di Gianluca Gabrielli *
Finora ho fatto fatica ad intervenire con mie considerazioni sul progetto di museo del fascismo preparato per essere allestito alla Ex casa del fascio e dell’ospitalità di Predappio. Altri hanno già espresso critiche che condivido (cito solo Wu Ming 1 e Simon Levis Sullam). La difficoltà ad aggiungere riflessioni nasceva dalla scelta del punto di vista da cui osservare. Da una parte il progetto mi chiamava in causa in quanto storico, dall’altra in quanto insegnante. Sembrano due punti di vista sostanzialmente sovrapponibili, in realtà le ragioni dell’uno non coincidono con quelle dell’altro se non a prezzo di mediazioni e — per dir così — negoziazioni difficili.
Poiché il progetto di questo museo — scaricabile registrandosi qui — si presenta come un elaborato che rivendica uno statuto di sintesi storiografica di alto livello (si autodefinisce un po’ pomposamente «Centro di documentazione e di interpretazione»), esso deve venire affrontato con gli strumenti della storiografia più aggiornata. Ma allo stesso tempo, essendo un lavoro che vuole rivolgersi alle giovani generazioni attraverso la mediazione didattica del mondo della scuola (che «può e deve essere narrato soprattutto alle generazioni più giovani», come si esprime la Sintesi del progetto), non può non essere analizzato dal punto di vista dell’insegnante.
Purtroppo, per una serie di ragioni difficili da riassumere, nel nostro paese la contiguità di lavoro tra storici e insegnanti non è strutturale, bensì episodica e lasciata alla buona volontà dei singoli, quindi spesso si traduce in estraneità o scarsa conoscenza delle reciproche ragioni. Lo storico professionista ritiene non sia suo compito riflettere sulla trasmissione scolastica dei risultati della sua ricerca; d’altro canto all’insegnante è materialmente impossibile tenersi regolarmente aggiornato su tutte le materie che è chiamato ad insegnare, tra cui la storia, che per ragioni istituzionali, occupa ben poco spazio. L’unico terreno di mediazione rimane il manuale scolastico, che traduce i risultati della ricerca in percorsi per l’insegnamento, ma che, come si può facilmente immaginare, non può certo surrogare un confronto tra i punti di vista diversi maturati da queste due figure di “addetti alla storia”. Così può capitare che i progetti elaborati da storici siano limitati dall’unilateralità legata al loro punto di vista e che solamente osservandoli anche da un punto di vista diverso emergano questi limiti e queste contraddizioni.
1. Insegnanti e/o storici
Quando fai di mestiere l’insegnante ti ritrovi affetto da uno strano cambiamento della percezione degli avvenimenti culturali come mostre o musei: ti capita di visitarli pensando ai tuoi studenti. È difficile cioè godersi una mostra come semplice fruitore; durante il percorso la mente si mette a osservare come se quel percorso fosse destinato anche ai propri allievi e allieve, producendo bozze di introduzioni, ipotizzando adattamenti, tagli, scegliendo gli elementi che potrebbero costituire un percorso didattico all’interno di quello rivolto a tutti. All’inizio pensavo fosse una caratteristica solo mia, ma più ne parlo, più trovo altri insegnanti che si riconoscono nell’approccio. Si potrebbe dire che è una deformazione professionale di chi quotidianamente opera per trasmettere contenuti culturali alle giovani menti nella maniera più efficace e motivante.
Questa riflessione mi è venuta in testa anche nei mesi passati leggendo il dibattito e poi i documenti progettuali del Museo del fascismo — L’Italia totalitaria — di Predappio. Non stavo visitando il museo, stavo semplicemente leggendo testi su come sarebbe stato realizzato quel museo, ma il meccanismo di riflessione a partire da un suo possibile “uso didattico” si è presentato immediatamente. Come sempre la spinta alla riflessione didattica era tanto più forte quanto più debole era la presenza nel progetto di un pensiero rivolto al mondo della scuola.
Leggendo il progetto — file: Relazione_esposizione — questa assenza salta subito agli occhi. Come spesso accade si pensa che la funzione pedagogica civile di un’istituzione museale sia da rivolgere ai visitatori adulti, tutt’al più considerati assimilabili agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado. Esclusa la scuola primaria e quella secondaria di primo grado, l’esposizione viene pensata per chi già sa e conosce, tradendo in parte la responsabilità civile di un’istituzione museale che mira superbamente a «consentire a quel “passato” di “passare” attraverso l’elaborazione di un giudizio storico condiviso e maturo».
Mi sono dovuto chiedere: è la mia ottica deformata da insegnante che sopravvaluta questa dimensione, oppure si tratta di un difetto strutturale del progetto, che non ponendosi dal punto di vista dei fruitori scolastici è indotto in errori cruciali e decisivi?
2. Un’esperienza: una piccola mostra antifascista alla Casa natale del duce
–
Il caso vuole che abbia avuto, recentemente, esperienza diretta della fruizione in contesto predappiese di un mio lavoro storiografico pensato per le scuole. Era il 2012. Essendo ancora in aspettativa da scuola per un dottorato avevo iniziato a collaborare a titolo gratuito con il Laboratorio nazionale di didattica della storia, che aveva sede a Bologna negli stessi locali dell’Istituto provinciale e regionale di storia della Resistenza. Nell’estate, cadendo il novantennale della Marcia su Roma, avevo raccolto materiali iconografici e studiato i testi più accreditati sul tema. Ne è nata una piccola mostra (20 pannelli) pensata per le scuole, che si sviluppava su due direttrici, una di ricostruzione storiografica dell’ascesa al potere del fascismo (connivenze, responsabilità, violenze), l’altra — parallela — sulla narrazione che di questa presa del potere, mitizzata, era stata portata nelle scuole e alla gioventù dell’epoca attraverso i libri di testo e i quaderni. A settembre, credo su richiesta del Comune di Predappio e per le relazioni che esistevano con l’Istituto regionale, la piccola mostra fu presa per essere allestita per la prima volta proprio nello spazio espositivo che in quel periodo risultava sguarnito a Predappio: la casa natale di Mussolini.
In astratto si potrebbe pensare: la mostra c’è, perché dovrebbero esserle preclusi dei luoghi? Ma non era così semplice. Prima di tutto era stata pensata per essere letta e usata nelle scuole della Repubblica, contava cioè su un contesto di ricezione critico del fascismo e lontano dalle emotività del Ventennio. Gli spazi in cui si visita una mostra, la si conosce e vi si riflette sopra non sono separabili astrattamente dai contenuti, il contesto emotivo degli edifici e degli spazi è cruciale per determinare la produzione e lo svolgimento dei pensieri che dovrebbero emergere nelle menti dei visitatori delle esposizioni. Comprendere ad esempio che l’epicità della marcia narrata e disegnata nei libri unici per la scuola elementare fascista era una costruzione mitizzante fatta a fini di propaganda sarebbe risultato più difficile nel contesto della cittadina in cui questo mito aveva preso anche le fattezze architettoniche della città di fondazione. O anche comprendere il meccanismo della reliquia applicato sulla casa natale del duce che all’epoca veniva riprodotta in ogni dove è facile con il distacco critico a 200 o 2 mila chilometri di distanza, mentre questo processo è più difficile da attivare quando si è visitatori all’interno della stessa reliquia ancora presentata come tale.
Ma due altri fattori in quell’occasione hanno inciso sulla ricezione della mostra. Uno, strutturale, era dato dalla presenza dei negozi di gadget mussoliniani nel corso principale, che non possono che normalizzare agli occhi del singolo o della classe in visita le icone del Ventennio, tanto che si perde il senso di scandalo, di tabù violato e comunque di stupore che dovrebbe accompagnare la lettura – ad esempio – dell’Inno al manganello incluso nel libro di stato della terza classe elementare del 1935 o l’esaltazione del picchiatore fascista come eroe in quello di Adele e Maria Zanetti del 1940, o la criminalizzazione dei socialisti perché si opposero alla partecipazione italiana alla Grande guerra.
Infine, l’ultimo elemento di pesantezza e di imbarazzo era l’apertura della mostra anche nel periodo del novantennale della marcia, durante il quale file di pullman di vetero, neo e post fascisti avrebbero riempito il paese e si sarebbero immersi collettivamente nel loro immaginario preferito, dall’architettura ai gadget. Insomma: nulla prometteva bene.
3. Come visitano le mostre i vetero-neo-post fascisti
Ovviamente il 28 ottobre sono andato a vedere in diretta cosa succedeva, d’altronde non ero mai stato a Predappio nei giorni canonici del rito fascista, durante i quali la cittadina moltiplica le sue presenze secondo il segno della memoria e della celebrazione nostalgica. La prima sensazione è stata la paura, il timore, quasi che il mio antifascismo fosse somaticamente visibile e mi potesse attirare provocazioni da quella folla vestita di nero; in quel momento mi sono venuti in mente gli anni dell’affermazione della dittatura, e mi è parso di intuire meglio come dovevano sentirsi gli oppositori negli anni Venti che — sopravvissuti — non avevano rinunciato — anche solo segretamente — alla fedeltà alle proprie idee. Poi sono andato a vedere la mostra: come sarebbe stata percepita e fruita?Una parte della carica critica era rimasta attiva, nonostante il contesto e l’ottica dei visitatori medi; lo si capiva dal pannello dedicato alle complicità e agli appoggi al fascismo da parte del capitalismo industriale e agrario dell’epoca, che era stato girato con la faccia contro la parete da un visitatore evidentemente contrariato. In fin dei conti si trattava di una piccola soddisfazione, una specie di superamento di una “prova di resistenza dei materiali” simile a quelle che fanno per testare i manufatti. Ma il problema vero era che gli altri 19 pannelli non erano girati. La sensazione che ne ho tratto è che i documenti e i testi di questa narrazione verticale potessero essere abbastanza tranquillamente fruiti da questa particolare categoria di visitatori neofascisti come se fossero i gadget di una vetrina, una specie di appendice dei negozi di ciarpame nostalgico del corso. I documenti dell’epoca venivano cioè separati abbastanza agevolmente dal discorso che provava a metterli in sequenza e a darne una interpretazione critica. Erano immagini del ventennio che in questo contesto venivano fruite singolarmente e riacquistavano parte della loro forza evocativa accumulata a partire dall’epoca in cui furono pensati e diffusi, in barba al tentativo di montaggio antifascista della mostra. La didascalia criticava la pedagogia della violenza insita in una poesia per bambini della classe terza delle scuole rurali (1940), ma lo sguardo neofascista manco notava la didascalia, semplicemente godeva di quel documento di “squadrismo scolastico”.
4. Piccola guida per portare la propria classe in visita al futuro Museo del fascismo
Questo per quanto riguarda le problematiche che presenta un’esposizione storica all’interno di un contesto particolare come Predappio. Ma il problema si complica se si pensa alla futura fruizione scolastica del Museo in preparazione. Rispetto a questo aspetto del problema occorre reimmergersi completamente nei panni dell’insegnante, cioè del mediatore didattico che si accolla il compito di organizzare la visita al museo.
Mi pare che i redattori del progetto, appassionati dall’idea di avvalorare la loro lettura del fascismo come interpretazione principe, capace di far passare un passato che non passa, si dimentichino di ragionare sulla fenomenologia spicciola di questo museo. Sostengono di aver pensato ad un pubblico di nuove generazioni, che si muove con le modalità tipiche delle scuole. Ma si sono chiesti come queste visite avverranno? Quali problematiche culturali e didattiche, esplicite e implicite, dovranno affrontare coloro che dovrebbero organizzarle?
Partiamo dai più giovani. Se avessi una classe di scuola elementare semplicemente non andrei, per svariati motivi. Prima di tutto una — a mio parere — sbagliata trasformazione delle Indicazioni ministeriali ha tolto al primo ciclo scolastico la storia posteriore agli antichi romani e la geografia dei paesi al di fuori dell’Italia, provincializzando l’ottica dell’approccio e restringendo la profondità di campo storiografica. Attualmente quindi è già molto difficile contestualizzare storicamente le scadenze importanti del calendario civile: 25 aprile, 27 gennaio, 3 novembre… Figuriamoci addentrarsi nel ventennio senza avere un’infarinatura delle guerre mondiali… Improponibile, anche se fossero chiusi i negozi.
Alle scuole secondarie inferiori, in terza media, l’ipotesi di una uscita al Museo di Predappio potrebbe anche presentarsi, ma limitatamente a chi insegna nella provincia di Forlì, perché occorre ricordare che tra le caratteristiche di cui gli insegnanti devono tenere conto nel preparare un’uscita didattica c’è la logistica: Predappio con mezzi pubblici si raggiunge con il pullman 96A, 41 fermate dalla stazione ferroviaria di Forlì, frequenza delle corse dai trenta ai sessanta minuti. Certo, si potrebbe pensare di organizzare la gita annuale di terza media di più giorni nella zona, ma temo che rimarrebbe ugualmente appannaggio di poche classi temerarie.
Per le scuole secondarie di secondo grado invece il problema di un utilizzo didattico dell’eventuale museo deve essere analizzato con serietà e nel dettaglio. Se tale museo sorgesse a Roma o a Milano la logistica sarebbe più abbordabile per varie ragioni. Prima di tutto raggiungere la sede sarebbe più veloce ed agevole, essendo sulle direttrici delle linee ferroviarie veloci. Poi è utile ricordare che chi organizza le gite scolastiche cerca di riunire diversi obiettivi, in modo da integrare interessi differenziati: ad esempio un aspetto storico, uno naturalistico e uno artistico. Forlì è sicuramente una bella città e potrebbe offrire un valido completamento a Predappio, ma mi pare innegabile che Milano o Roma permetterebbero una gamma più ricca di combinazioni.
Posto che nonostante queste riflessioni un gruppo di insegnanti appassionati e fortemente motivati decidesse di costruire in futuro la gita annuale a Predappio-Forlì, individuando il Museo del fascismo come obiettivo prioritario, a questo punto dovrebbe pensare a come organizzare la fruizione di questo museo. Perché, a prescindere dalla qualità del percorso storiografico, il museo sta in un contesto fortemente segnato: allestito nell’ex casa del fascio, è dunque collocato tra la casa natale di Mussolini e la sua tomba, di fronte ad una scuola dalla pianta a forma di “M”, in una città di fondazione punteggiata da negozi di oggettistica nazifascista. Come organizzare quindi il programma? Vediamo le opzioni possibili.
Opzione numero uno: timorosa. Provare a bypassare il contesto, sperando che la fermata del pullman sia proprio di fronte al museo, quindi entrare direttamente e affidarsi alla guida o al percorso preparato dai docenti. Può certo essere una soluzione; è sempre rischiosa, perché ragazzi e ragazze di quell’età sanno che ci sono elementi di morbosità fuori dal sedicente “Centro di documentazione e di interpretazione”, quindi potrebbero chiedere di perlustrare l’extramuseo evitando il coffe-shop interno, cercare di scovare i negozi di oggettistica… insomma, potrebbero porre loro la questione che si tentava di nascondere, che è la questione della mancata fuoriuscita di quel contesto dall’immaginario del regime. E’ lecito provare a visitare il museo in apnea, sperando che la curiosità per la location non si presenti nelle menti di ragazze e ragazzi? Evidentemente no. Lasceremo quindi questa prima variante di fruizione del museo come residuale, appannaggio di docenti ingenui e timorosi che soffrono la curiosità degli studenti come fonte di imbarazzo e rispondono ignorandola o reprimendola.
Opzione numero due: ingenua. Perché un docente che accetta di accompagnare una classe in gita dovrebbe conoscere i retroscena legati a Predappio? E la querelle sulla scomoda attualità del passato fascista? Magari i colleghi hanno stilato il programma e l’ultimo anello della catena — il prof che si immola per garantire l’effettuazione della gita — ne sa poco o nulla. In questo caso presumibilmente accadrebbe che studentesse e studenti avrebbero un sacrosanto periodo di libertà nel paese prima o dopo la visita al museo. Quali souvenir potrebbero scegliere di portare a casa come ricordo dell’esperienza? Quali dinamiche di scherzo o di provocazione potrebbero presentarsi nei negozietti di ciarpame neonazista che la presenza del museo sancirà come book shop ufficiosi? Ovviamente non si intende sostenere che studenti e studentesse non siano in grado di discriminare le paccottiglie neofasciste e nostalgiche, sicuramente sarebbero all’altezza, almeno molte e molti. Apparirebbe però un controsenso che fosse la scuola a promuovere una simile esperienza al di fuori di un percorso di riflessione e di critica mirato. Ciononostante è presumibile che questa opzione due, affidata a docenti senza piena consapevolezza del contesto, non sarà minoritaria; occorre tenerlo presente.
Opzione tre: erudita. Sobbarcarsi un lungo viaggio per vedere un museo in quel contesto e poi non addentrarsi nella Predappio profonda? Difficile per alcuni docenti che decideranno di studiarsi la situazione e di andare a vedere — insieme ai ragazzi — come è stata gestita la memoria Mussoliniana, di curiosare nel libro delle dediche alla cripta del duce, raccontando succintamente ai ragazzi la storia della salma; di visitare la sua casa natale e di chiedere ai funzionari comunali di salire nel palazzo del municipio dove la mamma di Mussolini fece scuola, o alle suore dell’asilo Santa Rosa di dare un’occhiata veloce alla Madonna del fascio che ancora campeggia nella sala giochi dei fanciulli. Alla fine sarà inevitabile anche una sbirciata imbarazzata e veloce ai negozietti di oggettistica perché sono un elemento esotico, e perché ci sono e sono aperti, ma con l’imbarazzo nei confronti degli studenti per il mefitico ciarpame che smerciano. L’opzione erudita sarà la più gettonata, e nel pullman al ritorno il dibattito nel piccolo gruppo dei più consapevoli sarà sulle vicissitudini del cadavere del duce e sull’esposizione a piazzale Loreto, mentre pochi ricorderanno l’interpretazione argomentata del ventennio proposta dal Museo.
Opzione quattro: impegnata. Fossi obbligato a portare due classi in quel contesto mi tremerebbero le ginocchia. Solitamente quando si va a visitare un museo si preparano un po’ gli studenti e poi ci si appoggia al percorso museale, ma qui il percorso museale sarebbe solo un dettaglio di un contesto carico di significati, il vero percorso museale sarebbe fuori dal museo. Così credo non ci sarebbe altra scelta che preparare un itinerario nella cittadina capace di spiegare la complessità dei lasciti, la loro storia che in gran parte si svolge dopo il 1945 e che arriva fino ad oggi (e di cui il progetto del museo non si occupa per niente). Non si potrebbe tacere della storia del neofascismo, della sua attualità, della vitalità dell’archivio mitologico mussoliniano, della poco accorta politica della memoria del luogo, facendo confronti con l’Europa… Insomma: un lavoraccio enorme, che impegnerebbe varie lezioni prima della gita e che non è detto sarebbe capace di stimolare le ragazze e i ragazzi ad una partecipazione emotiva e ad un impegno pari a quelli del docente. Un tale percorso quindi, anche con il massimo impegno non assicurerebbe un controllo sufficientemente rassicurante del risultato; tutt’al più sarebbe finalizzato a limitare i danni. Ma ha senso organizzare una gita scolastica in questo modo?
Opzioni “numero cinque” non ne vedo. Non vedo cioè altre modalità di andare in maniera organizzata come scuola al futuro museo.
5. Ma davvero “il” museo del fascismo a Predappio?
Ad oltre settant’anni dalla caduta del fascismo, in Italia non c’è ancora un museo nazionale deputato a raccontare quel ventennio. Questa evidente difficoltà della politica e della società italiana a fare i conti con il proprio passato fu subito evidente nell’immediato dopoguerra: dalla mancata epurazione alla drammatica continuità delle cariche istituzionali e nei ruoli di potere. Non si trattò di una “rimozione” — processo inconscio o inconsapevole — ma di un consapevole e colpevole silenzio. Basti pensare ai programmi e ai libri scolastici di storia: quelli del regime fascista venivano aggiornati annualmente all’ultima impresa bellica mussoliniana, quelli della Repubblica furono riportati indietro al 1918, pur di non far riflettere le nuove generazioni sul ventennio appena trascorso.
Tentare di invertire questa tendenza storica al silenzio è sicuramente un atto meritorio e doveroso, ma il modo in cui farlo non è indifferente e l’intenzione non è sufficiente a garantire il risultato.
Nel tempo infatti sono nate decine di musei e presidi territoriali che hanno affrontato la dimensione locale e nazionale del regime fascista e la lotta di liberazione, sono state elaborate centinaia di mostre, molte anche permanenti, che hanno acceso i riflettori della ricerca storica su aspetti generali e particolari del fascismo e del suo dominio. Sulla scia di questa incapacità politica e culturale a produrre un museo nazionale sul fascismo si è quindi sviluppata una rete informale di presidi culturali e di studio sul tema, frequentati dalle scuole e dai cittadini, articolati con percorsi locali e con finestre di comparazione internazionale. Questo “museo diffuso”, vicino alle scuole e ai territori, è divenuto la strada italiana alla riflessione pubblica su quel ventennio. Ha numerose falle, in alcuni casi è sostenuto dalle istituzioni, in altri è nato nonostante il loro disinteresse, spesso sopravvive sul semi-volontariato e con scarsissimi fondi, ma è quello che ha accompagnato l’uscita italiana dalla subalternità alla cultura fascista.
Perché non sostenere, valorizzare e incrementare questa capillarità di luoghi sul territorio, questi micromusei scolastici e cittadini, perché non iniziare ad affiancare ai monumenti e alle architetture fasciste delle didascalizzazioni storiche e critiche? Certo, a dare forza a questi presidi territoriali gioverebbe un riferimento nazionale, ma questo andrebbe collocato in una grande città facilmente raggiungibile. Milano anche per la sua storia legata alla nascita del fascismo e al suo epilogo sarebbe sicuramente l’ipotesi più razionale, ma anche Roma, o meglio ancora due musei.
Se una struttura simile si fosse realizzata a suo tempo, o se fosse ora nella mente degli operatori di storia e della memoria nonché nell’intenzione dei politici, allora nulla vieterebbe che uno di questi centri minori della rete avesse sede a Predappio; anzi, mi chiedo come mai non sia sorto nel passato, tra il 1945 e il 1957, ma anche e soprattutto dopo, quando fu portata a Predappio la salma di Mussolini che costituì e ancora costituisce un imbarazzante richiamo per i nostalgici. Ma che senso ha investire ora tanti soldi su un museo a Predappio? E addirittura progettarlo e presentarlo come «Centro di documentazione e di interpretazione del fascismo»? Davvero si vuole produrre il massimo sforzo per creare «il» museo del fascismo a Predappio e per piazzarlo proprio nella Casa del fascio? Mah, capirei solo se fossero passati 1500 anni…
Due postille storiografiche
§ Alla scuola sarebbe dedicato il “Setto 2” e nella Relazione sull’esposizione si legge che un particolare riferimento viene fatto «alla Carta della scuola del ’37 attraverso la quale il fascismo fa di essa uno dei luoghi privilegiati della propaganda del regime».
Mi permetto di segnalare che la Carta della scuola è del 1939, e che può apparire fuorviante presentare il «progetto di fascistizzare la gioventù» legandolo a questo documento: gran parte del lavoro era già stato fatto e la storiografia che si occupa del tema scava soprattutto negli anni precedenti, mentre la Carta viene analizzata soprattutto come progetto del fascismo di modificare una scuola già ampiamente fascistizzata, che però poté realizzarsi solamente in minima parte proprio perché approvato nel 1939.
§ Nel «grande box circolare» si scrive che «Si racconterà anche la politica coloniale dei secondi anni ’20, la riconquista e la riaffermata presenza in Cirenaica e Tripolitania». Non vorrei apparire puntiglioso, ma la «riconquista e la riaffermata presenza in Cirenaica» fu attuata attraverso un processo di deportazione di centomila uomini e donne che vivevano seminomadi nel Gebel cirenaico in una serie di campi di concentramento dai quali circa quarantamila persone non fecero ritorno mentre chi sopravvisse di stenti ne uscì privato dei propri mezzi di sussistenza. Non dubito che i progettisti del museo abbiano ben chiaro cosa successe, ma personalmente credo che quell’avvenimento — un genocidio — meriti di essere promosso nei titoli, e non lasciato nelle pieghe della narrazione.
–
Gianluca Gabrielli è storico e insegnante di scuola primaria. Il suo ultimo libro è Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell’infanzia nella prima metà del Novecento (Ombre corte, 2016), dal quale è tratta l’omonima mostra. Con Davide Montino ha curato La scuola fascista. Istituzioni, parole d’ordine e luoghi dell’immaginario (Ombre corte, 2009) e con Alberto Burgio è autore di Il razzismo (Ediesse, 2012). Ha inoltre pubblicato Il curricolo “razziale”. La costruzione dell’alterità di “razza” e coloniale nella scuola italiana (1860-1950) (Eum, 2015). Ha contribuito alla realizzazione delle mostre La menzogna della razza (1994), I problemi del fascismo (1999), Il mito scolastico della marcia su Roma (2012).
Il post di Gianluca su GIAP pone delle basi fondamentali su cui sarà necessario intervenire ancora sulla questione #scuola, memoria storica e studio della storia, in un contesto semplicemente “culturale” devastante quale il nostro, a partire dal #giornodelricordo e delle manomissioni storiche passando dal elementi di estrema nocività come metodicamente introdotte nella scuola sulle vicende del confine orientale. Nel post si parla della questione delle indicazioni nazionali. Sul punto vorrei far presente che sono in fase di definizione le nuove indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, formalizzate con D.M. n. 254 del 13 novembre 2012.Sulla questione storica si legge: “Particolarmente significativo risulta il ricordo delle lotte di liberazione e del successivo momento di concordia nazionale che ha consentito di elaborare e poi di consolidare la nostra Costituzione”.
Dunque la lotta di liberazione deve essere trattata a banale e semplice momento di ricordo? Quando è stata un qualcosa di rivoluzionario, enorme, profondo per il nostro Paese che ha subito vent’anni e oltre di dittatura? Perchè parlare di ricordo e non studio delle lotte di liberazione? Una sfogliata di pagina e via? Imbarazzante. E che dire del concetto di Concordia che porterà alla nostra Costituzione?
A quale fantomatica concordia ci si riferisce? La risposta, negli intenti, è data probabilmente dal discorso del 25 giugno 1946 di Vittorio Emanuele Orlando, nominato per anzianità, Presidente dell’Assemblea Costituente , all’atto dell’apertura dei lavori, con un discorso che si concluderà proprio con un vero e proprio appello alla “concordia nazionale”. Si legge “Frattanto, in questo pericolo mortale che ci minaccia dall’estero, un imperativo categorico si pone verso l’interno: l’unione, la pacificazione, la concordia. Un appello solenne ne segue, perché ogni italiano, a qualunque partito, a qualunque classe appartenga, ogni risentimento, ogni dissenso, ogni rancore, ogni interesse, ogni pensiero insomma, subordini alla maestà di questo comando: la concordia nazionale perché si salvi l’Italia, perché viva l’Italia. Vorrei ardentemente che queste fossero le ultime mie parole, affinché esse restassero impresse con l’autorità austera dell’al di là: Viva l’Italia!
Ecco insomma lasciamoci il passato alle spalle ed andiamo avanti. Effettivamente è quello che è accaduto per diversi aspetti devastanti che hanno portato ai fatti come ben esplicati in quella Predappio diventato uno spazio gravitazionale centrale e diabolico con la funzione di ponte tra il fascismo del secondo millennio e quello del terzo millennio.
Ciao, mi stupisce molto che in questa interessantissima ed articolata riflessione su una virtuale gita al futuro museo di Predappio non sia stata presa in considerazione la più banale delle questioni: è davvero possibile oggi insegnare la storia attraverso una modalità di apprendimento frontale come quella del museo ( studente- pannello- didascalia)? La storia del fascismo non si conosce, non si apprende, non è neppure ” trattata” nei libri e nei programmi di scuola (o proposta attraverso una visione di parte) ma, in sostanza, non si riesce neppure ad appassionare e coinvolgere gli studenti. E non è forse la gita museo in sè una forma di conoscenza basata su una imbalsamata trasmissione del sapere? Quindi tutto ciò che si trova in un museo è di per sè una “reliquia sacra” dall’indiscutibile valore storico? Come mai non si promuovono forme di acquisizione della materie scolastiche che forniscano gli strumenti critici per mettere in rapporto dialettico e problematico le cose? Non ci sarebbe bisogno di gite scolastiche e neppure si porrebbe il problema della visita a Predappio. Tutti i giorni in televisione o sui social si vedono cose che, assorbite in maniera acritica, portano ad una normalizzazione di un dato di violenza estrema che sdogana implicitamente la violenza fascista, la prepotenza insita in quell’ideologia,l’ arroganza del più forte sul più debole e una passiva forma di accettazione di un’organizzazione gerarchica della società e dei rapporti fra persone e, francamente, il museo mi sembra solo l’espressione ultima e cristallizzata di un modo di fare cultura. In un’ intervista in televisione Pier Paolo Pasolini aveva dichiarato, per mitigare l’impatto delle sue stesse riflessioni, di essere in una posizione gerarchicamente superiore a quella dello spettatore, smontando e decostruendo contemporaneamente il ruolo istituzionale del mezzo attraverso cui si esprimeva. Prima che del contenuto non è necessario preoccuparsi di costruire una trasmissione di sapere che non preveda nella parte del discente quella dello spettatore passivo? Ciao. Grazie.
La questione di come sono strutturati i musei storici è un bell’argomento, importante, ma che mi pareva eccedesse il tema di questa occasione, che è l’assurdità di quel museo in quel contesto. Nella mia esperienza però posso dire che ogni volta che si va in visita ad un museo con la classe, l’impressione è esattamente l’opposto della passività. Ovvio, dipende da come ci vai: se fai entrare la classe in un museo d’arte senza i colori e senza il brogliaccio da disegno, se non permetti ai ragazzi e alle ragazze di sedersi davanti alle opere e non li solleciti a riprodurre quello che vedono per impadronirsene, il rischio della passività è più forte; ma anche se non si dà alla classe la possibilità di lavorare direttamente sul posto, anche nel caso in cui dovessero essere obbligati ad ascoltare diligentemente una guida, di solito l’attenzione e la partecipazione supererebbe di gran lunga quella ottenibile a scuola, anche rispetto a laboratori pensati per essere operativi.
Nel caso poi dei musei (o delle mostre) che si occupano di storia si ha la possibilità di far entrare la classe in una specie di laboratorio storiografico, perché contrariamente ad un libro e ad una lezione frontale, il museo ti presenta innanzi tutto dei documenti da interpretare (carte, immagini, oggetti, filmati…) obbligandoti ad essere attivo. Non è un caso che negli anni Settanta la critica alla vecchia scuola imbalsamata e passiva sia passata anche attraverso la critica ai libri di testo e la rivendicazione dell’uscita dalla scuola (vissuta come un recinto) per addentrarsi nella città (e nei musei come luoghi del suo patrimonio culturale).
Sono comunque d’accordo che i musei non debbano essere presentati come la voce della verità, ci mancherebbe: sono articolazioni temporalmente determinate di un sapere egemone che può essere sempre sottoposto a critica. Ma per esserlo, va prima letto e compreso; e la scuola dovrebbe lavorare per questo doppio compito: far comprendere e dare gli strumenti per leggere criticamente, per decostruire i dogmi, anche quelli culturali.
Grazie, sei stato molto esaustivo. La costruzione di questo museo a Predappio è la sorgente di molti interrogativi per chi come noi si pone il problema della trasmissione di una memoria storica antifascista militante. Alla luce di questo per nulla inaspettato risultato elettorale si pone un problema di immediata urgenza, vista l’alta probabile legittimazione istituzionale di forze politiche come Casa Pound e Forza Nuova. La barbara regressione che ci ha portato sino a questo punto la possiamo attribuire anche, in larga parte, alla sinistra di governo. Certo bisogna dotare gli studenti degli anticorpi necessari per reagire a questa situazione, nel frattempo come argineremo la violenza fascista?
[…] abbiamo ospitato le concretissime obiezioni di uno storico e insegnante, Gianluca Gabrielli («Come ti organizzo la gita scolastica al futuro museo di Predappio»). Oggi proseguiamo la riflessione con il contributo di un valido storico contemporaneista, Sandro […]