Esce in questi giorni, per la collana Frontiere di Milieu Edizioni, il primo libro solista di Gabriele Battaglia, giornalista indipendente con base a Pechino, che in questi anni ha prodotto articoli e reportage per Internazionale, Asia Times, Popolare Network, Radio Montecarlo e molti altri. Insieme a Claudia Pozzoli ha realizzato il documentario Inside Beijing (2012, 50 min.) e a quattro mani con Nicola Longobardi ha scritto Fucili contro Burma. Giungla, oppio e religione: la guerra dei Kachin (Informant, 2014).
Soquanti anni fa, quando Giap era ancora una newsletter, Gabriele interveniva con lo pseudonimo Dejan, che immaginiamo fosse ispirato a Dejan Savićević, grande campione del Milan dal ’92 al ’98.
Nel luglio 2001, spedimmo agli iscritti e pubblicammo sul sito un numero speciale della newsletter intitolato Genova: una narrazione corale. All’interno, compariva una testimonianza firmata da Dejan/Gabriele, che aveva preso parte al corteo contro il G8, spalla a spalla con Wu Ming 4 e Wu Ming 2.
Quella testimonianza, rivista e ampliata, compare come prologo di Buonanotte signor Mao. Storie dall’estremo oriente. La scelta ci ha incuriosito, perché dal libro ci aspettavamo una raccolta di articoli sulla Cina, e invece quell’incipit parlava già una lingua diversa. Wu Ming 2 è partito da questo spaesamento per coinvolgere Gabriele in una lunga intervista, dove si parla di globalizzazione e uguaglianza, di grandi opere e Confucio, di democrazia e urbanistica, di socialismo e bikesharing. La chiacchierata – che riportiamo qui sotto – proseguirà mercoledì 27 settembre, alle 21.30, presso la Libreria Modo Infoshop di Bologna. In fondo al post, segnaliamo anche le altre date del tour di presentazioni.
Wu Ming 2
Il libro si apre con una versione estesa della testimonianza che scrivesti per Giap, nel luglio 2001, all’indomani delle giornate di Genova. Nasce da quel trauma il tuo desiderio di cambiare prospettiva, continuare la lotta in altre forme, trovare un punto d’osservazione privilegiato sull’era della globalizzazione. Dieci anni anni più tardi, dopo molti viaggi in giro per l’Asia, hai scelto di trasferirti a Pechino. In che modo questa decisione ha soddisfatto quel vecchio bisogno?
Gabriele
Quando negli anni Novanta facevo lotta politica all’interno del movimento italiano ero sempre molto colpito da come nella nostra esperienza fosse complicato far coesistere la dimensione individuale con quella collettiva. Banalizzando, è come se non ci bastasse né l’una né l’altra, ma quanto a farle coesistere, morire, era la cosa più difficile del mondo: io sono «io» e quindi non sono «noi». Se divento «noi», perdo «io». C’erano risultati anche grotteschi o tragici a seconda dei punti di vista, come le assemblee che diventavano lo show di individualità in competizione tra loro. Negli stessi anni, viaggiavo spesso anche in Oriente, non in Cina ma in altri Paesi, e restavo sempre affascinato da quello che chiamerei sinteticamente «uomo confuciano», cioè un individuo che esisteva come individuo, sì, ma solo in quanto parte di un gruppo, di una collettività. E mi pareva che se la vivessero pure bene, come se per loro si trattasse della natura umana stessa. Volevo approfondire.
Poi ci fu Genova, il trauma, i giorni in cui ci fecero chiaramente intendere che nel momento in cui fossimo diventati forti, quindi pericolosi, ci avrebbero molto semplicemente sparato addosso. Dovevo cambiare prospettiva, compiere un movimento di scarto, perché tutti i temi che avevamo sollevato – questa globalizzazione come dispositivo neoliberista, il bisogno di un altro mondo più amico della terra e dell’uomo in quanto mammifero che vive sulla terra – restavano validi. Ma se fossi rimasto qui avrei solo coltivato il mio odio, avrei sparato pure io oppure avrei cacciato giù a forza la sconfitta chiudendomi nel personale. Dovevo vedere tutto da un altro punto di vista, aprirmi al mondo e quindi mettermi in viaggio per continuare a coltivare il mio comunismo.
Infine, da giornalista, credevo che la Cina e l’Oriente in generale fossero in quel momento un punto di vista privilegiato per leggere il mondo, per raccontare storie.
Quindi avevo una motivazione filosofica, una politica e una professionale per mettermi in viaggio.
Buonanotte signor Mao chiude il cerchio, tira le somme di questo viaggio che, per quanto riguarda la Cina nello specifico, dura da dodici anni; ma che in quanto viaggio iniziatico, politico – eversivo se vuoi – dura da almeno vent’anni. Il viaggio non è finito, chiaramente, si aprono solo altre strade da percorrere. Però, credo che vedere le cose «dall’altra parte» mi abbia già aiutato a capire quali siano le forme di sfruttamento comuni a noi e a quell’altro mondo. Quali le strategie di sopravvivenza. E soprattutto, mi ha aiutato a fare pulizia di tutti quegli «universali» che invece non sono altro che il prodotto della nostra cultura specifica. Per esempio, quando vedo uno come Donald Trump penso immediatamente che in tutto il nord geografico del mondo, dal Pacifico al Pacifico, abbiamo attualmente al comando leader maschi, «machi», teoricamente di rottura ma di fatto cani da guardia del capitalismo: da est a ovest, Abe, Duterte, Xi Jinping, Modi, Putin, i «khan» dell’Asia Centrale, i populisti dell’Europa Orientale, poi c’è una teorica zona franca in Europa occidentale (ma costantemente a rischio) e quindi saltiamo l’Atlantico ed ecco, buon ultimo anche in ordine temporale, Trump. Sono uguali tra loro ma anche diversi. Dove sta la similitudine, dove la differenza?
Questi cavalcano la frustrazione dei delusi della globalizzazione. Quando racconto della ballerina mongola che va a insegnare danza del ventre ai cinesi che odia, o dei pensionati cinesi che si lamentano per gli immigrati a Pechino però importano illegalmente giada dalla Mongolia – tutti nello stesso scompartimento di treno – di fatto racconto di persone che dovrebbero essere i miei compagni di strada, i delusi della globalizzazione che però nella globalizzazione ritagliano le proprie strategie di vita, la nuova working class planetaria. Ma al tempo stesso racconto le mille specificità del mondo, io la chiamo biodiversità proprio per sottolineare la sua componente materiale.
La domanda diventa quindi: come rimettiamo al centro il tema dell’uguaglianza senza annichilire la biodiversità, anzi coltivandola? Credo che sia questa la questione centrale per i prossimi 20-30 anni, quella che ci permetterà di rilanciare un percorso eversivo. Ecco, questo viaggio mi ha permesso di formulare la domanda; l’insoddisfazione sta nella mancanza di risposte. Per ora.
Wu Ming 2
Verso la fine del libro dichiari: «nei miei anni immerso nel “socialismo con caratteristiche cinesi”, ho visto tonnellate di caratteristiche cinesi e sto ancora cercando il socialismo». Forse il socialismo tutto intero no, ma qualche brandello, tra i denti della tigre neoliberista, lo si può trovare? A una prima occhiata, per esempio, non si vedono baraccopoli come in India o altri paesi dell’area. Il brandello di socialismo va cercato nell’edilizia popolare? Un tetto sulla testa per tutti? O è da un’altra parte?
Gabriele
Il «sogno cinese» (zhongguo meng, 中国梦) del presidente Xi Jinping è a mio avviso la creazione di un ceto medio soddisfatto e pacificato da un miliardo e quattrocento milioni di persone. Qui c’è già un elemento socialista, se vuoi, dare il benessere materiale a tutti. Poi, vedo un elemento socialista nel metodo, che è quello scientifico-sperimentale, inserito anche nella costituzione del Partito comunista come contributo del segretario-presidente che ha preceduto Xi Jinping: Hu Jintao. Forse uno dei più significativi elementi di continuità tra la Cina maoista e quella di oggi è l’utilizzo di un metodo «dal punto alla superficie» (youdian daomian, 由点到面) per costruire politica. È alternativo alla nostra liberaldemocrazia di mercato. Fin dagli anni Trenta, quando il Partito comunista doveva attuare la riforma agraria nei villaggi liberati, dava mandato ai quadri locali, che sperimentavano sul campo e trovavano una soluzione: il metodo più efficace diventava poi il modello generale, che veniva esteso anche agli altri villaggi. Dal punto alla superficie. Quindi l’avanguardia rivoluzionaria decide l’indirizzo generale, che poi si articola nella specificità locale. Idem oggi: a Pechino lanciano un messaggio che si diffonde come i cerchi nell’acqua, i funzionari locali competono per tradurlo nello specifico, perché poi la loro carriera dipende da quanto sono stati efficaci. Certo, un metodo del genere presuppone funzionari moralmente integri, che lavorino per la causa oltre che per se stessi. Secondo me, la grande campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping appena è salito al potere è anche un metodo per ripristinare questo meccanismo; non solo, come dicono tanti, per far fuori i propri avversari politici.
Ovviamente, affermo tutto questo con beneficio di inventario, cercando di intravedere una logica nel metodo alla cinese. Per altri, invece, nel Partito c’è semplicemente un procedere per tentativi cercando di restare incollati alla poltrona. Il bello è che una cosa non esclude l’altra, possono coesistere tranquillamente. Tieni presente che ogni volta che azzardo una sintesi, una spiegazione sulla Cina, dopo cinque minuti mi sento un emerito imbecille, perché salta fuori quel dettaglio che cambia le carte in tavola. Per quello, quando mi invitano nelle scuole dico sempre ai ragazzi di non credere a quelli che «spiegano» loro la Cina, i tromboni che da lontano hanno sempre una ineffabile chiave di lettura. Io preferisco raccontare le storie e dare degli indizi che mi sembrano significativi, anche se per forza di cose ogni tanto devi provare a spiegare un po’. Poi ognuno tragga le sue conclusioni.
Ciò che mi sento di dire è però che il Partito comunista governa con il consenso, è ossessionato dal consenso, forse più dei nostri governanti democratici. E il consenso si basa sulla sua capacità di offrire benessere.
Wu Ming 2
Anche il neoliberismo del Paese di Mezzo ha «caratteristiche cinesi». Ho trovato molto interessante il discorso che fai a più riprese sull’urbanistica, le cosiddette città-contea e i piani per riordinare un paese che presto avrà una middle-class da seicento milioni di individui. Queste nuove città di provincia vengono definite «a misura d’uomo», ecosostenibili, «di qualità». Come si stanno diffondendo queste parole nel capitalismo cinese? Comincia a farsi strada una retorica green, e più in generale l’idea che il dogma guadagna-guadagna/compra-compra vada ripulito, lavato, giustificato? Te lo chiedo perché in altri passaggi racconti invece che «i cinesi sono meno ipocriti», cioè non sentono il bisogno di nascondere o infiocchettare la voracità del capitalismo. E questo in effetti è quel che salta agli occhi visitando il paese per qualche settimana: se un antico tempio è un’attrazione turistica, avrà tutt’attorno un centro commerciale che imita lo stile architettonico del tempio stesso. Se lo scopo della vita è consumare merci, perché non abitare direttamente dentro un centro commerciale, che contiene appartamenti, al pari di negozi e ristoranti? Perché separare i grandi shopping mall dalle zone residenziali?
Gabriele
Il problema è ancora una volta quello di dare benessere evitando il caos che porterebbe allo smembramento della Cina. Per sintetizzare all’estremo, il metodo che si sono dati negli ultimi trent’anni è quello della cosiddetta «fabbrica del mondo». Un metodo che però ormai è insostenibile per ragioni ecologiche, sociali, economiche. Quindi il problema è: come continuare a crescere senza distruggere noi stessi e il pianeta? Hanno visto che il tasso di urbanizzazione della Cina è intorno al 55 per cento, mentre quello delle economie più avanzate è attorno all’80-90 per cento e hanno identificato in una «nuova urbanizzazione» il dispositivo per fare il salto definitivo nel club dei ricchi, perché l’urbanizzazione mette in gioco energie nuove, lavoro immateriale, crea conoscenze, scambio, nuovi lavori. Però non possono andare avanti con la triade carbone-cemento-acciaio e devono anche decongestionare le megalopoli, costruendo le famose città «a misura d’uomo», in cui spedire i migranti interni (mingong, 民工) che sono stati la forza lavoro, la benzina nel motore cinese, coloro che hanno dato tanto avendo in cambio poco. E vogliono che queste città siano «verdi», tecnologiche, sostenibili.
Questo se si vuole intravedere un tentativo virtuoso. Dopo di che, andando a mettere il naso nelle pieghe di questo processo vedi come sia anche un grande disegno di ingegneria sociale. Vedi come i xin gongren (新工人) – i nuovi lavoratori, perché è così che molti vogliono farsi chiamare, non più semplici «migranti» – siano sempre più espulsi dal centro delle maggiori città, ma tenuti al tempo stesso a tiro di ferrovia veloce come forza lavoro disponibile. Vedi come aumentano le diseguaglianze. Vedi come compartimentare la Cina in città di prima, seconda, terza fascia sia anche un modo di esercitare il controllo. Vedi come le colate di cemento continuino. E così via.
Wu Ming 2
Nel libro ci sono anche capitoli ambientati fuori dalla Cina (Iran, Myanmar, Mongolia…) Perché hai deciso di inserirli e cosa li lega al nucleo «cinese» del libro e al suo titolo?
Gabriele
Pechino è sempre stata per me un campo base da cui partire per le diverse frontiere cinesi e non, anche se l’ho scelta e amata come «casa». Nella stesura del libro, l’editor Adriano Masci ha insistito molto perché scrivessi soprattutto di Pechino come filo conduttore, mentre io inizialmente avrei privilegiato soprattutto il viaggiare, l’altrove. Aveva ragione lui, credo che siamo riusciti a costruire un nucleo da cui si diramano vie di fuga, un dentro-fuori continuo. Ho escluso alcune esperienze fatte «fuori», per esempio in Asia Centrale. Quelle compariranno in un prossimo progetto, se ci saranno le condizioni materiali per farlo.
La Mongolia per me è un altro-altro. Cioè, se la Cina è il grande-altro rispetto a noi, la Mongolia è il piccolo-altro, per quanto «piccolo» possa essere un Paese grande come sette Italie. E mi serviva anche come contrappunto alla Cina, perché non ho mai visto due Paesi così vicini e così lontani tra loro come la Cina e la Mongolia. E poi la amo, c’è poco da fare.
Un capitolo anomalo è quello sull’Iran. Perché l’Iran? Che c’entra? Se noti, è circa a metà del libro. Mi serve da spartiacque. L’Iran, con la sua bellezza e profondità, con le sue contaminazioni, è per me il confine tra «noi» e «loro», il luogo in cui riprendo fiato e rifletto. Mi serviva questo capitolo evocativo lì in mezzo.
Wu Ming 2
In nessun altro paese del mondo ho visto un popolo altrettanto stregato dal cellulare. Nemmeno in Italia. Tra l’altro, con un tipo di fruizione piuttosto diversa: mentre da noi, se sbirci gli schermi, vedi soprattutto social network, Whatsapp, musica, siti, in Cina trovi giochi e filmati. In questi anni di boom dei dispositivi mobili, che idea ti sei fatto del fenomeno? Perché i cinesi sono rimasti così mesmerizzati da giochi di ruolo on line, porno, azzardo e video di ogni genere? C’è qualche punto di contatto con il fenomeno degli «otaku» giapponesi? E come viene vissuto il problema?
Gabriele
Nel capitolo sul centro di rieducazione per i tossici di internet provo a rispondere a qualcuna di queste domande. C’è una generazione che subisce una pressione enorme per avere successo nella vita, per dare soddisfazione ai genitori nell’ambito della famiglia confuciana, per corrispondere alle aspettative di ciò che deve essere un buon cinese. Inoltre, in Cina internet è molto più «mobile» che da noi, perché il telefonino è il dispositivo più a portata di mano per connettere un Paese così grande dove convivono primo, secondo e terzo mondo. Quindi credo che il mondo virtuale diventi sia un occasione di business sia una via di fuga pret-à-porter che, in quanto soprattutto mobile, puoi portarti ovunque, ventiquattr’ore al giorno. Da un lato c’è il successo di WeChat, dall’altro la ditou zu (低頭族), la “tribù delle teste basse”, ovvero di chi sta sempre chinato sullo schermo dello smartphone, su cui cominciano anche a comparire articoli preoccupati.
La cosa che mi ha colpito di più è che finché un giovane se ne sta tranquillo, attaccato al computer o al telefonino anche dodici ore al giorno, le famiglie tendono a non vedere il problema: starà studiando, starà imparando, starà sgomitando per ritagliarsi la propria posizione nel mondo. Poi, quando va fuori di testa e assume comportamenti devianti secondo caratteristiche cinesi, cioè risponde male o si ribella in famiglia, ecco che il problema esplode in tutta la sua evidenza. Comunque vedo molte analogie con l’Italia, anche se in Cina tutto assume una dimensione geometrica.
Wu Ming 2
Scrivi che Hong Kong rappresenta un esempio di perfetta alleanza tra il neoliberismo all’ennesima potenza e il socialismo di mercato al governo in Cina. Ma quest’alleanza non vale già per l’intero paese? Cosa c’è di diverso a HK, oltre alla mania di sterilizzare tutto ogni due ore, compresi i tasti dell’ascensore?
Gabriele
Hong Kong ha costruito le proprie fortune, direi la propria identità, su tutto ciò che era vietato in Cina, in bene e in male: l’oppio, il capitalismo, l’apporto dei rifugiati cinesi che ci sono arrivati a diverse ondate e in diversi momenti del Novecento. Oggi subisce una crisi identitaria, perché poli come Shenzhen, che è giusto alle sue spalle, e Shanghai, che la minaccia come hub finanziario dell’estremo Oriente, le stanno togliendo la sua specificità. In più, dopo l’handover del 1997, la locale elite ha stretto una sorta di «patto scellerato» con il Partito comunista cinese, per cui può continuare a speculare e a fare business in cambio della fedeltà alla «madrepatria». Quando il portuale in sciopero mi dice che la loro paura è che il boss Li Ka-shing sposti semplicemente il carico-scarico di merci a Shenzhen, sintetizza bene sia questa alleanza tra i tycoon locali e il Partito formalmente comunista, sia la psicosi degli hongkonghini che avvertono l’ombra di un gigante, la Cina, che incombe alle loro spalle. Il senso di pressione è acuito dalle migliaia di cinesi continentali che ormai si riversano a Hong Kong come turisti, come frontalieri, come businessman, facendo schizzare ulteriormente in alto i prezzi degli alloggi, già folli, e «occupando» parte del welfare retaggio dell’amministrazione britannica, come la sanità. Così, ed è ciò che si è visto nel movimento degli ombrelli del 2014, gli hongkonghini hanno da un lato riscoperto la politica, dall’altro cominciato a maturare pulsioni «leghiste», che si sintetizzano nei gruppuscoli cosiddetti «nativisti» che sostengono di non essere cinesi, bensì hongkonghini. Il movimento del 2014 utilizzava la parola d’ordine del suffragio universale promesso e poi negato da Pechino, ma il suffragio universale a Hong Kong non c’è mai stato, l’attuale sistema in cui di fatto le decisioni sono prese da una consorteria di notabili è ereditato al cento per cento dalla colonizzazione britannica. Ma dietro al movimento c’era un non detto molto più profondo, la paura di perdere sia il benessere materiale sia i diritti civili, come la libertà di stampa e di parola, di essere inghiottiti dalla Cina, di diventare una delle tante città cinesi del continente.
Purtroppo, la sconfitta di Occupy Hong Kong dovuta a tanti fattori interni ed esterni, la delusione, la disperazione, hanno come sempre accade lasciato in eredità i nativisti e non le componenti di sinistra, il che fa del tutto il gioco di Pechino. Perché chi reclama l’indipendenza dalla Cina si mette automaticamente fuori legge e giustifica la repressione. Tant’è che molti compagni di Hong Kong pensano che tra nativisti e governo cinese ci sia di fatto una complicità, ma sinceramente non so quanto ciò sia frutto di paranoia complottista e quanto invece sia vero. Va detto che, da quanto ne so, gli stessi gruppi simil-leghisti sono male in arnese, divisi, incapaci di fare politica vera se non abbaiando su internet. Il che è perfetto per Pechino: hai il capro espiatorio brutto e cattivo, ma innocuo.
In tutto questo, trovo che la maggior parte dei corporate media occidentali abbia raccontato il movimento del 2014 tirando acqua al proprio mulino «liberal», enfatizzando cioè le componenti puramente ideologiche e politiche – la sacralità della democrazia elettorale – ed eludendo ad arte la richiesta materiale che ci stava sotto, il potenziale radicale. Per carità, bisogna mettere nell’angolo la Cina sul piano dei diritti e rivendicare la propria superiorità morale, ma guai a toccare il capitalismo.
Wu Ming 2
In un capitolo illustri la «microfisica della censura», e il passaggio dal sistema della «valvola di sfogo» a un controllo più rigido. Leggendo, pensavo che alcune forme di questa microfisica non sono poi tanto diverse in Italia, penso alla censura economica, all’autocensura… Tu riporti interviste con artisti, cineasti, gente sensibile al problema. Ma che percezione ha della censura il cinese nato tra gli ’80 e i ’90, che tu descrivi come dedito ad arricchirsi e a vivere solo e soltanto nel presente?
Gabriele
I cosiddetti balinghou (八零后) e jiulinghou (九零后), i nati negli anni Ottanta e Novanta, sono spesso descritti come una massa di decerebrati, ma vedo che lo stesso accade con i millenials nostrani, quindi niente di nuovo. Io credo che proliferino invece forme di eversione, di microribellioni. Ci sono gruppi di xin gongren, di lavoratori migranti, che si federano e sperimentano forme di cooperazione. Ci sono proto-sindacati travestiti da Ong. Ci sono ribellioni individuali, come quella dell’ultima generazione di migranti «infedeli» al luogo di lavoro, che dall’oggi al domani mollano il padrone e la fabbrica per andare dove hanno un’offerta migliore. C’è anche la percezione della censura, eccome, ma mi sembra che sia considerata come una condizione quasi naturale all’interno della quale trovare vie d’uscita. Si gioca a guardie e ladri con i censori. Così per esempio si è sviluppata una neolingua su internet per aggirare il controllo che, attenzione, non è solo il controllo della censura, ma anche di tua madre piuttosto che dei tuoi professori. È un fenomeno molto interessante quello del linguaggio «marziano» (huo xing wen, 火星文), reso possibile dalle peculiarità della lingua cinese, che ti consente di giocare sia con i caratteri sia con la fonetica, sia con i significati, aggiungendoci anche lettere occidentali e numeri, in un imbastardimento totale che può essere compreso solo se sei già un iniziato, parte di una comunità online. Io ovviamente non ci capisco niente, non mi ci metto neppure, però giusto per fare un esempio ho scoperto che ultimamente si faceva riferimento al massacro di Tian’anmen scrivendo «7-1, 5-1», cioè praticamente 6/4, il 4 giugno (1989).
A seconda dell’acuirsi del controllo, il «marziano» torna più o meno in auge.
Quindi, si tratta di un dissenso virale rispetto a una condizione che però è considerata quasi «naturale».
Wu Ming 2
Tracci spesso dei parallelismi tra fasi economiche che l’Italia ha già vissuto e l’attuale Grande Transizione cinese. «Il popolo delle partite IVA», i giovani che lavorano come Pony Express, il boom delle piccole fabbriche nel Triveneto. C’è invece, al contempo, qualche esperimento cinese che ci mostra un futuro prossimo per l’Italia?
Gabriele
In questi giorni compaiono nelle nostre città le biciclette del ridesharing, Mobike e prossimamente Ofo. Sono un prodotto cinese che laggiù ha letteralmente cambiato il paesaggio urbano delle maggiori città. Nel giro di un annetto scarso, a Pechino, siamo passati dal predominio assoluto dell’automobile a marciapiedi cosparsi di biciclette argento, gialle, blu. È come se fossero arrivati in ritardo nell’era della motorizzazione ma ci fossero passati attraverso più velocemente di noi e ora si gettassero ancora più velocemente nell’era del trasporto sostenibile. In parte è vero, ma in parte no, perché in Cina – come per altro dicono i lader di Pechino – convivono primo, secondo e terzo mondo, così come convivono epoche e fasi dello sviluppo diverse, il tutto su scala enorme. Così continuiamo ad avere strade intasate dalle auto e al tempo stesso marciapiedi intasati dalle biciclette nonché hutong intasati di tipi che circolano su queste bici tutte uguali a due all’ora, andando a zigzag e guardando per aria, quindi scatenando le mie bestemmie perché rischio sempre di travolgerli mentre pedalo con la mia, di bici. Ma il punto fondamentale è che questa accelerazione adesso viene esportata, con il ridesharing. Qual è il suo modello di business? Attualmente, il prezzo del servizio non copre assolutamente i costi fissi per l’impresa, è un business in perdita lanciato dai grandi investimenti delle maggiori imprese IT, Alibaba e Tencent. Qulcuno dice che sia uno schema Ponzi che si basa sui depositi che gli utenti devono lasciare per iscriversi al servizio, perché il prezzo orario dell’utilizzo di una bicicletta invece è irrisorio, ma io mi sono informato con chi lavora nel settore e la spiegazione è stata: i big data. Le centinaia di migliaia di biciclette sparse per le città servono a raccogliere dati su chi le usa, noi. Chi siamo, come e dove ci muoviamo, quali posti frequentiamo, quali flussi attraversano le metropoli e chissà cos’altro. Ora il servizio sbarca in Italia dopo che è già sbarcato in altri Paesi e pare che dietro il vantaggio competitivo che ha assunto Mobike rispetto ai concorrenti ci sia lo zampino del PD renziano (non a caso, Firenze è la città, con Milano, dove le biciclette hanno debuttato). Come saremo tutelati nelle informazioni che ci riguardano? Che uso si farà di quelle informazioni? Certo, io capisco quelli che rispondono «ma tanto siamo già mappati nelle mille altre attività che facciamo», però è interessante che la nuova frontiera in questo settore arrivi dalla Cina sotto la veste sorridente del viaggiare pulito.
Un’altra convergenza io la vedo nelle forme politiche. La Cina ha imposto alcuni suoi standard. Per esempio, il fatto che i politici non siano tenuti a rispondere di ciò che fanno alla stampa, in quanto «quarto potere» che informa il cittadino, che monitora il loro agire. Sono rimasto molto colpito quando il presidente Mattarella è venuto a Pechino in pompa magna e il Quirinale non ha previsto, né concesso dietro richiesta, alcun punto stampa ai giornalisti. È un piccolo-grande esempio che però a mio avviso rivela un trend generalizzato. Noi dobbiamo fare marketing, non informazione e tanto meno contropotere.
Wu Ming 2
I capitoli del libro sono costruiti in maniera narrativa, senza che questo limiti il contenuto giornalistico. Come sei arrivato a questa scelta e come hai lavorato per modellare i tuopi appunti «da reporter» in un formato da cantastorie?
Gabriele
All’inizio doveva essere solo la raccolta dei miei reportage degli ultimi dieci anni. Poi, con l’editore Milieu e con l’editor, Adriano Masci, abbiamo deciso di dare all’operazione una forma più narrativa. E quindi, come spiego nei ringraziamenti finali, sono tornato ai miei taccuini, a vecchi articoli scomparsi nei meandri della rete, ho recuperato particolari inediti. Poi ho introdotto la prima persona nella narrazione, cioè quello che nell’articolo giornalistico fuggo invece come la peste tranne che in un formato particolare come le «letterine» che scrivo per Internazionale. Quindi abbiamo scelto di scrivere tutti i pezzi su Pechino al presente e quelli sulle «vie di fuga» al passato, a prescindere dalla datazione effettiva, il che dovrebbe dare un certo dinamismo alla narrazione, un continuo rimbalzo tra oggi e ieri, dentro e fuori. Io e Adriano ci siamo davvero spaccati la testa, a un certo punto mi ha detto «oh, pensavo fosse più facile», ma credo che molto dipenda dal fatto che la maggior parte del materiale grezzo aveva già una sua forma definita, quella dell’articolo, quindi era più difficile da modificare. Ho in mente il prossimo progetto, che farò se ci saranno le condizioni materiali per farlo, e quello nascerà già con l’idea del libro. Sai, il reportage è come il maiale, non si butta via nulla: fai quello scritto, quello audio, quello video e adesso ci metto pure il capitolo di libro, tutti concepiti diversi tra loro. Noi, merce svalutata sul mercato del lavoro, dobbiamo essere multitasking, come si dice.
Wu Ming 2
In Occidente vende bene un certo ritratto di dissidente cinese. Dal tuo punto di vista, chi sono oggi i principali oppositori del regime? Chi introduce nel sistema quel conflitto, tolto il quale resta solo il Capitale (per riprendere la tua citazione di Franco Fortini)?
Gabriele
C’è dissidente e dissidente, non sono un grande cacciatore di dissidenti, perché dovrei fare quello che fanno già il Guardian e il New York Times e che poi i media nostrani riprendono aggiungendoci un pizzico di bello stile? Poi finisce che contribuisco pure io a creare il mito di Ai Weiwei che, come tutti i miti, finisce per fagocitare ogni discorso e a occultare con la sua luce tutto l’underworld. E il potere cinese non è scemo, quindi Ai Weiwei diventa l’icona giusta al momento giusto, ottiene il passaporto, se ne va all’estero, comincia ad assumere atteggiamenti messianici tipo Bono degli U2, se la prende con la Lego perché non gli dà i mattoncini per fare un’installazione, si butta per terra su una spiaggia scimmiottando il piccolo Alan Kurdi, l’Occidente rispolvera per cinque minuti i propri sensi di colpa e tutto finisce lì. Ciao, grazie, ho una mostra a Sidney, scusate.
Indubbiamente, negli anni di Xi Jinping, c’è stato un giro di vite sui diritti umani. Il caso degli avvocati Weiquan è lampante, così come l’acuirsi del controllo in Xinjiang e la vicenda di Ilham Tohti, l’intellettuale uiguro accusato di separatismo e condannato all’ergastolo. Analizzando i casi più eclatanti, mi par di capire che le figure giudicate più pericolose sono quelle che cercano di creare aggregazione politica fuori dal Partito, che hanno contatti con organizzazioni straniere che magari li finanziano e quelli che mettono in discussione il modello di sviluppo. Il problema è che i media nostrani beatificano le prime due categorie, che trovano una sintesi nella figura di Liu Xiaobo, recentemente scomparso.
Del tutto ignorata è la terza componente perché, ancora una volta, si attacca la Cina da un pulpito morale, ma guai a mettere in discussione il modello neoliberista. Così, per esempio, gli uiguri diventano quelli perseguitati per motivi etnici e religiosi, ma nessuno va a vedere il problema di come lo Xinjiang sia l’hub di partenza della nuova via della Seta e quindi come le comunità siano investite dalle grandi opere, dall’idea di libero mercato, dalla fine della civiltà tradizionali senza che sia preservata la biodiversità di cui erano portatrici. Un giovane uiguro che parte svantaggiato sul mercato del lavoro come può abbracciare il grande sogno cinese? Di nuovo, credo che il nostro problema a livello globale sia quello di riportare l’eguaglianza al centro del discorso, perché non esiste libertà sensa eguaglianza, se non quella d’impresa. E capire come coniugare questa nuova eguaglianza con la biodiversità del mondo, che è il presupposto del suo divenire.
***
Buonanotte signor Mao, alcune date del tour:
Conosco Gabriele da quando andavamo alle elementari e vi leggo più o meno da due decenni: è stato lui a farmi conoscere Luther Blisset ai tempi del Bulk e poi, molti anni dopo, sono stato con lui a Pechino e nel Gansu, una remota provincia cinese. In bicicletta, in treno, a piedi l’ho ascoltato raccontare storie che ho ritrovato in Buonanotte signor Mao. Ho letto questo libro e sto già pensando di rileggerlo, anzi lo sto già rileggendo saltando qua e là da un capitolo all’altro, alla ricerca di quello che mi è piaciuto di più, di ciò che ho capito meno alla prima lettura, di ciò che mi ha affascinato, di ciò che mi ha sorpreso. E lo sto consigliando. Perché non ci sono cazzi: è un bel libro, un bel U.N.O. Siamo amici, è vero, ma anche per questo posso testimoniare che il suo giornalismo narrativo è diverso dallo sguardo dei “tromboni” che propongono le loro sintesi e non si nutrono della fenomenologia che scaturisce dal vissuto quotidiano. Abbiamo tutti bisogno di capire la Cina e l’oriente, questo altro che sta facendo i conti con il proprio altro che siamo anche noi e lo sta facendo a modo suo, come sempre. È una sfida difficile e complessa e solo una prospettiva interna, in prima persona, può sperare di affrontarla. Buonanotte signor Mao non è la storia errante della fuga da Genova, è piuttosto un affrancamento delle zone rosse di ieri e di oggi che apre al nomadismo intellettuale per tentare di leggere ancora la globalizzazione, ma da un punto di vista molto avanzato. Di questo racconto della Cina e dintorni mi impressionano soprattutto la dimensione e la velocità dei processi: c’è un’accelerazione dei cambiamenti innescati dall’accesso al mercato che, mentre pensi alle analogie tra ciò che accade là e ciò che si è già visto da noi, ti rimbalza subito in avanti e ti chiedi cosa succederà domani. È lo schiudersi di questa domanda e l’entità vertiginosa delle risposte possibili il senso di questo libro e la ragion d’essere del (speriamo) prossimo.
Interessante, grazie del post.
Noto parecchia della vostra tipica spocchia nello smontare la visione propagata dai media “mainstream” nostrani, e come al solito sono combattuto tra il fastidio per come le mette(te) giù e l’apparente inoppugnabilità dei ragionamenti. Mi spaventa un po’ la leggerezza con cui affronta l’assenza di uno stato di diritto, ma immagino (senza ironia) che il mio stupore sia dovuto almeno in parte al fatto che, volente o nolente, quello che so della Cina è fortemente filtrato dalla visione del mondo che abbiamo in occidente.
(Vi leggo da anni ma questo è il mio primo commento. Yay!)
Ciao, grazie del commento, in realtà la Cina ha una lunga tradizione giuridica, basti pensare che una delle grandi scuole politiche dell’antichità si chiamava legismo. Il problema, se parliamo di “stato di diritto”, è che se assumiamo la distinzione anglosassone tra Rule of Law e Rule by Law – in cinese “fazhi zhiguo” e “yifa zhiguo” – la Cina sceglie la seconda opzione: la legge come strumento di governo, non la legge al di sopra del governo. Quindi il Partito, moderno imperatore collettivo, usa la legge per governare, ma la legge non si pone al di sopra del Partito. Questo è del tutto coerente con lo spirito profondamente confuciano (governo dell’uomo moralmente integro e non governo della legge).
Le contraddizioni di un sistema del genere sono evidenti: l’individuo non può impugnare la legge “contro” il governo e questo dà luogo ad arbitri. Tuttavia, si sono resi sempre più conto che questi arbitri (soprattutto da parte di funzionari locali) bloccano il sistema e sono destabilizzanti perché alienano la gente dal Partito. Allora sostituiscono il rule of law con una misura tipicamente confuciana: la campagna anticorruzione (cioè il ripristino dell’ordine morale) che ha già portato in galera migliaia di funzionari corrotti. Al di là di tutto, ho il sospetto che questo meccanismo sia più connaturato alla cultura cinese.
Aggiungo un’ulteriore osservazione. Ho un amico giurista (accademico) che lavora molto con la Cina. Spesso partecipa a questi convegni internazionali dove i giuristi di tutto il mondo si scambiano idee ed esperienze. Ogni volta, gli europei tirano in ballo la pena di morte: è ingiusta. dovete abolirla, etc etc. I cinesi rispondono: ma come? Prima ci dite che dobbiamo rispettare il volere del popolo, la maggioranza dei cinesi vuole la pensa di morte, quindi quando lo rispettiamo voi ci dite che sbagliamo lo stesso. In effetti, qui ci rigettano la palla. Dobbiamo pensare che alcune conquiste sono frutto della nostra specifica storia europea e probabilmente valorizzarle ancor più proprio in quanto tali, ma non diamo per scontato che siano universalizzabili. La Cina persegue una sua strada giuridica e noi possiamo solo osservare quanto e come evolva, quanto corrisponda al bene comune. Per esempio, la riduzione costante e progressiva dei reati che prevedono la pena di morte è un buon segno; l’incarcerazione degli avvocati “weiquan” (per i diritti), no. Ma è tutto molto scivoloso. In questi giorni dalle nostre parti assistiamo all’applicazione della legge che si traduce nell’occupazione violenta dei seggi da parte della polizia.
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