Se questo è un direttore di istituto storico della Resistenza. Roberto Spazzali e i guasti da «Giorno del Ricordo»

Roberto Spazzali


di Nicoletta Bourbaki (*)

Martedì 9 febbraio 2016, vigilia del Giorno del Ricordo 2016. Mentre stiamo ultimando l’articolo che state per leggere, Roberto Spazzali, direttore dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione del Friuli Venezia Giulia (IRSML-FVG), travolto dalle critiche per certe sue esternazioni di qualche giorno prima, chiede scusa pubblicamente.

A dirla tutta non è nemmeno lui a farlo, ma la presidente dello stesso istituto diretto da Spazzali, con queste parole:

«In merito alle polemiche recentemente comparse, Roberto Spazzali riconosce di avere pronunciato una frase inopportuna che gravemente offende le condizioni di chi oggi fugge dalla morte. E se ne scusa.
Il Direttivo dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, riunitosi il 9 febbraio 2016, prende atto delle dichiarazioni di Roberto Spazzali e si rammarica per una affermazione che non corrisponde alla linea culturale e ai valori coerentemente espressi nel tempo dall’Istituto stesso. Del pari si duole della strumentalizzazione che ne è sorta a più livelli.
Il presidente
Anna Maria Vinci»

Poco dopo, su Twitter, anche l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione (INSMLI) prende posizione sulla vicenda che stiamo per raccontare.

«Anche INSMLI ovviamente si dissocia da dichiarazioni gravi, soprattutto per ruolo rivestito da persona che le ha pronunciate.
Vedremo quali provvedimenti prenderà l’Istituto di Trieste e quali le conseguenze nel consiglio generale dell’associazione.

Le dichiarazioni dell'INSMLI su Twitter, 9 febbraio 2016

Ma quali sono le parole di Spazzali che i suoi colleghi stanno condannando?

Come è accaduto che il direttore di un istituto storico dedicato alla Resistenza antifascista sia arrivato a dire cose che ci si aspetterebbe di più da Salvini?

Dipaniamola, questa vicenda miserabile, nata da poche battute in un trafiletto su un giornale di provincia. Vicenda che come unico pregio ha quello di essere un micidiale microscopio su uno dei miti nazionali più ingannevoli degli ultimi decenni. A iniziare dalla vera origine di questo “sacro giorno” appena celebrato.

[Flashback] Quando e dove nasce il “Giorno del ricordo”?
Nel 1944. A Salò.

Il primo “giorno del ricordo” viene celebrato il 30 gennaio 1944 in tutta la Repubblica Sociale Italiana. Il 19 gennaio sul Corriere della Sera appare un breve articolo intitolato «Solenne commemorazione delle vittime del comunismo partigiano»

Il primo Giorno del Ricordo, 1944

Corriere della Sera, 19 gennaio 1944. Clicca per aprire un dossier sulle celebrazioni del primo “Giorno del ricordo”.

L’occhiello recita: «I 471 caduti nelle foibe dell’Istria e della Dalmazia saranno rievocati il 30 gennaio da tutte le federazioni fasciste». Nel corpo dell’articolo si legge tra l’altro (sottolineatura nostra):

«Accanto agli squadristi e fascisti, che sono in maggior numero nell’aver fatto olocausto della vita, si allineano operai, contadini, impiegati, professionisti, piccoli proprietari. La fede politica delle vittime importava fino a un certo punto ai feroci carnefici. Essi facevano obiettivo della più feroce tortura e dell’omicidio chi portava nome italiano, chi era italiano».

L’articolo si conclude con un accorato appello:

«Dalle tragiche foibe si leva un monito: impugnare le armi per difendere la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, la stessa civiltà europea dagli orrori del bolscevismo che ora cerca di aprirsi un varco verso occidente con la complicità delle plutocrazie alleate contro il sacrosanto diritto delle genti povere propugnato dall’Italia e dalla Germania».

La Germania di cui si parla nell’articolo è la Germania nazista.
L’Italia di cui si parla nell’articolo è l’Italia fascista che nel 1941, insieme ai nazisti, ha invaso la Jugoslavia, incendiato decine di paesi, fucilato migliaia di prigionieri e ostaggi, e deportato decine di migliaia di civili a morire di fame in campi di concentramento come quelli di Rab, Molat e Gonars.

I 471 caduti nelle foibe sono invece le vittime dell’insurrezione partigiana e della jacquerie esplosa in Istria dopo l’ 8 settembre 1943, al momento del crollo del potere politico e militare italiano, nel breve intervallo di tempo che ha preceduto l’occupazione nazista.

Sono passati 72 anni da quel primo “giorno del ricordo”, ma il contenuto e lo stile delle commemorazioni di oggi sono pressoché identici a quelli di allora. Solo che l’Italia di oggi è la “Repubblica nata dalla Resistenza”, e gli oratori di oggi sono spesso i curatori fallimentari e liquidatori dell’eredità del PCI, ovvero di coloro che nel 1944 venivano indicati come “belve comuniste”.

1. Roberto Spazzali, l’uomo delle foibe

Roberto Spazzali, come si diceva, è il direttore dell’IRSML-FVG. Si tratta dell’istituto storico che dovrebbe ricordare i valori e la storia della Resistenza antifascista sul confine orientale, preservando, diffondendo e rendendo disponibili i documenti storici su un periodo complesso e drammatico per quest’area geografica e per l’Europa tutta.

Negli ultimi anni Spazzali si è ritagliato, o si è trovato a ricoprire, un ruolo piuttosto delicato. È infatti uno dei più richiesti divulgatori della storia del Novecento a Trieste e dintorni. È anche autore di alcuni testi sulla cosiddetta questione delle foibe, il più noto dei quali, intitolato appunto Foibe ed edito dalle Edizioni Bruno Mondadori, è stato scritto a quattro mani con lo storico Raoul Pupo. Ci arriveremo.

Roberto Menia, braccio destro di FIni

Il… braccio destro di Fini. Roberto Menia, ex-deputato del PdL e poi di FLI, ex-sottosegretario all’ambiente, autore della legge che ha istituito il «Giorno del Ricordo».

Dal momento dell’istituzione del cosiddetto «Giorno del ricordo» delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati, avvenuta con una legge del 2004 firmata dal personaggio qui a destra, Spazzali è diventato uno dei nomi più gettonati dalle amministrazioni locali.
Queste ultime, un po’ per dovere istituzionale un po’ per calcolo politico, hanno bisogno di trovare riempitivi in una giornata dedicata al ricordo di qualcosa che tutti credono di conoscere, ma che scoprono di non sapere. Negli ultimi anni “esperti”, mostre, spettacoli teatrali e film sull’argomento sono diventati merce molto richiesta sul mercato dell’eventistica istituzionale, al punto che qualcuno ha ritenuto questo settore maturo per qualche truffa spregiudicata. Del resto, è il capitalismo, baby!

Arriva il 2016 e, in vista del 10 febbraio, Spazzali parte per la consueta tournée.
Nei primi giorni del mese appare a Bondeno, provincia di Ferrara, per due incontri patrocinati dal Comune, guidato da una giunta di centrodestra con sindaco leghista.

Chissà se è tale contesto a suggerire a Spazzali un certo modo di “agganciare” all’attualità il tema dell’esodo post-bellico dall’Istria. Di certo, il modo è infelice, perché Spazzali arriva a esprimere un concetto che Il Giornale di Sallusti riassume così:

«Gli istriani difendevano la patria. I migranti invece sono codardi». Il Giornale riassume in un icastico titolo le dichiarazioni di Roberto Spazzali

La consueta sobrietà del titolo de Il Giornale e i contenuti dell’articolo causano legittime reazioni da parte di ricercatori e storici locali: si vedano questo intervento di Sergio Zilli e i relativi commenti, nonché di comitati antifascisti, come quello che onora la memoria della staffetta partigiana e deportata ad Auschwitz Ondina Peteani.

Dopo queste reazioni arrivano prima un comunicato dello stesso Spazzali [PDF qui] e poi alcune righe di Anna Maria Vinci, presidente dell’IRSML [PDF qui], che in realtà chiariscono ben poco, limitandosi a denunciare l’aggressivo titolo del quotidiano di Sallusti.
Nessuna di queste smentite – che due giorni dopo verranno smentite a loro volta dalle scuse ufficiali – affronta la complessa articolazione del discorso fatto dallo storico giuliano a Bondeno.

Nel frattempo, stralci più ampi della conferenza sono apparsi su diversi organi di stampa locali. Provengono da una trascrizione stenografica dell’incontro, curata dallo stesso ufficio stampa del Comune di Bondeno (lo abbiamo verificato contattandone il responsabile) e usata per il resoconto ufficiale dell’evento.
È quindi possibile farsi un’idea purtroppo molto precisa del senso di quell’intervento, a iniziare da questo passaggio:

«Nel mare di gente che oggi arriva nel nostro Paese c’è un numero cospicuo di giovanotti che, mi pare, accettino di andarsene dalla propria terra al primo ‘bau’. Mi chiedo il perché di questa inerzia. Perché non organizzare una difesa sul territorio da parte di soggetti autoctoni? Chi se ne va nelle condizioni di oggi che tipo di rapporto ha con la sua terra d’origine? Gli esuli istriani, fiumani e dalmati furono costretti ad andare via perché non erano stati messi nelle condizioni di difendere la loro terra, anche perché il Partito Comunista di allora, in Italia, guardava ai comunisti jugoslavi con riguardo. Ricordo che la storia d’Europa è una storia di orrori, ma in passato l’Europa ha saputo difendersi. E da questa difesa ne sono nati i grandi movimenti di Resistenza».

2. Le guerre di oggi son solo un «bau»

Per Spazzali quanto sta accadendo in Siria – e in Iraq, Afghanistan, Sudan, Eritrea… – non è altro che un «bau», il verso di un cagnetto che abbaia ma tutto sommato è innocuo, non morde. Insomma, argomenta il coautore di Foibe, perché scappare anziché organizzare la propria difesa? Come mai questo «numero cospicuo di giovanotti» che arrivano alle nostre frontiere chiedendo asilo e rifugio non si armano per combattere i regimi che li opprimono? Che razza di rapporto hanno con la propria «terra di origine», con la propria «Patria»?

Non risulta che Spazzali abbia problematizzato questa parte del suo discorso. Ci si potrebbe chiedere quanto sappia davvero delle cosiddette “vicende mediorientali”. Una persona informata avrebbe potuto sottolineare che non si tratta solo di Medio Oriente, ma di un pezzo consistente di pianeta che da decenni sprofonda in uno stato di guerra perpetua. E che cause, attori e responsabili di quei conflitti non possono essere considerati endogeni, scaricandone il peso sulle spalle delle popolazioni civili che ne sono vittime. Lo stesso Occidente, che Spazzali implicitamente esalta, è ogni tanto costretto ad ammettere le proprie responsabilità.

E di quei migranti, di quelle migranti, cosa sa Spazzali? Vivendo a pochi chilometri dalle frontiere slovene, si è forse premurato, prima di parlarne, di andare a vedere chi siano quelli che nei mesi scorsi vi sono giunti, dopo viaggi rischiosi e maltrattamenti di ogni tipo?

Dalle sue parole, pare proprio che non l’abbia fatto, altrimenti – a meno di non essere in totale malafede – non si azzarderebbe a chiamarli spregiativamente «giovanotti», riproponendo con una sola parola uno dei peggiori clichés dell’estrema destra xenofoba, per di più un cliché sessista, che rimuove la presenza, tra quelle moltitudini in movimento, di decine di migliaia di donne, anziani e bambini in fuga da devastazioni e guerre. Quelle guerre che per lui sono un «bau».

Spazzali ignora anche, o finge di ignorare, che “da quelle parti” i movimenti di resistenza non mancano, e alcuni di essi hanno una prospettiva di liberazione molto avanzata, simile o anche più avanzata di quella che le componenti più progressive delle organizzazioni antifasciste europee tentarono di mettere in campo settant’anni fa.

Da più di tre anni, nel Rojava, regione del Kurdistan siriano, la resistenza popolare tiene in scacco il mostro fascista che questa nostra epoca e questa “nostra civiltà” hanno prodotto, quello che alcuni chiamano ISIS e altri Daesh. Se il Rojava è oggi una regione autonoma, fondata su principi di democrazia diretta, eguaglianza di genere, sostenibilità ecologica e multietnicità, è solo perché gli uomini del YPG e, soprattutto, le donne del YPJ si sono organizzati per combattere, spesso malgrado – e contro – i giochi sporchi della geopolitica occidentale (come l’appoggio al regime di Erdogan in Turchia).

Renzdogan

Torneremo su questi aspetti. Al di là delle specificità della storia del “confine orientale”, servono a smontare il discorso razzista e guerrafondaio che si va affermando in Italia e in Europa. Svelano come funzionano e si affermano le retoriche sullo scontro di civiltà.

3. Di che “resistenza” stiamo parlando?

A Spazzali interessa articolare la sua personale visione della faccenda, partendo dall’assunto per il quale la vecchia cara Europa, ella sì fu capace di reagire e produrre «grandi movimenti di Resistenza». Ma a quale Resistenza si sta riferendo esattamente?

La comparazione tra l’esodo istriano e i «giovanotti» profughi di oggi produce il passaggio più raccapricciante – stavolta dal punto di vista storico – dell’intervento, quello in cui Spazzali dichiara che istriani, fiumani e dalmati non se ne sarebbero andati se avessero potuto difendere la «loro terra». Loro sì che erano profughi veri, costretti a un esilio che avrebbero di certo evitato se fossero stati messi nelle condizioni per farlo. Condizioni che evidentemente vennero negate dalla “madre patria”, soprattutto da una componente politica: i comunisti (guarda caso), che per reverenza nei confronti dei loro omologhi jugoslavi non permisero ai nostri compatrioti di ribellarsi e reagire.

Questa parte del discorso contiene una serie di presupposti storici gravissimi, soprattutto considerando chi sta parlando.

La resistenza a cui si riferisce il nome dell’IRSML-FVG è quella nata l’8 settembre 1943, quando Mussolini era al potere da vent’anni. Già solo questo ritardo nella ribellione contro il tiranno di una parte consistente della società italiana, società che –  a Roma come a Trieste – per due decenni affollò i comizi di Mussolini nelle piazze, dovrebbe consigliare maggior prudenza nel contestare alle vittime dei conflitti globali odierni l’atto di cercare rifugio lontano dalle proprie terre di origine.

Spazzali, tra l’altro, dovrebbe ricordare che sul “confine orientale” la resistenza al nazifascismo era iniziata molto prima, grazie a sloveni e croati perseguitati dall’Italia prima liberale e poi fascista, fin dal 1918, ovvero da quando l’Italia, per la prima volta nella storia, aveva conquistato la sovranità su quell’area geografica, che mai era stata “italiana”.

La testata di Svoboda, «Libertà», giornale clandestino del TIGR.

La testata di Svoboda, «Libertà», giornale clandestino dell’organizzazione antifascista TIGR. L’acronimo era formato dalle iniziali di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (in croato Rjeka, in sloveno Reka).

Spazzali si guarda bene dal citare la vicenda del TIGR, prima organizzazione clandestina antifascista in Europa, attiva già dal 1924, che nel 1938 pianificò persino un tirannicidio, poi abortito, in occasione della visita di Mussolini a Caporetto. Molti membri del TIGR furono vittime del Tribunale speciale per la Difesa dello Stato, che istruì nella Venezia Giulia due processi, mandando a morte tre resistenti sloveni e uno croato nel 1930 e altri cinque nel 1941. Di 47 condanne a morte pronunciate da quel tribunale fascista, ben 36 furono a carico di sloveni e croati. Di queste, 26 furono eseguite.

Spazzali non dice al suo uditorio che, anche in seguito a questi atti repressivi, gli esodi dall’Istria e dalla Dalmazia iniziarono molto prima del 1946, ma riguardarono sloveni e croati in fuga dalle politiche di italianizzazione forzata e di repressione, verso l’allora regno di Jugoslavia.

Gli esodi prima dell'Esodo

Spazzali si guarda bene dal dire che i primi «italiani» a fare la resistenza furono proprio i comunisti di quelle parti, formando reparti autonomi di elementi italiani inquadrati alle dipendenze della già attiva resistenza slovena, a partire da quello che potremmo definire uno spontaneo internazionalismo di frontiera. È una verità scomoda e spesso manipolata, perché costringerebbe ad ammettere l’aspetto più rimosso di tutte le vicende che riguardano quest’area geografica, ovvero che la sua popolazione non è mai stata omogenea, da nessun punto di vista, né etnico, né culturale, né linguistico, e quindi tantomeno nazionale.

Su questa rimozione si fonda buona parte del lavoro storiografico di Spazzali e di altri, tra i quali il suo coautore Pupo, capaci di leggere questa storia solo come contrapposizione tra due nazionalismi, se non persino tra due razze.

Quelli che per primi e più efficacemente si opposero al nazifascismo, perlopiù contadini e operai, avevano le idee piuttosto chiare sul proprio rapporto con «la terra d’origine»: slavi e italiani qui si mescolano da sempre, ponendo un serio problema alle narrazioni storiche ufficiali – come quella di Spazzali e Pupo – che pretendono di definire identità monolitiche, fingendo di ignorare che in un territorio di frontiera, come oggi nelle metropoli di tutto il pianeta, le cose sono molto più complesse e contraddittorie. Lo spiega benissimo Glenda Slugastudiosa anglo-sassone di origini triestine, in un libro fondamentale per guardare alla vicenda di Trieste – e dell’area geografica transnazionale di cui fa parte – da una prospettiva post-coloniale. Libro purtroppo, ma non sorprendentemente, mai tradotto in italiano.

Ma forse la Resistenza a cui Spazzali allude non è nessuna di queste appena citate.
Spazzali sembra considerare movimenti di liberazione solo i gruppi che agirono con finalità patriottiche, non necessariamente antifascisti. In questo senso, nel suo volume L’Italia chiamò esalta la resistenza nazionale italiana di Trieste che imbracciò le armi contro i tedeschi per un solo giorno, quello dell’effimera insurrezione del 30 aprile 1945. O forse considera resistenza quella del CLN dell’Istria, nato addirittura dopo la fine della guerra, dunque una “resistenza” senz’altro anticomunista e ben poco antifascista.

Graziano Udovisi

Graziano Udovisi

Nel suo ruolo di direttore del IRSML – il che ci mostra che il «bau» non è un’uscita isolata – Spazzali ha addirittura preso le difese di criminali fascisti: a un convegno sul confine orientale organizzato il 16 gennaio dall’Anpi di Milano – non proprio il luogo più adatto in cui tessere gli elogi dei collaborazionisti! – il coautore di Foibe ha sostenuto che Graziano Udovisi, improbabile «sopravvissuto alla foiba», avrebbe protetto gli abitanti del paese istriano di Portole dalle violenze dei nazisti.
Solo che Udovisi fu membro del nucleo «Mazza di ferro» della Milizia Difesa Territoriale – corpo militare alle dirette dipendenze del Terzo Reich – e dopo la guerra fu condannato per collaborazionismo e per aver arrestato proprio a Portole tre partigiani, in seguito seviziati da suoi sottoposti. Ne sopravvisse uno solo.
[Per un approfondimento sulla figura di Udovisi e un dettagliato smontaggio delle sue testimonianze da «scampato alle foibe», si veda: Pol Vice, La foiba dei miracoli. Indagine sul mito dei «sopravvissuti», Kappa Vu, Udine 2008.]

Con le parole proferite a Bondeno, Spazzali finisce per chiudere il cerchio nel punto dove, per il ruolo che ricopre e per ciò che rivela della sua mentalità, non avrebbe mai dovuto avventurarsi. Quando afferma che «gli esuli istriani, fiumani e dalmati non erano stati messi nelle condizioni di difendere la loro terra», sta di fatto affermando che al termine della Seconda guerra mondiale l’Italia, che aveva perseguitato le popolazioni slovena e croata per decenni ed era stata alleata della Germania nazista, avrebbe dovuto armare una resistenza “patriottica” nelle terre annesse negli anni precedenti. Terre che gli Alleati avevano appena restituito allo stato sovrano della Jugoslavia – nato proprio dalla vittoria antifascista in quella guerra – come esito del Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 (a proposito!). Tutto questo con la prospettiva di (ri)prendere possesso di quei territori: Istria, Fiume e Dalmazia.

Un genere di “resistenza” come quello auspicato da Spazzali avrebbe corso il rischio di riaccendere le braci della guerra appena finita, rigettando subito il mondo nel caos.

In effetti vi furono richieste di armi da parte di formazioni paramilitari istriane, ma molto probabilmente non ebbero seguito, altrimenti in Istria si sarebbero visti ben altri scenari di guerra civile.

vergarolla_alta

Scenari evidentemente da rimpiangere per Spazzali, il quale non può non conoscere il libro di Gaetano Dato Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda (LEG, Gorizia 2014). Due anni fa il libro fece scalpore, perché smentiva nettamente la tesi dell’ANVGD secondo cui la nota strage sarebbe stata provocata da terroristi filojugoslavi per spingere ad andarsene la popolazione di lingua italiana.

Nella ricerca di Dato, che vaglia tutte le ipotesi, appare consistente la pista monarchico-fascista nella responsabilità della strage, che intendeva colpire l’amministrazione angloamericana della città. Sei mesi dopo, la repubblichina Maria Pasquinelli avrebbe assassinato il generale De Winton, comandante della piazza di Pola.
In realtà, nulla che già non si sapesse all’epoca. Ma il valore aggiunto del libro è la resa dello scenario torbido dell’Istria del secondo dopoguerra, traboccante di

«spie, agitatori di tutte le risme, provocatori prezzolati, agenti segreti, dalla Jugoslavia all’Italia e viceversa, il traffico d’armi […] C’era chi pensava, forte di un’esperienza maturata trent’anni prima, che la città di Pola o la stessa Venezia Giulia potessero diventare una novella Fiume di dannunziana memoria, in cui sperimentare un’eversiva rivoluzione patriottica».

Si badi che non stiamo citando Dato, ma la prefazione al suo libro. Prefazione scritta nientemeno che da… Roberto Spazzali, il cui rammarico espresso a Bondeno acquista dunque il sapore di un rimpianto per quel genere di lotta eversiva e la situazione di torbidume in cui essa opera.

Del resto, lo storico giuliano ha tentato di sviluppare anche in passato – ad esempio qui – una chiave interpretativa che coincide in modo raccapricciante con quanto hanno sostenuto per decenni i fascisti italiani, e che era sottesa ad operazioni deviazioniste e golpiste di cui la più nota fu Gladio.

[Flashback] Porzus e Gladio, 1992

L’8 febbraio 1992, dieci giorni prima dell’arresto di Mario Chiesa e della conseguente caduta degli dei del CAF (Craxi Andreotti Forlani), il presidente della repubblica Cossiga sfida il gelo della pedemontana friulana per andare a Porzus a rendere omaggio ai diciassette partigiani osovani uccisi dai garibaldini nel lontano 1945.

Episodio controverso, l’eccidio di Porzus, situato in uno snodo storico estremamente complesso: Junio Valerio Borghese e la X Mas si stavano preparando al salto della quaglia e – sotto la supervisione di una parte dei servizi segreti angloamericaniprogettavano insieme agli osovani la difesa del confine contro i partigiani comunisti jugoslavi e italiani inquadrati nel IX Korpus dell’Esercito Popolare di Liberazione. Sullo sfondo, la corsa verso Trieste degli alleati/rivali angloamericani e jugoslavi. E la repressione della rivolta operaia di dicembre ad Atene ad opera degli inglesi, che avevano rimesso al potere i monarchici in odor di collaborazionismo. Il matrimonio tra osovani e X Mas si celebrò nel dopoguerra, e diede vita a quella che in seguito si sarebbe chiamata «Organizzazione Gladio».

Infatti Cossiga, dopo aver disceso i tornanti che da Porzus portano alla pianura, si reca a Udine dove incontra ufficialmente e pubblicamente i veterani di Gladio, riconoscendo e rivendicando il ruolo da essi svolto durante la guerra fredda. Da un giorno all’altro, il magistrato Felice Casson, che ha condotto una delicata indagine sugli intrecci tra Gladio e strategia della tensione, si trasforma da eroe civile in nemico della patria.

4. Quei giovanotti vigliacchi e i corrotti che li accolgono

La ristretta concezione patriottarda che Spazzali ha della Resistenza, il modo in cui la ingabbia in una narrazione di fatto nazionalista e agiografica, è pari solo all’idiozia di paragonare l’Istria del 1946 alla Siria di oggi. Paragone che molti esuli e figli di esuli istriani rifiutano, affermando anzi, con una lucidità che Spazzali dovrebbe invidiare, che proprio per quanto hanno vissuto dovrebbero essere i primi ad accogliere chi oggi cerca rifugio.

Invece il direttore dell’Isrml ha le idee molto chiare anche su questo punto, e la lezione che impartisce la trae, ancora una volta, dalla storia. Precisamente, dalla gloriosa storia amministrativa di un paese come l’Italia, che notoriamente ha sempre brillato per efficienza e correttezza. Ecco come prosegue il suo intervento a Bondeno:

«Guardo al 1949, quando l’allora governo italiano aveva organizzato l’esodo da quelle terre. Nei conti – di miliardi di lire – si registrò un semplice sbilancio di 10mila lire. Tutti i prefetti consegnarono i conti perfettamente a posto. Questo accadde perché non c’erano iniziative a fini di lucro. Oggi c’è una carità pelosa, c’è chi lucra, specula, sulla pelle di disgraziati. E questo è l’aspetto più immondo. Tutto sommato, oggi, accogliere è anche un ‘buon affare’. Questa è una responsabilità dei nostri politici. Così come responsabilità loro è anche la questione del vicino Oriente. Non si fanno buoni affari in Iran, chiudendo tre occhi sui diritti civili. Ci vuole la schiena dritta».

Spazzali esprime una malcelata nostalgia per i prefetti che facevano arrivare i treni in orario e tornare i conti, quasi sempre. Oggi invece viviamo tempi in cui i leghisti investono in diamanti africani e lauree albanesi, i benpensanti affittano in nero a migranti e studenti fuori sede, e alcune associazioni e cooperative speculano sulla pelle dei richiedenti asilo. A suo modo di vedere, motivi più che validi per dare ulteriori colpe ai profughi. Del resto l’occasione fa l’uomo ladro, e se gli attuali profughi non scappassero al «primo bau» nessuno avrebbe motivo di speculazione. Idea semplificata che potrebbe andar bene per un Salvini qualunque.

Appunto, per Salvini, non per uno studioso che delle condizioni materiali in cui si svolsero i trasporti dei profughi nel Secondo dopoguerra ha una conoscenza particolareggiata. In un recente saggio pubblicato in questo libro, a pagina 517 Spazzali documenta con dovizia di particolari l’organizzazione dei trasporti delle persone, delle masserizie e persino delle bare con le spoglie mortali di molti congiunti, tra le quali le spoglie di Nazario Sauro e persino i resti del suo sommergibile… Una descrizione che segnalerebbe da sola l’inopportunità del confronto coi migranti dal Medio Oriente odierno. A meno che Spazzali non viva in un presente tutto suo, dal quale la realtà del mondo contemporaneo è del tutto esclusa, e dove nel Mediterraneo non affoga nessun “giovanotto”.

[Flashback] Belgrado e Trieste, 1991

Nell’agosto del 1991 una delegazione del MSI di cui fanno parte Gianfranco Fini, Roberto Menia e Mirko Tremaglia vola a Belgrado per incontrare alcuni esponenti di seconda fila del regime di Milošević​ e vari esponenti dell’estrema destra serba. La Slovenia ha da poco ottenuto l’indipendenza, e tra Serbia e Croazia è già guerra.

Oggetto dell’incontro è nientemeno che la spartizione della Croazia tra Italia e Serbia. Pare che l’Italia stia prendendo in seria considerazione la possibilità di intervenire militarmente in Istria, a tutela degli interessi nazionali nel campo della pesca e a difesa della minoranza italiana che vive nella regione.
Del resto, il tabù sulle missioni militari fuori dai confini nazionali è già caduto pochi mesi fa, con l’intervento italiano in Iraq nella missione internazionale denominata “Desert Storm”.

Anche la trasferta missina a Belgrado ha una copertura informale ad alto livello istituzionale: al suo ritorno Fini viene ricevuto da Cossiga per relazionare sull’incontro. La rapida evoluzione degli eventi, con la scelta filocroata di Germania e Vaticano, impone poi all’Italia di schierarsi a favore della Croazia di Tuđman. Il 4 ottobre, in un’improvvisata – ma sapientemente calcolata – conferenza stampa a Trieste, Cossiga annuncia che all’Aja, dove si sta discutendo di pace, è stata ventilata l’ipotesi di far rientrare via mare in Montenegro le truppe jugoslave ancora presenti in Slovenia, con imbarco a Trieste.

L’annuncio produce un vero e proprio moto di isteria collettiva: la destra cavalca l’onda paventando un revival dei «foschi giorni del maggio ’45, in cui le orde titine seminarono il terrore nella città». Nonostante le smentite dei governi italiano e sloveno, il 6 ottobre la città è attraversata da un imponente corteo convocato dal MSI a livello nazionale, con tanto di comizio finale del segretario Gianfranco Fini. La manifestazione va ben al di là della protesta per l’improbabile passaggio dell’esercito jugoslavo in smobilitazione attraverso le strade di Trieste, e assume un chiaro contenuto neoirredentistico: si chiede la revisione dei confini orientali d’Italia e la “restituzione” di Istria e Dalmazia.

A Trieste il ritorno di fiamma dell’irredentismo dura per tutto il ’92, mentre la politica italiana è squassata da Tangentopoli e la mafia lancia la sua offensiva contro lo stato facendo saltare in aria Falcone e Borsellino. L’ultimo grande corteo a Trieste si svolge nel novembre del ’92. Poco dopo, grazie a Berlusconi e con la benedizione di Cossiga, il MSI viene ammesso a pieno titolo nel salotto buono (si fa per dire) della politica italiana.

Fini e Menia sono quelli con cui Violante e Fassino nella seconda metà degli anni Novanta patteggeranno la costruzione della cosiddetta “memoria condivisa”, patteggiamento suggellato poi dall’istituzione del “Giorno del Ricordo”.

5. L’impossibile definizione di un’identità unica

Le vicende che sconvolsero il confine orientale nel corso della prima metà del ‘900 sono assai complesse – per ripercorrerle brevemente vedi quanto scritto dai principali storici italiani e sloveni – e videro i diversi regimi che si susseguirono infliggere in varia misura notevoli sofferenze a tutte le popolazioni di quel territorio. Qualunque retorica sui martiri, gli eroi, le patrie, le bandiere e «le pietre che parlano [inserire lingua a piacere]» è una falsificazione e un indegno sfruttamento del dolore di tutte le vittime. Forse, anziché titillarsi con la «civiltà europea», per comprendere quanto accaduto varrebbe la pena di leggersi quanto scrive uno degli inesistenti – secondo Spazzali – resistenti mediorientali, Abdullah Öcalan:

Abdullah Ocalan«La storia della modernità è anche una storia di quattro secoli di genocidio culturale e fisico nel nome di una immaginaria società unitaria. […] Lo stato nazione mira a creare una singola cultura nazionale, una singola identità nazionale ed una singola comunità religiosa unificata. Così rinforza una cittadinanza omogenea. […] La storia degli ultimi due secoli è piena di esempi che illustrano i tentativi violenti per creare una nazione che corrisponda all’immaginaria realtà di un vero stato-nazione».

Lo sciagurato parallelo che Spazzali ha voluto impalcare a Bondeno viene spiegato in modo impeccabile da un leader rivoluzionario curdo, sepolto vivo da anni in un carcere turco di cui è l’unico detenuto. Vale sempre la pena ricordare, e stavolta più di altre, che a Öcalan la magistratura italiana riconobbe lo status di rifugiato politico. Troppo tardi però, perché nel frattempo con pilatesco tempismo la stessa Italia aveva fatto in modo di deportarlo con l’inganno, sapendo che questo avrebbe comportato la sua condanna a morte, “fortunatamente” poi tramutata in carcere a vita.

[Flashback] il mito del «barbaro slavo» inventato per assolvere l’Italia fascista

Nel 1946, quando l’Italia è già diventata Repubblica e per essere riammessa nel consesso internazionale deve dimostrare un minimo di volontà di fare i conti col proprio passato, la “Commissione d’inchiesta sui presunti criminali di guerra” redige una memoria che definire apologetica è poco.​ In riferimento all’occupazione della Jugoslavia, vi si leggono affermazioni di questo tenore:

«A prescindere, invero, dall’indole degli Italiani, alieni, per il loro tradizionale senso di umanità e giustizia, da quegli atti di crudeltà e da quegli eccessi che vengono loro addebitati, è dimostrato da una larga documentazione che le rappresaglie più feroci e spietate, gli assassini più atroci, le barbare distruzione di interi villaggi e di edifici di ogni specie, che ora vengono attribuiti agli italiani, furono invece commessi dai gruppi etnici e religiosi in lotta fra loro. Le nostre Autorità di occupazione ebbero anzi ad intervenire per porre un freno a tali eccessi e per tutelare, come si é accennato, la vita del militari italiani e della popolazione per assicurarle una vita pacifica: circostanze queste in assoluto contrasto coi propositi di distruzione che si vogliono loro attribuire.»

Questa versione dei fatti diviene la base dell’autorappresentazione vittimistica degli italiani quali “brava gente” e dell’ideologia nazionale anche nell’Italia repubblicana.

Il cattivo tedesco e il bravo italiano, libro di Filippo Focardi

Su come ha preso forma e si è radicato il mito del «soldato italiano», si veda il libro di Filippo Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, Roma/Bari 2013.

Dal ’44 al ’46 e via via fino al 2016, questa vulgata si cristallizza fino a diventare un dogma: i Balcani sono una terra popolata da genti barbare che si combattono perennemente tra loro in sanguinosi scontri etnici. Il ruolo dell’Italia nella regione fu quello di pacificare genti che non erano in grado di autogovernarsi.

Il fatto che gli scontri etnici fossero ampiamente fomentati proprio dagli invasori italiani e tedeschi allo scopo di dividersi e controllare meglio il territorio scompare dal quadro per non riapparire più.

6. L’Oriente, il nemico

Perché diciamo che la questione storica del “confine orientale” è utile a capire cosa sta accadendo in Italia e in Europa oggi?

Per molte ragioni, ma prima di tutto perché è emblematica dei modi in cui avviene la costruzione del nemico, un vero e proprio meccanismo di invenzione funzionale a perseguire determinati obiettivi politici.

Il sincronismo tra la retorica nazional-fascista e quella resistenzial-patriottica sulle “foibe” non si comprende se non si considera il lavoro dello studioso palestinese-americano Edward Said e la sua riflessione sull’Orientalismo.

In breve, l’Orientalismo è quell’insieme di stereotipi, rappresentazioni, sistemi culturali e modi di essere funzionali a distinguere nettamente, prima di tutto in ambito accademico, un mondo occidentale da uno orientale, dove il primo è sempre sinonimo di sviluppato, razionale, efficiente e civilizzato, mentre il secondo viene descritto, con le sue popolazioni, usanze e mentalità, come arretrato, esotico e in fondo barbarico.

L’Orientalismo non ha valenza strettamente geografica, ma nel caso specifico la stessa insistenza sull’immagine del “confine orientale”, lo stereotipo della Venezia Giulia come “frontiera” ma anche “ponte” tra Oriente e Occidente, sta a dimostrare quanto la storiografia ufficiale di questa regione sia impregnata di tale idea, che non casualmente nasce alla fine del XVIII secolo con il colonialismo.

La storia di queste terre viene addomesticata in funzione del presente perché serve a costruire una retorica di unità nazionale. La chiave era ed è il pregiudizio antislavo, attraverso il quale gli italiani furono lesti – molto lesti come abbiamo visto, dal momento che inventarono il Giorno del ricordo già prima della fine della guerra, e riprodussero il mito degli italiani brava gente immediatamente dopo! – a scrollarsi di dosso qualsiasi colpa per le politiche di occupazione coloniale. Nei Balcani, tali politiche furono giustificate con l’idea che buona parte di quelle terre fosse per vocazione “latina”, mentre la presenza di altre culture – irriducibili a quella che si presupponeva bimillenaria e civilizzatrice – era un incidente della storia, frutto del caos e della barbarie di popoli provenienti da Oriente.

Maurizio MolinariNon è forse questa l’immagine delle Guerre jugoslave degli anni ’90 consegnataci dai media mainstream? Non è questa, ancora oggi, l’immagine dei vari conflitti mediorientali, asiatici e africani? Basta rileggersi un recente ma già famigerato editoriale del direttore della Stampa Maurizio Molinari. Caos e barbarie; “quelli là” sono incomprensibili, disumani, e proprio per questo da addomesticare. Che è poi il modo in cui uno come Spazzali tratta il più grande movimento di resistenza europeo, quello jugoslavo.

Ieri come oggi lo scontro di civiltà è la chiave perfetta per costruire nemici a tavolino. Serve a definire un “noi” e un “loro”, a costruire l’«altro» come irriducibile diversità, in modo da far esistere un «altro-inferiore-da-noi».

E così si possono legittimare guerre e politiche xenofobe, rendere accettabili dalla società ostacoli e barriere frapposti all’ingresso legale dei migranti, implementare dispositivi che materialmente significano minori diritti politici, minori diritti del lavoro, minori garanzie di accesso ai servizi, come la sanità, l’istruzione e via dicendo. È il modo in cui le nostre società vengono ridefinite nel contesto neoliberista del capitalismo: società a geometria variabile, stratificate attraverso diversi livelli di accesso ai diritti. In ultima istanza, avere una diversità da esporre come irriducibile giustifica questo, è fondamentale in momenti di crisi, permette di rinserrare le fila attorno a identità inventate e maneggevoli.

Ecco perché le parole di Spazzali sono insopportabili, perché sono un modo sottile, perfido e insidioso di declinare e diffondere la retorica del «Prima gli italiani!». Sottile e perfido perché in questo caso il messaggio non è solo la riproposizione di quell’«aiutiamoli a casa loro» di cui si riempiono la bocca i razzisti nostrani, ma è ancora peggiore perché diventa «Si aiutassero a casa loro!». Insidioso, perché a pronunciarlo non è un saltimbanco della politica senz’arte né parte, ma appunto il direttore di un istituto che studia la storia di chi combatté il nazifascismo. E che infatti viene puntualmente ripreso da uno dei giornali più xenofobi sulla piazza e da diversi esponenti leghisti, per usarne le parole a giustificazione di tutto il loro livore razzista e anticomunista.

7. Un breve excursus sul libro Foibe di Pupo-Spazzali

Ecco cosa l’intervento di Bondeno ci racconta del suo autore. Il cortocircuito tra le migrazioni di oggi e l’esodo dall’Istria e dalla Dalmazia di settant’anni fa ha fatto emergere i presupposti, viziati da nazionalismo e anticomunismo, su cui tutto il lavoro di Spazzali si è fondato da decenni a questa parte.

Il libretto Foibe di Raoul Pupo e Roberto SpazzaliE qui tocca parlare del già citato libriccino Foibe del 2003, curato a quatto mani con Raoul Pupo, nel momento storico cruciale che porterà, di lì ad un anno, all’approvazione della legge sul Giorno del Ricordo.

Il libro è celebre per l’idea secondo cui la parola «infoibati» avrebbe un senso non letterale ma «simbolico». Si tratta di un escamotage finalizzato a includere nel novero dei «martiri delle foibe» tutti i civili e militari di nazionalità italiana morti o scomparsi durante la seconda guerra mondiale sul confine orientale, in pratica tramutando in “verità” storiografica le fantasie popolari e la propaganda revanscista sui caduti.

Foibe è una sorta di zibaldone che mette insieme ritagli di ogni tipo con manipolazioni anche flagranti di testimonianze di partigiani per far passare la tesi pupo-spazzaliana secondo cui le foibe, pur essendo impossibile categorizzarle sotto la voce «pulizia etnica», sarebbero state il frutto di un piano preordinato titino per sbarazzarsi dei simboli del potere italiano in Istria.

È più o meno l’ideologia del famoso discorso di Napolitano del 2007 il quale, con l’aggiunta dei «contorni della pulizia etnica», sarà motivo di tensione diplomatica con la Croazia, anche per l’onorificenza postuma conferita al criminale di guerra Vincenzo Serrentino.

Ovviamente dal saggio vengono sapientemente eliminate tutte le evidenze che non restituiscono la tesi del piano preordinato. Vengono rinnegati gli stessi predecessori di Pupo e Spazzali all’IRSML, Galliano Fogar e Giovanni Miccoli, che avevano sostenuto gli aspetti di jacquerie e di resa dei conti negli infoibamenti, perlomeno in quelli istriani.

Spazzali e Pupo evitano accortamente di menzionare le analisi più insidiose dei due predecessori, come le correlazioni individuate da Fogar tra il personale delle miniera di Valdarsa infoibato a Vines e il disastro minerario del febbraio 1940. In quella tragedia morirono 200 minatori, le responsabilità furono passate sotto silenzio dalle autorità fasciste e dall’amministrazione della CarbonArsa. I funzionari di quest’ultima furono i primi che la popolazione andò a cercare dopo il crollo del regime.

L’aspetto più odioso del libro, tuttavia, è l’accusa infamante di «negazionismo» affibbiata ai ricercatori di oggi non in linea con il pensiero di Pupo e Spazzali. Per denigrare Claudia Cernigoi, i due ricorrono a improponibili scritti del fascista Giorgio Rustia, respinti nei passaggi in cui l’autore attacca l’IRSML ma sdoganati in quelli dove si scaglia contro Cernigoi.

Proprio da quelle pagine di Foibe ha avuto origine la leggenda metropolitana su «quelli che negano le foibe», leggenda nera che aleggia come uno stigma intorno a storici che hanno il solo torto di condurre ricerche sgradite a Pupo e Spazzali. Questo stigma, come stiamo per vedere, continua ad avere pesanti conseguenze concrete.

8. Un giorno che Spazzali ricorderà

Tutto questo ci importerebbe meno se Spazzali fosse uno storico qualsiasi. Invece, come abbiamo detto in apertura, è il direttore responsabile di un istituto, finanziato dallo Stato, che ha il compito di preservare la memoria collettiva di una repubblica nata dalla Resistenza antifascista.

A Trieste, l’Istituto è stato fondato da studiosi e storici di provata fede antifascista legati al CLN quali il già citato Galliano Fogar, Carlo Schiffrer, Ercole Miani. Fogar, esponente della Resistenza antifascista non comunista, ne fu il segretario per lunghi anni. Sotto la sua guida l’Istituto ha prodotto studi legati all’antifascismo, all’occupazione tedesca e al collaborazionismo, allo sviluppo della Resistenza – sia di matrice comunista che ciellenista – nei territori del confine orientale. Tra gli anni ’70 e i primi anni ’80 l’Istituto produsse due dei volumi più importanti della sua storia: Nazionalismo e neofascismo nella lotta politica al confine orientale (1945-75) e Storia di un esodo. Istria 1945-1956, libri che per il loro rigore storico e la loro obiettività sembrano appartenere ad un passato ormai molto lontano.

Fogar fu uomo integerrimo, di ideali mazziniani, capacissimo di distinguere tra la storia e la propaganda politica. Per rendersene conto si veda questo video.

Dopo la breve orazione funebre del figlio Maurizio, che dice cose importanti contro il cliché «delle-foibe-non-si-era-mai-parlato», parte un estratto d’intervista a Fogar. L’anziano storico smentisce tutti i più triti luoghi comuni sulla vicenda foibe e liquida come «odiosa speculazione politica e morale» il mettere sullo stesso piano nazisti e jugoslavi.

Negli ultimi anni (e ancor di più dopo la morte di Fogar), l’Istituto ha spostato sempre più l’accento sulle vicende legate alla Giornata del ricordo (esodo e foibe), presentandole sempre più in un’ottica nazionale.
Questo ci fa porre la domanda su quale senso abbia ancora una denominazione che si richiama al Movimento di Liberazione. Sarebbe forse più onesto – e scientifico – cambiarla in «Istituto per la Storia del Confine Orientale d’Italia».

Enrico Gherghetta

Enrico Gherghetta, attuale presidente della provincia di Gorizia.

Al di là di tutto questo, sono ancora più gravi le conseguenze pratiche di un certo modo di trattare la storia quando il messaggio che passa è quello di un’ideologia di unità e di pacificazione nazionale a tutti i costi.

Nelle stesse ore in cui si consumava la vergognosa vicenda che coinvolge Spazzali, il presidente della Provincia di Gorizia, Enrico Gherghetta (PD), portando alle estreme conseguenze la lettura di Spazzali sulla questione foibe-ed-esodo, decideva di negare la sala precedentemente concessa per lo svolgimento del convegno «11 ANNI DI “GIORNO DEL RICORDO”, tra mistificazioni storiche e rivalutazione del fascismo», al quale avrebbero partecipato diversi storici, più volte messi alla berlina da Spazzali, ma di fatto mai smentiti scientificamente. Le motivazioni di Gherghetta, leggibili integralmente qui, erano di questo tenore:

«Nel caso in questione è lapalissiano che il giorno del ricordo previsto per legge non possa concedere una sala pubblica a chi nega la legge.
È come se il giorno della memoria dell’olocausto concedessi una sala pubblica a chi lo nega.»

Il cerchio si chiude, con l’accusa di “negazionismo” usata per difendere una ricorrenza che del vero negazionismo – quello dei crimini di guerra italiani in Jugoslavia – ha fatto una religione civile.

9. Aggiornamento del 29 febbraio: le dimissioni di Spazzali

A seguito del post che state leggendo, il 16 febbraio 2016 l’INSMLI ha emanato un comunicato durissimo, di ferma condanna per le parole di Spazzali, nelle quali ravvisava «un nonsenso storiografico» e «un’offesa al senso di giustizia e umanità». Da tali parole l’Istituto nazionale si dissociava «totalmente e profondamente». A Spazzali l’INSMLI diceva anche: «È improprio, antistorico e inaccettabile risuscitare fantasmi di irredentismi, nazionalismi e contese territoriali».

Il comunicato si concludeva con l’auspicio che gli organi dirigenti dell’IRSML rispondessero «con chiarezza alle polemiche suscitate» e prendessero «le misure necessarie» per riaffermare «la linea storiografica e culturale che è patrimonio di tutta la rete degli Istituti della Resistenza».

Spazzali si è dimesso il 20 febbraio. Nove giorni dopo questo post, quattro giorni dopo l’auspicio dell’INSMLI.

Ne ha dato notizia il 23 febbraio Anna Maria Vinci, in un comunicato di cui riportiamo il testo:

«Comunicato del 23/02/2016

Nel corso della riunione del direttivo del 20 febbraio 2016, il prof. Roberto Spazzali ha rassegnato le dimissioni da direttore. Il direttivo, nell’accoglierle, ha ringraziato unanime il prof. Spazzali per la quantità e la qualità del lavoro da lui profusa da molti anni a questa parte al servizio dell’Istituto e dell’intera rete, prodigandosi nell’attività di ricerca e nella costante attenzione e cura a favore dei più giovani.

Al tempo stesso, il direttivo rende merito alla sua onestà intellettuale, al suo spirito di collaborazione e al suo senso di responsabilità, auspicando che tale collaborazione continui ancora all’interno dell’Istituto.»

Questa comunicazione è apparsa solo sul sito dell’istituto, non linkabile individualmente né pubblicata sulla pagina Facebook dell’IRSML, dove nel frattempo erano stati chiusi i commenti ai comunicati precedenti: le due smentite iniziali e le scuse che avevano smentito le smentite.

Vale la pena far notare che, su tutta questa vicenda, la stampa di Trieste non ha scritto una riga.

_____

Per approfondire la questione foibe / confine orientale.
Consigli di lettura, senza pretesa di esaustività, del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki (pdf)

* Nicoletta Bourbaki è il nome usato da un gruppo di inchiesta su Wikipedia e le manipolazioni storiche in rete, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo omaggia Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983.

N.d.R. I commenti al post verranno attivati il 15 febbraio, per consentire una lettura ragionata e – nel caso – interventi meditati (ma soprattutto, pertinenti).
Anche prima di quella data, la Wu Ming Foundation – che è “padrone di casa” e anfitrione di questo blog – è disponibile a pubblicare l’eventuale replica del diretto interessato.

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

21 commenti su “Se questo è un direttore di istituto storico della Resistenza. Roberto Spazzali e i guasti da «Giorno del Ricordo»

  1. […] Le dichiarazioni di Roberto Spazzali, direttore dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste lasciano semplicemente di sasso.  Per una puntuale ricostruzione della polemica rinviamo al sito wumingfoundation […]

  2. […] Al di là di come verrà gestita pubblicamente la vicenda dai responsabili dell’istituzione diretta da Spazzali, l’articolo che vi proponiamo spiega perché non si tratta di un semplice scivolone. […]

  3. […] sono dichiarazioni in parte coerenti con l’impostazione che Roberto Spazzali ha dato al suo ormai trentennale lavoro di ricerca. Impostazione che proprio all’appuntamento con l’attualità dimostra tutta la sua inadeguatezza e tossicità, facendo emergere al contempo le luci sinistre dell’ideologia nazionale del Ricordo di cui Spazzali non è che uno dei tanti sacerdoti. […]

  4. Ripesco questo mio commento dal thread sul medaglificio fascista:

    «E sempre a proposito di Menia. Nel 2008, presentando la sua proposta di legge per il conferimento della medaglia d’oro al “Libero comune di Zara in esilio”, scrive:

    Il 4 novembre 1918, Zara redenta – unica fra tutte le città della Dalmazia – divenne italiana. Non le altre città, perdute nel naufragio della diplomazia italiana durante la Conferenza della pace. A Versailles, Roma non seppe farsi riconoscere dai suoi stessi alleati i diritti che le derivavano dalla cambiale sottoscritta nel 1915 con il Patto di Londra e che aveva onorato con 680.000 morti. La diplomazia italiana naufragò ancora nei negoziati diretti con i rappresentanti del nuovo Stato dei serbi-croati-sloveni, e venne firmato il Trattato di Rapallo.
    Zara, che per secoli era stata la capitale della Dalmazia, ora redenta, veniva avulsa dal suo naturale circondario, ristretta in un territorio che superava appena la cinta delle mura. Rimase fedele alla propria storica tradizione e, fra le due guerre mondiali, proseguì nella missione di guida e di riferimento per gli italiani di Dalmazia rimasti al di là della sua breve frontiera.
    Provincia d’Italia, partecipò fattivamente alla vita della nazione. Sentì, come impegno morale verso quei 680.000 fratelli che vent’anni prima avevano sacrificato la loro giovinezza per redimerla, di dover rispondere all’appello quando la Patria fu nuovamente in armi. Sei furono i suoi caduti nella campagna d’Etiopia; tre medaglie d’argento e cinque di bronzo le ricompense conquistate. Altri sei zaratini caddero sui campi di Spagna, nella crociata per la difesa della civiltà europea; cinque le medaglie d’argento, due quelle di bronzo.
    »

    • Spazzali dimentica parecchie cose rispetto all’antifascismo. Che non riguardò solo sloveni e croati o il cd. TIGR (di cui dirò qualcosa più avanti). Dimentica la Repubblica di Albona, nata dalla rivolta dei minatori – italiani, croati e di altre nazionalità – delle miniere di carbone di Albona contro le violenze fasciste. Tra il 2 marzo e l’8 aprile 1921 i minatori minarono le miniere, crearono una “Guardia rossa” che controllava militarmente gli accessi alla zona e instaurarono un potere “sovietico”, riavviando la produzione per proprio conto. La repubblica di Albona venne schiacciata con l’intervento da mare e terra di esercito e fascisti, “uniti nella lotta” (come sempre). Quasi contemporaneamente si svlse anche la rivolta nella zona vicina ad Albona della Proština (Krnica e paesi dei dintorni), in cui, organizzati dal PC croato, gli abitanti si armano e assumono il controllo del territorio per impedire le spedizioni delle squadre fasciste. Tale stato di cose dura dal febbraio al 5 aprile 1921, quando il movimento viene stroncato anche questa volta dall’intervento congiunto di esercito e fascisti, che incendiano il paese di Šegotići. Quanto al TIGR era solo una, e probabilmente quella meno militarmente attiva (e più legata ai servizi dell’esercito jugoslavo), delle organizzazioni clandestine antifasciste sloveno-croate. I 4 condannati a morte del 1930 (come pure Vladimir Gortan, fucilato nel 1929) appartenevano in realtà all’organizzazione Borba, costituita da giovani liberali, comunisti e senza affiliazione. Anche i 5 fucilati del 1941 (tra le diverse decine di condannati nello stesso processo c’è però anche un italiano, del PCI) non appartenevano al TIGR, ma ad una organizzazione che anche in questo caso comprendeva appartenenti a varie formazioni politiche ed era guidata dal comunista sloveno Pino Tomažič. Ma accanto a queste organizzazioni ce ne furono altre, la gran parte di tipo spontaneo e non legate all’establishment borgese sloveno-croato (che in alcune parti cercò un accomodamento con il fascismo). La denominazione TIGR per indicare tutte queste organizzazioni è da una parte una questione di comodità, dall’altra però anche il tentativo di presentare la resistenza antifascista ante seconda guerra mondiale come un qualcosa di unitario e a guida nazionalista, la creazione di un mito nazionale sloveno (dimenticando spesso la partecipazione croata).
      L’altra cosa importante che Spazzali dimentica è che in realtà una resistenza armata antijugoslava in Istria negli anni seguenti il ’45 ci fu e fu strettamente legata al CLNI. Perché non ci sono solo i “sospetti” di Dato, ci sono anche dati molto più concreti che non coinvolsero solo fascisti e affini, ma anche gruppi vicini ai partiti di governo. Ed esempio il gruppo Drioli, strettamente legato al CLNI (che dell’antifascismo – anche se in una interpretazione molto ridutiva, faceva un vanto) e processato dagli jugoslavi nel 1946 (se non sbaglio) per aver messo in piedi un’organizzazione armata che svolgeva attività di sabotaggio e simili. Il CLNI aveva poi tutta una serie di sue strutture clandestine in Istria, che svolgevano almeno attività di spionaggio e di pressione sulla popolazione, come documenta Irene Bolzon nella sua tesi di dottorato basata sui documenti dell’Ufficio Zone di Confine. L’attività di spionaggio è poi documentata dallo stesso Spazzali nel suo “Radio Venezia Giulia”. Tuttavia – sarà un caso ? – proprio questo aspetto della vicenda esodo (più che foibe) è quello meno studiato, per cui siamo ai frammenti.
      E dimentica pure che anche nel caso Istriano ad andarsene furono sopratutto “giovanotti”, che magari in seguito, una volta sistemati, si facevano raggiungere dai famigliari (a volte però accadeva che i più giovani e se ne andassero dall’Istria mentre i più anziani rimanevano a “presidiare” le proprietà). D’altra parte il fatto che l’emigrazione coinvolga sopratutto le generazioni più giovani è un dato caratteristico del fenomeno migratorio in generale. Altra dimostrazione della “scientificità” di personaggi quali Spazzali (e degli istituiti che personaggi del genere dirigono).

      • Solo ancora una cosa su Gerghetta: nel motivare la sua “particolare sensibilità” sulla questione foibe afferma che “mio nonno, Antonio Stefanini è stato prelevato e fatto sparire a Fiume il 28 maggio 1945”. Quindi Gherhetta lascia intendere di avere, se non un “infoibato” vero e proprio, almeno uno “scomparso per mano titina” in famiglia. E invece mente. Suo nonno venne non risulta in nessun elenco di “infoibati” (nemmeno nella “bibbia” sull’argomento, l'”Albo d’oro” di Luigi Papo) e a quanto pare venne effettivamente arrestato, ma successivamente pure rilasciato dalle autorità jugoslave a Fiume. Un tanto per chiarire meglio la caratura del personaggio.

  5. Due modi opposti di interpretare la storia per il presente. La vicenda Spazzali è questo che fa emergere in tutta la sua contraddittoria platealità.
    Le parole di Roberto Spazzali a Bondeno vanno comprese appieno nella loro gravità per diversi motivi. Uno di essi, ben delineato nell’articolo su Giap, riguarda la legittimazione dei discorsi xenofobi e razzisti contro i migranti di oggi, legittimazione che troverebbe ora anche una sua giustificazione storica. E questo più a causa della modalità con cui il direttore dell’IRSML ha sviluppato il parallelo tra l’Istria del Secondo dopoguerra e la Siria di oggi, che a causa del parallelo in sé.

    Ecco cosa scrive Renzo Codarin, presidente della ANVGD, utilizzando le parole di Spazzali per riprodurre lo schema vittimistico e allo stesso tempo portando acqua al mulino dei razzisti nostrani:

    «In un periodo in cui l’emergenza migratoria ed il dramma dei civili coinvolti nelle guerre è di drammatica attualità, il Giorno del Ricordo assume particolare rilievo, poiché verrebbe innanzitutto da dire che l’oblio che ha riguardato la complessa vicenda del confine orientale è ancor più disdicevole se confrontato con il clamore mediatico che accompagna gli analoghi fenomeni odierni, ma in seconda battuta è opportuno evidenziare alcune differenze. A partire da quanto riconosciuto pochi giorni or sono dal prof. Roberto Spazzali, direttore dell’Istituto regionale per la storia del Movimento di Liberazione Nazionale nel Friuli Venezia Giulia, il quale durante un incontro preparatorio al Giorno del Ricordo in provincia di Ferrara ha ben evidenziato come i profughi odierni siano soprattutto giovani di belle speranze che abbandonano la loro terra e le loro famiglie senza neanche tentare di dar vita a movimenti di resistenza o di opposizione, inseguendo magari il miraggio del benessere economico.»
    [ http://www.metamagazine.it/giorno-del-ricordo-lettera-aperta-del-cav-renzo-codarin/ ]

    Le gravi implicazioni di queste parole sono piuttosto evidenti, soprattutto se confrontate col risalto quasi nullo che hanno invece ricevuto a suo tempo le parole (linkate nell’articolo su Giap) del presidente del Circolo di cultura istroveneta “Istria”, Livio Dorigo:

    «Questa esperienza crediamo non possa che indurre uno sguardo compreso e partecipe verso la situazione dei disperati che si affollano sui barconi, si infilano nel vano motore di auto e camion, danno l’assalto ai treni, tentando solo di salvare la loro vita e non di rado perdendola.
    Si tratta dei protagonisti di un esodo biblico che, nella diversità della genesi, delle dimensioni e dello scatenamento delle armi, si svolge in un contesto più tragico di quello dell’Istria di quasi settant’anni fa.
    I nostri profughi hanno sperimentato l’esodo, l’abbandono della loro casa, la disgregazione delle comunità cittadine e parentali.
    Hanno provato che cosa significa essere trattati non come persone ma come problemi da risolvere, venendo anche rifiutati, disprezzati, insultati.
    Alla fin fine però sono stati accolti e aiutati.
    Sono partite navi per trasportarli. L’Italia, in ginocchio dopo la guerra, ha allestito dei campi profughi (uno era al Silos del Porto Vecchio, e molti ne hanno vivida memoria: condizioni terribili, pure migliori di quelle degli accampati di questi giorni), poi si è passati alle case popolari. Mentre punteggi aggiuntivi e una riserva di posti di lavoro hanno favorito l’inserimento nel tessuto sociale e civile del Paese.
    Dovrebbero, per questo, gli ex rifugiati istriani, essere in prima fila tra quanti chiedono che la parte più fortunata del mondo, alla quale apparteniamo (perché, al netto delle geremiadi sulla crisi, la situazione è questa), si attivi per salvare la vita di tanti fratelli che sono vittime di una costellazione di piccoli genocidi.»

    Due modi di interpretare l’esodo diametralmente opposti, che riflettono anche due modi del tutto opposti di fare storia, e due modi inconciliabili con cui guardare al presente.

  6. Annoto alcuni pensieri sull’onda della lettura di questo post:

    _il collettivo N. Bourbaki sta facendo un lavoro storico e politico importantissimo;
    _è stato messo a segno un bel colpo ai danni di una strategia che usa la questione (complessa, problematica) dell’esodo istriano per diffondere una retorica tossica d’impianto neofascista che spesso arriva a rovesciare vittime e carnefici, alimentando mitologie nazionaliste e razziste;
    _bisognerebbe che l’impianto del giorno del ricordo venga rimesso, anche istituzionalmente, in discussione. Non per negare le foibe, ma per evitare che qualcuno se le metta in tasca, scontornandole dal contesto storico che le ha prodotte. Troppe le grossolane falsificazioni: chi ha dati storici concreti non gioca con la fuffa, non falsifica le carte. Il fatto che ci siano attori interessati a fare di ogni buca una foiba, fino al punto di truccare le carte, di rovesciare didascalie, di mettere in agenda proiezioni di film fantasma… tutto questo alimenta il sospetto che davvero il 10 febbraio ricordiamo male, malissimo. (E dispiace perché di mezzo ci sono anche le scuole).

    Cose da fare per il futuro:

    _sarebbe il caso di raccogliere questi materiali prodotti dal collettivo N. Bourbaki su Giap e pubblicarli. Meglio in cartaceo, ma intanto anche in un ebook scaricabile liberamente, come manuale di prima difesa dalle panzane xenofobe e nazionaliste.
    _Sulla questione dell’esodo, fuori dalle zone di Trieste, del Veneto e del Friuli (e anche della Slovenia) si sa poco. Più si conosce il profilo storico, concreto e verificabile, di quelle vicende, più è facile smontare certe narrazioni. Bisognerebbe che i membri del collettivo N.B. facessero dei tour di incontri nel resto dello stivale per disseminare un po’ di cognizione su questi episodi.
    E ancora, su un raggio d’azione più esteso:
    _Stimolare gli istituti storici della Resistenza e l’Anpi perché non si accodino alle retoriche istituzionali ma facciano debunking di panzane. E’ una questione di resistenza: lo smontaggio delle narrazioni che incollano medaglie sul petto di criminali di guerra fascisti.
    _Fare pressione sugli uffici stampa delle trasmissioni tv, sui giornali, ect.. perché rettifichino le notizie errate e le grossolane contraffazioni, che a lungo andare tendono a legittimarsi in un crescendo di disinformazione grottesca.
    _Smontare o ingrippare con l’arma dell’ironia la diffusione delle panzane prima che sia troppo tardi. Esempio: La proiezione del film fantasma sulle foibe a Bitonto; la “scoperta” sensazionale di una foiba maremmana a Roccastrada (GR). Su quest’ultimo episodio mi propongo di tornare con più calma: la foiba maremmana è stata scoperta da una lista civica locale di destra e rilanciata da un quotidiano locale senza alcun fact-checking, senza alcun nome degli infoibati, in una zona che non ha nulla di carsico (e dove ci sono stati eccidi operati dai fascisti a iosa). La lista civica non dava i nomi ma faceva presente che erano “cittadini” anzi, repubblichini… e quindi di fatto fascisti. Ecco, prima che qualcuno ci venga a raccontare che il barboncino del povero zio Hitler è stato trovato in una foiba in provincia di Monculi e quindi dobbiamo ricordarlo il 10 febbraio e spargerci il capo di cenere, io direi: diamo battaglia. Diamo battaglia, perché altrimenti spunteranno foibe come funghi velenosi al primo acquazzone di acqua marcia e di spore tossiche. Teniamo gli occhi aperti: in ogni zona, come sentiamo odore di panzana, chiediamo di sapere i nomi di chi è morto e verifichiamo i curricola. Nelle foibe di provincia ho la sensazione che non troveremo neanche collaborazionisti o nazifascisti… è facile che troveremo solo i sogli dove i cinghiali maremmani vanno a rotolarsi, tra il fango e la cacca.

  7. non entro nel merito del giorno del ricordo e di come in questo paese vengano fatte leggi che pretendono di stabilire UNA verità, gettando poi nello stesso calderone foibe (del 43, del 45?) e esodo (solo quello della popolazione italiana ovviamente) senza degnarsi di ricordare chi ha deciso di rimanere, senza indagare i motivi, senza contestualizzare un bel nulla, come se le foibe (e l’esodo) siano caduti dal cielo senza alcun rapporto con gli avvenimenti storici.
    Per quanto riguarda l’attività degli istituti della resistenza, incluso quello di trieste, credo sia indispensabile, così come credo siano riusciti a rispondere bene a chi voleva il 10 febbraio come un modo per ricordare e celebrare i “martiri” delle foibe.
    Detto ciò, mi rammarico del fatto che l’istituto di trieste non abbia saputo prendere le distanze dalle frasi pronunciate da roberto spazzali, chiedendone le dimissioni.
    Perchè se è vero che alle volte un discorso, soprattutto se non portato a conclusione, può essere frainteso (non è questo il caso), è anche vero che dovrebbero conoscere bene chi si sono portati in casa, quel tipo di discorsi li fà da anni, a trieste e fuori, prima li faceva a titolo personale o a nome dell’irci, ora a nome di un istituto della resistenza. Come direttore, cosa ancor più grave.
    Cosa direbbero un Miccoli (è ancora vivo e in privato credo abbia espresso il suo pensiero), un Fogar?
    Assurdo che nell’istituto non si siano resi conto della gravità di queste affermazioni, come si può continuare a difendere una persona che, oltre ad aver pronunciato tali parole, inizialmente ha negato, spingendo l’istituto a difenderlo, salvo poi dover far marcia indietro quando l’interessato ha alla fine confessato? E che ancora adesso se la prende con chi “ci ha montato un caso mediatico”?
    Ora chiedo, perchè l’istituto continua a difendere un tale direttore (carica rappresentativa) duolendosi “della strumentalizzazione che ne è sorta a più livelli”?

  8. Durissimo comunicato dell’INSMLI, che condanna le parole di #Spazzali, nelle quali ravvisa «un nonsenso storiografico» e «un’offesa al senso di giustizia e umanità». Da tali parole l’Istituto nazionale si dissocia «totalmente e profondamente». A Spazzali l’INSMLI dice anche: «E’ improprio, antistorico e inaccettabile risuscitare fantasmi di irredentismi, nazionalismi e contese territoriali».
    Riguardo all’IRSML, il comunicato auspica che i suoi organi dirigenti siano «in grado di rispondere con chiarezza alle polemiche suscitate e di prendere le misure necessarie perché venga riaffermata, nell’autonomia e nella libertà che è propria di ognuno, la linea storiografica e culturale che è patrimonio di tutta la rete degli Istituti della Resistenza».

    • Il messaggio è arrivato forte e chiaro, evidentemente. Spazzali si è dimesso e il direttivo ha accettato le dimissioni.

      Comunicato del 23/02/2016

      Nel corso della riunione del direttivo del 20 febbraio 2016, il prof. Roberto Spazzali ha rassegnato le dimissioni da direttore. Il direttivo, nell’accoglierle, ha ringraziato unanime il prof. Spazzali per la quantità e la qualità del lavoro da lui profusa da molti anni a questa parte al servizio dell’Istituto e dell’intera rete, prodigandosi nell’attività di ricerca e nella costante attenzione e cura a favore dei più giovani.

      Al tempo stesso, il direttivo rende merito alla sua onestà intellettuale, al suo spirito di collaborazione e al suo senso di responsabilità, auspicando che tale collaborazione continui ancora all’interno dell’Istituto.

      La presidente, Anna Vinci

      Trieste, 23 febbraio 2016.

      qua il link: http://www.irsml.eu/

  9. Sul caso #Spazzali: l’assemblea di #resistenzastorica a #Gorizia nel #giornodelricordo ha chiesto le sue dimissioni.

    E vengo ora al caso di Gorizia di cui qui si parla e per la memoria futura è cosa buona e giusta precisare cosa è accaduto.
    In un contesto storico e sociale dove alle mistificazioni storiche si aggiungono attacchi che colpiscono e denigrano direttamente le persone, gli storici, chi sa di essere dalla parte giusta – e la parte giusta nella storia del confine orientale è quella che nuoce ad ogni processo di nazionalismo, a ogni irredentismo del terzo millennio, a quelli che vogliono ritornare nelle terre che nel 2016 reputano ancora “contese” seguendo quel concetto del razzista D’Annunzio, la vittoria mutilata – era stato promosso dal gruppo di Resistenza Storica e sinistra goriziana antifascista un convegno da svolgersi in Gorizia, presso il palazzo provinciale Attems, il 10 febbraio. Titolo: «11 ANNI DI “GIORNO DEL RICORDO” Tra mistificazioni storiche e rivalutazione del fascismo».
    Questi gli interventi previsti:
    Alessandra KERSEVAN: Il ruolo della X Mas al confine orientale;
    Claudia CERNIGOI: Il “fenomeno” delle foibe e gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945;
    Sandi VOLK: 10 anni di onorificenze della legge del Ricordo;
    Piero PURINI: Gli esodi prima e dopo il secondo conflitto mondiale;
    Marco BARONE: “Volemo tornar”. L’irredentismo del terzo millennio;
    Nota di inquadramento storico e coordinamento del dibattito a cura di Marco PUPPINI.

    Contestualmente a ciò, nella stessa giornata, nella stessa città, ma in luogo diverso, è previsto il convegno organizzato dalla Lega Nazionale di Gorizia, con l’alto patrocinio della Prefettura, Provincia e Comune di Gorizia. Nella locandina, di questo convegno emerge con gran forza quella che ben può essere definita come una grande allucinazione ufologica storica, quale la pulizia etnica contro gli italiani.

    Quella del giorno del Ricordo è una legge profondamente ideologica. Legge che ha il suo fondamento nel revisionismo storico, nella memoria condivisa, che poi altro non è che la memoria nazionalistica di alcuni “eletti” elevata a rango di verità per tutti, dogma da condividere senza alcuna critica, salvo qualche piccola sfumatura, che deve essere concessa ma che non intaccherà la mistificazione storica, la manipolazione in chiave nazionalistica e revisionistica della storia del confine orientale.I

    l Presidente della Lega Nazionale di Gorizia, sulla pagina facebook dell’evento pubblico del convegno organizzato da Resistenza Storica così scriveva il 5 febbraio: «Liberi di organizzare quello che volete ma non manifestazioni provocatorie in una giornata solenne». E rilanciava il 6 febbraio: «Quando aggiornate la data del vostro evento che non può essere provocatoriamente svolto il 10 febbraio?»

    La Sala del palazzo Attems per lo svolgimento del convegno era stata richiesta dal consigliere PRC della provincia di Gorizia Dario Furlan, per iscritto, via mail, alla Provincia di Gorizia che attualmente è governata dal Pd. E non era emerso alcun tipo di problema, né politico né tecnico, tanto che la sala, per quello che è stato riferito a Resistenza Storica, risultava essere stata concessa.

    Ma, subito dopo la pubblicizzazione dell’evento in rete da parte di Resistenza Storica, arriva una prima notizia di richiesta di spostamento dell’iniziativa. Poi, il giorno 8 febbraio, a ridosso del 10 febbraio giunge notizia informale che per una presunta inopportunità politica la sala non verrà più concessa per il 10 febbraio. Il motivo è in sostanza che il 10 febbraio è il giorno del ricordo, come da legge e va rispettato, e dunque la nostra iniziativa viene vista come non rispettosa né della legge né del 10 febbraio. Negazionisti! Allucinante. Eppure… Ecco quanto scrive il Presidente della Provincia di Gorizia, del PD:

    «Vorrei occuparmi di altro, ma visto che qualcuno fa disinformazione, chiarisco perché oggi ho negato la sala di Palazzo Attems per domani a una iniziativa negazionista sulle foibe.
    Cominciamo con ricordare che..
    “Il Giorno del ricordo è una solennità civile nazionale italiana, celebrata il 10 febbraio di ogni anno. Istituita con la legge 30 marzo2004 n. 92[1] essa vuole conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale”. (da Wikipedia)
    Questo significa che il 10 febbraio si ricordano le foibe per legge dello stato italiano. Questo è un obbligo di tutte le istituzioni. Non a caso domani mattina sarò alle 11 a Monfalcone e poi nel pomeriggio a Gorizia, non a titolo personale ma come Presidente della Provincia. Ci sarei cmq andato anche a titolo personale perché mio nonno, Antonio Stefanini è stato prelevato e fatto sparire a Fiume il 28 maggio 1945.
    Detto questo, preciso che le sale pubbliche sono un bene collettivo di tutta la comunità, e in questo senso, da quando ci sono io, vengono date a chiunque ne faccia richiesta senza esprimermi sulla condivisione delle singole iniziative. Il patrocinio viene invece dato solo a ciò che si condivide.
    Nel caso in questione è lapalissiano che il giorno del ricordo previsto per legge non possa concedere una sala pubblica a chi nega la legge.
    È come se il giorno della memoria dell’olocausto concedessi una sala pubblica a chi lo nega.
    Oltre a una evidente sensibilità politica che rispetta le memorie esiste un dovere istituzionale che non a caso il parlamento ha stabilito con legge.
    Questo vuol dire che la sala pubblica sarà disponibile per chi vuole negare le foibe in uno degli altri 364 giorni dell’anno. Ma non il 10 febbraio.
    D’altra parte se hanno una verità storica con fondamento, essa sarà valida anche il giorno dopo.
    Abbiamo sempre fatto così con tutti e ogni altra considerazione è inutile. Mi auguro che i promotori rifacciano la domanda e avranno la sala, come tutti.
    PS visto che non è mio costume nascondermi dietro un dito, dico anche della iniziativa in questione non condivido nulla.»

    Su tale caso è intervenuta anche l’On. Pellegrino alla Camera: « […] Rivendico la posizione che il mio partito tiene nei confronti di un argomento così delicato che ha visto decenni di tensione ma che oggi vede popoli vivere sullo stesso territorio mantenendo un reale rispetto reciproco. Rigetto l’accusa fatta oggi in Aula dall’onorevole Gianluigi Gigli che dichiara che ci sono alcuni esponenti in regione FVG, appartenenti al mio partito, che negano gli eventi delle foibe. Noi ricerchiamo la Verità lasciando agli storici il compito di ricercarla. Tutti, nessuno escluso. La scelta del Presidente Gherghetta, di concedere una sala per una conferenza sulle foibe e negarla oggi stesso, ritengo che sia da stigmatizzare, ancor più perché viene da una persona, che dal mio punto di vista, che è preziosa come esponente del centro sinistra. Mi auguro che da parte sua ci siano delle scuse e che si possa archiviare questo episodio.Di seguito il mio intervento».

    Invece delle scuse è arrivata una precisazione, la sala non è stata revocata perchè non è mai stata concessa. Il burocratese non cambia la sostanza di quello che è accaduto.

    A quanto pare a Gorizia il 10 febbraio possono avere agibilità democratica nei palazzi delle nostre Istituzioni, quindi di tutti, solo i cultori della memoria condivisa. Chiamasi regime antidemocratico. Eppure la Legge sul giorno del ricordo dice espressamente che il 10 febbraio viene riconosciuto come tale «al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Ed anche che «è favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende.» Ma tutti coloro che osano delle critiche avverso il revisionismo storico e la memoria condivisa, in quel giorno, assunto oramai per come strutturato nella sua sostanza a verità nazionalistica di Stato, gli storici, i critici, gli studiosi non allineati, in un contesto perfettamente legale, costituzionale e legittimo, non hanno diritto di parola alcuno. Ed il tutto in una città dove si svolgono manifestazioni di Casapound, i fascisti del terzo millennio, e che le recenti inchieste dell’Espresso hanno ben evidenziato di cosa stiamo parlando, «un arresto ogni tre mesi, una denuncia a settimana», una città che accoglie nella sua sede istituzionale, quale il Comune, chi fa il saluto fascista, e chi celebra la battaglia di Tarnavova, quale la Decima Mas, che Repubblica, proprio sul caso di Gorizia, ha così definito «flottiglia di torturatori e fucilatori fascisti che in Friuli Venezia Giulia operò anche per il Terzo Reich».

    A Gorizia vi è un problema enorme di agibilità democratica, ed è ancora più grave quando l’inopportunità politica, ergo convenienza politico elettorale, di certe e date iniziative, viene sollevata da parte di una certa sinistra governativa. E poi mischiare la convenienza politica con la ricerca storica è una cosa che si commenta da sola per la sua gravità. Insomma il 10 febbraio non tutti hanno il diritto di parlare, salvo, ad esempio, quelli che vanno in alcune scuole d’Italia, a “ricordare per ritornare” con tanto di locandina pubblica, nelle terre ancora oggi contese da una parte del nazionalismo nostrano, come l’Istria. E comunque l’assemblea da parte nostra si è svolta ugualmente in un locale privato con una partecipazione alta. Contestualmente a ciò Il 10 febbraio del 2016, giorno che a Gorizia verrà ricordato per la sospensione della democrazia, il Presidente della Lega Nazionale di Gorizia ha reso pubblico il documento di cui alla presunta “foiba” di Rosazzo. Atto del 12 ottobre 1945, che ha per oggetto notizie “ Ermete” protocollo 83248 /1.

    Cosa si legge integralmente in tale documento, misteriosamente ignoto fino ad oggi? Che «la foiba e la fossa comune esistente nella zona di Rosazzo cui al notiziario n 3 del 26 settembre è ubicata precisamente nella zona di (omissis). Ivi, secondo quanto afferma la popolazione di (omissis) dovrebbero essere sepolti da 200 a 800 cadaveri facilmente individuabili perché interrati a poca profondità. Il responsabile del detto massacro della popolazione è ritenuto il comandante della divisione “ Garibaldi- Natisone” Sasso coadiuvato dal commissario politico Vanni. Per avere chiarimenti e indicazioni necessarie per l’identificazione occorre interrogare un certo Dente Donato ex comandante Osovano da Premariacco».
    A parte il fatto che le foibe sono tipiche delle zone carsiche, come ben si può evincere dal tenore di questa velina, di cui va riscontrata l’attendibilità, di certo non vi è nulla. O meglio, si va dalla presunta esistenza di questa fossa comune, alle voci della popolazione, alla individuazione dei responsabili, alla richiesta di interrogare un comandante Osovano. E’ mai stato interrogato questo comandante? Documento da prendere con le pinze, anche per la sua naturale contraddittorietà nei termini. Si dice che la fossa comune esiste, e che vi potrebbero essere sepolte un centinaio di persone. Chi sarebbero queste persone? Dal dubitativo si va poi alla certezza nella individuazione del responsabile o dei responsabili. Quali sono le prove? A quando si riferiscono i fatti? Sulla base di quali elementi si basano queste gravissime accuse? E responsabili di cosa? Di quanto riportato da voci della popolazione? E quali sono queste voci? Chi sono queste voci? Stando almeno a quel documento che necessita di reali e non faziosi riscontri. Come è possibile che nulla è emerso sino ad oggi? Pur avendone tutti l’interesse a farla emergere? E guarda caso riguarda la vicenda due partigiani che vennero coinvolti nella questione di Porzùs per poi essere assolti,cosa che in cattiva fede ed in via diffamatoria spesso si dimentica, così come, guarda il caso, chi doveva essere interrogato era un componente osovano.

    Gli effetti, della pubblicazione di questo annuncio, sono stati, stando a quello che sta accadendo almeno in rete, devastanti. In rete si sta realizzando un mero accanimento contro l’ANPI che non ha responsabilità alcuna su ciò, e non solo, si sta gettando fango, per l’ennesima volta sulla resistenza. La Storia è una cosa seria e delicata specialmente quando si parla di morti e di queste vicende. Per rispetto delle vittime, e poi non si capisce chi possano essere, e con il distinguo che non tutti i morti sono uguali, per rispetto della verità storica, per rispetto della resistenza, non è in questo modo che si “costruisce” la storia. Con annunci e veline. Per correttezza si sarebbe al massimo potuto dire che è stato trovato un documento che necessita di riscontri, che parla di una fossa comune. Solo a ricerche ultimate e riscontri ultimati, con dati oggettivi ed elementi oggettivi, poi si può giungere a certe e date conclusioni. Dicendo, ci siamo sbagliati e chiediamo scusa, oppure, la fossa comune esiste ora cerchiamo di capire chi sono le vittime, i responsabili ecc. Ad oggi vi sono solo insinuazioni, ed altamente pericolose, che si basano su un succinto e contraddittorio notiziario. E se da quel documento non deriverà nulla? Se da quel documento deriverà qualcosa di concreto, si dovrà analizzare il tutto in modo meticoloso, se delle responsabilità ci sono andranno ovviamente verificate e ci mancherebbe pure, ma fino ad oggi, parliamo del nulla, un nulla che sta gettando ulteriore veleno e fango nel confine orientale.
    mb

  10. Esula un po’ dalle spazzialate del direttore dell’IRSML-FVG, ma è un esempio significativo del problema ormai culturale che ci troviamo ad affrontare: perché se quella di Spazzali è una dichiarazione di un “addetto ai lavori” che riflette una volontà e linea politica coerente con il giorno del Ricordo così istituito e concepito, la vicenda che riprendo in questo articolo (http://salto.bz/article/18022016/limmutabilita-di-change) su http://www.salto.bz è esemplificativo della situazione.
    I falsi e le mistificazioni sono molti e si riproducono automaticamente per la pigrizia, o per la volontà, di chi li utilizza. Questo è grave ed il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki è impegnato ad arginare e demistificare, attuando quelle pratiche di fact-checking (non solo storico, come nell’articolo di Piero Purini sui falsi fotografici, ma in ambiti diversi, come quello che ha investito l’inesistente film-kolossal Foibe) che permettono il debunking di questi falsi.
    Ma questo a volte sembra non bastare: di centinaia di segnalazioni effettuate su Twitter e non solo, da parte di Wu Ming ma anche di moltissimi altri (seminare verità sta portando frutti abbondanti), solo in un caso un giornale ha fatto ammenda e ha chiesto se fosse possibile trovare un’alternativa verificata.
    Il caso di Change.org che ho riportato è invece una delle risposte più frequenti: oltre a quelli che ignorano la segnalazione o accusano chi la fa di svariate cose (dall’essere titini-comunisti, all’essere negazionisti o riduzionisti, passando per l’essere anti-patrioti o per chi vuole infangare l’onore dei morti -chi vuole ripristinare la verità di un foto!), vi è stato anche chi ha preso atto dell’errore… e non ha fatto assolutamente nulla!
    Di questo Change.org, come molti altri, dovrebbe rendere conto al suo pubblico. Se non è possibile cambiare la policy deve trovare una soluzione alternativa, altrimenti si rende complice e connivente di chi piega la storia alle proprie necessità politiche e commette violenza su chi non può difendersi, chi è già morto.

  11. A riguardo del silenzio stampa locale sulla vicenda, giova notare che il direttore del periodico dell’Istituto nonché membro del consiglio direttivo Diego D’Amelio, già noto su Giap, è da un pezzo giornalista a tempo pieno per il quotidiano locale “Il Piccolo”.

    Veramente una pessima pagina per l’IRSML-FVG, non solo per il suo ex-direttore. Tutto l’Istituto ha gestito il caso nel peggior modo possibile.

  12. […] Naturalmente non condividiamo affatto molte delle cose che sono scritte in alcuni di questi contributi, che reputiamo condizionate da una visione orientata a sottolineare le motivazioni politico-nazionali dei fenomeni e spesso troppo succube delle narrazioni del nazionalismo italiano (come quando Raoul Pupo racconta le vicende Foiba di Basovizza). Il nostro dissenso rispetto a molte delle posizioni e delle chiavi interpretative egemoni all’interno dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia è del resto notorio e assai netto. […]

  13. LA TRISTE PARABOLA DI PUPO & SPAZZALI

    “Invito il sindaco Cosolini a prendere le distanze da questa dimostrazione di ignoranza storica e rilancio chiedendo che il sindaco metta a disposizione una sala del Comune di Trieste e inviti questi sbandieratori ad una lezione tenuta dai prof. Spazzali e prof. Raul Pupo sulla storia di Trieste.”

    Con questa richiesta si chiude il comunicato stampa diffuso dal consigliere comunale di Forza Italia Everest Bertoli in occasione del primo maggio 2016 a Trieste. Gli sbandieratori a cui si riferisce sono quelli che, come ogni anno, hanno sfilato nel corteo della Festa dei Lavoratori sventolando le bandiere jugoslave, per festeggiare la liberazione di Trieste, avvenuta appunto il primo maggio 1945 ad opera del IX Korpus e della IV armata dell’ Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia. Poche ore prima lo stesso Bertoli su twitter aveva definito il primo maggio 1945 come l’inizio del “periodo più buio della storia di Trieste”. Prima dell’ arrivo del IX Korpus Trieste era occupata dai nazisti, che vi avevano impiantato l’unico campo di sterminio attivo in territorio italiano. Un campo inserito nel sistema concentrazionario tedesco; un campo in cui si ammazzavano ebrei, sloveni, croati, italiani, comunisti, e antifascisti in genere, e si bruciavano i loro corpi nel forno crematorio; un campo da cui partivano i treni diretti a Auschwitz… e se uno dice che il periodo più buio della storia di Trieste è quello che viene dopo la cacciata delle SS…

    L’anno scorso la presenza delle bandiere jugoslave nel corteo sollevò un discreto putiferio, e vide il formarsi di un “blocco nero” composto da fascisti, post-fascisti, sedicenti liberali, democratici ed ex-comunisti, tutti uniti nello stigmatizzare i presunti nostalgici “slavocomunisti” e l’ l’insanabile ferita da loro inferta alla memoria della città. Prove generali del partito della nazione, scrisse allora Andrea Olivieri. Dopo venti giorni il copione si ripeté in occasione della manifestazione antifascista di Gorizia contro il corteo convocato da Casa Pound per celebrare l’ingresso dell’Italia nella Grande Guerra: la destra politica, forte dell’appoggio della stampa locale, e coperta “a sinistra” dal silenzio dei sedicenti democratici, scatenò una campagna denigratoria contro gli antifascisti, descrivendoli quali agenti del disordine. E’ in questo contesto già saturo di vapori e miasmi fascisti, che il prof. Spazzali quest’anno ha esternato il suo pensiero sui profughi siriani in occasione del Giorno del Ricordo – esternazione che anche grazie a questo post gli è costata la carega di direttore dell’IRSML Ora la triste parabola di Pupo&Spazzali sembra essersi conclusa, con Bertoli ad invocare l’intervento dell’inseparabile coppia quale strumento ultimo di rieducazione degli irredimibili “slavocomunisti”.

  14. […] Negli stessi anni in cui Silentes Loquimur portava avanti la sua agenda, Roberto Spazzali era impegnato nella stesura di Foibe: un dibattito ancora aperto: tesi politica e storiografica giuliana tra scontro e confronto, pubblicato dalla Lega Nazionale nel 1990, una ponderosa opera di oltre 600 pagine con la quale il professore triestino smontava proprio la storiografia di estrema destra sulle foibe. In realtà nel saggio l’argomento foibe, più che smontato, veniva “scippato” all’estrema destra, non per consegnarlo alla ricerca storiografica quanto ad un’altra agenda politica. […]

  15. […] Commento su Nicoletta Bourbaki apparso in calce a un appello “foibologico” e nazional-patriottico su Facebook. [Nell’ultima frase si allude a questa vicenda.] […]

  16. […] Se questo è un direttore di istituto storico della Resistenza. Roberto Spazzali e i guasti da &#822… […]