Note su Predappio, il progetto di museo nell’ex-Casa del Fascio, i monumenti, la violenza neofascista, la Legge Fiano e altro
di Wu Ming 1
[Se non hai letto la prima puntata, eccola qui.]
INDICE DELLA SECONDA PUNTATA
1. In marcia verso il museo
2. Frassineide
«Durante la presentazione dei diari di Mussolini a Predappio, quando uno dei relatori ha consigliato a un altro di non sentirsi in dovere di essere sempre, in ogni momento, antifascista […] dal settore della sala dove c’erano sindaco e consiglieri è partito un forte applauso, l’unico a scena aperta.» Fondazione Alfred Lewin *
«I frammenti del nostro passato occidentale, culturale e ideologico, di cui il fascismo si servì per i propri scopi, sono pronti e attendono ancora di essere plasmati in una nuova sintesi, anche se in modo diverso. Il nazionalismo, la forza essenziale che in primo luogo rese possibile il fascismo, non solo sopravvive ma acquista vigore: è sempre la principale forza coesiva tra i popoli e le nazioni. Quegli ideali di politica di massa su cui il fascismo costruì il suo stile politico sono vivissimi, pronti ad assorbire e a sfruttare i miti idonei.» George L. Mosse **
«Mi pare che scegliere Predappio [per un museo del fascismo] sia proprio andare in cerca di rogne.» Mario Isnenghi ***
1. In marcia verso il museo
L’Ex-Casa del Fascio — e dell’Ospitalità — di Predappio, progettata da Arnaldo Fuzzi e terminata nel 1937, sorge di fronte alla caserma dei carabinieri, tra la casa natale di Mussolini, che è mezzo chilometro più a nord, e la sua tomba, che è un chilometro e mezzo più a sud.
Nel 2010 l’edificio è stato dichiarato «bene di interesse culturale», ma versa ancora in stato di abbandono. Dopo la guerra, i suoi spazi furono adibiti a vari usi: sede della Guardia Forestale, officine artigianali, magazzini… Per un certo periodo ospitò anche la Casa del Popolo e la Camera del Lavoro locali. Come ha ricordato lo storico Mario Isnenghi:
«Nel ’45 molte di queste case del fascio sono diventate case del popolo, come a suo tempo le case del popolo erano diventate case del fascio; questo fa parte della guerriglia politica. Nelle nostre città, che lo sappiamo o no, ci aggiriamo continuamente fra le macerie di antiche guerriglie politiche, guerre semiologiche in cui gli ex conventi sono stati espropriati dal benemerito Napoleone e sono diventate caserme o scuole, magari [intitolate] a Giordano Bruno o a Paolo Sarpi o a Galileo Galilei, all’interno cioè di una lotta dello stato laico contro la tradizione clericale. Questo è fisiologico.
Naturalmente spetta poi agli storici contribuire alla costruzione di una coscienza pubblica diffusa di questo processo dentro cui molti nostri concittadini si possono aggirare senza averne piena coscienza, così come ci aggiriamo in una nomenclatura viaria che via via perde di significato.»
Di ristrutturare l’ex-Casa del Fascio per farci un museo e centro studi sul fascismo — o sull’«Italia totalitaria», come da perifrasi ufficiale — si parla dal 2011, ma è solo dal febbraio 2016 che il dibattito si è arroventato, cioè dopo l’intervento dell’allora governo Renzi, che promise di stanziare due milioni di euro.
L’idea del museo è unanimemente attribuita al sindaco Giorgio Frassineti, «civico» del PD in carica dal 2009. Frassineti si definisce «un renziano di ferro», e con tale ferro ha impresso sul progetto e sulla discussione il marchio del proprio irruento carattere.
Fin dai primi annunci lo scopo dichiarato — o almeno quello dichiarato con maggiore frequenza — è contendere ai neofascisti la memoria pubblica e l’immagine di Predappio, contrastare il becerume «nostalgico» con un progetto serio e di spessore scientifico, opporre al Mito la forza della ragione.
Ma la proposta incontra subito resistenze, e non solo nel mondo degli storici. Alle orecchie di molti, l’idea di un museo del fascismo in una simile cornice — nel senso duplice di contesto architettonico e frame cognitivo — suona, se non intenzionalmente apologetica, perlomeno sventata.
L’obiezione principale è questa: anche a prescindere da allestimenti e contenuti, un museo del fascismo a Predappio sarebbe a forte rischio di subordinazione alla cornice, nel qual caso sarebbe solo un contributo in più all’evocazione del mito mussoliniano, con la plausibile conseguenza di rafforzare anziché indebolire lo spirito del luogo (Bennywise).
Nella migliore delle ipotesi, una realizzazione inutile ai fini dichiarati; nella peggiore, una realizzazione dannosa.
Frassineti, però, ha già deciso, annuncia che andrà avanti per la sua strada e incassa anche l’incoraggiamento di Luca Bartolini, consigliere regionale del PdL, di provenienza AN. Uno che — cito dal suo sito ufficiale — si è avvicinato alla politica «a 16 anni, quando per la prima volta ha assistito ad un comizio tenuto da Giorgio Almirante a Borello di Cesena». Bartolini dichiara:
«Davanti ai progetti importanti anche gli steccati d’appartenenza politica cadono: centrodestra e centrosinistra possono, anzi devono, lavorare fianco a fianco per il bene della comunità […] Lancio una proposta al sindaco di Predappio: andiamo a Roma, assieme, per chiedere con forza che sia riservata la giusta attenzione e le adeguate risorse a questo progetto.»
A dispetto del fine dichiarato, dunque, l’idea di Frassineti riscuote subito consensi a destra.
L’ex-Casa del Fascio è di proprietà del demanio. Si tratta di farla passare al Comune, ottenere i necessari finanziamenti, commissionare un progetto di ristrutturazione e un progetto museografico, appaltare i lavori… Ma prima di tutto, bisogna convincere — in ordine crescente di importanza — gli “esperti”, l’opinione pubblica e i cordoni della borsa.
Per affinare l’approccio e superare l’ostacolo, il sindaco si rivolge a storici, architetti e operatori culturali. In particolare, chiama come consulente il forlivese Carlo Giunchi, professionista capace e stimato, indubbiamente antifascista e molto critico — anche in polemica con lo stesso Frassineti — verso precedenti recuperi del patrimonio del ventennio.
Giunchi sarà il primo garante della serietà dell’operazione. O, come diranno i maliziosi, la prima foglia di fico.
Frassineti ottiene anche le disponibilità di storici e altri intellettuali, che riunisce in un «comitato consultivo». Tra i componenti, Marcello Flores, Giovanni Gozzini e il predappiese Vittorio Emiliani.
Nel giugno 2015 il comitato sigla un documento intitolato «Linee guida per il progetto del museo storico previsto nell’ambito del riuso dell’ex-Casa del Fascio e dell’Ospitalità di Predappio».
Il documento rassicura ben poca gente. Come si capisce fin dal titolo, è un testo vergato in uno stile involuto, come per avvolgere in spire ipotattiche linee guida piuttosto vaghe. Si capisce, certo, che il nuovo museo dovrà essere un «progetto d’avanguardia», e oltre a trasmettere conoscenze storiche dovrà, grazie alle «nuove tecnologie», «creare emozioni»; per il resto, una lettura tediosa, punteggiata ogni tanto da baluginii di concetti allarmanti, o almeno formulazioni maldestre. Ad esempio, la decisione di fare il museo va inserita
«in un processo in corso in tutta Europa di ripensare i musei storici e la costruzione di una memoria pubblica condivisa attorno a fatti ed eventi che sono stati profondamente significativi per il loro valore simbolico e politico e per il richiamo a un’epoca tragica e difficile della storia europea […] Un museo storico non è mai, se concepito e realizzato con criteri moderni, una celebrazione di un “punto di vista” della storia, né di quello che ha vinto, ma neppure di quello più “giusto”; bensì lo strumento per comprendere la storia e interagire con essa sulla base delle conoscenze, dei valori, dei problemi del presente.
La «memoria condivisa». Dove si era già sentita questa formula? E «il punto di vista di chi ha vinto», «giusto» messo tra virgolette, l’espressione passepartout «criteri moderni»…
Nel settembre 2015 il Comune diviene proprietario dell’ex-Casa del Fascio. «Avremo 2.700 metri quadrati calpestabili, con una torre alta quaranta metri, e tre piani circondati di marmi», dichiara Frassineti. E aggiunge: «Renzi mi ha detto: “vai avanti”.»
[Quest’ultima dichiarazione è uscita sul Venerdì di Repubblica. Purtroppo l’articolo è presente in rete soltanto su Dagospia.]
Il 29 gennaio 2016 arriva a Predappio Luca Lotti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. La visita si svolge in un fitto riserbo, ma due settimane dopo La Stampa ne dà notizia in un articolo intitolato «Due milioni dal governo per il museo sul fascismo».
Le polemiche si riaccendono all’istante. Antonio Funiciello, portavoce di Lotti e — secondo una definizione riportata da Lettera 43 — «intellettuale per eccellenza del renzismo», tenta di smorzarle con una serie di sfumature, circonlocuzioni e distinguo. Intervistato da Il Giornale dichiara:
«Non so da dove sia venuta fuori questa formula del museo. Il pezzo della Stampa è abbastanza impreciso. In realtà non c’è nessun progetto specifico sul Duce [sic] e il Fascismo, ma un programma ben più ampio sul 900 in cui ovviamente troverà posto anche la storia del Ventennio […] Nella vecchia Casa del Fascio vorremmo costruire un centro polivalente, che comprenda da una parte un polo museale sulla storia della prima metà del Novecento – dall’età giolittiana alla Costituzione – e dall’altro un centro studi di alta professionalità scientifica, collegato alla ricerca universitaria.»
Peccato che tale descrizione contrasti con quella che si desume da decine di dichiarazioni di Frassineti, dalle stesse «linee guida» del progetto e dall’appello firmato da Flores, Gozzini et alii. Dal principio, si è sempre parlato di un museo sul fascismo.
L’operazione sembra inserirsi nel solco ventennale che ha condotto dalla «memoria condivisa» al «Partito della Nazione», dall’apertura ai «ragazzi di Salò» ai numerosi esempi di «inciuci» bipartisan sulla memoria. Un processo che ha visto la “sinistra” cedere chilometro dopo chilometro di terreno al «senso comune post-antifascista».
In rapida successione, si esprimono contro l’ipotesi nomi tra i più importanti della storiografia italiana, come Carlo Ginzburg, Enzo Collotti, Mario Isnenghi, Anna Foa, Giovanni De Luna. In precedenza, si erano dichiarati scettici Luciano Canfora e Giovanni Sabbatucci. Una dura posizione viene presa dalla scrittrice Igiaba Scego e, naturalmente, da yours truly, noialtri Wu Ming. Si esprimono invece a favore Sergio Luzzatto e David Bidussa. Nei prossimi capitoli, una rassegna critica delle argomentazioni pro e contro. Tempo al tempo.
Pochi giorni dopo l’uscita dell’articolo su La Stampa, una cinquantina di storiche e storici firmano un appello a sostegno del progetto. Progetto che, però, ancora non c’è. Si tratta dunque di un sostegno a priori, a scatola chiusa:
«Come storici riteniamo che la costruzione di un museo sul periodo fascista della storia italiana sia da valutare in modo positivo, considerate le garanzie di serietà, di rigore scientifico, capacità narrativa, ricchezza documentaria e capacità divulgativa e didattica che il sindaco Frassineti ha sempre posto come requisiti necessari perché esso possa prendere corpo.
Chi sostiene che un museo non possa che essere di tipo celebrativo e paventa una possibile deriva nostalgica che questo potrebbe favorire, non conosce i numerosissimi esempi di musei che in Europa e nel mondo intero sono stati capaci di affrontare momenti drammatici e tragici della storia […] Per questo motivo offriamo al sindaco Frassineti il nostro incoraggiamento perché possa portare avanti il progetto, trovare le risorse necessarie e riuscire poi a coinvolgere in modo efficace le tante competenze che sono necessarie […] Che il governo decida di intervenire in aiuto di una simile iniziativa destinandole proprie risorse ci sembra un segnale positivo dell’attenzione ai temi culturali più generali e alle questioni legate alla memoria e alla storia, che continuano ad essere fondamentali per ogni consapevolezza critica e identità di cittadinanza alla base del nostro vivere collettivo.»
Tra i firmatari, ovviamente, anche i membri del comitato consultivo nominato da Frassineti.
Rimossi i fronzoli, l’argomentazione è: altrove si sono fatti musei molto seri; Frassineti ha detto che pure lui vuole un museo serio; sapete che c’è? Noi ci fidiamo. Non solo ci fidiamo, ma se il governo gli dà due milioni siam contenti.
Nell’appello, non una parola viene spesa sul peculiare contesto in cui tale museo andrebbe a inserirsi, cioè sulla principale ragione delle perplessità e critiche. In buona sostanza, è uno «schierarsi a coorte» contro un’obiezione-fantoccio che nessuno ha fatto («Non si possono realizzare musei su momenti drammatici della storia»).
L’appello è subito rilanciato con gioia dai fascisti social, gongolanti. Se non una prova, quantomeno un indizio vistoso: l’idea di Frassineti non sembra affatto disturbarli. Per loro sarà comunque un «museo del duce».
Una tale presa di posizione, per modalità, contenuti e “sponde” che trova, non può certo attenuare le polemiche. E infatti le rinfocola. Esprimono forti dubbi anche storici più giovani, come Simon Levis Sullam, Guri Schwarz, Giulia Albanese, Gabriele Proglio.
Di questi, il più attivo è Levis Sullam, studioso dell’antisemitismo italiano, autore dell’importante I carnefici italiani. Scene dal genocidio degli ebrei, 1943-1945 (Feltrinelli, 2015), dedicato al collaborazionismo e al sistema della delazione durante Salò e l’occupazione nazista.
È di Levis Sullam l’intervento più approfondito in uno speciale sul caso Predappio apparso a puntate sul sito Doppiozero, a cura di Enrico Manera, ricercatore dell’Istituto piemontese per la storia della Resistenza (Istoreto).
Contraria all’ipotesi di Frassineti anche la Fondazione Alfred Lewin di Forlì, intitolata a un giovane ebreo tedesco ucciso dai nazifascisti. Fondazione che si ispira al socialismo liberale dei fratelli Rosselli, all’esempio antifascista di Giustizia e Libertà, all’intransigenza laica del Partito d’Azione.
Sulle pagine di Una città, rivista forlivese da cui la fondazione è nata, si svolgerà il dibattito più lungo e approfondito su Predappio e l’ipotesi del museo, anche grazie alla conoscenza del territorio e della storia locale che possono vantare i redattori. Non potendo fornire un unico link, invito a cercare «Predappio» col motore di ricerca del sito.
Nel luglio 2016, a sorpresa, l’annuncio che il progetto museografico per l’ex-Casa del Fascio verrà curato dall’Istituto per la storia e le memorie del ‘900 «Ferruccio Parri» di Bologna.
Istituto prestigioso, fondato nel 1963, parte della rete degli istituti storici della Resistenza.
Istituto di cui, quell’estate, è ancora presidente (toh!) un altro renziano di ferro: lo storico Alberto De Bernardi. Uno che nel 2014 ha paragonato Renzi a Mao e i giovani renziani alle «guardie rosse» della Rivoluzione Culturale, e tra poco trascinerà l’immagine dell’Istituto nella battaglia referendaria per la riforma costituzionale Renzi-Boschi. «E il presidente del Parri fa campagna / “L’Istituto è con me”», titolerà il Corriere di Bologna il 27 agosto. L’Istituto sarà costretto a chiarire la faccenda.
L’annuncio dell’ingresso del Parri nel progetto dà adito a grossolane semplificazioni. Personalmente, il 20 luglio 2016 rimango allibito leggendo il titolo: «Il museo del fascismo progettato dai partigiani». De Bernardi eroe della Resistenza?
Va sfatato anche un altro equivoco. Quando Frassineti o altri dicono che il progetto è «a cura dell’Istituto Parri», molti credono si tratti non del Parri bolognese ma dell’Istituto nazionale «Ferruccio Parri», che fino a poco tempo fa si chiamava Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia (INSMLI).
Al malinteso, che forse qualcuno lascia circolare a bella posta, contribuisce anche un articolo uscito su La Repubblica il 29 marzo 2016, a firma di Simonetta Fiori, dove si legge:
«[Frassineti] è riuscito a convincere anche i partigiani dell’ANPI e il vertice nazionale dell’Istituto Storico della Resistenza e dal modo in cui lo racconta si capisce che gli è costata una fatica immane.»
Talmente immane che non c’è riuscito. L’ANPI non è mai entrata nel progetto, anzi, nell’associazione si sono moltiplicate le critiche a Frassineti; quanto all’INSMLI, se ne è ufficialmente chiamato fuori. In un comunicato stampa del 13 maggio 2016 si legge:
«Il Consiglio di Amministrazione, esaminata la richiesta del Comune di Predappio di collaborare come Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia alla predisposizione di un progetto scientifico per un Museo-Centro di Documentazione del fascismo a Predappio, constata l’esistenza nell’Istituto e tra gli storici di differenti sensibilità in merito all’opportunità di tale iniziativa e — ferma restando l’autonomia in proposito di ogni singolo studioso — delibera di non assumere come Consiglio di Amministrazione dell’INSMLI l’impegno richiesto.»
Nell’ottobre 2016 si insedia un Comitato scientifico del progetto, presieduto da Flores e composto da una quindicina di studiosi italiani ed europei.
Solo che, nel frattempo, gli interventi di Flores e altri membri del comitato, interventi che avrebbero dovuto rassicurare e convincere, si sono fatti sempre più discutibili.
Come già constatato a proposito di un suo articolo apparso su Politika, Flores cerca di ridimensionare — contro ogni dato ed evidenza — i pellegrinaggi neofascisti e relegarne i protagonisti in un ambito di marginale «nostalgia». Lo ha fatto anche intervenendo su Doppiozero:
«Chi conosce Predappio sa che la realtà odierna è molto diversa di quella di venti o quarant’anni fa, e che gran parte dei nostalgici che certamente vi si recano, non sono più i picchiatori fanatici di un tempo (qualcuno può essercene ancora, specie nelle tre date canoniche di pellegrinaggio), ma spesso figli o nipoti di ex fascisti che guardano con curiosità e spesso disincanto a quel luogo, dove potrebbero trovare anche informazione storica ed educazione alla critica invece che solo la cripta del duce.»
Si notano, sempre in Flores, la frequenza e la puntualità con cui tira in ballo i kattivi komunisti. Ogni volta che menziona i crimini nazifascisti, pare sentirsi in dovere di “equilibrare” evocando il comunismo. Quest’ultimo è come i cavoli a merenda, dato che il tema del dibattito non è «i totalitarismi a confronto» — sottotitolo di un libro di Flores — bensì il rapporto irrisolto degli italiani con la memoria del fascismo e il mito mussoliniano.
Se aggiungiamo un certo vittimismo che porta Flores a spiegarsi le critiche ricevute con la voglia di «censura preventiva», l’effetto è già stridente…
«Personalmente questa sorta di censura preventiva nei confronti di un’epoca storica complessa e tragica non riesco ad accettarla, anche se la sinistra l’ha coltivata (e in parte la coltiva ancora) da decenni nei confronti del comunismo e della storia altrettanto tragica di cui è stato protagonista.»
…ma dobbiamo ancora aggiungere alcuni giudizi storici un po’… “spicci” elargiti en passant da Flores e Gozzini:
«Certo, [il fascismo] era anche confino (per fortuna non in campi come in Germania o in Urss)» (Flores, marzo 2016)
«I nazisti […] con l’invenzione dei campi di concentramento, che non ha sostanzialmente riscontro in Italia […]» (Gozzini, aprile 2016)
L’invenzione dei campi di concentramento non ha riscontro nell’esperienza italiana, perché il fascismo confinava sì, ma «per fortuna non in campi». I campi sono roba dei tedeschi (e dei russi).
Ci si riferisce al fascismo prima della seconda guerra mondiale, sembra di capire. È ben noto, almeno agli storici, che durante la guerra il fascismo campi di concentramento ne aprì eccome, soprattutto nei Balcani ma anche in Italia: Gonars, Fertilia, Fraschette di Alatri… Ma probabilmente volevamo imitare i tedeschi. A noi un’idea del genere non sarebbe mai venuta.
Bisognerà dare la buona novella agli studiosi del colonialismo italiano: finora si era creduto che in Libia nel 1930 — tre anni prima che i nazisti prendessero il potere in Germania — Rodolfo Graziani e Pietro Badoglio avessero fatto deportare in sedici campi di concentramento l’intera popolazione del Gebel Achdar. Si era anche creduto che nel Corno d’Africa, a partire dal 1935 — quattro anni prima del «Patto d’acciaio» tra Italia e Germania — fossero esistiti altri sedici campi di concentramento fascisti. «Per fortuna» erano bufale.
Tra siffatte amenità e “spigolature”, l’Operazione Museo è andata avanti come un rullo compressore, anzi, una #RUSPA. Al momento, risultano già stanziati due milioni: un milione stanziato dalla Regione che ha pescato fra i fondi europei per «interventi culturali con forte attrattività turistica»; mezzo milione stanziato dalla Cassa di Risparmio di Forlì; un altro mezzo milione dal Comune di Predappio. Poi dovrebbero arrivare i due milioni promessi da Lotti, cioè da Renzi.
Il progetto di museo è stato pubblicato on line alla fine di settembre 2017, non visibilissimo, in mezzo ai documenti dell’appalto per la ristrutturazione dell’ex-Casa del Fascio, sul sito dell’Unione dei Comuni della Romagna Forlivese.
[Ultimo controllo del link alle h. 19:38 del 06/11/2017: stranamente, la pagina non esiste più. Errore 404, e risulta rimosso anche dalla timeline dei post].
Un mese più tardi, il progetto è stato presentato a Roma, nella sede dell’Associazione Stampa Estera, da Frassineti, Flores e Giunchi.
L’ho scaricato il 4 ottobre, letto, discusso con il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e con altri ricercatori storici, insegnanti, operatori didattici, educatori museali. Nella prossima puntata farò alcune osservazioni, e nelle prossime settimane Giap pubblicherà diversi contributi di addetti ai lavori.
Anticipo il parere generale: non solo per la cornice in cui andrebbe a collocarsi, ma anche per determinate scelte negli allestimenti e nei contenuti, il museo del fascismo — con annesso centro studi, ma anche un ristorante e attività commerciali — ha un destino pressoché certo di subordinazione alla cornice. Sarà un contributo in più all’evocazione del mito mussoliniano, con la conseguenza di rafforzare anziché indebolire lo spirito del luogo (Bennywise).
A questo proposito, è d’uopo chiedersi: come vedono il progetto di museo i negozianti fascisti?
Non sembrano granché preoccupati. Quando ne abbiamo parlato, la tipa di Ferlandia ci scherzava sopra, e quanto a Predappio Tricolore,
«il signor Luigi Pompignoli, titolare del più raccapricciante negozio di souvenir mussoliniani (inclusa la bottiglia di ricino), plaude al nuovo museo perché porterà danaro alla sua città e spera anche nelle sue tasche.» ****
Nella migliore delle ipotesi, dunque, una realizzazione inutile allo scopo dichiarato. Nella peggiore — e più probabile — ipotesi, una realizzazione dannosa. Comunque vada, un discutibile uso dei pubblici denari, mentre altri istituti storici e luoghi della memoria sono costretti ad arrabattarsi.
Intanto Frassineti ha annunciato che vuole diventare senatore, e i soliti maliziosi dicono che l’intera Operazione Museo gli serviva a tale scopo.
Certamente i maliziosi esagerano, ma è vero che l’operazione ha qualcosa di sfuggente, di non ancora afferrato dai più, che possiamo comprendere solo ripercorrendo la storia da più vicino, zoomando, mettendone a fuoco l’indiscusso protagonista politico.
2. Frassineide
L’idea di un fascismo appartenente — o «da consegnare» — esclusivamente al passato alimenta la convinzione, posta a premessa del progetto di museo, che Predappio sia un luogo importante nella storia del fascismo, intendendo proprio il fascismo storico. Cito ancora una volta Flores:
«Predappio rimane necessariamente, comunque lo si veda, un “simbolo” ineliminabile della storia legata al fascismo».
La frase appare, identica, anche nelle già citate «linee guida», con tutta evidenza scritte dal medesimo Flores, che ne era il primo firmatario.
Passo oltre quel «necessariamente», sperando sia solo una scelta lessicale infelice (in che senso sarebbe necessario mantenere Predappio come simbolo?), e vado dritto al punto: Predappio è un luogo del tutto irrilevante nella storia del fascismo-movimento, e marginale nella storia del fascismo-regime.
A Predappio non è avvenuto alcunché di cruciale per le sorti del Paese. È soltanto il luogo dove Benito Amilcare Andrea Mussolini fu partorito da sua madre, e dal quale se ne andò giovanissimo.
Giunto al potere, Benito Amilcare trasformò Dovìa in una nuova cittadina, al solo scopo di tornarvi ogni tanto da protagonista di vacue cerimonie e specchiarsi nel proprio narcisismo. Il cliché del «compaesano che ha fatto fortuna» — come il Joe Pellecchia di Totò a colori — portato agli estremi.
Il movimento fascista è nato e cresciuto altrove, e altrove ha avuto le sue svolte importanti; il regime fascista ha avuto come centri principali Milano e Roma, e ha rivolto le sue mire imperialistiche in Africa e nei Balcani. In questa storia, Predappio dov’è?
In un breve intervento del marzo 2016 lo storico Carlo Ginzburg ha fatto notare che insistere su una centralità di Predappio «identificherebbe il fascismo con l’individuo Mussolini, forzando fino alla caricatura il senso dell’impresa storiografica, discutibilissima, di Renzo de Felice».
Da molti decenni il metodo storico ha gettato fuori dalla porta la storia «granduomistica» – o, per usare una suggestiva espressione di Amadeo Bordiga, la «teoria del battilocchio». Quest’ultima è però rimasta egemone nella “divulgazione”, nella pseudostoriografia fatta da giornalisti, e ora sembra voglia rientrare nell’accademia dalla finestra, magari passando per una sorta di «via italiana alla public history», che come molte vie italiane è piena di buche.
Nel suo celebre scritto Il battilocchio nella storia (1953), l’antico fondatore del PCd’I scriveva:
«Ammettete per un solo momento che il seguirsi, lo sviluppo, il futuro di una società o addirittura della umanità dipendano in modo decisivo dalla presenza, dalla apparizione, dal comportamento, di un uomo solo […] e ciò nel senso che costui sia un elemento necessario, ossia tale che in sua mancanza nulla si attui di tutto quel moto, allora non potrà negarsi che ad un certo momento tutta la storia stia “nel pensiero” e dipenda da un atto di questo. Qui vi è contraddizione insuperabile, poiché ciò concedendo, sarà forza soggiacere alla visione opposta alla nostra, che dice che nella storia non vi è causalità, non vi sono leggi, ma tutto è “accidentalità” imprevedibile, tutto casualità […] Come negare che sia una accidentalità la nascita di quel colosso, come evitare di ridurre tutto il campo della riproduzione ad un passo falso… di quello spermatozoo?»
Non è necessario sposare in toto il determinismo di Bordiga per cogliere la crucialità della domanda. La storia a venire del fascismo non stava “nel pensiero” di Mussolini, ma nello sconvolgimento sociale successivo alla Grande guerra e alla rivoluzione russa (avvenuta esattamente cent’anni fa, buon anniversario).
Durante il «Biennio rosso» e di fronte alla minaccia di una rivoluzione europea, una reazione come quella fascista è immaginabile — mutatis mutandis nella forma — anche con un altro frontman o «battilocchio».
Non solo è immaginabile: c’è stata. Fascismi nacquero e si svilupparono in tutta Europa. Per dirla con Enzo Collotti, vi furono diverse «vie nazionali al fascismo». Dopo averle prese in esame, si può parlare di poligenesi: diversi “ceppi” si formarono in autonomia rispetto al caso italiano.
Restando all’Italia, Mussolini non fu nemmeno l’inventore del cocktail: ne fu il più abile flair bartender, abile soprattutto a cogliere e riproporre innovazioni e mosse altrui, ma le condizioni materiali agitavano la miscela da tempo, da ancor prima della Grande guerra.
Per fare solo due esempi, fascismo ante litteram è presente nella propaganda dell’Associazione Nazionalista Italiana — fondata da Enrico Corradini nel 1910 — e soprattutto nel discorso di Barga di Giovanni Pascoli, La grande proletaria si è mossa (novembre 1911).
Quest’ultimo è un vero e proprio prontuario: per giustificare la guerra di Libia, Pascoli mise insieme “argomentazioni”, espedienti retorici, slogan e immagini abbacinanti, in una sintesi che il fascismo avrebbe fatto propria.
In quei giorni Mussolini — ancora lontano dal fondare il Fascio d’Azione Rivoluzionaria (1914) e i Fasci italiani di combattimento (1919) — era in prigione per aver manifestato contro la guerra di Libia.
È stato sopravvalutando lo «spermatozoo» che si è finito per assegnare centralità al cadavere, e quindi al suo sepolcro: Predappio.
Se il corpo del duce fosse sparito come quelli di Hitler, Eichmann o Bin Laden, nel dopoguerra Predappio sarebbe rimasta al massimo una curiosità. Si sarebbe visitato il paesello in quanto “scherzo” urbanistico, en passant sulla via verso il mare, apprezzandone le piadine e il sangiovese senza dubbi né retropensieri.
Invece, come ha scritto lo storico Guri Schwarz, Predappio è diventato un luogo importante; importante, si badi bene, non nella storia del fascismo, ma in quella del neofascismo. Il prefisso cambia l’intera prospettiva.
Nei discorsi del sindaco Frassineti e dei promotori del museo, ha fatto notare Schwarz, è «proprio la natura di Predappio quale spazio sacro dei neofascisti a giustificare, paradossalmente, la scelta del luogo».
È vero, il sindaco ha sempre presentato la sua idea come una risposta ai pellegrinaggi neri. Quasi tutti i commentatori, favorevoli e contrari al progetto, hanno cominciato le loro riflessioni dando per buono l’intento dichiarato da Frassineti, o almeno sono partiti, a fini retorici, da tale concessione:
«All’origine c’è l’iniziativa di un sindaco che vuole trasformare….» (Giovanni Gozzini, aprile 2016);
«L’esigenza del sindaco di reagire a questo stato di cose è comprensibile e legittima…» (Guri Schwarz, cit.);
«La volontà del sindaco e delle istituzioni locali di costruire, in buona fede, un luogo di studio della dittatura italiana.» (Davide Conti, febbraio 2016);
«Mi pare del tutto comprensibile che il sindaco non voglia più far finta di niente e provi a restituire dignità al suo paese.» (Pier Paolo Tamburelli, marzo 2016);
«Confesso di provare simpatia per il sindaco di Predappio, che cerca di uscire da una sgradevole situazione.» (Alberto Cavaglion, marzo 2016);
«[Frassineti vuole] affrancare la città che amministra da quel culto nostalgico del Duce [sic] che ogni anno porta a Predappio…» (Laura Fontana e Daniele Susini, s.d.).
A questa premessa sono seguite valutazioni sulla congruità o incongruità dello strumento scelto (il museo) e del processo avviato (la riapertura dell’ex-Casa del Fascio).
Ma è davvero questo il ragionamento a monte del progetto? Davvero si vuole riaprire l’ex-Casa del Fascio al fine di contrastare i pellegrinaggi neri, o almeno la troppo stringente associazione di Predappio con tali pellegrinaggi?
Di Frassineti, le centinaia di interviste reperibili in rete e sui giornali ci restituiscono un’immagine sdoppiata. Per rendere questo sdoppiamento, parlerò di Frassineti «lato A» e Frassineti «lato B».
Frassineti «lato A» è un sindaco sinceramente, accoratamente, persino addoloratamente antifascista. Quando lo intervistano giornali «di sinistra» — qui le virgolette sono imprescindibili — o la stampa internazionale, Frassineti preme sul pedale dello sdegno per i pellegrinaggi neri, per il «cliché» a cui Predappio è associata, per il merchandising fascista. Come il 28 ottobre scorso, quando ha dichiarato a La Repubblica:
«Qui di errori ne abbiamo fatti, anche di importanti, come quello di fare aprire i negozi nella metà degli anni Novanta pensando di regolarizzare quel mercato sotterraneo. Abbiamo fatto una cazzata. Ma cosa facciamo, lasciamo Predappio nelle mani di questa gente? Nelle mani dei negozianti o di chi celebra Mussolini? L’unica arma che abbiamo è la cultura.»
Nei pezzi incisi sul lato A, la nota dominante è proprio quella del «bisogna pur fare qualcosa!» Frassineti «lato A» è un uomo che con abnegazione, a fronte di incredibili difficoltà, porta sulle spalle il fardello della Storia, si sacrifica e sopporta le critiche — «Non lo insegnano all’università a fare il sindaco di Predappio!» — perché pensa alle generazioni future. È così che riceve premi internazionali «sulla fiducia», un po’ come il Nobel per la Pace dato a Obama quand’era all’inizio del primo mandato.
«Riconoscimento internazionale per il sindaco di Predappio Giorgio Frassineti. A conferirlo è l’associazione Servizio austriaco all’estero (Österreichischer Auslandsdienst), che ogni anno dal 2006 assegna l’Austrian Holocaust Memorial Award (AHMA) ad una persona scelta tra coloro che si siano particolarmente distinti per preservare e difendere la memoria della Shoah […]
Per la prima volta l’edizione 2016 del premio arriva in Italia, nelle mani del sindaco di Predappio Giorgio Frassineti, in riconoscimento al suo impegno nella ricerca svolta su fascismo e nazionalsocialismo e per la volontà dimostrata nel portare avanti una visione obiettiva attraverso un Centro di Documentazione del Novecento, in fase di realizzazione.»
Frassineti «lato A» è anche protagonista del documentario francese La duce vita (2012). Vedendolo, si capisce che non era partito come operazione propagandistica, ma gli autori — Cyril Bérard e Samuel Picas — sembrano essersi lasciati irretire dal personaggio. Frassineti è l’eroe del film: viene seguito quasi passo passo, inquadrato a lungo mentre fuma nella luce del tramonto, naviga sul web (leggendo di sé e parlando di sé in terza persona: «E cosa deve dire il sindaco, poveretto?»), fa monologhi da attore consumato — quasi alla Salvo Randone — con tanto di sgranate d’occhi e pause drammatiche, interviene a un convegno a Braunau am Inn, città natale di Adolf Hitler, ecc.
Frassineti «lato B» è invece un sindaco pienamente, polemicamente, anche virilmente assestato nel «senso comune post-antifascista». Basta leggere le interviste e dichiarazioni rilasciate ai giornali di destra: Il Giornale, Libero, Il Tempo, Il Giornale d’Italia, Il Secolo d’Italia...
Detta come va detta: la stampa di destra adora Frassineti, lo interpella spesso e descrive in termini lusinghieri lui e i suoi progetti per la città, a partire dal museo nell’ex-Casa del Fascio. Per quanto possa sembrare ridicolo, su quelle pagine Frassineti diventa il nuovo Uomo del Destino, quello che «se ne infischia di Fiano» e tira diritto.
Gli esempi più vistosi li fornisce Il Giornale d’Italia, quotidiano diretto da Francesco Storace, su cui scrive tale Emma Moriconi. Costei è una aficionada e habituée di Predappio, leggendo i pomposi resoconti delle sue visite alla cittadina romagnola la si immagina colta dalla variante fascista della Sindrome di Stendhal:
«Passeggiando per le vie e le strade di Predappio. Oggi, in una giornata qualunque di questo strano terzo millennio in cui la vita sembra doversi incentrare necessariamente sull’ultimo modello di telefonino o sul tablet più ganzo in circolazione. Ecco, passeggiare per le vie e per le strade di una cittadina così […] fa desiderare di tornare alle cose più semplici e in fondo più vere. E non solo perché Predappio è, in qualche modo, la “città del Duce”. Predappio lo è, certamente, ma è anche qualcosa di più, perché possiede una sua fisionomia, un suo sentimento, una sua specialissima atmosfera. Certo, probabilmente se non fosse la “città del Duce”, oggi su queste colonne forse avremmo potuto scegliere un’altra meta, per il nostro “viaggio della mente” […] E invece anche oggi, come è già accaduto in diverse altre circostanze, è a Predappio che decidiamo di andare. A visitare i suoi luoghi, come ci è capitato di fare spesso. Ma stavolta ci andiamo facendo un breve “viaggio” non solo geografico ma anche temporale. Precisamente nell’anno 1940, il XVIII dell’Era Fascista. Per calarci nell’atmosfera del tempo, oltre che del luogo, prenderemo in prestito le parole che sono vergate su di un libretto che venne stampato all’epoca dall’ufficio propaganda di Predappio, e che guarda caso reca la data del 21 aprile. Anniversario del Natale di Roma.»
D’istinto, mi è venuto da emulare il grande Eduardo nell’arte del pernacchio, poi ho pensato che non c’era niente da ridere. Il «Natale di Roma» era la farlocca «festa del lavoro» istituita dal regime nel 1924, dopo l’abolizione del Primo Maggio.
Sotto il fascismo, era proibito celebrare il Primo Maggio in qualunque modo. Quel giorno, bastava preparare un pranzo più lauto del solito per essere colpiti dalla repressione. Nel suo La villeggiatura di Mussolini (2004), ottimo compendio sul confino fascista, Silverio Corvisieri racconta:
«Attivisti, fascisti, militi e poliziotti […] si mobilitavano con un impegno del tutto speciale per spiare se il tale quel giorno indossava il vestito buono oppure banchettava con gli amici o magari esibiva qualche indumento di colore rosso. Tanto bastava per venire arrestati e spediti al confino […] Destinato a tragiche conseguenze fu nel 1928 il caso di due muratori e un contadino arrestati a Vercelli alla vigilia del Primo Maggio proprio per impedire loro di festeggiare la ricorrenza […] Uno di essi, il ventinovenne Antonio Mottino, padre di due figli, prostrato fisicamente e psicologicamente, prima a causa del carcere preventivo e poi della traduzione a Lipari, il 24 settembre dello stesso anno si uccise in circostanze peraltro non chiarite.»
Tra un Natale di Roma e l’altro, negli anni Moriconi ha stabilito un rapporto molto stretto con il sindaco di Predappio, del quale è una vera e propria apologeta. Suo un memorabile articolo del marzo 2016, intitolato «Tutti pazzi per Frassineti».
Quando l’ex-Casa del Fascio è passata dal demanio al Comune, Moriconi ha scritto un commento entusiastico che culminava nella frase:
«C’è riuscito lui, quello che è stato definito “il sindaco fasciocomunista”».
Se Frassineti ha preso le distanze da questa definizione, deve averlo fatto in privato, perché rettifiche pubbliche non ne ho trovate.
Moriconi è coautrice, con la nipote del duce Edda Negri Mussolini, del libro Mia nonna Rachele. Frassineti lo ha presentato a Predappio indossando la fascia tricolore, toccante omaggio istituzionale alla illustre compaesana, la first lady del ventennio.
È per il tramite di Moriconi e della nipote di Benito che Frassineti è andato a promuovere i suoi progetti per l’ex-Casa del Fascio in contesti chiaramente neofascisti. L’anno scorso è apparso al Casinò di Sanremo, gomito a gomito con esponenti dell’organizzazione neonazista Lealtà Azione, nata dalla sezione italiana del network Hammerskin. Secondo un resoconto giornalistico, in quell’occasione il sindaco
«ha illustrato l’importanza di salvaguardare le proprie radici, la storia del paese sottolineando il suo impegno per realizzare un Museo a Predappio.»
Quando abbiamo segnalato l’episodio, il sindaco ha reagito con insulti e minacciandoci di querela. Sono passati più di due mesi e della querela non abbiamo ancora notizie.
Nient’altro che un «infortunio», una sbadatezza da parte del sindaco, che in buona sostanza non sapeva dove si trovava? Lui l’ha spiegata in questo modo. Anche fosse, sarebbe grave… Ma continuiamo ad ascoltare i pezzi del lato B.
Frassineti, da ben prima che lo facesse Minniti, si vanta di lavorare su una scrivania che apparteneva a LVI, istoriata con un grande fascio littorio.
«Guardi ad esempio la mia scrivania», dice a un inviato de Il Tempo nell’aprile 2015. «C’è un enorme fascio littorio. Ma io non lo cancello, anzi, ci ho messo un vetro sopra per proteggerlo».
Mica c’è bisogno di cancellare il fascio: basterebbe usare un’altra scrivania. Se usa proprio quella, e se ne vanta pure, come non dedurne che gli piace proprio per via del fascio e dell’aura che irradia?
Aura che Frassineti, anziché disinnescare, alimenta in continuazione. Come nel 2014, quando organizzò, inaugurò in pompa magna e difese dalle (sacrosante) critiche una mostra sul «giovane Mussolini» che non si può definire se non agiografica.
Una mostra all’insegna della decontestualizzazione, reticente su troppe questioni e “spensierata” nell’uso delle fonti. Si veda l’esposizione alle pareti di frasi lusinghiere nei confronti di Mussolini, dette o scritte negli anni Dieci da vari personaggi storici, senza precisare che in seguito furono perseguitati dal fascismo. L’effetto era inevitabile: «Guarda, anche loro ne hanno parlato bene!»
Una dettagliata ricognizione e analisi della mostra è apparsa in due puntate su Cronache della Resistenza, mensile dell’ANPI di Forlì-Cesena.
Diverso il parere sulla mostra di Flores, secondo cui, visitandola, «migliaia di persone […] hanno avuto modo di imparare qualcosa su un personaggio storico che conoscevano, in genere, in modo approssimativo, carente e fasullo.» Così, invece, l’han conosciuto in modo preciso, completo e vero.
A proposito dell’ANPI, Frassineti «lato B» ha più volte attaccato l’associazione e — ricorrendo al già esaminato espediente «It’s the current year!» — sostenuto che non dovrebbe più esistere:
«Nel 2017 bisognerebbe interrogarsi su che senso abbia l’esistenza dell’associazione partigiani. Sinceramente credo che l’Anpi abbia esaurito il suo compito anni fa.»
Giunti a questo punto, non stupirà nessuno sentire il Frassineti «lato B» rilasciare dichiarazioni sminuitorie, se non riabilitanti, nei confronti del fascismo storico. Eccone una:
«Il fascismo ha avuto tante facce, non solo quella tremenda degli ultimi anni […] La marcia su Roma non fu un golpe, ma una manifestazione che portò, da parte del re, a dare l’incarico a Mussolini per un governo di coalizione. E poi vogliamo ancora negare il consenso che ebbe il regime?» ******
Qui Frassineti sembra dire che il fascismo dei primi anni non fu malaccio.
Giova far notare che il partito fascista andò al potere non con una «manifestazione» ma col terrorismo, cioè — cito dal Vocabolario Treccani — con «l’uso di violenza illegittima, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine».
Nel triennio 1920-1922 lo squadrismo uccise centinaia di persone — circa cinquecento – e ne ferì migliaia. Le violenze proseguirono anche dopo la presa del potere: gli squadristi ammazzarono don Giovanni Minzoni nel 1923 e Giacomo Matteotti nel 1924; l’anno dopo, le bastonate degli squadristi stroncarono anche Ciro Farneti, sindaco socialista di Predappio; nel febbraio 1926, per le conseguenze dei pestaggi subiti, morirono Piero Gobetti e Giovanni Amendola.
Lo squadrismo uccise per mezzo di aggressioni, sparatorie, incendi e torture. La somministrazione forzata dell’olio di ricino — troppe volte rievocata come una goliardata, uno «scherzo pesante» o poco più — poteva distruggere l’intestino e causare la morte per emorragie interne e/o disidratazione, tra dolori atroci e in una condizione umiliante, disumana. La morte che toccò al musicista goriziano Lojze Bratuž, “colpevole” di far cantare in sloveno i cori di chiesa di cui era supervisore.
Nella periodizzazione di Frassineti, quale faccia aveva lo squadrismo? Tremenda o non tremenda? L’incendio del Narodni Dom di Trieste, che è del 1920, è una delle facce tremende o va ancora bene? E le leggi fascistissime, che sono del 1926? E la “riconquista” della Libia con l’uso di armi chimiche e la deportazione della popolazione civile della Cirenaica, che avvenne nel 1930-31? E la sanguinaria invasione dell’Etiopia, con l’uso ancor più massiccio di armi chimiche e il duce che esortava Badoglio a usarne anche di batteriologiche? Nella periodizzazione proposta, il 1935-36 è già parte degli “ultimi anni”?
Quanto al «grande consenso» di cui avrebbe goduto il fascismo, dal 1974 — anno in cui De Felice inaugurò la stagione del revisionismo storico italiano — in poi questo è diventato un viatico per annacquare la critica o addirittura riabilitare il regime.
Al fondo c’è un grande equivoco: come ha fatto notare la Fondazione Alfred Lewin, il consenso della maggioranza non attutirebbe affatto l’orrore, semmai lo accentuerebbe, come avviene in molte riflessioni sul nazismo in Germania (si pensi al dibattito scatenato vent’anni fa dal libro di Daniel Jonah Goldhagen I volenterosi carnefici di Hitler).
In ogni caso, l’immagine di un regime basato tout court sul consenso è stata da tempo rimessa in prospettiva, grazie a importanti studi sui comportamenti quotidiani degli italiani durante il ventennio. Fondamentale, a questo riguardo, il libro dello storico inglese Paul Corner Italia fascista. Politica e opinione popolare sotto la dittatura (Carocci, 2015).
Corner dimostra che molto presunto «consenso» era in realtà conformismo coatto. Pochi sanno che le grandi adunate riprese dai cinegiornali erano obbligatorie: a tutti gli iscritti al PNF veniva inviata una cartolina di convocazione, personalizzata perché recante il numero di tessera. Il giorno dell’adunata, la cartolina andava consegnata all’ingresso della piazza, dove un addetto segnava nome e cognome su un registro. L’assenza era punita con multe e provvedimenti disciplinari.
L’adesione di facciata in pubblico era spesso contrappuntata da piccole resistenze nel privato. Un esempio notevole e anche divertente lo fornisce la disobbedienza diffusa — esercitata grazie a vari sotterfugi — in occasione della «Giornata della Fede» (18 dicembre 1935), quando tutte le spose d’Italia, per finanziare la guerra d’Etiopia, avrebbero dovuto donare allo Stato l’anello nuziale (spesso l’unico oro posseduto dalla famiglia), e invece molte trovarono escamotages per non farlo.
[Un inciso: la trista epopea di un regime che finanziava il proprio imperialismo requisendo l’oro ai poveri è riproposta da quei neofascisti odierni che lucrano sull’impoverimento degli italiani grazie al tristo business dei negozi «Compro oro».]
Come ricostruito da Corner, già quell’anno — perciò ben prima della seconda guerra mondiale — il consenso al regime scricchiolava. Lo testimoniano molti rapporti degli informatori dell’OVRA, i cosiddetti «fiduciari». L’adunata che più spesso viene citata come esempio di consenso al regime, quella del 2 ottobre 1935 per lanciare la guerra d’Etiopia, è l’oggetto di una relazione fiduciaria del giorno dopo. L’immagine che se ne ricava è molto diversa da quella canonica:
«Abbiamo sentito parecchi partecipanti all’adunata […] commentare che essi si presentavano per disciplina di Partito, non certo per convinzione od adesione alla politica del Regime, perché chi ha già fatto una guerra, non ne può certamente volere un’altra. E quegli stessi osservavano che molti la pensano così, ma purtroppo questa disciplina può essere facilmente scambiata, ed anche presentata, come una volontà che non c’è […]. La folla che si trovava ai margini di Piazza Venezia, e più oltre, durante il discorso di S. E. Mussolini, non si è espressa in segni di entusiasmo e di approvazione, ma ha ascoltato il discorso stesso compostamente ed in silenzio, quasi rappresentasse più un incubo che un incitamento. È questa l’impressione di molti […]. La manifestazione di ieri, e l’animazione insolita che è seguita, non sono frutto d’entusiasmo, quanto invece di uno stato di agitazione e di preoccupazione.»
Ma forse è proprio pensando al “successo popolare” del regime che Frassineti ha proposto un parallelismo tra fascismo e calcio. In almeno un’occasione — ma a suo dire lo avrebbe fatto spesso — Frassineti ha paragonato il fascismo al Milan e all’Inter degli anni Sessanta, nello specifico ai calciatori Gianni Rivera e Sandro Mazzola. Cioè grandi campioni, protagonisti di vicende gloriose e di successo. Se non è un’obliqua apologia, è quantomeno una pessima similitudine, che però ha una funzione precisa:
«Non bisogna avere paura. Io coi ragazzi che vengono a visitare la salma del Duce [sic] ci parlo e domando loro: “Il calcio è andato avanti o pensi che sia ancora quello di Mazzola e Rivera? E allora ti pare che la soluzione ai problemi di oggi sarebbe una vecchia di quasi un secolo?”. È un problema anche generazionale e ci vuole uno scatto diverso rispetto al passato, come quello che sta mostrando [il governo Renzi]. Che non a caso è fatto da giovani.»
Il problema del fascismo sarebbe dunque che è “vecchio”, mentre Renzi è giovane, ha uno scatto diverso, scat-ta-re!
Un Partito della Nazione che inneggia alla giovinezza. Adesso sì che «sto sereno».
Mi rasserena anche leggere che Frassineti appoggia l’idea di riaccendere il faro del duce, e lo chiama «magnete turistico». La Fondazione Lewin si è chiesta:
«È una fiera permanente quella che si vuole allestire un pezzo alla volta? […] E il museo sul fascismo che si sta progettando potrà evitare di diventare un padiglione di tale fiera?»
Ed è proprio con quest’accenno alla fiera che arriviamo al punto. Mentre Frassineti «lato A» critica l’osceno merchandising fascista tanto da farne il prius logico della sua proposta di museo, Frassineti «lato B» minimizza, dice che non c’è problema e addirittura difende. Come in un’intervista a Il Giornale del 19 settembre 2016:
Predappio resta però meta di pellegrinaggi dove, più che il segno della croce, va forte il saluto romano.
«Questi pellegrinaggi, come li chiama lei, sono inevitabili considerato che qui ogni pietra parla di Mussolini».
Senza contare i tanti negozi di souvenir a base di gadget duceschi.
«Non vedo dove sia il problema».
O nella già citata intervista al Venerdì di Repubblica:
«Quando ero consigliere comunale, ho anche fatto decine di interpellanze per farli chiudere. Oggi penso che cacciarli sarebbe sbagliato. Una cosa fascista, ecco.»
Di recente, Emanuele Fiano si è detto d’accordo con «la proposta del sindaco di Predappio che, al posto [dei negozi fascisti], ha proposto l’istituzione di un museo storico».
Ma Fiano ha frainteso: il museo non sarebbe «al posto» dei negozi, ma in aggiunta, e la destra — da Bartolini a Storace passando per Pompignoli — lo ha capito benissimo, e subito.
Perché il punto non è che farli chiudere sarebbe «fascista», figuriamoci… Il punto è che sarebbe dannoso per l’economia locale. Del resto, Frassineti lo dichiarò persino a La Repubblica, ormai quasi due anni fa (sottolineatura mia):
«il primo cittadino deve fare gli interessi della sua comunità. E se questo significa convivere con il fantasma di Mussolini, bisogna cercare di farlo al meglio e nel modo più redditizio».
Quella che si prospetta è la coesistenza pacifica tra museo “serio” e commerci neofascisti, con il primo a “compensare” i secondi, cioè a legittimarli e consentire loro di proseguire. Non serve ad altro che a questo, la «memoria condivisa». Repetita iuvant: follow the money.
I gadget fascisti, però, vanno descritti come un problema, anzi, il problema, quando si tratta di giustificare il nuovo progetto presso l’intellighenzia liberal.
E così, nel juke-box, il disco si rovescia e dal lato B si torna al lato A.
Ora, però, è tempo di riallargare il campo.
[2/3 – Continua]
INDICE DELLA TERZA PUNTATA
6. Il metodo e il (de)merito
7. Generatore automatico di clichés «post-antifascisti»
- 7a. Genesi della submacchina
- 7b. «Il fascismo è finito settant’anni fa»
- 7c. «Troppo a lungo si è taciuto di…»
- 7d. «Il fascismo ha fatto anche cose buone»
- – La bonifica dell’Agro Pontino
- – Le politiche sociali
- – «Non c’era criminalità»
- – «Le cose funzionavano»
- – Guarda che bella la Casa del Fascio
8. Architettura e monumenti del regime: un dibattito falsato
9. Un progetto museografico ambiguo e sciatto
- 9a. L’importanza di tenere il culo in strada
- 9b. Il mostro della lacuna nera
- 9c. Se c’è qualcosa che non c’entra è la Germania
N.B. I commenti sono attivi in calce alla terza puntata.