[Il 25 novembre scorso, alla 10ª edizione de La Terra Trema – Fiera feroce di cibi, vini e cultura materiale – Wu Ming 2 avrebbe dovuto incontrare Jonathan Nossiter per discutere del suo libro, Insurrezione culturale, pubblicato da DeriveApprodi. Causa imprevisti, la presentazione è saltata e si è trasformata in un articolo per il nuovo Almanacco de La Terra Trema, uscito in questi giorni. La rivista – dopo un numero zero nel 2015 e quattro uscite nel 2016 – ha in programma altri quattro numeri stagionali anche per il 2017. In questo di primavera, che è il primo, segnaliamo anche un pezzo di Wolf Bukowski, Non parliamo di cibo, “dedicato” al decimo compleanno di Eataly. La rivista verrà presentata al centro sociale XM24 di Bologna, il 28 aprile, nell’ambito del festival Gusto Nudo.]
L’interazione culturale
di Wu Ming 2
Insurrezione culturale, il terzo libro di Jonathan Nossiter, scritto insieme a Olivier Beuvelet, è stato letto e recensito come un sequel su carta di Resistenza naturale, il documentario che lo stesso autore dedicò ai produttori di vino “non allineati”, ribelli alle certificazioni DOC, contrari alla chimica, rispettosi del suolo e dell’uva, fedeli a un’etica comune ma senza regole scritte. In realtà il libro è molto più di questo, sebbene contenga numerose storie di vignaioli in rotta con gli esperti dell’agro-industria. Nossiter ce le racconta come esempi virtuosi, non senza ostacoli e cadute, all’interno di una proposta più vasta e ambiziosa, rivolta a tutti gli “attori culturali” che si pongono la domanda della propria sopravvivenza. L’idea è che costoro avrebbero molto da imparare dagli artigiani contadini del vino naturale.
“Dieci anni fa – spiega Nossiter – a chi si batteva per il vino inteso come espressione culturale e artigianale, l’avvenire sembrava altrettanto fosco di quanto oggi il futuro appare incerto ai sostenitori della cultura tout court.” Contro ogni previsione, quel pugno di viticultori artigianali è riuscito a sviluppare una rete internazionale, dove “il vino naturale è una realtà economica solida, estetica e politica”, che vede ingrossarsi le fila dei protagonisti, passando in Francia da cento a duemila e in Italia da venti a cinquecento produttori. La loro battaglia sembra indicare una pista anche a scrittori, cineasti e artisti che vogliano vivere del loro mestiere, rifuggendo una celebrità vuota e sconnessa, ma senza celebrare di contro la propria marginalità, scambiata per attestato di vero antagonismo.
Cosa possono imparare, questi soggetti, dai ribelli dell’enologia? E perché mai la loro formula magica – se esiste – dovrebbe funzionare in un altro contesto, che non ha nulla da spartire con la terra, i lieviti, le bottiglie e il palato?
Nossiter e Beuvelet dedicano un intero capitolo a illustrare come la parola cultura – un tempo riferita soltanto al lavoro dei campi – si sia staccata dal suo significato originario, ormai denotato dal termine specifico agricoltura, per designare invece un’attività intellettuale e simbolica. Nel far questo, incappano anche in luoghi comuni pericolosi, come quando sostengono che “è stata l’agricoltura, cioè la sedentarietà, a far nascere la civiltà umana”. Con buona pace di popoli nomadi e cacciatori-raccoglitori che si ritroverebbero così fuori dalla Storia, meno umani e meno civili dei loro simili con la zappa in mano.
Se a reclamare l’attenzione degli artisti per gli artigiani del vino, ci fosse solo l’antico legame tra cura della terra e cura del sapere, l’invito di questo libro suonerebbe pretestuoso. Ma il nocciolo del ragionamento non si basa sull’etimologia. I produttori di cultura dovrebbero guardare ai viticultori per almeno tre motivi.
Primo, perché il ruolo dell’artista consiste – secondo gli autori – nella “ricerca delle forme di senso, di speranza e di sopravvivenza di una civiltà”. Sopravvivenza che oggi si pone in termini più biologici che culturali, contemplando da vicino l’eventualità di un’estinzione della specie umana. Di fronte a quest’angoscia, il contadino si ritrova a fronteggiare problemi “da artista”, mentre l’artista deve interrogarsi, “da contadino”, sul rapporto tra gli umani e l’ambiente.
Il secondo aspetto riguarda il valore della cultura. “L’artista contemporaneo – leggiamo nel libro – sa che il suo lavoro non ha più alcuna esistenza pubblica al di fuori di ciò che gli è riconosciuto come valore commerciale, a sua volta puramente aleatorio.” Questa situazione sarebbe il risultato del progressivo allontanarsi dell’artista moderno dalla figura dell’artigiano. Se in origine le belle arti erano considerate “meccaniche”, fu quando diventarono “liberali” – cioè intellettuali – che i loro protagonisti si videro promossi nella scala sociale. Da allora il processo non si è più fermato, complici gli stessi artisti. Con l’avvento di “un certo postmodernismo […] della forma considerata sostanza”, Nossiter e Beuvelet ritengono definitivo il divorzio tra l’arte e i suoi contenuti, simile a quello tra il vino e la sua etichetta. Una bottiglia non viene più apprezzata per il liquido che contiene, ma per i nomi, i marchi, le certificazioni e le parole che ci sono scritte (o non scritte) sopra.
Il terzo motivo che accomuna contadini e artisti è una piaga che minaccia le campagne come le librerie, le vigne quanto i teatri: quella della monocultura e dell’attacco alla biodiversità.
A queste tre analogie vorrei aggiungerne una quarta, che in qualche modo le riassume. Proviamo a rovesciare il problema: invece di ricercare somiglianze tra produttori di vino e di cultura, chiediamoci piuttosto per quale motivo ci sembrano tanto diversi. Per rispondere, dobbiamo chiamare in causa la distinzione tra forma e sostanza. E’ in base a quella che cataloghiamo diversi modi di trasformare la materia, a seconda di quanta libertà si esprime nell’atto di dare forma a una certa sostanza. Il castoro incastra i tronchi a formare la diga perché “glielo impone la sua natura”; il contadino coltiva le piante – non le “fa” – perché può intervenire sulle condizioni della loro crescita, ma è comunque vincolato dalla “forma della pianta”; l’artigiano è più libero, ma deve comunque attenersi a criteri di funzionalità, perché l’oggetto che produce abbia una forma utile; l’artista, infine, può sbizzarrirsi a inventare la forma che preferisce, conquistando uno spazio di libertà nel mondo della necessità fisica. Eppure, qualunque artista conosca il suo mestiere, sa che la realtà non funziona in questo modo. Lo scultore sa che ogni blocco di pietra o di legno ha diversi punti di rottura e caratteristiche che lo costringeranno, via via che il lavoro procede, a modificare i suoi piani e ad adattarli alla materia. Il romanziere, quando racconta una storia, sa bene che non otterrà mai “quello che aveva in testa”, ma che i personaggi e le situazioni lo porteranno in direzioni inattese. Il compositore sa che il medesimo spartito può portare a esecuzioni molto differenti, così come il cuoco conosce bene la differenza tra una ricetta e i suoi risultati. Dove sta la forma? Non sarebbe meglio dire che essa non pre-esiste da nessuna parte, come spirito in attesa di farsi carne, ma si genera nel rapporto tra un individuo e l’ambiente, grazie ai movimenti, alle capacità e alle caratteristiche di entrambi?
La diga del castoro, la pianta del contadino, il manufatto dell’artigiano e l’opera dell’artista sono tutti esempi di questo coinvolgimento, tra un attore e il suo mondo, nel quale entrambi crescono e si trasformano. Un romanziere coltiva le “sue” storie, come un giardiniere i “suoi” gerani e un mollusco la sua conchiglia.
Ecco perché non dovremmo più sorprenderci, di fronte all’idea di esportare il modello dei viticultori naturali dalla penombra delle cantine ai laboratori di registi, pittori e cantastorie. Ma per farlo, occorre domandarsi in che cosa consista un simile modello. Tra le righe, non certo sistematiche, di Nossiter e Beuvelet, mi pare di averne rintracciati tre elementi fondamentali.
Il primo è l’importanza del gesto che produce rispetto al prodotto finito. Se, come dice Mead, “ogni oggetto è un atto collassato”, occorre rimettere l’atto in primo piano. Il secondo sono le relazioni, senza le quali quel gesto rimarrebbe incompiuto. Il terzo è l’autenticità, non nel senso di “origine controllata”, ma come accordo tra la sincerità soggettiva, grazie alla quale l’individuo trova sé stesso, e il comportamento oggettivo, dove egli misura quel che sente vero e giusto nel rapporto con gli altri. Quest’ultimo punto è sicuramente il più controverso dei tre. Da un lato, perché gli autori non lo definiscono mai in maniera precisa; dall’altro perché, così facendo, si ritrovano spesso a schiacciare l’autenticità su concetti scivolosi come tradizione o su una concezione tutta ideale della Natura. Nel campo dell’arte, quando si parla di autenticità, si fa sempre riferimento all’autore, o per indicare che un’opera è davvero sua (“un Picasso autentico”), oppure per intendere che essa esprime in maniera diretta e urgente la soggettività di chi l’ha creata. Gli altri due elementi dell’insurrezione naturale – il gesto e le relazioni – mi sembrano andare invece in una direzione opposta, quella di sottrarre importanza all’autore di un prodotto culturale, per concentrarsi invece sul come lo produce e con chi. Ritengo quindi che l’autenticità – passando dalle bottiglie ai libri, cioè ai prodotti di cui mi occupo – dovrebbe intendersi come caratteristica collettiva, non individuale. Un romanzo è autentico se viene scritto, letto, discusso e distribuito mettendo al centro la storia che contiene e la comunità che intorno ad essa si riunisce, le altre storie che mobilita, le domande che pone. Direi che è tanto più autentico quanto più l’autore implicito che ci parla attraverso le sue pagine non evoca l’individuo reale che le ha scritte, ma la collettività che le ha rese possibili.
Vediamo ora come si potrebbero declinare, sul tavolo di uno storicultore, gli altri due punti del modello contadino.
Il gesto di cui parlano Nossiter e Beuvelet consiste nel “rispettare la natura dei suoli e la natura dell’uva senza ricorrere al mondo fittizio della chimica.” E’ un atto di emancipazione che “trasforma le motivazioni mercantili in motivazioni esistenziali, sociali, politiche ed economiche.” E’ una mossa che riconcilia etica ed estetica, perché il giudizio (estetico) sul prodotto non può prescindere dal giudizio (etico) sulla sua produzione. Infine, è un ritorno alla materia, all’esperienza, allo spirito d’osservazione e all’attenzione per il fenomeno: il vino non nasce da regole astratte imposte su una materia inerte, ma dal rapporto tra un individuo, con le sue abilità, e una vigna, con le sue caratteristiche. Provando a tradurre tutto questo nel campo della letteratura, potremmo dire che anche qui è necessario considerare come “parte dell’opera” tutti quegli aspetti che, di solito, vengono relegati dai critici nell’ambito della sociologia. Com’è stato scritto, questo testo? Chi ha collaborato? Quali altri libri chiama in causa? A quali si ispira? Come si apre al contributo dei lettori? Come li coinvolge? Si tratterebbe di considerare il libro come atto centrale di una lunga performance, riportando la scrittura alla sua funzione primitiva, quando essa serviva a registrare un’esperienza, più che a rappresentare una realtà. Riscoprire una dimensione artigianale significa mettersi al servizio di una storia, non della propria soggettività (o delle richieste di un editore). “Tornare allo spirito di osservazione”, per un narratore, non vuol dire per forza raccontare “storie vere”, o sposare gli stilemi del realismo, ma domandarsi in che rapporto sta quello che scrive con quello che sperimenta ogni giorno. E domandarsi anche quali esperienze potrebbe fare per raccontare meglio. Pier Vittorio Tondelli invitava gli esordienti a “raccontare quel che conoscono”. Molti hanno frainteso la proposta, limitandosi a scrivere romanzi intorno al proprio ombelico, invece di cogliere lo stimolo a conoscere altro, per comprendere che l’informazione, senza esperienza, troppo spesso ci consola con l’illusione di conoscere. Detto in altri termini, se voglio scrivere un noir che ha per protagonista un poliziotto italiano, devo domandarmi che cosa so della polizia in Italia e fino a che punto invece rischio di seguire uno stereotipo, un format prestabilito. Poi la vicenda che racconto può anche essere surreale, e contemplare viaggi nel tempo, ma deve tenere conto del rapporto tra il mondo e la materia con la quale la impasto.
Infine, sulla questione delle relazioni, mi pare che quanto precede già delinei una prospettiva. Quella cioè di una letteratura sociale che non si rivolge a un pubblico prestabilito, individuato con sondaggi e campagne di marketing, ma che crea una comunità e la alimenta con incontri dal vivo, collaborazioni, scambi a distanza e nuove storie. Evitando però di cristallizzare quella comunità, di mettersi al servizio delle sue esigenze – come nel vecchio modello dell’intellettuale organico – perché altrimenti questa si trasformerebbe in “pubblico di riferimento” e il narratore nel suo propagandista.
Per concludere, credo che l’idea di un dialogo tra viticultori contadini e “artigianisti” di vari ambiti culturali sia stimolante e proficua. A patto però di non farsi dominare da una preoccupazione che spesso si avverte, tra le pagine di Insurrezione culturale: quella del recupero. “L’autenticità è fragile in un mondo in cui ogni gesto rischia di essere oggetto di un recupero da parte dello spettacolo.” Gli autori citano Guy Debord “che ha lottato fino al suicidio contro il rischio di essere recuperato dal sistema che criticava”. Proprio quel suicidio dovrebbe costituire un monito, non tanto sull’immane potere dello spettacolo recuperante, quanto sul potenziale mortifero dell’ossessione recuperofoba. Non metterò in crisi il sentimento dell’amore solo perché il Capitale me lo ruba e lo mette a valore in una pubblicità di cioccolatini. Piuttosto, mi chiederò cosa differenzia l’amore che provo da un amore a misura di spot. E cercherò di dire quella differenza, di trovare parole nuove, di raccontare perché il mio “Ti amo” ha lo stesso suono di quell’altro, ma si riferisce a una realtà differente. Il recupero si combatte con la radicalità di azioni e pensieri, non con la caccia ai venduti, che sempre si conclude in un’auto-assoluzione o in un disperato nichilismo.