspira a convincere anche chi non condivide in partenza la tesi dell’articolo.
Se VecioBaeordo crede davvero che la foto sia un’arma efficace contro un poliziotto convinto che Pasolini stava con i poliziotti, e che quel poliziotto ci veda le stesse cose ci vede Chiesi … la sua secondo me è un’illusione bella e buona. Io credo, piuttosto, che il particolare uso di quella foto rimarrà una grosso difetto in un’arma per il resto affilata; o anche, un’arma puntata verso il senso critico di chi la usa.
Io non credo che, in sé, la foto sia un’arma affilata contro gli sbirri, né credo che menzionarla sia “un grosso difetto” del pezzo o addirittura “un’arma puntata contro lo spirito critico”. Semplicemente, non assegno alla foto la centralità che, paradossalmente, sta assumendo in questo thread. Su Internazionale non l’abbiamo messa e nel pezzo le dedico poche righe. Tra i tanti commenti all’articolo che ho letto in questa settimana, gli unici che parlano della foto sono in questo thread e in un tweet che commenta questo thread.
La vostra critica l’ho capita anche prima della ri-spiegazione, la trovo legittima e assennata, ma mi sembra anche sfocata rispetto alla questione “debunkata” nel pezzo. Ho risposto più volte, cercando di spiegare meglio e con più dettagli come la penso su foto e sorrisi (a proposito, se cercate su Google “Pasolini morto” trovate facilmente un altro bel ghigno sulla faccia di quello che sembra proprio un funzionario di polizia, in piedi a pochi metri dal cadavere). Onestamente, non posso prendere le distanze da Chiesi e Volponi, perché penso che abbiano ragione. Ma la discussione “fotocentrica” che si è sviluppata qui mi sembra falsante, non corrispondente alle reazioni che l’articolo ha suscitato e sta suscitando, e sbilanciata rispetto alla questione principale. Che io credo sia questa: molte persone pensavano che Pasolini fosse “amico dei poliziotti”; adesso, semplicemente, non lo pensano più. A me premeva e preme questo.
segnalo questo intervento di ascanio celestini:
http://video.corriere.it/ascanio-celestini-non-va-ricordato-solo-pasolini-soft/11236924-82d9-11e5-a218-19a04df8a451
L’errore che Pasolini ha fatto è poco grave e a volte per chi scrive assai comprensibile: quello di venire sopraffatto dall’odio, dal rancore verso l’oggetto della propria invettiva. Il rancore di Pasolini verso la piccola borghesia lo comprendo appieno: è la classe che ha costituito le fila principali sia del fascismo che dell’edonismo neocapitalista; è una classe omologata, priva di memoria e di profondità, è la classe che più odia i ceti popolari, verso i quali talvolta la grande borghesia paga dazio con un certo esotismo paternalista, mentre la piccola borghesia teme sempre di impoverirsi e scivolare nelle schiere dei subalterni, horribile visu, dove ha qualche radice che non è riuscita a occultare. Il problema è che l’odio e il rancore appannano la vista e a volte bisogna attenuare questi sentimenti per poter tenere la mano salda e colpire l’avversario con più precisione. Alcune strategie possono aiutare a rallentare gli effetti depistanti del rancore, che a lungo andare può spingere in qualche tranello, come è successo a Pasolini: ad esempio l’umorismo, o qualche rovesciamento, qualche forma di immedesimazione al rovescio. Forse la citazione “deturnata”. Ma come usarli in una poesia d’invettiva scritta a caldo?
Pasolini prende di petto i figli della borghesia e scrive con la bava alla bocca. Le sue ragioni le comprendo e non mi scandalizzo. (Poi ci sono altre questioni: quando il ceto medio può farsi motore di trasformazioni tese all’abolizione dello stato presente e non a un cambio di gestione nella direzione della gestione delle cose? Quando smette di essere ceto medio? O quando diventa giacobino? Non lo so.Figli di papà, ancora uno sforzo se volete essere rivoluzionari).
La questione della foto suscita davvero molto “scandalo” ma è davvero appropriata al pezzo anche senza voler istituire una diretta correlazione. Perchè semplicemente riflette il clima d’odio e violento menefreghismo nei confronti di Per Paolo, quasi un’ostentata indifferenza. Nelle testimonianze dell’epoca emerge chiaramente questo filo di tensione che lega gli eventi in maniera assolutamente coerente. Ma oggi evidentemente è ancora necessario scrivere pezzo che “assolva” Pasolini dalle sue presunte “amicizie” con gli sbirri. Come si è potuto, dalle nostre parti, arrivare ad una tale deriva di strumentale confusione? E qual è sostanzialmente la necessità di spiegare questa foto e di costruire su di essa fantasiose ricostruzioni? cosa c’è da capire?
E qual è sostanzialmente la necessità di spiegare questa foto e di costruire su di essa fantasiose ricostruzioni?
Credevo fosse chiaro che è la stessa domanda che mi faccio anch’io. :) Nell’articolo si dà una chiara spiegazione alla foto. Io trovo che sarebbe stato più onesto evitarlo. Ma quel che volevo dire l’ho già detto, chiudo qui.
Ciao Rocamr, non voglio alimentare una sterile polemica con te. Rifletto solo sul fatto che se non è possibile attribuire alle espressioni dei due poliziotti un’interpretazione certa è quanto meno sospetto che sorridano sul corpo martoriato e massacrato di Pier Paolo Pasolini.Se isolassimo la foto dal contesto e se non conoscessimo l’identità della vittima, sarebbe comunque doveroso interrogarsi sull’assurda demenzialità di quelle sbirresche soddisfatte facce. Sarebbe stato “fuori luogo” ed inaccettabile sul cadavere di chiunque altro ma quello di Pasolini era, è, perfino il cadavere di un intellettuale noto per le sue posizioni politiche.Un intellettuale che era diventato, col suo corpo e con le sue idee, simbolo vivente della protesta. Quei sorrisi lo sfregiano ulteriormente perchè non possono essere inconsapevoli. Però, come faceva notare Wu Ming 1, il fulcro di questo intervento si concentra sulla necessità di ristabilire la verità dei fatti sulle inequivocabili posizioni espresse da Pasolini che sono state, in questi anni, disonestamente trasformate, prima ancora che si iniziasse a nuotare nel mare magnum del relativismo assoluto che prevede l’abolizione forzata delle categorie politiche di destra e sinistra.
Che dire? Grazie WM1 per il bellissimo articolo e per i contributi nei commenti.
Essendo nato nel ’72, ovviamente tutto ciò che riguarda Pasolini lo ho scoperto molto tardi, in una famiglia per quanto comunista ancora omofoba a causa di eredità contadine.
Pasolini è stato uno di quei pezzi grossi che ho sempre lasciato indietro, un po’ per timore e per le tante voci confuse sul suo conto (mi ricordo che nel 2005 per i trent’anni della sua morte le celebrazioni ufficiali alla bct di Terni invitarono un individuo che gli rinfacciava di aver scritto sul Corriere) e un po’ perché come diceva Troisi “voi siete tanti a scrivere, io sono uno a leggere”.
Grazie per aver smascherato ancora una volta il gioco sporco dei perbenisti. Domani in radio (una radio locale, Radio Galileo su cui curo i programmi del venerdì pomeriggio) leggerò parte di questo bellissimo articolo.
Sabato sera sono stato in una biblioteca a Treviso dove si parlava di Pasolini. Alcuni ragazzi hanno illustrato la sua vita e fatto leggere ad alcune attrici delle poesie. Nell’introduzione allo spettacolo hanno letto un pezzo del vostro articolo.
Diciamo che è iniziata la mia avventura per scoprire Pasolini,ed è iniziato tutto da questo articolo senza il quale non mi sarei interessato ad un simile evento, a presto proverò a leggere un suo libro, nella lista per il 2016.