1. Il vecchio mulino
Era un edificio di mattoni rossi, nascosto dagli alberi e immerso nel silenzio. Sembrava un luogo abbandonato.
Julius si spinse in avanscoperta, ignorando gli avvertimenti di Ariadne. Io e Fedro fummo lasciati alla retroguardia, e arrivammo nello spiazzo davanti al mulino con cautela, guardandoci attorno. Le finestre erano chiuse, nessun cane da guardia, niente panni stesi. La ruota però girava e andammo a vederla. Quel moto perpetuo e circolare, con il suo mormorio liquido, aveva qualcosa di inquietante.
«A cosa serve?» chiese Fedro.
«A far girare la macina,» rispose Julius.
«E dov’è?»
«Dentro. Dove credi che sia?»
«Possiamo vederla?»
Ci scambiammo un’occhiata. Poi ci guardammo attorno. Un uccello palustre pescava nell’acqua bassa vicino alla riva; le rane guizzavano; le libellule volteggiavano tra i giunchi. A ciascuno la sua preda. Silenzio. Avremmo potuto essere gli unici esseri umani al mondo.
«E se fosse la casa di qualcuno?» azzardai io.
«Ma non vedi che è disabitato?» disse Julius. «Forse il mugnaio viene qui ogni tanto a macinare il grano e poi se ne va.»
«Basta bussare,» disse Ariadne.
Julius fece un gesto di approvazione.
«Io ho paura,» disse Fedro.
Rimasi accanto a lui mentre Julius raggiungeva la porta. Diede alcuni deboli colpi con le nocche. Silenzio. Riprovò. Ancora silenzio. Ruotò la maniglia: bloccata.
Tirai un sospiro di sollievo.
In quel momento Ariadne indicò una finestrella. Il vetro e l’intelaiatura erano rotti. Julius non si fece pregare, intrecciò le dita a scalino e issò la sorella fino al davanzale.
«Cosa vedi?»
«Quasi niente. È troppo buio. Un tavolo, due sedie…»
«Prova a calarti dentro. Così poi ci apri la porta.»
Ariadne era una ragazzina coraggiosa. Quando sprofondò dentro, fuori dalla vista, ebbi un tuffo al cuore e rimasi in ansia finché non sentii girare il chiavistello e la vidi comparire sull’uscio.
«Via libera.»
Julius si trattenne a stento dall’abbracciarla.
Io e Fedro li seguimmo all’interno, in cerca di cose interessanti.
Era un unico grande ambiente, immerso nella penombra, ma presto gli occhi si abituarono all’oscurità. Il marchingegno del mulino occupava un lato dell’edificio: un volano e un meccanismo di ruote dentate che trasmettevano il movimento alla macina. Non in quel momento, a dire il vero, perché la ruota più grande non era innestata, ma era facile capire come potesse funzionare. C’era polvere dappertutto; più probabilmente era farina. In un angolo Julius trovò un paio di lunghissimi stivali di gomma da pescatore e provò a calzarli ridacchiando. Ariadne tentò di pesare Fedro sulla stadera, ma non riuscirono a mettersi d’accordo sulla posizione che doveva assumere.
Io girai attorno a una catasta di sacchi di tela e scoprii una branda. Era bassa e molto lunga. La persona che ci dormiva doveva essere una specie di gigante.
Chiamai gli altri e rimanemmo a contemplare il giaciglio lasciando libera la fantasia di riempirlo con gli esseri più strani, senza sapere quanto fossimo vicini al vero.
Fedro disse che avremmo fatto meglio ad andarcene. Julius però aveva appena scoperto la leva che azionava la macina e si mise in testa di farla funzionare. Capii che la via più rapida per uscire da quel luogo tetro era assecondare Julius, azionare la macina e poi fermarla, tanti saluti e grazie.
Ci mettemmo a tirare in due, ma ci sarebbe voluta una forza ben superiore alla somma delle nostre per smuovere quella leva. Mentre eravamo intenti nell’impresa la porta si spalancò e comparve l’orco.
Era un essere altissimo, imponente. La barba era nero pece e le sopracciglia due cespugli sugli occhi torvi. Le braccia gli pendevano lungo i fianchi fino quasi alle ginocchia e terminavano in mani enormi.
Fedro fece per gridare, pietrificato sul posto, Ariadne gli posò una mano sulla bocca. Julius e io mollammo la presa e rimanemmo spalle al muro.
«Chi siete? Cosa fate qui?»
La voce era come un ringhio.
«Niente. Credevamo che fosse disabitato,» trovò la forza di rispondere Julius. Le parole però gli uscirono piccole piccole, strozzate in gola.
L’orco grugnì minaccioso. Con la sua mole occupava tutta la porta, impossibile svignarsela. «Questa è proprietà privata. Come vi chiamate?»
In quell’istante ebbi un colpo di genio, di quelli che non capitano spesso nella vita, quattro o cinque volte al massimo. Fu soprattutto merito del fatto che mia madre era solita leggermi brani dell’Iliade e dell’Odissea prima di dormire.
«Siamo i fratelli Williamson,» mentii senza esitazione.
L’orco fece un passo avanti e si abbassò appena per scrutarmi meglio nella penombra. Da come stringeva gli occhi non doveva avere una gran vista. Ero quasi certo che non si fosse ancora accorto di Ariadne e Fedro, che si trovava- no sulla parete di lato. Avanzando liberò l’uscita. Non c’era un istante da perdere. Lanciai il grido di ritirata.
Io aggirai l’orco a sinistra, Julius a destra, e puntammo verso l’uscita, preceduti da Ariadne e Fedro. Una volta all’aperto ci mettemmo a correre e non ci fermammo fino a che non sentimmo che i polmoni ci bruciavano.
L’avevamo scampata. Era l’unico pensiero che riuscivo a formulare mentre boccheggiavo sdraiato nell’erba.
Fedro riuscì anche a parlare.
«Ci avrebbe mangiati?» chiese.
«Anche di peggio,» rispose Julius.
«Non torniamoci mai più…» implorò Fedro.
Ariadne si alzò in piedi e guardò verso il Vecchio Mulino.
«Non ci ha urlato dietro.»
«Avrebbe dovuto?» chiesi.
«Tu non l’avresti fatto?» ribatté lei.
Non attese risposta. Come al solito ci lasciò elucubrare sulla sua osservazione, mentre ci precedeva sulla via di casa.