Calatrava e la bontà. Il #SentieroLuminoso passa dalla stazione Mediopadana AV.

Il bruco di Calatrava

[A settembre dell’anno scorso segnalammo su Giap un reportage di Wu Ming 1 intitolato Fitzcalatrava a Reggio Emilia, pubblicato su Nuova Rivista Letteraria (n.1, maggio 2015). L’articolo nasceva da una visita (arrivando in auto) alla stazione Mediopadana AV, datata 1 aprile 2015. Due settimane prima, percorrendo il Sentiero Luminoso da Bologna a Milano, Wu Ming 2 aveva visitato (a piedi) il medesimo luogo. Oggi, mentre esce il n.3 di Letteraria, pubblichiamo un estratto da Il sentiero luminoso, dedicato alla viandanza (apotropaica) verso la Grande Opera dell’archistar di Valencia]

A Pratofontana, la storia ha depositato una chiesa e un cimitero, isolati rispetto al resto del borgo. Il cimitero è il classico recinto edilizio, erbetta senza pretese e manco un albero a dare ombra ai morti. Sulla faccia esterna del muro, una lapide con la croce ricorda il partigiano Ferrari Anselmo detto Eimo, qui caduto in combattimento il 24 aprile 1945.
Oltre il camposanto, spunta l’altana del mausoleo di Coopservice.
Come recita il sito del gruppo, si tratta di «uno dei principali player nazionali nella progettazione, erogazione e gestione di servizi integrati alle imprese e alle comunità». Si occupa di pulizie, logistica, vigilanza, energia, manutenzioni e rifiuti. Nel 2013, ha chiuso il bilancio con un fatturato di 382 milioni di euro e nel 2014 prevede di aumentarlo del 6,6%.
A Bologna è nota perché, da un paio d’anni, fornisce all’Ateneo i servizi di multisala e portierato. Un appalto che non farebbe notizia, se non fosse che, dopo l’arrivo di Coopservice, tredici dipendenti di una biblioteca universitaria si sono ritrovati con lo stipendio ridotto del 40%, da 1200 a 750 euro per 6 giorni lavorativi. Pagati come vigilanza, quando invece si occupano di assistenza tecnica, manutenzione, gestione delle aule e ricerche bibliografiche. Il meccanismo è semplice, bastano tre ingranaggi: l’Università, per risparmiare, acquista come portinai quelli che invece sono tecnici. Coopservice, in questo modo, può vincere l’appalto e tenere i prezzi bassi, grazie a un contratto nazionale – quello per i “servizi fiduciari” – che prevede una paga oraria sotto la soglia di povertà. Un contratto sottoscritto dai sindacati confederali. Gli stessi che, dopo aver ottenuto aumenti tra 1,50 e 0,80 euro lordi l’ora, hanno censurato la protesta dei dipendenti, per aver causato «forti difficoltà alla trattativa in corso».
Il sindacato di base Cub si è domandato invece come sia possibile avere stipendi da 5 euro l’ora, quando l’Università versa a Coopservice 19,80 euro l’ora per ogni impiegato.
È lo stesso interrogativo che tormentava anche me, quando lavoravo per la mia prima cooperativa sociale e scrivevo i progetti da sottoporre ai comuni della provincia. Su quei fogli, il lavoro degli educatori era pagato il triplo che in busta paga. I capi mi illustravano la discrepanza con uno specchietto di costi aggiuntivi e di gestione, ma i conti non mi tornavano mai, c’era sempre un disavanzo. Quel di più, mi spiegavano allora, serviva a bilanciare altri interventi, pagati sottocosto e quindi in perdita. Solo in quel modo le scuole medie di Roccafritta potevano permettersi il nostro fantastico laboratorio di prevenzione all’abuso di sostanze. Vuoi forse che non lo facciamo, quel fantastico laboratorio? O magari dobbiamo chiudere la casa di reinserimento per ex-detenuti? Per carità, certo che no. Non sia mai che i miei dubbi ostacolino la cooperativa sulla strada del bene.
Giorgio Gaber lo ha chiamato «il potere dei più buoni», ma il suo testo finisce per canzonare qualunque accoglienza, qualunque interesse per l’altro.

Bisogna dare appartamenti / ai clandestini e anche ai parenti / e per gli zingari degli albergoni / coi frigobar e le televisioni.

La satira è fuori bersaglio, perché di anime pie che si fanno belle con la beneficenza per i rom, non se ne vede l’ombra nemmeno al telescopio. L’iperbole – come ogni accusa di buonismo – finisce così per colpire l’idea stessa di offrire ai nomadi una sistemazione degna.
Il problema, invece, è quello del potere che nasce dall’esser buoni (e non soltanto dal fingersi tali). È un potere nascosto, perché la bontà ci pare sempre sposa dell’umiltà, dell’abnegazione. Per questo è un potere ambiguo, perché non lo discute chi lo esercita e nemmeno chi lo subisce. È il potere del medico sul paziente, il carisma del prete di frontiera, il prestigio di chi difende i disprezzati. Il fatto che da queste buone azioni scaturisca una forza, non significa di per sé che siano sterco del diavolo, o che chiunque le compie lo faccia in vista di un tornaconto. Significa però che il buono può usare quella forza non soltanto contro i cattivi, ma pure per chiedermi lavoro volontario, denaro, rinunce, consenso.
Da qui nasce il potere di chi usa la bontà per comandare, o di chi la millanta come un incantesimo, per ottenere la stessa magia.
Un gruppo di cittadini di Reggio Emilia, i Partigiani Urbani, sostiene che queste terre sono il principale laboratorio di «un progetto autoritario fondato sulla bontà».
E tra le varie bontà che vengono usate – o millantate – la partecipazione dei cittadini ha un ruolo di primo piano.
Coopservice è coinvolta nel percorso di urbanistica partecipata PratOfficina, che cerca di individuare i bisogni della frazione (a Reggio le chiamano: ville) in un periodo di grandi trasformazioni, legate all’apertura della stazione Mediopadana sulla linea ad Alta Velocità.

La pioggia concede una tregua: appoggio lo zaino di fronte al cimitero e scorro sul tablet la brochure del progetto, presentato cinque anni fa.
Nelle foto di fine anni Sessanta, Pratofontana è un borgo agricolo, la strada principale è coperta di ghiaia, le case hanno un volto rurale. Oggi la campagna prende ancora spazio, circonda i nuclei residenziali, riempie la vista. Almeno fino ai primi cubi della zona industriale, che dista meno di un chilometro e ha una superficie totale sette volte più vasta del paese. Rispetto a Massenzatico, che si è spalmata per tre chilometri lungo via Beethoven, qui il mattone non ha sfondato la scena. I dati sono comunque feroci: dal 2000 al 2010, il numero di residenti è cresciuto del 37%, fino a contarne poco più di mille. Ma in altre ville del comune di Reggio, come Roncocesi, che visiterò più tardi, la popolazione è raddoppiata. La provincia è al secondo posto in regione, dopo Rimini, per il suolo consumato (9,6%). Si piazza bene anche a livello nazionale: ventunesimo posto, prima di Torino, Genova, Bologna, Firenze. Proprio per questo, Pratofontana deve stare al passo. Nei prossimi quindici anni deve raddoppiare anche lei, legarsi alla città, assecondare lo sviluppo dell’area. In altre parole, deve giustificare la scelta di costruire un stazione da 70 milioni di euro in questa zona del comune. La logica è rovesciata: non si fa la stazione laddove ce n’è bisogno, ma poiché s’è fatta la stazione, allora c’è bisogno di case. Con la grande opera di Calatrava a portata di mano, la terra di Pratofontana diventa più redditizia. Che senso ha continuare a piantarci grano? È come la teoria di Perroux sui poli di sviluppo, la stessa che ha devastato la Terra jonica, l’Apuania, la Laguna veneta. Oggi che la grande industria è in crisi, ci si prova con la grande edilizia: il rilancio economico di un’area sarà tanto più rapido quanto più ci costruisci sopra qualcosa di grosso. Non importa cosa. Basta che sia tanto.
Il piano strutturale del comune prevede di costruire fino a 350 alloggi, mentre tutte le altre ville dovranno stare ferme, in nome della sobrietà cementizia. Tutto questo – che mi pare il nocciolo urbanistico della questione – viene presentato come un’ineluttabile legge di natura. Non c’è niente da discutere. Il percorso partecipato, al netto delle buone intenzioni, riguarda un chilometro di pista ciclabile, una nuova rotatoria, una dozzina di lampioni, qualche dissuasore di velocità, un paio di marciapiedi e la greenway per il Mapei Stadium. Difficile non vederci un colonialismo dal volto umano. La grande bontà, l’ascolto dei cittadini, si riduce all’antica formula: perline di vetro in cambio di terra.
La pista ciclopedonale di via Spagni – lunga 1 chilometro e 270 metri per 300 mila euro di spesa – doveva essere pronta a novembre 2011. Ci sono sopra, l’ho camminata, e mi pare manchino ancora diverse rifiniture, a quattro anni dalla consegna prevista.
Eppure: come ti permetti di criticare chi apre piste ciclabili, parchi, percorsi partecipati, centri anziani e greenway?

Le gocce riprendono a ritmo serrato. Attraverso la nuova rotonda e mi domando se per “mettere in sicurezza un incrocio”, non ci sia davvero altra soluzione che allargarne l’impronta, moltiplicare l’asfalto e piazzarci in mezzo la statua di qualche artista incompreso.
Su via Camellini, la segnaletica mi informa che sto seguendo una strada senza uscita, eccetto residenti autorizzati, ma come sempre le considero informazioni per auto e spingo i piedi fino alle tracce di due pneumatici che incidono un campo e puntano il torrente Rodano.
La mappa dice che sull’altra riva, a meno di trecento metri, corrono l’autostrada e la ferrovia veloce, ma un sipario d’alberi le cancella dal mondo e mi lascia spettatore di una vasta campagna, lucida del verde nuovo di fine inverno.
Ponte della SbarraSull’argine cresce un bosco fitto, vario, ben curato, che mi ricorda i paesaggi d’Appennino. Si passa il fiume sul Ponte della Sbarra, un vecchio manufatto a schiena d’asino che mai vi aspettereste di incontrare qua in mezzo. Apprendo da un cartello che mi trovo sulla greenway di Pratofontana e che sto per arrivare alla stazione Mediopadana. Un bel tragitto slow per utenti dell’Alta velocità: se lo dite a Farinetti, ci apre subito un ristorante.
Seguo la strada bianca sull’orlo di un vigneto, finché la way diventa meno green e assume l’aspetto di una pista di cantiere, con enormi guardrail da camion, stretta addosso al bastione del TAV: cinque metri di calcestruzzo, tripla ringhiera tubolare, fascia d’erba in gabbia, barriera antirumore grigia, fili elettrici, tralicci.
Giungo al cospetto dell’onda bianca di Calatrava e mi viene in mente una foto che ho trovato in Rete. Titolo: Cantiere (ancora per poco). Data: 9 giugno 2013, il giorno dopo l’inaugurazione ufficiale.
Cantiere CalatravaL’inquadratura gioca sul contrasto tra un cielo blu elettrico – che non ho la fortuna di avere sulla testa, – la fuga di costole avorio del grande Velocisauro – presa dal mio stesso angolo visivo – e l’arancione delle reti plastiche – che mi ritrovo davanti e mi sbarra la strada. Il cantiere è ancora lì, due anni dopo, ma invece di apprezzarne l’effetto cromatico, cerco subito il modo di aggirarlo e attraversare la stazione, altrimenti sarò costretto a ridisegnare gran parte del tragitto, cosa nient’affatto semplice sullo schermo ridotto del navigatore GPS.
Perlustro le transenne e scopro un pertugio. Dall’altra parte, una scala esterna conduce in due rampe al livello dei binari. Allargo il varco, ci spingo lo zaino, quindi mi infilo di traverso e sono di là. Scavalco un nastro biancorosso, salgo rapido i gradini e quando arrivo in cima mi accoglie una porta a vetri, aperta, con su scritto “uscita d’emergenza”.
Sotto la gigantesca fisarmonica di acciaio e vetro, il vuoto si allunga per 483 metri. Atmosfera controllata da esperimento scientifico: viene il dubbio che ci sia ossigeno. Solo un uomo in divisa ferroviaria si aggira sul binario uno. Potrei saltar fuori e raccontargli che le sirene della greenway mi hanno illuso di arrivare in stazione a piedi, che devo assolutamente prendere un treno e per questo ho forzato le cesate del cantiere. Immagino mi chiederebbe il biglietto, è il suo mestiere, e a quel punto mi troverei a malpartito. Altrimenti, potrei sfoggiare una retorica degna dell’ex-sindaco Delrio, citando la necessità di aprire la Mediopadana agli attraversamenti, alle contaminazioni e alle proposte della cittadinanza. Preferisco invece starmene acquattato e sperare che quell’unica presenza umana sia il presagio di un treno in arrivo. Passano due minuti e una voce annuncia il Frecciarossa diretto a Milano. Scendono pochi passeggeri, ma me li faccio bastare. Protetto dallo sciame, varco l’uscita senza niente da dichiarare. Uno sguardo al tabellone delle partenze mi conferma che ho avuto fortuna: nelle prossime sei ore fermeranno solo otto treni.
L’ingresso principale della stazione dà le spalle a Reggio, guarda in direzione opposta, verso i campi. Non saprei immaginare un simbolo più eloquente di estraneità. Allo stesso tempo, proprio quell’accesso malorientato, evoca la città che non c’è, lanciando un sortilegio sul territorio affinché si popoli di palazzi, spazi produttivi, quartieri satellite, insediamenti urbani.
Il piazzale esterno è diviso tra i lavori in corso e un parcheggio di otto ettari, adatto a ospitare mille vetture. Alla faccia delle greenway e dei trasporti urbani, è chiaro a tutti che i viaggiatori arriveranno qui in automobile. Il parcheggio serve anche per glorificare il bacino d’utenza della stazione: è sempre pieno, deborda, quindi un sacco di gente viene qui a prendere il treno. Senza contare che molti lavoratori mollano l’auto il lunedì mattina e la riprendono a fine settimana. Mille pendolari così basterebbero a completare gli spazi. Ma bastano a giustificare un nuovo quartiere? Magari abitato proprio da loro, felici di lasciare la vettura in garage, per venire qui in bici e sentirsi molto slow TAV?
Visto da fuori, l’intero complesso ricorda un aeroporto e la somiglianza non è casuale. Se non fosse per le rotaie, il Grande Bruco Bianco sarebbe più credibile come aerostazione. A quattro chilometri dal centro città, oltre l’autostrada e la tangenziale Nord, si propone di attirare passeggeri dai comuni e dalle città limitrofe. Un pendolare mantovano, che vuole arrivare a Milano entro le nove del mattino, ha a disposizione solo due treni regionali, che impiegano due ore e partono tra le sei e le sei e mezza. Biglietto: undici euro. Ma visti i ritardi cronici del trasporto locale, potrebbe rilassarsi un quarto d’ora in più, salire in auto, arrivare alla Mediopadana, saltare sulla Freccia e ritrovarsi puntuale alla scrivania. Costo complessivo: ventiquattro euro per il treno più settanta chilometri di benzina. Il fatto che questa soluzione stia conquistando qualche utente facoltoso – o disperato – viene sbandierato come un successo del Velocisauro e non come l’apocalisse delle ferrovie locali. Già quarant’anni fa, Ivan Illich scriveva che «in ogni società nella quale il tempo è denaro, l’uguaglianza e la rapidità di locomozione tendono ad essere inversamente proporzionali».
Muovendo verso la zona industriale, sperimento sulla pelle la verità di quelle parole. Tra il pedone e l’automobilista c’è una tale disuguaglianza che il secondo pare autorizzato a uccidere il primo. Sull’enorme rotonda tra la Mediopadana e Mancasale, il diritto alla viandanza s’inchina alla dittatura del motore a scoppio.

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3 commenti su “Calatrava e la bontà. Il #SentieroLuminoso passa dalla stazione Mediopadana AV.

  1. Propongo una piccola modifica alla seguente frase:

    “Un pendolare mantovano, che vuole arrivare a Milano entro le nove del mattino, ha a disposizione solo due treni regionali, che impiegano due ore e partono tra le sei e le sei e mezza. Biglietto: undici euro. Ma visti i ritardi cronici del trasporto locale, potrebbe rilassarsi un quarto d’ora in più, (salire in auto) prendere una comoda navetta AV, arrivare alla Mediopadana, saltare sulla Freccia e ritrovarsi puntuale alla scrivania.”

    Al momento di questo fantastico servizio ho trovato solo traccia su la repubblica, sezione economia e finanza, http://www.repubblica.it/economia/2016/05/23/news/freccialink_alta_velocita_-140436144/ ma niente sul sito di trenitalia (ma forse sono io che cerco male).

    Comunque, questa notizia conferma ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, che lo stesso Stato gliela ha dato su ai treni dei pendolari e punta tutto sulle frecce.

  2. Eccellenza Ministro della Guerra,
    abbiamo opere di costruzione che trasciniamo da anni non mai terminate e che forse terminate non saranno mai.
    Questo succede, Eccellenza, per la confusione causata dai frequenti ribassi che si apportano nelle opere Vostre, poiché va certo che tutte le rotture di contratti, così come i mancamenti di parola ed il ripetersi degli appalti, ad altro non servono che ad attirarVi quali Impresari tutti i miserabili che non sanno dove batter del capo ed i bricconi e gli ignoranti, facendo al tempo medesimo fuggire da Voi quanti hanno i mezzi e la capacità per condurre un’impresa. E dirò inoltre che tali ribassi ritardano e rincarano considerevolmente i lavori, i quali ognora più scadenti diverranno.
    E dirò pure che le economie realizzate con tali ribassi e sconti cotanto accanitamente ricercati, saranno immaginarie, giacché similmente avviene per un impresario che perde quanto per un individuo che si annoia: s’attacca egli a tutto ciò che può, ed attaccarsi a tutto ciò che si può, in materia di costruzioni, significa non pagare i mercanti che fornirono i materiali, compensare malamente i propri operai, imbrogliare quanta più gente si può, avere la mano d’opera più scadente, come quella che a minor prezzo si dona, adoperare i materiali peggiori, trovare cavilli in ogni cosa e leggere la vita ora di questo ora di quello.
    Ecco dunque quanto basta, Eccellenza, perché vediate l’errore di questo Vostro sistema; abbandonatelo quindi in nome di Dio; ristabilite la fiducia, pagate il giusto prezzo dei lavori, non rifiutate un onesto compenso a un imprenditore che compirà il suo dovere, sarà sempre questo l’affare migliore che Voi potrete fare.
    Architetto Marchese di Vauban Parigi, il 17 luglio del 1683

    Nota: Questa lettera è stata scritta oltre tre secoli fa dall’architetto Sébastien Le Prestre, Marchese di Vauban (Maresciallo di Francia 1633-1707) al ministro della Guerra François Michel Le Tellier, Marchese di Louvois (1641-1691)

    PER LA SERIE “CORSI E RICORSI STORICI”.

    SALUTI

    • Il documento è autentico, però è tradotto molto male. Solo un esempio: quando dice “similmente avviene per un impresario che perde, quanto per un individuo che si annoia”, l’originale francese è “d’autant qu’il est d’un entrepreneur qui perd comme d’un homme qui se noie” dove “se noie” significa “annega” e non “si annoia”.
      Inoltre, la lettera è indirizzata a François de Louvois che non era “Ministro della Guerra”, visto che quella carica viene istituita solo con la Rivoluzione, nel 1791. L’uomo era segretario di stato della guerra, e la lettera originale è intestata semplicemente “A’ Louvois” che viene poi chiamato “Monseigneur”.
      Detto questo, ti ringrazio molto per la segnalazione, non conoscevo il documento ed è molto interessante, sebbene illustri, secondo me, un tipo di problema che non è IL problema di tante grandi opere italiane. Lo spreco e gli appalti al ribasso sono una piaga, ma la stazione Mediopadana di Calatrava è comunque una piaga più grossa, e lo sarebbe anche se il cantiere l’avessero terminato in tempo, senza costi lievitati. Lo stesso vorrei dire per la TAV in val Susa, il Terzo Valico, il sito di Expo 2015. La logica sbagliata è a monte, a prescindere dal come. Il vero problema è che queste opere non vengono pensate per una reale utilità e poi rovinate dai lavori in corso. Queste opere vengono pensate per fare proprio quel tipo di lavori, per avere quel tipo di appalti, appalti concepiti su misura per la malavita organizzata, salvo poi celebrare il “No Mafia Day” con Mattarella in collegamento dall’aula bunker di Palermo.