di Wu Ming 4
Christopher Nolan non ha bisogno che si esalti per l’ennesima volta la sua straordinaria capacità di rileggere i generi – in questo caso il war movie sul secondo conflitto mondiale. Non ha bisogno che si parli ancora della sua maestria nel raccontare storie sfasando i piani temporali, blindandone la tenuta narrativa con meccanismi a orologeria. Tanto meno ha bisogno che si esaltino le sue doti puramente registiche, capaci di rendere claustrofobico un film che si svolge su tre livelli – terra, mare, aria – raccontandoti la stessa storia dalle tre angolazioni con un andamento diacronico, e con un uso dirompente del contrasto tra silenzio e rumore, tra gesto e parola.
Sotto questi aspetti Dunkirk è l’ennesimo film di Nolan indimenticabile, nel senso letterale di impossibile da dimenticare, che resta impresso a fuoco nell’immaginario cinematografico, e costringe i successori a un confronto diretto.
Ma c’è dell’altro che colpisce, e spinge a una riflessione su quello che accade oggi in Europa e perfino quaggiù nella sua propaggine meridionale.
Dunkirk per un verso potrebbe raccontare la Gran Bretagna ai tempi degli attentati terroristici dell’ISIS. L’epoca in cui i cittadini sono esposti ai colpi di un nemico invisibile, che può essere ovunque. In tutto il film i tedeschi non sono mai nominati. Sono «il Nemico». E non compaiono mai. Sparano da punti nascosti, oppure dal cielo, o da sott’acqua. Ma sono del tutto invisibili e disincarnati. Non è dei tedeschi che vuole parlarci Nolan. Né di altri nemici particolari. Ciò che mostra è l’umanità sotto minaccia. Un’umanità sconfitta, derelitta, fiaccata nel morale, e pronta a tutto per salvarsi la pelle.
–
Non proprio a tutto. C’è qualcuno che si lascia prendere dal panico e si disumanizza completamente, cedendo al mors tua vita mea, e magari individuando nell’allogeno (un francese) la zavorra di cui sbarazzarsi per avere una possibilità in più. Ma c’è anche chi afferma che quel principio non è giusto: «It’s not fair». Non è giusto trovare un capro espiatorio in un altro povero cristo che sta solo cercando come te di salvarsi. Quelle centinaia di miglia di soldati inermi, in attesa di un passaggio per l’Inghilterra, non possono non far pensare alla città dei profughi di Calais, che meno di un anno fa sorgeva proprio sulla sponda francese della Manica e raccoglieva i fuggiaschi delle mille battaglie perse – contro la guerra, contro la persecuzione, contro la miseria.
Perfino il personaggio più retorico, l’ammiraglio che sovrintende all’evacuazione (un bravissimo Kenneth Branagh), condivide l’idea che non sia giusto lasciare indietro qualcuno solo perché non inglese, e sceglie di restare fino all’ultimo per provare a imbarcare quanti più francesi sia possibile.
It’s not fair. C’è un elemento morale che non può essere cancellato dalla guerra. Restare umani è soltanto questo: resistere alla paura e impedirle di trasformarci in bestie. Cioè nei nazisti di noi stessi.
Sembra proprio questo il messaggio veicolato dal film di Nolan. Al netto delle manifestazioni di coraggio, del grande slancio patriottico delle imbarcazioni civili che andarono a recuperare “i nostri ragazzi” a Dunkirk e li riportarono a casa, c’è il richiamo a un senso prepolitico di giustizia. L’umanesimo contro l’antiumano.
Ecco perché il film parla anche dell’Italia di oggi e di tutto l’Occidente «assediato» dai profughi e minacciato dai nazislamisti, cioè dai propri stessi spettri, dalla propria nemesi post-coloniale.
Il celeberrimo discorso di Churchill che chiude il film («Combatteremo sulle spiagge…»), e nel quale si sono cimentati negli anni fior fior di attori che hanno interpretato Sir Winston, viene messo in bocca a un giovane soldato, che lo legge sul giornale. Non è l’inconfondibile voce biascicata del vecchio Winnie, e nemmeno la prova mimetica di un grande attore, ma la voce di un ragazzo. In bocca a lui le famose parole «We shall never surrender!» suonano pacate, cariche della stanchezza di un reduce che sa di avercela fatta soltanto per adesso e che la lotta in realtà è appena cominciata.
Ecco, la lotta continua. Qualcuno si era illuso che certi sentimenti e idee fossero state sepolte sotto le macerie della Seconda guerra mondiale, che appartenessero al passato o alle sue sopravvivenze nostalgiche e residuali. «Tu che credevi nel progresso e nei sorrisi di Mandela…», canta il saggio Brunori Sas. Per quanti anni, perfino in Italia, dove il fascismo è nato e dove il neofascismo ha avuto e ha un ruolo pesantissimo, gli antifascisti militanti si sono sentiti dire che erano ancorati a vecchie contrapposizioni, che bisognava andare oltre. In fondo erano «ragazzi» anche quelli di Salò, disse un giorno il presidente della Camera Luciano Violante. Anni dopo qualcuno è giunto a dire che se destra e sinistra sono contrapposizioni superate, anche quella tra fascisti e antifascisti lo è. E tanti saluti alla storia.
Sì, tanti saluti. In questi anni di esplosione del dibattito su migrazioni, sbarchi, xenofobia, e di progressivo ritorno in auge di certi pensieri neri, nessun regista o produttore italiano ha nemmeno provato a guardare indietro alla nostra storia. Nell’immaginario mediatico seguita a non comparire la nostra vicenda di colonialisti in Africa (Eritrea, Libia, Etiopia, Somalia) o di invasori nei Balcani (Jugoslavia, Albania, Grecia). Si seguita a fingere di essere sempre stati un paese di emigranti e non già anche un paese di oppressori razzisti, perché nessun senso di colpa/responsabilità può essere innescato nella coscienza nazionale. Gli italiani sono sempre stati vittime della storia. Vittime della povertà, dell’ignoranza, di Mussolini, di Hitler, degli Americani, del Pentapartito, di Berlusconi, di Grillo… Vietato voltarsi indietro per cercare qualcosa di più. Gli unici eroi possibili sono i poliziotti e i giudici antimafia, i tutori della legalità contro i cattivi mafiosi.
–
Ma prima della legalità ci sarebbe la giustizia, l’equità. Il giusto e l’ingiusto. Concetti assai più complessi, che implicano una presa in carico di responsabilità, appunto, ben più della mera ubbidienza e applicazione delle leggi, che in certi momenti storici sono state anche leggi speciali e leggi razziali, e sono state combattute da bande di illegali.
It’s not fair. In Gran Bretagna i conti con il passato qualcuno li ha fatti e continua a farli. E nell’epoca degli attentati e del sindaco musulmano di Londra il più geniale regista britannico fa un film in cui afferma la necessità di salvarsi il culo il più collettivamente possibile. Nolan ci dice che il valore aggiunto sta in questo: nel farlo. È in quell’agire per salvare il prossimo che si riafferma l’umanità contro il nazismo, ma anche contro il cinismo e la realpolitik (Churchill si sarebbe accontentato di salvare un decimo di quei ragazzi).
Assunzione di responsabilità, anche tra le generazioni. Quella del borghese già attempato che dice più o meno: «Sono stati uomini della mia età a mandarvi in guerra, non vedo perché adesso non dovremmo cercare di salvarvi.» Si dovrebbe accostare questo gentleman, che con la sua barca da diporto e senza nemmeno allentare il nodo alla cravatta sfida la Luftwaffe e la Kriegsmarine per salvarne quanti più possibile, a figure prosaiche come Poletti e Minniti, per vedere l’effetto che fa.
Così come bisognerebbe considerare che il film di Nolan dice una cosa chiara e tonda. L’antiumano va combattuto senza quartiere, dentro e fuori di noi. Sappiamo che sarà una lotta lunga, generata da una sconfitta, da una rotta, quella nella quale ci troviamo e nella quale si trovò l’Europa nel 1940, sulla spiaggia di Dunkirk. Dopo gli anni di liberismo selvaggio e dopo gli anni della crisi del liberismo; dopo i diktat e i commissariamenti della BCE; davanti non abbiamo le meravigliose sorti e progressive dell’Europa Unita, già morta e sepolta. Abbiamo anni di lotta durissima contro il nuovo nazismo sorgente su entrambe le sponde dello «scontro di civiltà», con la consapevolezza che l’unico scontro di civiltà da combattere è proprio questo.
Si tratta di resistere alle pulsioni che risorgono dalle fogne in cui erano state sprofondate. Il cinismo o la sprovvedutezza di chi seguita a parlare del nazifascismo come di qualcosa pertinente il passato, sono parte consistente del problema. A spaventare non è la liaison con gruppi o gruppetti di estrema destra ormai perpetrata da vari esponenti del sedicente centrosinistra, e nemmeno la consistenza numerica dei suddetti gruppi, quanto piuttosto il fatto che questa apertura all’antiumano in nome del post-ideologico strizza l’occhio a pensieri e atteggiamenti che si diffondono nella società. La società postmoderna che si vuole aconflittuale e dove c’è posto per tutti.
La politica miserabile non fa che adeguarsi. Invece di chiamare alla resistenza gli uomini e le donne di buona volontà, invece di rafforzare la barriera culturale e politica, preferisce blandire l’onda montante dell’odio per gli straccioni stranieri, assai meno impegnativo e più facile da gestire dell’odio per le banche (dai risvolti sistemici e anticapitalistici), durato appena qualche anno.
Ecco allora che il film di Nolan rappresenta bene dove siamo adesso. Su una spiaggia desolata, bersagliati da ogni parte da bombe e proiettili e pulsioni antiumane. Non ancora annientati, però. Anche dalla più cupa sconfitta infatti può nascere una vittoria. Dunque, senza fanfare e senza enfasi retorica, dalla spiaggia di Dunkirk è ancora possibile e necessario dirsi l’un l’altro – e far sapere al nemico – che non ci arrenderemo mai.
–
Ecco. C’era questa cosa che mi piaceva, e mi piaceva tanto, del film di Nolan ma che non riuscivo a mettere a fuoco. Volevo scriverne una recensione però non riuscivo a mettere le parole in fila sul perché il film fosse così bello. Grazie WM4 per averlo fatto in modo pressoché perfetto, condivido e diffondo, con l’intento di sopravvivere, che non è poco, come dice il vecchio inglese ai superstiti.
Ho sempre considerato Nolan un grandissimo regista, forse il migliore tra i viventi nel coniugare sceneggiatura e tecniche di regia. Allo stesso tempo, però, non ho mai potuto non notare che in tutti i suoi racconti c’era qualcosa di estremamente reazionario.
In Memento, la geniale struttura dell’intreccio, è messa al servizio di una storia di vendetta personale.
In Inception, la capacità di entrare nei sogni delle persone per influenzarne le decisioni viene utilizzata per…convincere un ereditiere a dividere l’impero economico del padre. E il protagonista non lo fa nemmeno per interessi personali, ma su commissione.
Non dico che dovesse per forza entrare nella testa di Netanyahu per riportare la pace in Palestina, ma si potevano trovare mille altre cause per cui mettersi al servizio.
Il Cavaliere Oscuro, poi, inizia con Batman che se ne frega di estradizione e stato di diritto e decide sua sponte di andare ad Hong Kong a prelevare il mafioso per consegnarlo all’amico poliziotto di Gotham City (vado a memoria) fino ad arrivare a far dichiarare apertamente a Joker di essere anarchico poco prima di far saltare in aria un ospedale.
Comunque dopo il post cercherò di liberarmi di questa convinzione ed andare a vedere Dunkirk (Non è che per Nolan “il Nemico” che non compare mai, alla fine rappresenta i migranti, no? ;) )
Questione cruciale. Un’opera complessa ha molti livelli di lettura e offre sempre una pluralità di allegorie. Un’opera complessa parla in modo diverso alle diverse persone che la fruiscono, le sue diverse ricezioni innescano molteplici messaggi, che per giunta cambiano con il passare del tempo, e i suoi significati vanno molto oltre le intenzioni vere o presunte dell’autore.
Anch’io vedendo tutti quegli uomini disperati che cercano di attraversare la Manica ho pensato subito ai migranti e profughi bloccati a Calais, accerchiati dal razzismo delle autorità ma anche sostenuti dalla solidarietà di molti.
«Let’s go to Dover!», grida nel film uno dei naufraghi che affollano un barcone.
Un barcone… Un barcone affollato…
Anch’io vedendo i salvataggi in mare ho pensato a come nella storia recentissima del nostro paese si sia fatto di tutto per ostacolarli, i salvataggi in mare. O almeno, certi salvataggi in mare.
È ovviamente impossibile che Nolan avesse in mente il codice Minniti.
È invece possibile che avesse in mente i profughi bloccati a Calais.
Ed è del tutto plausibile che avesse in mente il frequente parallelismo ISIS = nazisti. È stato proposto così tante volte… E non credo siano molti i film in cui i nazisti incombono ma non si vedono.
Letture destrorse di questo film sono possibilissime. Ci sono anche già polemiche su questo. Di sicuro, se uno pensa che migranti = ISIS, potrà fare il triplo salto carpiato e dire che migranti = nazisti, e vedere nei soldati britannici di Dunkirk l’Europa bianca assediata. Dipende dagli occhi con cui si guarda il film. È una guerra tra sguardi, un conflitto tra interpretazioni.
Per noi è importante comunicare il nostro sguardo, dire tra le altre cose che i fuggiaschi, gli sfollati, i profughi, i naufraghi, i disperati non sono sempre solo gli altri, e non solo sempre solo “neri”. O, per dirla in un altro modo, che quei “neri” potremmo essere “noi”.
E che un nazista a volte è proprio, fuor di allegoria, un nazista :-)
Rispetto a quanto scritto da WM1 aggiungo che si sono prodotte anche letture del film in chiave filo-Brexit e razzista, diametralmente opposte a quella che invece ha suscitato in noi..
https://www.theguardian.com/commentisfree/2017/aug/01/indian-african-dunkirk-history-whitewash-attitudes
Non commento sul film, in attesa di vederlo. Segnalo pero’, come ha fatto WM4, altre recensioni che accusano Nolan di dare una lettura della storia non solo di parte, ma proprio mistificante
http://www.livemint.com/Opinion/YAke6pEMeev8AfP8vKA76H/Dunkirk-and-the-delusions-of-empire.html
Lo faccio più che altro per legarmi al discorso “vietato voltarsi indietro” in Italia, su cui concordo pienamente. Ma, e qui sta il punto, in Gran Bretagna la situazione e’ per molti versi peggiore: ecco, se lì i conti col passato qualcuno li ha fatti, è davvero molto solo. In italia stiamo andando verso la narrativa “siamo oltre fasciamo e anti-fascismo”, in UK sono invece già al “colonialismo è una cosa positiva
http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/british-people-are-proud-of-colonialism-and-the-british-empire-poll-finds-a6821206.html
Se devo pensare ad un paese incapace di leggere la propria storia, la Gran Bretagna è il primo a venirmi in mente.
Nicola, per la maggioranza dell’opinione pubblica italiana il nostro colonialismo è sempre stato “una cosa positiva”. In Africa abbiamo fatto le strade ecc.
Giusto ieri il Corriere della Sera ha proposto come «utopia per l’Africa» un nuovo colonialismo, presuntamente «solidale».
Il dibattito post-coloniale in Uk lo conosco. La situazione non è in alcun modo paragonabile alla nostra. Grazie ai discendenti degli ex-colonizzati, esiste una parte di società e di mondo della cultura che esercita una continua pressione e – basti vedere la recensione di Dunkirk apparsa sul Guardian e linkata da WM4 qui sopra – fa le pulci a ogni rappresentazione eurocentrica della storia britannica. Da noi non succede, le voci di italiani afrodiscendenti purtroppo sono poche e pochissimo ascoltate.
Quando nel decennio scorso è emersa con clamore la verità storica su come il governo britannico avesse represso l’insurrezione Mau Mau in Kenya, e si è saputo delle torture e uccisioni a sangue freddo avvenute nei campi di concentramento della cosiddetta “Pipeline”, in UK se ne è discusso tantissimo, anche sui media mainstream.
Quando nel 2009 alcuni reduci di quei campi hanno fatto causa al governo e chiesto un risarcimento per i danni fisici e morali subiti, persino un governo reazionario come quello di Cameron – non certo per virtù sua ma perché subiva una pressione in tal senso – avviò un negoziato per pattuire una cifra. Ho raccontato questa storia nella prima parte di Point Lenana.
Ecco, prova a trasporla qui da noi. Fai il confronto su come qui da noi si parla delle stragi perpetrate dal fascismo in Libia e in Etiopia. Pensa a quante volte, nel mainstream, hai sentito discutere del genocidio compiuto dal fascismo in Cirenaica. Pensa a quanto spesso e in che termini si parli dell’acquisto a scopi sessuali di bambine etiopi, somale, eritree da parte dei nostri connazionali (Montanelli in primis).
Non concordo, anche se non ne voglio fare una questione troppo lunga essendo andato un poco fuori tema – il film non l’ho visto e sulla presenza o meno di indiani in dunkirk non posso esprimere una opinione e posso tranquillamente accettare il punto di vista di WM4. Non era quello che contestavo.
.
E posso anche capire che abbiamo punti di vista diversi: voi in Italia, io per più di un decennio in UK (ora non più, in Canada, dove invece mi pare che ci si stia almeno sforzando di fare i conti col passato e con la first nation). Tu mi dici: in UK almeno c’e’ la recensione del Guardian. Ma non mi pare vero che in Italia non ci siano voci contro il fascismo e la sua rigenerazione storica, a cominciare dalla vostra, ma non solo. E se e’ vero che, ogni tanto, a volte, in UK ci sono voci contrarie, rimane anche vero che Niall Ferguson ha avuto un programma a puntate in tv per celebrare l’impero e la BBC ha trasmesso pochi anni fa una serie dal sordido titolo “the chinese are coming” che, criticando l’arrivo cinese in Africa, esaltava nel frattempo i bei tempi in cui invece c’erano i britons a farla da padroni. Qualcosa di più di una recensione su un giornale.
Ed in fondo basta andare in giro per Londra, a 2 passi da Buckingham Palace, rimangono ancora in bella mostra le statue che celebrano il colonialismo inglese. Tu mi dirai: a Roma c’era la stele di Axum, una vergogna rimossa, ma e’ un po’ diverso – in quanti sapevano che si trattava di bottino di guerra? Mentre non ci sono dubbi che a Londra si celebri la potenza e la gloria del colonialismo inglese.
Mi dici: in Italia non c’e’ condanna delle nostre guerre coloniali. A me pare che più che altro le si voglia ignorare, non entrando quasi mai nel dibattito – si rimuove, che e’ orribile, perché e’ più facile che provare a giustificare. Non così in UK, dove fior di politici soprattutto Tories (ma non solo..), rivendicano le guerre di conquista (b.johnson: il problema dell’Africa non e’ che una volta comandavamo noi, e’ che non comandiamo ancora) . Succede anche da noi? Mi pare in maniera molto minore, quantomeno nel discorso mainstream (non mi pare che abbiamo mai avuto un ministro degli esteri che dicesse cose simili sul nostro colonialismo..), mentre appunto in Gran Bretagna lo si sente ogni 2 per 3.
Ovviamente sarei curioso assai di vedere sondaggi in Italia su fascismo e colonialismo, e sicuramente voi avete un polso migliore della situazione, anche se non sono completamente convinto che ci sia, come in UK, una maggioranza piuttosto notevole pronta a definire il nostro colonialismo una cosa di cui essere orgogliosi.
Anche perche – ed e’ una differenza fondamentale io credo – in Italia, a scuola, c’e’ sempre stata una chiara critica del fascismo, cosa spessissimo assente sui libri di testo e nelle scuole britanniche. Forse, come dici, c’e’ dibattito più ampio in UK (c’e’ in tutte le cose: dalla guerra in Iraq all’austerity), ma rimane, a vedere i risultati dei sondaggi, molto molto rinchiusa nelle aule o negli editoriali, toccando poco o nulla il sentire comune – e questo nonostante appunto la forte presenza di una popolazione discendente dalle colonie. Ecco, togli quelli da chi ha un giudizio negativo dell’immigrazione e mi pare che i risultati siano ancora più sconfortanti. Vi mando anche il link a questo, io credo, bel pezzo, se vi interessa.
https://www.vice.com/en_nz/article/3d9jdw/britain-has-never-faced-up-to-the-shame-of-empire
ovviamente corto non sono stato. Magari se ne riparla in un post comparato su chi davvero e’ capace di avere uno sguardo critico sulla propria storia – a cominciare, ovviamente dagli USA e dalle sue statue..
Non preoccuparti, non siamo affatto fuori tema, anzi.
L’esempio importante nel mio commento non era la recensione sul Guardian, ma la lunga, vasta, intercontinentale controversia sui crimini coloniali in Kenya. Nel 2005 uscirono in contemporanea due libri molto importanti: Britain’s Gulag: The Brutal End of Empire in Kenya di Caroline Elkins e Histories Of The Hanged: The Dirty War in Kenya and the End of Empire di David Anderson. Entrambi contenevano importanti scoperte d’archivio e rivelazioni devastanti sul sistema concentrazionario britannico in Kenya. Si scatenò un dibattito infiammato. Infiammato perché, come giustamente fai notare, in Uk c’è chi non vuole affatto fare i conti in modo critico con l’eredità dell’Impero. I due libri furono attaccati dalla destra e da ex-coloni, vi fu una guerra di editoriali, programmi televisivi… Qualche anno dopo, nel 2009, fu scoperto per caso un enorme tesoro di documenti dell’amministrazione coloniale in Kenya. Là dentro c’era di tutto e di più: prigionieri bruciati vivi, torture, castrazioni praticate con pinze da bestiame… Dal Kenya si fecero vivi reduci della “Pipeline”, finalmente c’erano i documenti, le prove di quel che avevano raccontato per anni. Adirono le vie legali contro il governo britannico. Il caso divenne enorme, alla causa civile per il risarcimento si unirono ben 44.000 keniani. A distanza di anni la vicenda prosegue e ha raggiunto la Corte suprema, come testimonia questo articolo del maggio 2016.
Quindi, è vero che la cultura borghese britannica si alimenta anche di nostalgie dell’Impero «su cui non calava mai il sole» – e del resto, non c’è più quell’Impero, non in quella forma, ma l’UK rimane un paese imperialista – e che il clima è reazionario, però c’è una cosa che da noi manca: un discorso pubblico. Difficile, combattuto, ma esiste.
Da noi un dibattito serio e allargato sul retaggio tossico del nostro colonialismo e, più in generale, sull’imperialismo italiano non si riesce proprio a farlo. Non solo perché non si sono fatti i conti col fascismo, ma perché non si sono fatti i conti con nessun passaggio della nostra storia nazionale.
L’apologia del nostro imperialismo è del tutto normale, solo che non la riconosciamo in quanto tale.
Le celebrazioni della Vittoria nella prima guerra mondiale sono apologia del nostro imperialismo, che però non va mai e poi mai descritto come tale. Fu una guerra d’aggressione da parte nostra, ma è passata nell’immaginario degli italiani come guerra difensiva.
Il dibattito pieno di panzane sulle foibe è reso possibile dall’apologia del nostro imperialismo sul confine orientale, che non va mai descritto come tale.
L’aver scelto per il Giorno del Ricordo il 10 febbraio, cioè il giorno in cui nel 1947 fu firmato il Trattato di Pace che ci privò delle colonie, dell’Istria e della Dalmazia è apologia del nostro imperialismo.
La rimozione di tutti i nostri crimini di guerra nei Balcani è resa possibile dall’apologia del nostro imperialismo. E potrei continuare.
Segni del colonialismo nelle nostre città: non c’era solo la stele di Axum, ci sono numerose vie e addirittura paesi intitolati a criminali del nostro colonialismo: Pietro Maletti, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani. Ci sono vie intitolate a stragi che abbiamo compiuto in Etiopia e Libia, come via Amba Aradam, via Cufra, via Sciara Sciat… A Bologna il rione Cirenaica porta ancora il nome della regione libica dove il fascismo ha compiuto un genocidio. L’intitolazione è prefascista, ma già coloniale (1913). Per fortuna i nomi coloniali delle vie furono quasi tutti cambiati nel Dopoguerra, e sostituiti con nomi di partigiani. Da questo cambiamento odonomastico è partita la riflessione da cui è nato il gruppo di lavoro Resistenze in Cirenaica, di cui WM fa parte. Ma quanti e in quanti posti fanno lavoro politico di quartiere sul retaggio coloniale dell’Italia?
Di ministri, deputati, politici di levatura nazionale che hanno fatto l’apologia del nostro colonialismo e, più in generale, dell’imperialismo italiano, posso citartene parecchi, dal Dopoguerra a oggi. Ho gioco facile con quelli di AN:
«Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia sono terre in cui sentiamo di non dover avere vergogna, di non dover chiedere scusa a nessuno.»
(Alfredo Mantica, sottosegretario agli Esteri, 2001)
«Sono altri in Europa che si devono vergognare di certe pagine brutte. In Libia gli italiani hanno portato, insieme alle strade e al lavoro, anche quei valori, quella civiltà, quel diritto che rappresenta un faro per l’intera cultura, non soltanto per la cultura occidentale.»
(Gianfranco Fini, ministro degli Esteri e poi Presidente della Camera, 2006)
Ma dichiarazioni così le hanno fatte democristiani, liberali, socialisti (ne riporta diverse Angelo Del Boca nel IV° volume del suo Gli Italiani in Africa Orientale), e va ricordato che alla fine della guerra persino il PCI era per mantenere le colonie!
E prova a parlare male di Montanelli in relazione alle sue prodezze abissine e al suo negazionismo sull’uso di armi chimiche: ti saltano addosso opinion maker, editorialisti, scrittori ggiovani…
Le conseguenze dell’accumulo di tutte queste tossine le vediamo tutti i giorni, basti pensare alla levata di scudi contro lo jus soli.
Insomma, secondo me – lo dico da persona che si occupa di immaginario, storie, smontaggio di narrazioni tossiche – noi non siamo affatto messi meglio che in UK. Siamo messi senz’altro peggio.
Ok, grazie intanto della risposta articolata.
Le citazioni che riporti, e che non conoscevo, non ammettono molte repliche. E concordo che da noi manca senza dubbio un dibattito, come avevo già scritto. Rileggendomi, vorrei anche chiarire che non vorrei passare per quello che minimizza la raccapricciante cancellazione della memoria storica critica in Italia, lungi da me.
Rimango solo scettico sul fatto che sia un tema dove siamo i “peggiori”, per quanto una classifica in merito e’ cosa piuttosto complicata e non so nemmeno quanto utile. Le cose che dici sull’Italia sono tutte vere, pero’ in Italia esiste una associazione come l’ANPI che e’ cmq una associazione molto numerosa, esistono sindacati attenti, esistevano fino ad una ventina di anni fa partiti che non e’ che non avessero fatto i conti con il fascismo – sicuramente molto meno col colonialismo, che pero’ appunto era piuttosto rimosso, mi pare (ma posso sbagliare, non sono stato attento al dibattito in tal senso e al suo iter nel tempo). Che tutto questo sia sparendo mano a mano e’ sicuramente vero e le vostre denunce, de-buking o semplicemente richiamo dell’attenzione su tale dibattito sono indispensabili.
Ma e’ davvero meglio in UK? Si, certo, c’e’ la questione legale aperta – cosa ottima – e ci sono le comunità “etniche” (scusate il brutto termine). C’e’ stato un dibattito pubblico che effettivamente il Guardian e altri tengono aperto. Non sono pero’ d’accordo che sia solo una cultura borghese inglese a rivendicare l’imperialismo britannico. O meglio, lo e’ nel senso che e’ una cultura ormai egemone e che negli anni ha pian piano schiacciato la working class culture, che proprio nel Regno Unito aveva in passato trovato alcune delle sue forme più alte (v. la rivendicazione e l’orgoglio di appartenere alla working class opposta al rifiuto totale della sua proprio esistenza negli Stati Uniti). Eppure, anche allora, la working class inglese e’ stata assai poco internazionalista e non troppo attenta al ruolo avuto dal Paese nel resto del mondo.
In soldoni, i risultati del sondaggio di YouGov rispecchiano in pieno l’esperienza empirica. A parlare di colonialismo con un inglese bianco – in aula a oxford o in un pub dell’east end londinese, giovane o anziano – non si otterrà, se non raramente, una condanna del colonialismo.
Ecco, a pari sondaggio in Italia, avremmo un 40% che ricorda con favore il fascismo e un 20% che lo condanna? Io spero proprio di no. E se e’ vero che i risultati sarebbero diversi se si parlasse di colonialismo italiano, ciò non inficerebbe il fatto che la Gran Bretagna pare piuttosto incapace di fare i conti col suo passato – che ovviamente è un passato molto diverso dal nostro (ci sarebbe poi l’Irlanda, bel calderone da scoperchiare…).
E d’altronde la recensione del film del Guardian – in qualche maniera biased proprio da quel clima – così come appunto anche gli altri articoli critici di intellettuali di origini indiane sembrano proprio puntare al fatto che questi conti non si sono fatti.
Insomma, può anche essere, anzi, senza dubbio è, vero che in Uk esiste un livello di dibattito molto più ampio di quello nostrano ( l’impoverimento culturale, la stampa stracciona, ed in generale lo storico bias italiano contro il cosiddetto intellettualismo non sono un caso), ma che questo dibattito abbia un riscontro sia dal punto di vista politico che da quello dell’immaginario collettivo e della cultura di massa – e che dunque la situazione “on the ground” sia migliore che in Italia – è secondo me assai discutibile.
Grazie.
Aggiungerei che proprio oggi, martedì 12 settembre, pare venga definitivamente affossata la proposta di legge cosiddetta “dello ius soli”: credo che l’incapacità di affrontare a livello normativo, anche debole, il tema di chi vuole/vorrebbe/può/potrebbe/deve/dovrebbe esser cittadino italiano sia l’altra faccia della medaglia dell’incapacità di relazionarsi con i popoli diversi dal nostro. I britannici, incapaci di relazionarsi con l’UE hanno scelto la brexit, noi non siamo forse ancora in grado di definire cosa sia l’esser italiano, e quindi non riusciamo a includere chi, semplicemente per nascita, non lo è…
Sull’ultimo punto del commento di nicola non concordo. Se non altro perché la fortuna della Gran Bretagna è proprio quella di essere un ex-impero e quindi di avere al proprio interno i discendenti dei colonizzati, non solo dei colonizzatori, che possono controbilanciare il punto di vista eurocentrico. Certo che esiste sempre un piano della retorica “bianca”, che addirittura, in tempi di Brexit, recupera proprio la koiné imperiale cercando di smussarne gli aspetti imperialisti, ma non c’è soltanto quello.
Sulla spiaggia di Dunkirk, ci dicono gli storici, c’era anche qualche centinaio di indiani, e Nolan avrebbe dovuto mostrarli, per dovere nei confronti della visione generale di una guerra che il Regno Unito ha combattuto soprattutto impiegando le truppe coloniali. Sì, ma sarebbe diventato un film diverso. Gli indiani non avrebbero certo guardato Oltremanica vedendo “casa”. La loro casa era ben più lontana, altro che “pare quasi di vederla”. Dunque la loro pulsione sarebbe stata tutt’al più quella del soldato francese che – celato in uniforme britannica – cerca di saltare su una delle navi per salvarsi la buccia (e questa storia appunto la racconta già lui, eroe discriminato anche se non è nero). Ma soprattutto, il loro sacrificio, sarebbe emerso per quello che fu: un atto di fedeltà all’impero stesso.
Helena Janeczek, nel suo romanzo di storie vere “Le rondini di Montecassino”, parla anche di questo, e lo fa con grande attenzione e maestria. In quel caso si tratta di soldati neo-zelandesi maori, impiegati sul fronte italiano, ma quanto è brava a indagare il loro sentimento di orgoglio nato dall’avere partecipato a una grande impresa “britannica” contro i nazi. Un orgoglio ancora vivo molti anni dopo la fine della guerra. Un sentimento ambiguo, sdrucciolevolissimo, da “negri da cortile”, e al tempo stesso sincero, rivendicato, per il fatto di essere stati parte di qualcosa che andava oltre la propria identità etnica. Retorica imperialista, certo, ma che non toglie un’oncia di importanza all’impresa e al sacrificio compiuti e dunque al sentimento di quei reduci.
Ribaltando la visuale e tornando al discorso iniziale, è la stessa trappola nostalgica, ma vivida al punto da far preferire il Commonwealth all’Unione Europea, la vecchia koiné marittima a quella continentale, che scatta anche per i britannici “bianchi” di oggi.
Insomma secondo me la presenza dei “coloniali” avrebbe trasformato Dunkirk in un film completamente diverso, con al centro cioè altre immagini, altri temi e sentimenti. Io penso che Nolan abbia deciso di parlare d’altro, ovvero assai meno di impero britannico e di Brexit, e assai più della situazione nell’Occidente e della nostra condizione attuale.
È vero. L’omogeneità razziale delle truppe britanniche rappresentate è talmente smaccata e anti-storica da far almeno sospettare una precisa scelta registica. Che lo sia in senso razzista o meno, possiamo cercare di supporlo.
A me viene la tentazione di collegare questa scelta ‘cromatica’ a quella [SPOILER] di far apparire ‘anneriti’ dal catrame i volti degli unici protagonisti che vengono salvati in mare dal naufragio di una sgangherata bagnarola (“carrette del mare” le definisce una certa retorica contemporanea…).
Il sospetto è che Nolan abbia voluto trattare la tematica razziale nel senso meno naturalistico possibile, attraverso un alterno gioco di identificazione in uno specchio riflettente prima, deformante poi: puro anti-essenzialismo. Il significante etnico (la razza individuata attraverso il colore della pelle) è una costruzione culturale dovuta alla contingenza storica e geografica.
Noi o loro è determinato solo da una casualità nello spazio-tempo.
Soldato razzista pronto a giustificare ogni nefandezza col “meglio loro che noi” o disperato dal volto scuro, fragile e bisognoso dell’aiuto degli altri.
Del resto il catrame che rende i soldati britannici neri, quasi indistinguibili, mi sembra non avere alcuna altra motivazione all’interno della trama, se non questa ‘estetica del colore’.
Per certi aspetti e con altri scopi, mi ricorda l’Otello di Carmelo Bene che si annerisce il volto in corso d’opera.
Resta un sospetto non dimostrabile…
Scusate, da antico lettore silente, mi sono registrato per chiedervi: sono il solo a trovare enormemente sbagliato che su Giap si possa parlare di “omogeneità razziale”? Di grazia, quante razze umane conti tu?
A rileggere il commento di Francioso, però, parla della razza come costruzione culturale, come discorso, e della pelle come significante di quel discorso. Francioso non mi sembra proprio volesse dire che esistono oggettivamente le razze, anzi, secondo lui Nolan “annerendo” le facce ha detto che essere “nero” (metafora per escluso, ignorato, sacrificabile ecc.) non è un dato biologico. Forse Nolan non ci aveva pensato, ma dopo che Francioso ha suggerito questa lettura, non riesco più a pensare quella scena in un altro modo.
Sì, è chiaro e avevo intuito l’assoluta buona fede che non meritava il mio richiamo … è che si tratta di questioni evidentemente importanti. Saluti.
@GF Giusto il richiamo per un’espressione frettolosa e quindi ambigua.
Chiedo scusa… Avrei potuto scrivere ‘omogeneità etnica’ o ‘cromatica’ e evitare qualche dubbio. Accidenti se bisogna fare attenzione a “fare cose con le parole” qui su Giap!! ;)
@WM1 grazie per l’interpretazione chiarificatrice delle mie parole!
Concordo anche sull’importanza relativa delle intenzioni del regista/autore…
“There was also a small black and Asian population in the UK, about 28,000 out of 48 million. Proportionately, that should have meant there were maybe 250 men of color amongst the 430,000 British troops who took part in the Battle of France. There were far more men of color in the French army, with thousands from the French colonies of Senegal, Mauritania, Morocco and Algeria.”
https://www.pri.org/stories/2017-08-02/there-were-indian-troops-dunkirk-too
Nella scena iniziale al molo, quando inquadrano le truppe francesi che non vengono fatte imbarcare (vengono fatte imbarcare le barelle con i feriti, che occupano lo spazio di sette uomini in piedi) si vedono soldati francesi africani
Giusto fornire questi dati, anche se nell’arte non vale il criterio di rappresentanza proporzionale e non c’è nemmeno la soglia di sbarramento :-) Intendo dire che se Nolan non ha mostrato soldati britannici di colore non può essere perché «erano troppo pochi». È una licenza poetica, e come tale si deve provare a indagarla, come qui si sta facendo.
Nell’articolo linkato da wm4 si dice che nelle truppe francesi non si vedono soldati di colore, cosa falsa e che mi fa pensare che Singh (come Fofi) avesse già il pezzo pronto. Qui mi sono aggiunto a un commento che parla di smaccata omogeneità anti-storica, sospetta. Tutta questa certezza mi pare sospetta. La presenza indiana è irrilevante sia sul piano storico che soprattutto filmico, questa è la ragione più ovvia per cui non sono rappresentati nel film. Aveva senso la loro presenza? No. E potevano pure non starci neri tra i francesi. Non è un film storico e non tratta del colonialismo. Perché avrebbe messi i soldati neri tra i francesi, e omesso intenzionalmente le truppe indiane (che in ogni caso non sono nere) tra i britannici? Se Nolan avesse voluto dire che essere nero non è un dato biologico sarebbe un cretino, e infatti non lo ha fatto. Ha rappresentato i neri che c’erano. Oltretutto i britannici sporchi di catrame vengono salvati a prescindere, mentre l’unico che viene sacrificato è bianco, francese. Forse non c’è nessuna questione razziale e non si capisce che c’entri. E non ce n’è bisogno neanche per l’analogia coi migranti, dato che è una situazione che può venire in mente a prescindere o meno dalle intenzioni del regista, visto che uno dei nodi è il comportamento umano in situazioni di emergenza; stante che al momento non c’è nessuna emergenza di quel tipo, ma una situazione difficile.
Ma la ragione per cui Nolan non li include rimane artistica, non filologico-demografica. Uno non deve far parte della maggioranza per essere incluso in un film o in un romanzo. Un film che mostrasse (anche) le vicissitudini di un suddito coloniale in un momento cruciale della guerra che investe la nazione dei suoi colonizzatori avrebbe legittimità e senso anche se costui fosse il solo coloniale presente. Il film di Nolan è un’altra operazione, ma lo è per scelte artistiche dell’autore-regista, non per un obbligo di aderenza alla composizione etnica documentata.
Non so dire se la presenza indiana sia stata storicamente rilevante o meno.
Filmicamente ne è rilevante l’assenza: l’impressione ‘cromatica’, estetica, almeno a mio parere, è evidente. Non mi pare così assurdo ritenerlo un espediente per favorire l’identificazione dello spettatore ‘bianco’. Per poi ribaltarla nel momento di massima tensione attraverso l’annerimento di quei volti (avete notato anche voi l’insistenza della fotografia sui visi?).
È proprio il fatto che non si tratti di un film storico a rendere un po’ meno peregrine queste linee interpretative. Per il resto, ripeto, si tratta di interpretazioni.
Altra questione è quella del dato biologico… ma è decisamente fuori tema.
I soldati francesi neri sono inseriti per ragioni filologiche, ma quelli indiani esclusi per ragioni artistiche? La ragione artistica può anche seguire quella filologica, a meno di ipotizzare particolari ragioni artistiche. Per le stesse ragioni artistiche poteva non mettere i francesi neri, eppure lo ha fatto. Forse perché nello scrivere ci hanno pensato, e seppure non erano necessari a fini artistici ci stavano lo stesso, perché erano di più. Siamo sicuri che a) sapessero della presenza indiana? E b) che li abbiano esclusi non per il semplice motivo che sono stati irrilevanti storicamente e che non c’entravano niente nel film? Per dire che filmicamente è rilevante l’assenza bisogna fornire ragioni solide. Io prima di leggere questo commento neanche sapevo che ci fossero soldati indiani, e a quanto pare non lo sa quasi nessuno, e non è di alcuna importanza. Sarei morto senza mai pensare all’omogeneità cromatica. Perché non è un film sugli indiani a Dunkirk. E adesso che so che c’erano indiani non me ne frega niente lo stesso e non cambia di una virgola ciò che ho visto, come non frega niente a nessuno di sapere quanti scozzesi o quanti di Manchester c’erano. Quindi perché stiamo parlando di questo? Perché bisogna ficcarci dentro la questione razziale e perché non si riesce a pensare ad altro. Io spero vivamente che Nolan non abbia pensato a queste faccende e soprattutto a voler favorire l’identificazione dello spettatore bianco, perché sarebbe assai offensivo per lo spettatore e squalificante per lui. Il film per fortuna non c’entra niente. Mettendoci gli indiani pensate che l’impressione cromatica sarebbe stata rotta? I soldati neri francesi si vedono per un attimo, così poteva essere per gli indiani. Che sarebbe cambiato? Uno è lì che soffre a vedere dei poracci sotto le bombe, poi inquadrano un indiano e dice ah! ma so’ negri? E non si capisce in che modo la vista dei volti anneriti dovrebbe ribaltare l’identificazione. Siamo a questi livelli? Poi che dovrebbe pensare lo spettatore? Che no, sono sempre inglesi – siamo tutti fratelli! Il problema non sono le interpretazioni, sono i pensieri sottesi. È che uno non solo faccia caso al fatto che guarda un po’ sono tutti bianchi, ma si metta a pensare a ciò con sospetto e ne tragga l’idea che sia un espediente. Su tutto ciò campeggia un enorme “perché?”. Perché vai a pensare a queste cose e soprattutto perché Nolan avrebbe dovuto fare tutto ciò. Se le cose stanno come dici tu, ha fatto un gran film suo malgrado.
Stai commentando un’opera d’arte, non un rapporto ISTAT e nemmeno un saggio storiografico. Siccome di scrivere storie un pochino me ne intendo, te lo faccio notare. Tra l’altro, tutto il tuo ragionamento dipende da questa singola premessa:
«I soldati francesi neri sono inseriti per ragioni filologiche».
Mah. A parte che io i soldati francesi neri non li avevo nemmeno notati, e se ci sono, sono comparse che appaiono fugacemente, a te chi lo ha detto che li ha messi “per ragioni filologiche”? Perché lo affermi con una tale sicumera?
In realtà, come si è detto in altri commenti, di “filologico” nel film c’è ben poco, la ricostruzione non è assolutamente alla lettera né vuole esserlo. Il criterio è semmai metonimico (le poche barche che appaiono *stanno* per le moltissime che arrivarono e per la risposta dell’intera società inglese al pericolo) e allegorico (la storia è ridotta alla sua essenza per renderla più universale).
Beh, qui ci sarebbe la vecchia disquisizione se Tex, Batman, l’uomo ragno etc. sono di destra o di sinistra. Dylan Dog, no è di sinistra oltre ogni ragionevole dubbio. Ken Parker anche. :)
In realtà credo che al di là del fascino del superuomo, il fatto che “senza giustizia non può esserci la pace” sia sempre stato sostenuto anche a sinistra. E allora se ti trovi a Gotham (non in Brianza) magari può essere anche comprensibile mettere su una maschera e combattere i cattivi.
Nolan di destra o di sinistra? mah, forse ha il fascino del superuomo (che per altro in questo film non c’è) e della giustizia prima di tutto, però di destra non ce lo vedo.
No no, non volevo assolutamente fare una distinzione tra personaggi dei fumetti di destra e personaggi dei fumetti di sinistra. Per fortuna non ho sposato Ombretta Colli 😬
Volevo solo riportare le sensazioni di disagio che ho avvertito vedendo alcuni film di Nolan.
Sul cavaliere oscuro non dimentichiamoci che ancora c’era il folle Bush figlio alla Casa Bianca (può sempre andare peggio, può sempre piovere):nella scena della cattura del mafioso ad Hong Kong, Batman è ben conscio di violare la legge ma lo fa lo stesso. E non è certo disobbedienza civile. Anzi, difficile non fare un collegamento col caso Abu Omar e con tutta la dottrina Bush per cui, per la sicurezza della patria (Patriot Act), le libertà individuali e i diritti fondamentali potevano bellamente andare a farsi benedire.
Invece, riguardo Joker, mi è venuto in mente questo
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/08/02/strage-di-bologna-vox-fra-giovani-sono-state-br-no-anarchici/3151365/
Quindi ho pensato che sei un po’ stronzo se in un film blockbuster leghi in maniera diretta la parola anarchia all’esplosione di un ospedale, contribuendo ad alimentare l’associazione “anarchico=stragista” che da secoli il potere cerca di promuovere. Più ci penso e più mi sembra proprio una vigliaccata.
Detto ciò è chiaro che questo non costituisce l’opera omnia di Nolan né tantomeno il suo manifesto politico e che, come dice WM1, in opere complesse e ben fatte come quelle di Nolan, ci sono diverse chiavi di lettura e possibilità di interpretazione.
Già solo per la discussione che si è generata qui sotto, direi che vale la pena spenderci 8 euro e 2 ore e mezza di tempo, pure se ha fatto lo stronzo ;)
Vorrei aprire una parentesi sull’anarchia di Joker poiché ritengo falsante il ritratto di -Joker anarchico-, sia per quanto riguarda il personaggio in sé che per la versione del film di Nolan. Definire Joker un anarchico significa abbracciare la semplificazione: anarchia=caos, ossia il suo ritratto più macchiettistico e demonizzante.
Il fraintendimento del -Joker anarchico- nel film di Nolan avviene a causa della scena dell’ospedale in cui Joker porta a sé Harvey Dent/Due facce dicendogli “Se introduci un po’ di anarchia… se stravolgi l’ordine prestabilito… tutto diventa improvvisamente caos. Io sono un agente del caos. E sai qual è il bello del caos? E’ equo!”
Il fatto é che a questo punto del film abbiamo già visto Joker narrare due versioni diverse della propria storia delle cicatrici, due versioni completamente distinte ed inconciliabili fra loro: al gangster macho ha narrato la versione del padre violento, mentre alla fidanzata di Dent la versione della moglie sfregiata. Joker é un mentitore e manipolatore che modifica le proprie versioni in base alla persona che ha davanti.
Nella scena dell’ospedale Joker cerca di far scattare definitivamente la metà malata di Dent, funzionario pubblico tutto d’un pezzo, ed a mio avviso lo fa utilizzando gli schematismi che Dent condivide, ossia quell’ anarchia=caos. Joker non é un anarchico: Joker si dipinge anarchico dinnanzi a Dent solamente per corromperlo.
Il Joker di Nolan a mio avviso é piuttosto un nichilista, più onesto quando si definisce “agente del caos” che quando parla di anarchia.
Credo sarebbe interessante proseguire la discussione anche a proposito dell’ambiguità del personaggio di Batman ma si andrebbe decisamente fuori tema.
Non solo: quando Joker fa quel discorso all’ospedale sta mentendo spudoratamente su chi ha ucciso/fatto morire la fidanzata di Harvey Dent. Lui nega la propria responsabilità dicendo che lui è “un cane che rincorre le macchine, non saprei cosa farci se davvero le raggiungessi! Batman e Gordon, loro fanno piani”. Altre scene però ci fanno vedere invece che questa è una grossissima balla, noi sappiamo chi ha rapito Rachel e Dent (anche la morte per fuoco è quasi una firma del Joker) ma tutto il film è pieno di piani del Joker, dalla rapina in banca iniziale fino alle bombe sulle navi nel finale, altro che improvvisazione.
Dent casca nel tranello perché sconvolto dalla morte di Rachel e dalle menomazioni subite e si dà alla vendetta ma lo spettatore ha tutti gli elementi per vedere il bluff del Joker.
La questione umano/antiumano attraversa l’opera di Nolan. Vale la pena ricordare l’esperimento antropologico di Joker su chi premerà per primo l’interruttore della bomba collocata sui due traghetti. Quello che gli interessa dimostrare è che davanti al rischio della vita l’animale uomo è disposto a sacrificare il prossimo per salvare se stesso. È la tentazione satanica per antonomasia, alla quale si oppone il principio cristiano “ama il prossimo tuo come te stesso”. Siamo davvero alla base della cultura cristiano-occidentale. L’esperimento invece dimostra il contrario. Addirittura sono i galeotti, i reietti della terra, a fare la cosa giusta (fair), cioè a gettare in mare il detonatore. Vince l’umanesimo.
Ma anche già in The Prestige il dilemma riguarda precisamente quanto si è disposti a sacrificare e a disumanizzarsi per ottenere ciò che si vuole. In quel caso uno dei personaggi arriva addirittura a uccidere il prossimo suo che è “se stesso”. Insomma il dilemma di Dunkirk mi pare un tema che attraversa la cinematografia di Nolan.
Sinceramente mi ha lasciato abbastanza perplesso la scelta di non dare un volto al Nemico, per due motivi:
il primo è una contraddizione interna al film: Nolan ha dichiarato di non volerlo “politicizzare”, e per almeno tre quarti in effetti sembra anche funzionare, la spiaggia di Dunkirk è quasi un incubo alla Thomas Ligotti, disorientante e al di là della Storia. Peccato poi che la retorica dell’ultima parte, cancelli tutto e lo riporti su binari di normalità ovvero patriottismo, patriottismo, patriottismo. E allora perché non mostrare, ovvero esporre i nazisti a questo punto, cosa sempre giusta e necessaria?
il secondo, direttamente collegato al primo: questa volontà di “destoricizzare”, isolando certi valori e sentimenti dal contesto mi pare una scelta decisamente pericolosa, considerando la quantità di persone che andranno a vederlo in sala. So che l’arte non deve avere per forza un’intento educativo o salvifico, però di questi tempi buttare tutto in una “pappa indistinta” (fenomeno a cui tutti siamo esposti continuamente tra You Tube e feed di Facebook dove la storia ci viene proposta tutta contemporaneamente, senza sentieri da seguire) è una tendenza da arginare, secondo me.
Spero si sia minimamente capito quello che ho scritto :)
Questo rischio di non capire chi è il nemico può esserci in Italia – per i motivi che dici tu e per quelli ricordati anche nel post di WM4 – ma non certo nel Regno Unito. Che i nemici siano i nazisti lo sanno già tutti. Non solo perché la storia dell’evacuazione di Dunkirk e il discorso di Churchill sono arcinoti e al centro di continue rievocazioni, ma per un motivo più profondo.
La Gran Bretagna fu l’unico paese che riuscì a non farsi occupare dai nazisti.
Ergo, non ebbero collaborazionismo; non ebbero “zona grigia”; non ebbero epurazioni riuscite o fallite.
Un sentimento filonazista era diffuso in una parte della borghesia e dell’aristocrazia negli anni Trenta, ma alla fine di quel decennio era scomparso, e le bombe sganciate dalla Lutftwaffe lo consegnarono definitivamente all’ignominia. Quanto al fascismo britannico, quello di Oswald Mosley, era stato sbaragliato nel 1936, con la “Battaglia di Cable Street”.
La loro storia nazionale e imperiale è piena di ombre e di orrori, nonché di reticenze (anche se mai quanto la nostra); però quando si parla del conflitto contro l’Asse, i contorni sono netti, il nemico è talmente chiaro che si può pure darlo per implicito, prendersi licenze poetiche.
Certo, la connotazione di questo anti-nazifascismo è patriottarda, c’è falsa coscienza, tutto quello che vuoi, ma, ahinoi, il pulpito italiano non è all’altezza di alcuna predica.
Non ho ancora visto il film, “ancora” sta appunto per apprestarmi a vederlo. Trovo interessante sicuramente l’accostamento a profughi e migranti, presumo per via delle guerre, e con Dunkirk ci si entra a piè pari.
Leggo dell’invisibilità del nemico anche se noto, ma non vorrei che fosse una scelta dettata da una sorta di revisionismo, non per negarne la barbarie ovvio, il nemico si conosce ma è come se venissero oscurate le cause che lo resero tale, non ultima la “speranza” di buona parte dell’Asse che l’armata nazista sfondasse a est. Un attendismo che strategicamente verteva a sfavore dell’URSS… cosa sarebbe accaduto in caso di una capitolazione dell’Unione Sovietica non lo sapremo mai, anche perché certi rigurgiti un po’ dappertutto non lascerebbero molte opzioni, ma questa, l’URSS, non cedette e tutti corsero ai ripari per fermare la bestia da loro stessi creata in parte e tollerata in altra.
Un notevole ritardo che, visti i paragoni avanzati, non esiterei ad accostarlo a ciò che è avvenuto con l’ISIS, sia per la nascita, sia per la sua “tenuta” in vita e forse anche su come si sta cercando di salvarlo.
Forse corro troppo, ma non so quanto la tendenza all’imperialismo coloniale sia distante dall’ideologia nazifascista.
Infatti secondo me il film è proprio sapientemente e volutamente (e probabilmente promozionalmente) ambiguo; ma lo è del resto tantissimo cinema made in USA e Nolan è un regista anglo-USA “con ansie culturali” come lo definisce un critico francese. Percio’ concordo sul giudizio che ne dà guythebored nel secondo paragrafo del suo commento che è passato quasi inosservato mentre solleva questioni che meriterebbero molta più attenzione.
In particolare sulla guerra e l’occupazione nazifascista oggi tenderei a dire che per lo più si sa che c’era uno da qualche parte che voleva sterminare gli ebrei e percio’ era cattivo… e poi c’erano i giusti, ovviamente “imprenditori”, alla Schindler’s list (e tra parentesi su Spielberg condivido ogni lettera della definizione di Fofi, finalmente qualcuno l’ha detto, dopo decenni di esaltazione del purè di patate condito con occhi strabuzzati e lampeggianti arancioni). Non è molto come base se si considera che il film viene lanciato con enorme pubblicità e che circolerà a livello planetario presumibilmente…
Badiamo, Dunkerque è un film che io ho visto volentierissimo e ne avrei visto ancora; visivamente lo trovo bellissimo e realizzato da qualcuno che il cinema e il genere lo conosce anche capovolto e lo maneggia con elegante disinvoltura, il che si gusta sempre con immenso piacere.
È l’esatto opposto di Salvate il soldato Ryan. Retorica bellica ribaltata dai “vecchi che partecipano alle guerre dei giovani” al “ci sputeranno in faccia, siamo dei codardi” mentre gli battono sul vetro e gli passano la tennent’s. 6 aerei in tutto, qualche barca, un treno che sembra un regionale veloce che parte da Bologna e la visuale su una città moderna, proprio perché La ricostruzione esatta dell’avvenuto non è necessaria per comunicare, non in questo film, non nel cinema di Nolan.
Ps Tom Hardy è quanto si avvicini di più a un dio. Abbatte i nazi “senza broda”.
Io tutta questa overdose di patriottismo non ce la vedo ;-)
C’è una massa di soldati sconfitti, sbandati, abbandonati dai politici che li hanno mandati laggiù (viene detto chiaramente che Churchill non metterà a rischio la flotta per salvarli, perché bisogna preservarla per difendere le isole britanniche), i quali vogliono soltanto tornare a casa.
Il doppiaggio italiano (che dovrebbe cessare hic et nunc, non se ne può più), mette in bocca a un commosso ammiraglio che osserva le barche da diporto arrivare in soccorso dei suoi uomini la parola “patria”. L’ufficiale in seconda gli chiede: “Cosa vede, signore?”. Lui risponde: “Vedo… la patria!”.
Vaffanculo al doppiaggio.
Per come Kenneth Branagh muove le labbra direi che pronuncia la parola “home”.
L’ammiraglio vede casa.
E tutti i soldati, in primis il protagonista senza nome, vogliono tornare “a casa”, non in patria.
Anche quando appaiono le scogliere bianche e lui chiede se si tratti di Dover, il soldato che gli risponde dice che no, sono le scogliere del Dorset, ma è lo stesso, perché quella è… “home”. L’Inghilterra sono le scogliere bianche, una fugace apparizione di countryside dal finestrino del treno, e due birre gelate offerte da un paesano. Niente fanfare.
Non mi pare che ci sia un gran peana patriottardo, ma anzi un’esaltazione dell’umanità, in tutta la sua forza e debolezza. Molti di quei soldati tra l’altro sono disposti a tutto per salvarsi e nient’affatto patriottici nei confronti dei compatrioti che portano la medesima uniforme.
Lo slancio esaltato da Nolan è quello dei civili diportisti. Infatti è su una di quelle barche che si colloca il rendez-vous tra tutte le linee narrative. Certo che l’episodio si presta all’esaltazione patriottarda, e infatti viene da sempre sbandierato come tale nella storia nazionale britannica, e sarebbe stato assurdo che Nolan si sforzasse di sminuirlo. Ma quella che ci viene mostrata è prima di tutto una grande operazione di salvataggio di naufraghi condotta dal basso, dai civili. E Nolan vuole sottolineare proprio questo aspetto, tant’è che il vecchio marinaio della domenica, il vero eroe del film, si sottrae alla requisizione delle imbarcazioni civili da parte della Marina, e decide di andare lui stesso, con suo figlio, a Dunkirk, senza prendere ordini da nessuno. Questo perché sente di dover fare qualcosa in prima persona, dato che letteralmente ognuno di quei ragazzi potrebbe essere suo figlio, ma anche perché fondamentalmente degli altri uomini della sua generazione che hanno prodotto quel disastro non si fida. Dunque quello che vediamo è un atto di salvataggio umanitario più che un “arrivano i nostri”.
Io l’ho visto in lingua originale e confermo che in quella scena Branagh dice «home». La parola utilizzata nel film è sempre «home». Sì, anche nella risposta alla domanda se le scogliere bianche viste dalla barca siano quelle di Dover: «No, è il Dorset… But it’s home.»
Tradurre «home» con «patria», magari facendo sentire la P maiuscola, è solo l’ultimo di una lunga serie di «crimini del doppiaggio» commessi in Italia. Non è uno dei più gravi, ma certamente distorce il tono del film.
Anch’io l’ho visto in originale e confermo l’uso di home. Sono d’accordo che il doppiaggio andrebbe abolito, ma anche in Slovenia, dove il doppiaggio si usa solo per i cartoni animati, nei sottotitoli “home” è stato tradotto con patria. In sloveno la parola patria non ha la stessa connotazione “destra” che ha in italiano, ma un suono patriottico sì. Il traduttore ha evidentemente fatto una scelta precisa perché non ci vuole un dottorato per distinguere home da homeland.
Tra l’altro, ho il presentimento che anche “homeland” non sarebbe propriamente traducibile con “patria”. Patria significa “terra dei padri”, questo è il significato letterale. La parola contiene un’idea dinastica patriarcale, legata al sangue. “Homeland” dà più l’idea di terra natia, o più propriamente la terra che consideri “casa”, appunto. Ed è qualcosa di molto più soggettivo. Non per niente, dicevamo nella discussione, Nolan la “homeland” non te la mostra. A parte due fugaci cartoline – le bianche scogliere e il countryside – l’Inghilterra non c’è. Perché ognuno di quei soldati ha, si suppone, una propria personale homeland, fatta di luoghi, affetti e ricordi, ma…sono cazzi suoi. Per tutti “home” in quel frangente è soprattutto la salvezza. Tant’è che si imbuca anche un francese. O almeno ci prova, poveraccio.
Ci sarebbe anche “fatherland”, in effetti. Poiché credo e spero che i buoni film siano tradotti da professionisti capaci che conoscono il proprio mestiere e non incappano in errori di traduzione così grossolani, l’unica spiegazione che mi do è che sia il traduttore italiano che quello sloveno nella scelta del traducente si siano fatti guidare da una propria interpretazione personale in chiave patriottica del film.
Solo una precisazione, nel film il labiale *home* pronunciato da Kenneth Branagh è tradotto in italiano in modi diversi: la prima volta con l’espressione “la nostra terra”, la volta seguente con “patria”. Insomma, la traduzione italiana è contraddittoria e fuorviante.
Il doppiaggio italiano fa sempre fatica a tradurre “Home”, soprattutto in una battuta secca come quella detta nel film da Branagh.
Detto ciò, non c’è bisogno di un adattatore esperto per capire che “casa” è molto meglio di “patria”, aldilà del significato, proprio per il labiale. Perché il suono /p/ si accompagna alla chiusura delle labbra (infatti è una labiale), mentre sia l’aspirata inglese /h/ sia la /c/ dura nostra no. Vero che la /m/ è una labiale, ma giunge in finale di pronuncia (e difatti in Inglese “home” conta come monosillabo) e non riusciresti mai a dire tutta la parola ‘patria’ nello stesso lasso di tempo.
I dialoghi italiani li ha adattati Marco Mete che è un ottimo doppiatore. Tenderei ad escludere la motivazione ideologica, secondo me è stata la solita fretta cattiva consigliera che ormai ha reso il nostro doppiaggio sempre più agghiacciante.
A proposito dell’aspetto generazionale, mi ha colpito molto la figura del “marinaio della domenica” che è l’unico a comprendere il disturbo post-traumatico da stress del soldato che viene recuperato per primo in mare. Mentre i giovani sono spaventati e non conoscono/capiscono la sua situazione, il marinaio che ha combattuto probabilmente nella prima guerra mondiale sa quello che deve fare perché lo ha vissuto in prima persona al fronte. Nolan a mio avviso vuole mettere in evidenza anche questo rimosso della società non solo inglese, ma europea.
Condivido completamente. Anch’io ho pensato che quel personaggio sia evidentemente un reduce della prima guerra mondiale, cioè uno che sa di cosa sta parlando.
“Anch’io ho pensato che quel personaggio sia evidentemente un reduce della prima guerra mondiale, cioè uno che sa di cosa sta parlando.”
Anch’io ho pensato al primo conflitto mondiale e alla possibilità che il vecchio marinaio fosse un reduce. E mi è parso che la cosa non fosse casuale ma voluta.
Altro elemento che mi ha fatto riflettere, e rende a mio avviso il marinaio borghese un perno del racconto fino a renderlo un antieroe, è la scena in cui sottolinea al figlio e all’amico di quest’ultimo [spero di ricordare bene] che non sarebbero andati semplicemente in Francia ma dice: “andiamo in guerra”. Una frase che in un film di guerra è accompagnata dalla svolta nella trama, che da quel momento diventa la storia di una rivincita fino alla sconfitta del nemico, ed è solitamente accompagnata da musiche epiche, mentre qui assume un significato completamente diverso: da un lato smorza l’entusiasmo inconsapevole dei due giovani cresciuti nel mito della Great War e del patriottismo/nazionalismo; dall’altro esprime un senso di consapevolezza, quasi di rigetto per la guerra stessa. In questo contesto la sua decisione è vissuta come un dovere etico/morale e non come un dovere verso la Nazione/Patria.
Riguardo a questa lettura “generazionale”, aggiungerei un elemento sul quale ho riflettuto alla fine del film, che invece va nella direzione di una possibile lettura “di classe”.
Premetto che questa non la considero assolutamente intenzionale da parte di Nolan, sulle cui posizioni politiche si è già detto tanto e che, sicuramente, non possono essere ricondotte ad un pensiero di sinistra. Anzi, l’ambiguità dei molteplici possibili sguardi cui alcuni suoi film si aprono è, secondo me, dovuto proprio a questo suo essere “oltre la destra e la sinistra” (che spesso è un lasciare la porta aperta alla destra…).
Appunto per questo, che fosse intenzionale o meno, mi sembra possibile leggere anche questa dimensione.
Ciò premesso, i diversi piani su cui si articola il film restituiscono anche la composizione di classe, al netto delle assenze di rappresentazione della molteplicità etnica: i fanti o i marinai, in ordinate e impotenti file indiane sulla spiaggia, rimanadano all’impotenza e alla inconsapevolezza dei soldati di trincea del conflitto precedente. Non sanno, non vedono. Il nemico, le imbarcazioni amiche che dovrebbero salvarli, per gran parte del film nascoste dietro un orizzonte che nasconde loro ma non la terra dalla quale provengono, gli aerei, che spuntano fuori da un celo che sembra nasconderli, annunciati da un rumore assordante.
Quelli chiusi nelle pance delle navi fanno esperienza del buio durante gli attacchi – la scena che segue il siluramento della nave militare è secondo me azzeccata, restituisce il dramma proprio dell’enormità del pericolo quando si accompagna, di nuovo, alla non-consapevolezza, alla non-possibilità di controllo.
Di contro, la upper-class della RAF, i suoi ufficiali o sottufficiali di estrazione agiata, hanno una posizione privilegiata: il loro sguardo abbraccia, dall’alto, tutta la scena. Non sono condannati al fatalismo, al panico; non sono costretti all’abbruttimento dello stare nel mezzo del casino. Godono di un distacco notevole, che permette loro di conservare quella umanità che non viene messa alla prova.
Non sono costretti a fare una scelta (il “dagli all’allogeno” dei fanti del peschereccio, sottolineato da WM4); unici a sparare, possono con pochi colpi rappresentare lasalvezza di molti.
Colpi che non appaiono per questo meno “umani”, visto che quelli che mettono a segno colpiscono macchine che volano, che non esplodono e delle quali non ci vengono mai mostrati i piloti.
Nelle parole del proprietario della barca che corre al proprio dovere, di nuovo, ho letto anche questo: non tanto un “la nostra generazione ce li ha madati, ora tocca a noi andare a salvarli”, o non solo.
Possibile che la “sua” responsabilità sia anche di classe: il che illumina anche il contrasto tra la grande rettitudine sua e del figlio (che se la possono permettere) e la debolezza manifestata dal soldato in stato di shock.
Perché anche il restare umani è più difficile, quando nell’orrore sei gettato e sprofondato fino al collo.
Anche in francese la traduzione utilizzata per “home” è “patrie”, ma solo in quel caso e in bocca a quell’ufficiale.
A questo punto pero’ bisognerebbe chiedersi se siano davvero tutte scelte dei singoli direttori del doppiaggio o se non si tratti di un’indicazione del regista o della produzione.
Io non ho un dizionario storico serio per controllare l’uso di “home” in quel contesto, ad esempio non saprei se negli ambienti militari dell’epoca la parola potesse avere un senso ambivalente, per convenzione diciamo professionale. Di certo tre coincidenze cominciano a incuriosire.
Uno che mi sembra aver visto un altro film rispetto a noi…
(Oltretutto un critico cinematografico che sparla di Spielberg con questo astio per principio non lo sopporto).
Peccato perché Fofi, quando vuole, aggiunge spesso un punto di vista interessante.
https://www.internazionale.it/opinione/goffredo-fofi/2017/09/08/dunkirk-nolan-recensione
[ATTENZIONE SPOILER] Sì, me n’ero accorto. A parte che mi sembra parecchio prevenuta come stroncatura (è chiaro che a Fofi il cinema di Nolan non piace punto), risulta davvero incomprensibile come sia possibile vedere in Dunkirk il film guerrafondaio e militarista che ha visto lui. I soldati britannici praticamente non combattono mai. Solo nella sequenza del primo attacco aereo provano pateticamente a tirare qualche fucilata contro i cacciabombardieri tedeschi, dopodiché sono praticamente sempre disarmati. A salvarli sono i civili, poi…
Mi pare clamorosa anche la cantonata sulla ricostruzione storica. Dunkirk è in realtà un anticolossal. Come faceva notare qualcuno nella discussione qui sopra, l’impiego di mezzi è minimo. Tre Spitfire contati in rappresentanza della RAF e altrettanti per la Luftwaffe + due bombardieri. Una dozzina di barchine da diporto che alludono alle centinaia che arrivarono dalla costa inglese meridionale. Tre navi da affondare. Il dispiego di mezzi è ridicolo rispetto ai grandi war movie sulla seconda guerra mondiale. Perché Nolan ha chiaramente inteso ridurre all’osso la storia, invece di mimarla. Ha scarnificato la vicenda togliendo tutto ciò che non fosse strettamente necessario. Non ci racconta nessun antefatto, non c’è nessuno spiegone, niente. Soltanto quegli uomini bloccati in un cul de sac, il loro terrore di bersagli inermi su uno spiaggione. E nemmeno di loro ci viene raccontato niente. Non sappiamo i loro nomi né che cosa rappresenti per loro “casa”.
Da qui anche l’accusa di essere freddo rivolta a Nolan. Questa forse si può capire, è un regista cervellotico, piscologico più che psicanalitico, e senz’altro non sentimentale. Ma Dunkirk non è un film sui sentimenti messi a dura prova dalla guerra, è un film su uomini ridotti come sorci, che non riescono nemmeno ad abbandonare la nave prima che affondi, che hanno istinti e bisogni primari, la fame, la sete. In tutta la sequenza iniziale il personaggio principale deve cagare, questo è il suo problema, ma la guerra non gli lascia la possibilità di fare nemmeno questo. C’è bisogno d’altro? Si potrebbe anche aggiungere che è un film completamente privo di donne. Si vedono appena due crocerossine di sfuggita. Nemmeno questo importa. A casa quei disperati avranno pure madri, sorelle e fidanzate, ma…non sono lì. Lì c’è soltanto la lotta per la sopravvivenza. Tutto il resto viene dopo, fa parte di quel “casa” (e non “patria”) che viene evocato e mai mostrato. Dunkirk non è un film patetico, non punta cioè sul pathos, come tanti altri film di guerra, bensì sull’ansia, sulla claustrofobia, sulla paura. Anche questo per me lo rende originale.
E rende ancora più emblematica la disquisizione etica che si svolge tra i soldati nella pancia della barca bersagliata dal nemico. Quello è il grado zero, è lì che Nolan porta i personaggi. Di quei “filosofi” se ne salveranno due. Uno è stato il primo a cedere all’istinto ferino del mors tua vita mea; l’altro invece è quello che si è messo di mezzo. Il primo prova vergogna per se stesso e si aspetta di essere preso a sputi arrivato a casa; il secondo presta la voce al discorso di Churchill. E l’ultimo fotogramma del film, mezzo secondo, è per lui. Lui è quello che non ha ceduto, lui è il giusto (fair), anche se – o forse proprio perché – è quanto di più lontano da un eroe si possa immaginare.
Un eroe classico in effetti c’è, ed è l’aviatore interpretato da Tom Hardy, come è stato fatto notare da altri qui. Un cavaliere dell’aria, il cui principale avversario però non sembrano essere tanto gli aerei nemici quanto piuttosto la mancanza di benzina, giusto per spoetizzare l’unico sguardo romantico che Nolan si concede. È un personaggio da western crepuscolare, la sequenza del volo planato sullo spiaggione al tramonto è grandiosa, l’orizzonte e il respiro si aprono in una visione panoramica… Infine il commiato del pilota al suo destriero sfinito, a cui somministra il colpo di grazia. Di lì a poco sarebbero stati tizi del genere a fermare l’invasione dell’Inghilterra, l’allusione pare chiara. Tuttavia questa figura eroica è bilanciata dall’altra, il marinaio della domenica che in realtà si rivela il più solido e capace. L’uomo comune che diventa eroe, insomma, senza doversi trasformare in superman e che fa semplicemente il suo dovere di essere umano. Con un motivo personale, anche, certo, mica soltanto etico. Ma Nolan te lo dice soltanto alla fine, illuminando retrospettivamente le motivazioni intime di un uomo che dietro l’aplomb britannica cela evidentemente un mare di dolore. Siccome però Nolan non è melenso e non spinge sul sentimentalismo, non ha bisogno di mostrartelo, lascia che sia la tua immaginazione a lavorare.
Cazzarola, davvero non mi spiego come non si riesca ad apprezzare tutto questo.
concordo completamente. Fofi ogni tanto si mette a detestare qualcuno, ad es. Larraìn (“rampollo di una grande famiglia cilena di destra, coinvolta nel potere fino al collo, anche con Pinochet” https://goo.gl/FKToQ3) o Trapero (https://goo.gl/8pHts8). Le recensioni diventano allora sbocchi di bile ideologici e attacchi ad personam, poco attente al concreto del film che dovrebbero affrontare e piene di affermazioni apodittiche. Nel caso de “Il clan” di Trapero, ad esempio, si scaglia contro la “musicastra tutta .. rabbiosamente yanki (sic)” presente nel film. Parliamo di brani di Ella Fitzgerald, Kinks, Creedence, della band argentina Serú Girán ecc., sparati da una radio a tutto volume. E’ una precisa scelta espressiva: devono evocare il soundtrack e il volume che accompagnavano le torture (è lo stesso regista a spiegarlo: https://goo.gl/rQnyuJ).
Anche la colonna sonora di Dunkirk fa schifo a Fofi, e anche qui un minimo di approfondimento sul lavoro “progettuale” che precede questa scelta non guasterebbe: http://www.ilpost.it/2017/09/02/dunkirk-suoni-colonna-sonora/.
Ho letto la recensione di Fofi e mi sembra che sia un bel po prevenuto. Proprio non si capisce come pur di mettersi di traverso, disinterpreti anche la realtà filmica. Perche’ è pur vero che Nolan abilmente non lavora il materiale in modo in modo banale con spiegoni inutili.
Ma se Nolan avesse voluto filmare l’orgoglio della brexit (come dice Fofi), si sarebbe dato la zappa sui piedi tante di quelle volte da aver ottenuto l’esito opposto. Non c’e’ nessun orgoglio nel lasciare il continente. La truppa (giovanissima) è fiaccata nel corpo e nello spirito e sopratutto si parla di una ritirata. Quindi Fofi scazza pesantemente, anche a tirare in ballo l’episodio delle Little Ship che non sono affatto filmate in una quindicina come dice lui e sono giustamente uno snodo importantissimo di luce e speranza in un film altrimenti condito di pessimismo cosmico.
Altro momento topico, il recupero in mare dei sopravvissuti: male in arnese, più volte scampati alla morte in un percorso nel quale si scorge fortemente una vicenda di martirio quasi cristologico, di chi ormai avendo perso tutto passa da una imbarcazione all’altra, di scafo in scafo. Nolan a un certo punto gli dipinge anche la faccia di nero (per via del gasolio). Se ancora non fosse chiaro… ci mancano in pratica solo i disegnini.
Ovviamente da bravo gigione qual’e’ in mezzo a questa pletora di indizi ci mette anche qualche elemento patriottico. Ma di quel patriottismo dimesso che significa non arrendersi alle avversità e reagire tutti insieme. Perché solo tutti insieme ci si salva. O almeno, anche se non ci si fa, ci si deve provare. Non 30 mila su 400 mila ma almeno 300 mila, perché si, alla fine anche l’ultimo degli stronzi conta qualcosa.
Insomma non è possibile che sia un caso che la maggior parte muoia in acqua come formiche, in luoghi chiusi, nel ventre di un mercantile.
Parimenti non può essere un caso che si inquadrino per ben tre volte i giubbotti di salvataggio arancioni (è una simbologia che ben conosciamo).
Non è un caso neanche che uno dei discorsi più importanti sia “non è giusto lasciare indietro qualcuno”
E per finire non è un caso che gli venga risposto “il prossimo sei te perché non fai parte del nostro gruppo”
Questo è quel che accade quando si va al Cinema ma il film si è già stroncato nella propria testa. Per motivi ideologici, per motivi personali, per rancore verso il regista o gli autori della storia.
Risultato: sempre dannoso. Fofi che in passato ha fatto molto contro queste prese di posizioni a priori, dando lustro a cineasti solitamente bombardati dalla “critica”, ha interiorizzato lo stesso vizio. Contento lui. La figura del rosicone non gliela toglie nessuno.
A proposito del numero esiguo delle navi presente nel film (una delle critiche di Fofi), riporto qui sotto parte di uno dei commenti scritti da Wu Ming 4:
“Dunkirk è in realtà un anticolossal. Come faceva notare qualcuno nella discussione qui sopra, l’impiego di mezzi è minimo. Tre Spitfire contati in rappresentanza della RAF e altrettanti per la Luftwaffe + due bombardieri. Una dozzina di barchine da diporto che alludono alle centinaia che arrivarono dalla costa inglese meridionale. Tre navi da affondare. Il dispiego di mezzi è ridicolo rispetto ai grandi war movie sulla seconda guerra mondiale. Perché Nolan ha chiaramente inteso ridurre all’osso la storia, invece di mimarla. Ha scarnificato la vicenda togliendo tutto ciò che non fosse strettamente necessario. Non ci racconta nessun antefatto, non c’è nessuno spiegone, niente.”
Concordo con questa interpretazione. Perché l’entità numerica delle imbarcazioni civili è esigua? Per evitare l’effetto *Catalogo delle navi* (Iliade II, 493-760), ossia pagine e pagine che enumerano i partecipanti alla guerra di Troia. Omero usa l’espediente dell’elenco per un motivo preciso: è la presentazione al lettore degli eroi che realizzeranno l’impresa, ma questo approccio serve per dare alla narrazione un taglio epico, un approccio differente rispetto alla scelta fatta da Nolan.
Sì Dunkirk è un anticolossal, Dunkirk non è Troy (cfr. link, minuti 0,10-0,17)
https://www.youtube.com/watch?v=JPqiVkMmVMs
Riguardo a Fofi, ho trovato molto interessante il commento sotto la recensione del blog di Militant http://www.militant-blog.org/?p=14726
ho trovato interessante anche la recensione di Militant, personalmente mi trova più concorde di quella di WM4, in particolare (cito) “In realtà – questa è però una caratteristica tipica dei lavori di Nolan – l’opera presenta una sua ambiguità non risolta. Un film al tempo stesso retorico e anti-retorico, grandioso e “minimale”, realistico e onirico, lascia lo spettatore incerto sulla sintesi da trarne. E in questa incertezza possono prosperare tutti i punti di vista, da chi ne dà una lettura reazionaria a chi ne scova i tratti progressivi”
Mi sembra che quel commento (quello di Pablo) stia a Fofi più o meno come la recensione di Fofi sta a Dunkirk.
Leggo “Internazionale” da 6 anni, da 5 e mezzo o smesso di leggere le recensioni di Fofi. Ogni volta che, vuoi perché fbk me la mette proprio così in evidenza che non si può non leggere o perché un amico mi tagga in un post del tipo: “ma hai visto che dice questo [censura] di quel capolavoro?”, la leggo per sbaglio la reazione è sempre la stessa. Testata allo schermo e conto salato da Euronics o Mediaworld.
(A proposito sapete se ci sono offerte sugli schermi del pc in giro?)
In passato avevo anche mandato una decina di mail alla redazione di internazionale per capire come fosse possibile che in un giornale come quello dovesse pubblicare recensioni ridicole su film e musica, ma non ho mai avuto risposta.
Però questa non è una discussione su Fofi. È una discussione su #Dunkirk. Ci siamo già detti in disaccordo con la stroncatura di Fofi, abbiamo spiegato il perché, adesso per favore sforziamoci di andare oltre.
Anche perché una vita e una militanza politico-culturale lunghe, complesse e feconde come quelle di Fofi non possono essere appiattite su certe idiosincrasie da spettatore, su certi giudizi calati con la mannaia. Per questo dicevo di non “recensire” Fofi come lui ha recensito Nolan.
Come diceva Guzzanti-Ghezzi in un famoso sketch, Fofi è entrato nella sala Q…
Concordo su tutto. Mi pare il parere di un pregiudicante che ce l’ha con Nolan (chissà poi perché).
Considerarlo un film militarista non ha agganci con nessuna delle cose che accadono e si vedono nel film. Posso sempre capire che il film non piaccia per enne motivi, soggettivi od oggettivi. Però questa critica è campata davvero per aria. Anzi, visto la storia, neanche per aria.
Qui un commento di Andrea Monda al film di Nolan che cita il nostro pezzo:
https://andreamonda.it/?p=1665
Da cattolico appassionato di Tolkien, Monda coglie un parallelo (eroi civili/hobbit) che ammetto era venuto in mente anche a me, ma…non voglio passare per fissato :-)
Quindi sottolineerò un’altra cosa del pezzo in questione. Monda afferma che il vero eroe di Dunkirk è il ragazzino che muore. In effetti il film lo dice in maniera didascalica, quando i superstiti riescono a fare uscire il trafiletto sul giornale in cui appunto lo si definisce un eroe di Dunkirk. E però non ha fatto niente. O meglio, ha fatto una sola cosa, in effetti: ha fatto la scelta giusta. L’ha fatta d’istinto, per motivi personali (essere degno delle aspettative di suo padre), o per senso etico, a sua volta, ma l’ha fatta, è saltato sulla barca per andare a prendere i profughi. Tanto basta. To do the right thing. To be fair.
Ho visionato ieri sera Dunkirk, le impressioni sono quindi recenti. Per come la vedo io, il regista destruttura le due dimensioni della guerra, lo spazio e il tempo, per costruire una storia a-lineare decisamente ansiogena (il senso di claustrofobia non dà mai tregua), che provoca nello spettatore una forma di empatia totale per i protagonisti della pellicola. Io non ho riscontrato tracce di militarismo, tanto più che mi è parsa sempre assente l’estetizzazione della violenza (l’approccio alla Tarantino, per intenderci), attitudine che è spesso funzionale alle narrazioni filo belliciste. Il messaggio del film, ridotto all’essenziale, coincide con l’antica, prepolitica legge del mare: chiunque si trovi in acqua in situazioni di difficoltà, va salvato. Un lungometraggio davvero splendido.
Mi hai fatto venire in mente una scena, forse la più bella, di un film di alcuni anni fa: “Flag of our fathers” (Eastwood). Ebbene, mentre la marina americana si appresta a battagliare in Giappone con un’imponente flotta uno dei soldati cade inavvertitamente in mare. Ebbene, nessuno si fermerà a salvarlo. Perché la guerra non si cura di chi resta indietro e non si ferma.
@ Ekerot:ho visto il film di Eastwood molti anni fa e fatico a ricordarlo, però sì,mi pare un riferimento molto calzante.
Una quotidiana manipolazione mediatica induce a pensare che in nome di un presunto stato di paura o terrore si possano giustificare le misure più restrittive e reazionarie, in nome della propria salvezza a scapito di quella altrui, innescando cosi un meccanismo di primitiva sopraffazione. L’attentato alle torri gemelle è stato il primo tassello nella costruzione di politiche di tolleranza zero e restrizione delle libertà individuali ( per tutti, nessuno escluso) contro un fantomatico nemico dall’aspetto cangiante, a seconda delle situazioni. Questo clima poliziesco di istigazione al controllo, gli uni sugli altri, rende tutti tutori dell’ordine e della legalità… Senza che neppure vengano messe in discussione queste due parole, assunte aprioristicamente come “soluzione”. E mai contrapposte a equità e felicità, due valori cui non è forse lecito aspirare. Si reputa normale giustificare le richieste più assurde ( anche nella vita di tutti i giorni) con la scusa di aver paura e non si costruisce un meccanismo di difesa per affrontarla, questa paura. Un bambino che teme il buio non viene incentivato dai suoi genitori a coltivare questo stato d’animo, gli si potrebbe ritorcere contro per il resto dell’esistenza. Mentre invece siamo quotidianamente incentivati a sviluppare ed amplificare forme d’ansia e timori astratti. In un perverso gioco a rimanere bambini, vittime di superstizioni, che qualcun altro gestirà. Mi permetto da qui una breve e polemica riflessione sulla manifestazione di ieri a Bologna ( a cui ho partecipato con molte riserve): anche in questa situazione il “centro sociale” meno conflittuale, più friendly, più gradevole ed accattivante da un punto di vista estetico e della proposta politica viene “premiato”: all’implicita condizione di essere “obbedienti” e non rompere troppo le scatole, si il mercatino biologico va bene! Ma mi raccomando non spingersi oltre. E’ vero, ieri c’è stata proprio una bella festa in città, autorizzata. Perchè appunto: l’importante è non fare davvero paura a nessuno.
Dunkirk mostra una lotta: tra chi vuole salvarsi (e vorrebbe essere salvato) e chi vuole annientare l’umano o non vuole salvarlo. Il campo di questa lotta è il mare e l’orizzonte della salvezza è la casa (home). Il nemico è invisibile, è il Nazismo a-storico, il Fascismo di oggi, non solo quello di ieri. Il suo complice è il governo, il governo britannico ieri, e qualunque governo che non vuole salvare l’umano disperato, rinchiuso, terrorizzato. In questo film non importa la ricostruzione storica dei dettagli, ciò che conta è la lotta e la determinazione di chi non si arrende né si arrenderà mai. Dunkirk è un film sul futuro, non sul passato.
La visione del film non mi ha illuminata su tutta una serie di questioni che rimangono aperte rispetto alle “vere” intenzioni dell’autore: ci sono senza dubbio molte suggestioni legate al continuo tentativo dei militari di imbarcarsi ( in una lotta disperata per la sopravvivenza che assume quasi un carattere metafisico) che, esteticamente, sembrano riprodurre immagini di profughi sui barconi, e poi c’è il dialogo “principale” del film che si svolge all’interno della pancia di un’imbarcazione abbandonata sulla spiaggia e che conduce lo spettatore ad una riflessione sul cinismo e la brutalità della guerra: tra i militari nel panico generale di garantirsi la sopravvivenza si scatena l’odio xenofobo per il diverso che è, in primo luogo, nei confronti del francese e in seconda istanza perfino contro il soldato inglese che non appartiene allo stesso reggimento. Una questione di appartenenza dunque, un criterio di selezione spietato e crudele, il perno di ogni guerra, insieme agli interessi economici. Ma il film vive una contraddizione che ne mina la potenza espressiva: il rumore della guerra, quello dei bombardamenti che si fondono con il battito del cuore è indebolito dai dialoghi, per fortuna pochi ed essenziali. La prima scena del film, la fuga a perdifiato dei soldati dai proiettili del nemico sembra il videoclip di una canzone rap in cui si sente solo la base e non le parole. E’ una scena dall’impatto fortissimo perchè il rumore del bombardamento e quello del cuore che pulsa per la paura diventano indistinguibili. Protagonista principale del film è, secondo me, l’eco cavernoso della guerra che si trasforma di volta in volta in maniera fluida da un ritmato bombardamento ad un persistente fastidiosissimo ronzio di cacciabombardieri, fornendo l’allucinante effetto dell’acufene. Ed è proprio qui, per me, che si presenta il problema: da un punto di vista stilistico ed espressivo sarebbe stato più efficace e funzionale all’ equilibrio del racconto se il rumore di sottofondo costante della guerra non fosse stato interrotto da dialoghi. Sono proprio i dialoghi a ” disturbare” l’economia del racconto e a intaccarne l’omogeneità. Perfino quando sono scambi di battute al vetriolo importanti come quello che si svolge nell’ imbarcazione arenata sulla spiaggia. Io mi sono immaginata il film come se fosse muto e sottotitolato. Le parole impresse sullo schermo avrebbero acquisito un’ enfasi maggiore, senza spezzare il ritmo della narrazione. Senza contare il fatto che dialoghi come quello sulla “correttezza” di alcuni comportamenti, anzi sulla nostra morale come esseri umani, entrano in rotta di collisione con le parole pronunciate dal ” marinaio della domenica”. La sua infantile attrazione per il rumore dello spitfire, che riesce a riconoscere di spalle senza neppure vederlo, lo rende meno credibile. Nella medesima situazione, una donna che ha perso un figlio in guerra non avrebbe espresso nessuna forma di infantile fascinazione per un aereo da guerra. La retorica patriottarda del film riesce ad emergere prepotente da questi dettagli.
Io invece ho trovato molto tenera, fragile e ben poco “viriloide”, anzi, proprio il contrario, la fascinazione di quell’uomo per lo Spitfire. Suo figlio ci è appena morto, in uno Spitfire, pilotando uno Spitfire, precipitando con uno Spitfire. Vedendo quell’aereo, rivede il figlio. E infatti poco dopo ne parla al presente: «My son is one of your lot», dice al pilota che ha salvato.
È un uomo straziato, che salvando i naufraghi è come se salvasse ogni volta il figlio, che invece non ha potuto salvare. Anzi, della cui morte sente di avere una colpa “generazionale”. «Sono gli uomini della mia età ad aver voluto questa guerra».
Sulla frequenza e la qualità dei dialoghi credo molto meglio che in Interstellar. Avrebbe potuto ancora essere più trattenuto, forse. Avrei lasciato alla fine la sola voce per leggere il discorso di Churchill, ma l’ho visto doppiato. Sulla questione spitfire sento il bisogno di princisbeccare, vista la cornice inglese. Se è vero che molti uomini di fronte ai motori paiono bambini, non si capisce perché la sua sia un’attrazione infantile e soprattutto perché lo dovrebbe rendero meno credibile, e cosa ci sia di patriottardo. Nolan is the new Pavlov. La battuta in italiano dice che è il suono più dolce che puoi sentire oggi, ed è una chiara antifrasi, legata al frangente. Questo non c’entra niente poi col fatto che prima l’uomo avesse spiegato che montano motori rolls royce, con sincera ammirazione, e certo, anche quel senso di orgoglio che possono avere tanti appassionati di motori e robe del genere, armi comprese, che sono semplicemente affascinanti. Tutto ciò lo rende perfettamente credibile. Aver perso un figlio in guerra non cancella l’ammirazione per un oggetto come lo Spitfire che può benissimo (o malissimo) convivere con i sentimenti scatenati.
eppure, secondo me, anche la guerra e la sua rappresentazione sono una questione di genere. Ed anche io non penso che il padre del pilota morto sia un sottoprodotto della cultura machista… eppure sembra intrappolato in quella logica, quella della guerra come risoluzione naturale dei conflitti. Tanto è vero che il sacrificio INUTILE di un coetaneo di suo figlio viene assunto come un fattore di rischio inevitabile e il valore della vita è numerico. Perderne uno per salvarne dieci, è già stato messo nel duro conto da pagare. E proprio attraverso l’accettazione di questo fattore si propaga la mentalità della guerra. Proprio attraverso una forma di spersonalizzaione del singolo essere umano.
Ho visto il film sforzandomi di assumere i diversi punti di vista offerti dalla cinepresa di Nolan che ritengo tutt’altro che patriottarda.
Anzi i diversi piani spazio tempo incrociati in maniera sapiente ritmata più dal sonoro che dai dialoghi, offre allo,spettatore un coinvolgimento emozionale forte e più incisivo rispetto al modello kolossal bombe e sangue in stile primo quindi minuti del soldato Ryan.
Sto riflettendo, come insegnante, anche sull’utilizzo che facciamo delle cinema a scuola, spesso solo come riempitivo di ore buca, quando invece film come questi varrebbero meglio di noiose ore nelle quali parla solo,il docente offrendo spesso il proprio punto di vista.
@Jackie.brown
uhm… Davvero sono semplicemente affascinati?!… caspita… non me ne ero accorta… quindi mi confermi che, attraverso un semplice sdoppiamento del punto di vista, un qualunque oggetto si può separare dalla sua funzione?…certo, interessante… E’ per questo allora che una pistola risulta affascinante a prescindere dalla sua potenzialità offensiva e non per la sua potenzialità offensiva… già… Prendo nota.
Poi mi sembra evidentemente patriottardo ma forse mi sbaglio… In fondo il governo inglese non ha quasi mosso un dito per salvare i suoi soldati, ha però chiesto al suo popolo un atto di eroico coraggio per salvarli, se questo non è amor di patria… e se non ti sembra rappresentato come tale…Soprattutto nella scena in cui si inquadra la piccola flotta di imbarcazioni che salva i soldati. Vero è che nel film il padre del pilota morto non lo fa solo per amor di patria ma, come ha detto Wu Ming 1, per salvare simbolicamente la vita del figlio e vero è che al rientro un anziano signore che accoglie i soldati non riesce neppure a guardarli negli occhi, eppure è li a servire la patria. Esiste fra questi uomini un senso di colpa che devono compensare. Ciò non toglie che stiano servendo la patria e che venga rilevato questo.
Un’arma, così come un aereo da guerra, può essere affascinante sia dal punto di vista estetico che per la sua pericolosità. A me piacciono molto le spade, mentre i coltelli mi fanno tra lo schifo e il terrore: l’estetica è anche influenzata da altri significati. Ne il Buono, il brutto e il cattivo mi è sempre piaciuta la scena nella quale Tuco si mette a scegliere una pistola. Gli aerei non mi dicono niente. Tuttò ciò nulla c’entra con la patria. Così come non c’entra niente la battuta del padre in Dunkirk, in un film che esprime chiaramente un sentimento patriottico. Patriottico o patriottardo? Che il film nel suo complesso possa aver suscitato sentimenti contrastanti non solo si capisce, ma può essere anche un bene, io l’ho visto con altre persone e una di queste non aveva apprezzato lo spirito militarista finale. Non mi pare che sia così. Il discorso finale non viene letto con entusiasmo, anzi, non suscita alcuna voglia di andare a combattere, ma suscita la presa di coscienza della necessità di combattere. Certo si può dissentire anche su questo e la soglia di sensibilità è soggettiva Anche il discorso di Wm4 suscita tale presa di coscienza, solo che la sua patria è un’altra (l’umanesimo).
L’anziano signore alla fine penso che sia cieco, visto che tasta la faccia di uno dei due, certo non è sdegnato. E la sua battuta serve a smontare la preoccupazione del soldato e il suo sincero senso di colpa, che pensa a un presunto onore da salvaguardare, quando ciò che importa è essere ancora vivi.
Nel treno hai a confronto due soldati, uno che ci crede molto all’essere soldato e un altro meno, ed è uno dei protagonisti. Sono due personaggi realistici, perché in tutte le guerre hai soldati che ci credono molto e soldati che ci credono meno, così come hai o puoi avere un signore con il figlio pilota morto, che molto realisticamente apprezza gli aerei da guerra e può essere in grado di fare una battuta come quella del film, che al massimo ha il difetto di voler essere una battuta. Una donna non lo avrebbe mai detto? Molto probabile (e infatti non lo dice una donna). Ma questo cosa signfica? Non lo avrebbe mai detto perché all’epoca le donne amanti del rombo degli spitfire erano meno degli indiani a Dunkirk, o perché una donna con un figlio morto pensa solo al figlio morto e non stacca mai la testa? In ogni caso non capisco come faccia a non essere credibile nel senso che dici tu, in contraddizione con il dialogo sulla sopravvivenza nel peschereccio, e un dettaglio attraverso cui emerge una retorica patriottarda. Non lo capisco nel senso che faccio fatica a capire come vengano in mente certi pensieri, così come ho trovato difficoltà con l’altro commento sugli indiani. Che possa essere un uomo che ritiene la guerra una risoluzione naturale può essere, pure se non emerge dalle sue azioni e pensieri, ma è abbastanza probabile per un uomo dell’epoca. E tanto più se è così è bene che ci sia questo personaggio. È questo che rende credibile tanto lui quanto il film. Quello che viene mostrato però è che solo se si entra in una certa logica si ragiona in termini di sopravvivenza, con qualche grado di differenza; e che a volte in certe logiche si viene spinti. Sono molto d’accordo con te sulla coerenza stilistica, e forse anche per questo trovo forzate tante letture, oltre al dettaglio analizzato. Ad esempio l’opportunità di mostrare il nemico come accennato sopra da altri. Se è interessante chiedersi perché ha scelto così, è ben bizzarro andare a pensare che sia rischioso. Dovrebbe esserci del buonsenso anche nel valutare la responsabilità dell’autore.
Aggiungo un commento al pezzo di Wm4, a questo punto. Se nel complesso sono d’accordo, e di tutto ciò che ho letto è fra le cose migliori, trovo un punto di conflitto e di dubbio non tanto nell’analogia con la situazione attuale, o meglio sul trasporre il principio di giustizia nella situazione attuale; quanto sui contorni del campo. Su questo forse faccio parte degli sprovveduti e del problema. Il soccorritore del film soccorrerebbe pure i migranti, ma poi forse li rimanderebbe indietro. Mentre è abbastanza facile essere d’accordo sull’identificare l’antiumano col nazismo, è più difficile con il resto. Anche se a ben vedere questo non c’entra molto con il film.
@Jackie.brown. grazie per il commento articolato.Il concetto di patria, quello di forza, quello di virilità, quello di sopraffazione si mescolano insieme nella formazione e spesso nella crescita di un uomo fino a diventare un sistema di pensiero radicato perfino fra quelli che sanno sviluppare buoni anticorpi. Perchè spesso agli uomini, sin da bambini, viene insegnato ad esercitare la forza, in maniera bruta e come atto di affermazione sugli altri. tutto ciò viene corredato, spesso, da una forma di venerazione per tutto quello che esalta forza, potenza e brutalità, comprese le armi. E’ evidente che in questo momento non sto facendo un discorso strettamente legato al film e neppure al padre del pilota. Pensi che ad una donna sistematicamente sottoposta ad una forma di violenza psicologica e fisica dal suo compagno sarebbe impossibile attuare la medesima forma di violenza? Per esempio uccidendo il marito nel sonno? eppure non lo fa? Perchè? Perchè nel film la figura dell’ adolescente morto per un “incidente” sull’imbarcazione viene trasformata in quella di un EROE? può un titolo di giornale compensare la perdita di una vita con una parola? La partita si può chiudere così? perchè è proprio il suo coetaneo ed amico a chiedere e pretendere questa forma di “risarcimento”? A cosa serve?
Io ho incrocio con un pitbull ( quindi NON un oggetto, ma un essere vivente in grado di esprimersi con sentimenti complessi e raffinati), un tipo di cane che è di solito la prerogativa degli imbecilli, proprio perchè esprime in maniera compensativa ciò che ad alcuni uomini piace. Eppure sono per l’estinzione (e non uccisione) di tutte le razze ed in particolare di quelle potenzialmente più pericolose. E non mi affascina sapere che ha un certo tipo di caratteristiche (frutto di una specifica selezione genetica) ma è un essere vivente, e non un oggetto, e merita la sua possibilità di essere riabilitato attraverso una corretta educazione. Comunque il film è complesso e offre moltissimi spunti di riflessione, come dicevi anche tu, facendo anche un’ ottima osservazione sulla possibilità che l’anziano che accoglie i soldati fosse cieco. Non sarebbe una scelta casuale neppure questa da parte del regista.
E comunque una donna non avrebbe fatto un apprezzamento “astratto” sullo spitfire perchè semplicemente non ragiona per compartimenti stagni come viene insegnato a molti uomini, quindi: un uomo potrebbe pensare che un’ arma può essere bella O pericolosa mentre una donna pensa che un’arma può essere bella E pericolosa, attribuendo al suo ragionamento non solo la valutazione di carattere estetico ma anche quella di carattere etico.In ogni caso, tra i vari clichè sui generi, agli uomini viene attribuita spesso una maggiore “razionalità” in virtù della capacità di saper operare continue “scissioni” sui vari piani del ragionamento ( etico, estetico, ecc…) Forse alla base della guerra c’è proprio un pragmatismo falsamente razionalista per cui si possono scindere le AZIONI dalle loro CONSEGUENZE, un modo di ragionare che è comodo alimentare. Anche facendo credere che alla base di una guerra ci sia un principio di ineluttabile necessità. Davvero non si può scegliere? Davvero siamo costretti ad accettare questa logica? In ogni caso tutti i ragionamenti che abbiamo fatto sul film si fondano su forzature interpretative e sono, secondo me, tutti ugualmente validi a mantenere vivo uno scambio di opinioni.
Mi pare un tantino stereotipata la tua visione, se mi posso permettere.
Oggi riuscire a capire cosa pensa una donna quando pensa ad un’arma, o cosa pensa un uomo quando pensa ad un’arma, chi lo può dire?
Se inquadriamo da un punto di vista storico il discorso bellico e militarista, è lapalissiano che i maschi abbiano pensato alla guerra come ad una faccenda tra maschi. E l’arte ha sempre differenziato tra armi brutte e pericolose, ed armi belle e pericolose. Armi nobili ed armi meschine. Il veleno, diceva Agatha Christie, è un’arma femminile (e pare, anche se non ho statistiche alla mano, che sia vero).
Il navigante della domenica è quasi sicuramente un ex soldato. Che non credo, come molti dei soldati che hanno combattuto la prima guerra mondiale, abbia un’idea estetizzante o attraente della guerra.
Sta parlando dell’aereo del figlio come si notava sopra.
E un aereo non è la stessa cosa di un kalashnikov. Non penso che si diventi piloti per godere del lancio bombe su inermi soldati della fanteria, stile Robert Duvall. Si diventa piloti per volare. E come tutti i piloti si impara a conoscere perfettamente ogni suono\rumore proveniente dal proprio motore.
Perché secondo te quella frase sul canto dello Spitfire dovrebbe farci dedurre che quest’uomo viva un lutto meno travagliato e devastante di quello della moglie?
C’è un film uscito un paio d’anni fa che su questa tensione tra la bellezza degli aerei e la devastazione della guerra forse ha scritto la pagina più bella: si intitola “Si alza il vento” di Miyazaki.
Si hai perfettamente ragione ho proposto una rappresentazione stereotipata, ho evidentemente generalizzato di proposito la questione. Non ho visto, purtroppo, questo film di Miyazaki. E non ho affatto detto che il padre del pilota soffra meno di sua moglie. Io ho parlato di una forma di “dissociazione” mentale/sentimentale e ho posto una questione: cioè se la guerra non sia una questione di genere. E’ una provocazione, basta ricordarsi della Thatcher. Ma poi come dicevi tu, esistono le statistiche che spesso dimostrano che la maggior parte degli omicidi sono compiuti da uomini. Volare o sganciare bombe su qualcuno ha implicazioni differenti, credo. Quello che sto dicendo è molto più elementare: conosco persone morse dai cani che hanno per questo motivo sviluppato paura e odio nei loro confronti, per esempio. Mi sembra semplicemente strano che un aereo da guerra possa avere un suono “dolce” se ha contribuito alla morte di tuo figlio. Non è evidentemente colpa dell’ aereo ma forse l’aereo rappresenta qualcosa di più. Mi domando come sia possibile, per esempio, attribuire ad un cane una certa “crudeltà”, una categoria di pensiero che non appartiene agli animali, e non attribuire intenzioni “crudeli” a chi compra e utilizza armi. Se possiedo un’arma, abbastanza probabilmente, sono disposto ad utilizzarla, con tutte le conseguenze che comporta. lo stesso vale se piloto un aereo da guerra e non un aereo civile. Ho evidentemente fatto una scelta. Ma non è questo il punto, il rumore dell’aereo può essere “dolce” perchè gli ricorda il figlio ma non lo é inquadrato in un panorama più ampio. Quella scena ha un carattere “romantico” che posso cogliere ma non “condividere”. Tutto qui.
Non so cosa tu intenda quando dici “la guerra è una questione di genere”.
Nel senso: se intendi che i maschi vi combattono molto più delle femmine, direi che siamo ben oltre la statistica e la probabilità (come per gli omicidi del resto, potremmo parlare più in generale di ‘violenza’ – forse).
Se invece intendi: a proposito della guerra, maschi e femmine hanno un’idea differente (al posto di idea puoi mettere relazione, approccio, mitologia), questo non te lo saprei dire. Andrebbe poi differenziata la guerra rappresentata nell’arte, e la guerra reale. Credo che l’Iliade abbia ammiratori trans-gender, così come “Orizzonti di gloria”.
Il punto da te sottolineato non mi sembra affatto banale. E’ una criticità del personaggio plausibile: però non credo che abbiamo gli elementi per avere un quadro completo. Come è morto il figlio? Che tipo di soldato era questo padre (aviatore anche lui? O era in marina?)?
Ti dirò di più. Non penso che Nolan volesse equipararci alle persone di allora, mettendoci su uno stesso orizzonte degli eventi\sentimenti\reazioni. Anch’io ho trovato del tutto discutibile, eticamente, la scelta di nascondere la morte del ragazzo al soldato. Penso che disturbi non pochi degli spettatori moderni.
Certo in tempo di guerra i parametri mutano e alcuni comportamenti, al di fuori assolutamente assurdi ed incomprensibili, trovano un altro significato…
In realtà è evidente che sia proprio una forma di ” asimmetria” a rendere più interessante la figura del padre del pilota che altrimenti risulterebbe schematico ed ideologico e perfettamente “coerente” quindi, forse, molto noioso. Evidentemente non è nelle intenzioni del regista affrontare il tema del film in termini strettamente politici, per questo si concentra fortemente sull’universalità del messaggio ed il fulcro del film, come spiegava W.M.4, è proprio l’appello a rimanere umani. Questo non toglie però che, secondo me, il film sia ricco di incongruenze e che forse i personaggi potevano essere o più approfonditi oppure, semplicemente, “simbolizzati”. Due personaggi molto interessanti per esempio avrebbero potuto essere proprio il figlio adolescente del navigante della domenica e il pilota salvato e colpito da shock post traumatico. E l’imbarcazione avrebbe potuto essere un luogo perfetto per sviluppare un triangolo fra questi tre figure, cosa che in parte avviene. Io mi sono concentrata su un singolo dettaglio per sostenere che fra uomini e donne esiste un approccio differente alla guerra. Francamente, la visione del film non mi ha coinvolta e mentre lo vedevo sentivo che non mi riguardava.
[…] esponente di spicco dell’imperialismo britannico. Nondimeno cade a proposito per rafforzare la riflessione nata dal film di Nolan, all’indomani della tentata strage di […]
Il mio commento esula leggermente dal tema affrontato e si sofferma su alcune scelte stilistiche di Nolan. Mi scuso in anticipo se risulterá ‘fuori fuoco’.
Ho notato una certa somiglianza tra la scena in cui l’arrivo Delle piccole barche dei civili sono salutate dai membri delle navi militari, con quella dell’arrivo al porto della corazzata Potemkin come una sorta di omaggio. Ho avuto un abbaglio?