di Wu Ming 1
Un paio d’anni fa, su Internazionale, ci siamo occupati del mito tossico di Pasolini «che stava con la polizia», mito costruito a furia di citazioni monche e decontestualizzate della poesia Il PCI ai giovani.
Di quel mito abbiamo dimostrato l’infondatezza, e ci sembra di aver contribuito a ridurre l’utilizzo ricattatorio e repressivo che ne facevano gli strumentalizzatori. Era veramente troppo vedere Pasolini tirato in ballo come «uomo d’ordine» da gente come Maurizio Gasparri o Stefano Esposito.
Da un po’ di tempo a questa parte, al calo di potenza di quel mito è corrisposto l’aumento di potenza di un altro mito, complementare al primo e ancora più pernicioso: quello di un Pasolini «anti-antifascista».
Anche in questo caso si ricorre a frasi mozzate, recise, strappate a forza dal loro contesto, sempre le stesse frasi che diventano memi e circolano viralmente, come surrogati di qualunque argomentazione, «risposte-fine-di-mondo».
Il fine è sminuire — se non occultare — la violenza praticata dai neofascisti, cambiare argomento ogni volta che si parla delle tossine razziste in circolazione, opporre ai fatti il più bieco benaltrismo. In alcuni casi, come nelle esternazioni di un sedicente filosofo, il mito di un Pasolini «anti-antifascista» serve a proporre improbabili alleanze «antiglobaliste» coi neofascisti.
Prima o poi andrà ricostruita la genealogia di quest’utilizzo di Pasolini come auctoritas per ogni stagione e occasione. Un processo di lungo corso che, banalizzandone l’opera e la figura, lo ha trasformato in fashion icon per ipse dixit pronti da indossare. Di sicuro c’entra la sua «santificazione» dopo il martirio, ma non basta a spiegare tutto. C’entra anche la contraddittoria complessità del suo percorso, unita all’oltraggiosità di molte sue prese di posizione. E c’entra il suo modo di esprimersi, il suo “senso della frase”.
1. Punti fermi e irrinunciabili
Il contesto discorsivo costruito da Pasolini è un campo di tensioni, un vasto reticolo di corde tese all’estremo, a collegare vari temi, concetti, momenti. Corde sempre sul punto di spezzarsi. Seguendole con lo sguardo si trovano vere e proprie «rime narrative» e tematiche, ed è ciò che più affascina nell’installazione. Ma c’è anche un aspetto spaventoso: si capisce che per snaturare un’affermazione di Pasolini basta davvero pochissimo. Il modo più facile di snaturarla è dire, su qualunque argomento: «Pasolini la pensava così, punto». Costringere il suo pensiero in un meme è dunque la suprema violenza, è ogni volta uno stupro.
Come ha scritto uno dei più attenti studiosi di Pasolini, Guido Santato, l’opera pasoliniana
«nega al lettore la possibilità di una interpretazione univoca o unilaterale costringendolo al contrario a una tensione critica costante, a una disponibilità intellettuale aperta e irrisolta. Cercare di ridurre a un ordine le contraddizioni di Pasolini privilegiando una chiave di lettura critica che si proponga di risolverle significherebbe ignorare la funzione essenziale che hanno avuto nella sua opera e nella sua vita. L’esperienza dell’antitesi costituisce la più profonda matrice strutturale dell’opera di Pasolini, che al di fuori di essa apparirebbe sostanzialmente incomprensibile. La contraddizione costituisce l’elemento dinamico e tensore che produce l’opera, e che in questa mira non a risolversi ma ad esprimersi.»
Nondimeno, chiunque conosca l’opera di Pasolini — in primis Santato, che forse la conosce meglio di tutti — può dimostrare che in essa si trova una coerenza intima e profonda. Nel percorso di Pasolini vi sono punti fermi non negoziabili. Altrimenti non sarebbe opera, ma un guazzabuglio di prese di posizione umorali, rovesciamenti da banderuola scossa dal vento, dichiarazioni rese al puro scopo di épater qualcuno: les bourgeois, la gauche ecc.
Non che a Pasolini non capitasse di voler «scandalizzare e basta», anzi. Ma lo fece sempre entro certe — e sottolineo certe — coordinate di pensiero, tenendo fermi valori irrinunciabili.
Quella che Santato chiama «esperienza dell’antitesi», è antitesi tra una strategia discorsiva e l’altra, tra una tattica argomentativa e l’altra, tra un elemento e l’altro di una poetica complessa. Pasolini cambiava approccio in modo drastico, usava l’antitesi per passare da una fase all’altra del suo percorso. Si pensi ai film della «Trilogia della vita» (1971-1974) e all’Abiura della «Trilogia della vita» (1975); si pensi al passaggio dall’invettiva de Il PCI ai giovani (1968) alla collaborazione con Lotta Continua (1969-1972), del cui giornale fu anche direttore responsabile.
L’antitesi, però, non è mai antitesi rispetto ai valori irrinunciabili o alle linee di condotta ritenute imprescindibili. Mai.
Valori e linee di condotta che i suoi finti esegeti da social network — o da editoriale «anti-antifascista» cucinato in modalità Quattro salti in padella — ignorano, per insipienza oppure a bella posta.
Per questo le loro citazioni di Pasolini ne deturpano la figura e il pensiero.
Il punto è questo: il 99,99% di quel che Pasolini scrisse, se letto da quelli che ne citano a cazzo di cane lo 0,01%, o addirittura ne spacciano frasi false, li farebbe fremere d’odio nei confronti dell’autore che stanno usando come pezza d’appoggio.
Uno dei punti fermi poetici e tematici nel percorso e nell’opera di Pasolini — da Le ceneri di Gramsci fino a Salò e Petrolio — è il mix di orrore e tristezza di fronte al fascismo in ogni sua forma.
2. «Normalità» del fascismo
Per Pasolini il fascismo è, se non proprio — come per Gobetti — l’«autobiografia della nazione», sicuramente l’autobiografia della borghesia italiana, classe sociale che egli — lo dichiarerà più volte nel corso della vita — odia con tutte le sue forze. Il fascismo è la plastica, violenta concretizzazione della grettezza borghese, del razzismo borghese, della sorda, vigliacca, depravata crudeltà borghese.
Nel settembre 1962, nella sua rubrica sulla rivista Vie Nuove, Pasolini descrive il fascismo «come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società.» Ed è ovviamente la borghesia, in quanto classe al potere, a normare, codificare ed eleggere socialmente l’egoismo brutale che sta nel fondo del sociale.
In questo senso, per Pasolini la borghesia è sempre fascista. Anche quando a parole dice il contrario, essa è inevitabilmente cripto-fascista.
3. Fascismo come «atroce nevrosi»
In tutti gli scritti di Pasolini i fascisti sono sempre squallidi, vili, malati, stupidi, sadici e quant’altro. Che si tratti di poesie, romanzi o scritti saggistici, la rappresentazione è sempre quella: dai versi di Notte in Piazza di Spagna all’Appunto 125 di Petrolio, per i fascisti c’è sempre un misto di ribrezzo e commiserazione.
Per Pasolini, essere fascisti e neofascisti — quei neofascisti che lo perseguitavano e aggredivano, e continuarono a dileggiarlo anche post mortem — è una condanna esistenziale, un’auto-condanna a vivere da kapò dentro il campo di prigionia dell’orrore borghese.
In vari periodi della sua riflessione, Pasolini — come farà decenni dopo Franco «Bifo» Berardi — si chiede se non sia sbagliato considerare i giovani neofascisti predestinati a diventare tali, e se non vi sia un modo di impedire quel decorso, di prevenire l’autocondanna.
«Essi non sono i fatali predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno — quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità — ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È un’atroce forma di disperazione e di nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita, un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.»
Il punto che Pasolini mantiene come premessa, e sul quale rimane fermo, è che il fascismo è espressione di un’atroce nevrosi. La nevrosi della società borghese.
4. Un nuovo «fascismo»
Durante la stagione «corsara» e «luterana», più o meno coincidente con il triennio 1973-1975, Pasolini comincia a dire che è sorto un «fascismo radicalmente, totalmente, imprevedibilmente nuovo», molto peggiore di quello vecchio: il fascismo della società dei consumi, il fascismo portato dal — come lo si chiamava allora — «neocapitalismo».
Questa è la fase in cui Pasolini avverte: si sta imponendo un fascismo nuovo, che sta causando una «degenerazione antropologica» del popolo italiano.
Quando dice «popolo», Pasolini intende quella parte di società che non è borghesia e dunque finora non è stata fascista: il mondo operaio e quello contadino, la società che il fascismo aveva sì governato dispoticamente, ma che non era riuscito a “fascistizzare”.
Durante la dittatura fascista, scrive Pasolini in uno dei suoi articoli più famosi (quello sulla «scomparsa delle lucciole», 1 febbraio 1975), «il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza», ma ora la situazione è cambiata: a fascistizzare la coscienza, non più solo il comportamento, ci stanno pensando il «benessere» e il consumismo.
Attenzione, ripete Pasolini: il fascismo oggi non si presenta col fez e la camicia nera, non fa comizi guitteschi dal balcone di Piazza Venezia. Se ne attendiamo il ritorno in quelle forme — le forme analizzate nel documentario Fascista di Nico Naldini, da Pasolini recensito e più volte commentato — non capiamo che la società si sta fascistizzando in un altro modo.
Mentre argomenta questo, tuttavia, Pasolini si guarda bene dal negare che esistano i neofascisti. «Anzi, neonazisti», precisa in un altro articolo celeberrimo («Che cos’è questo golpe?», 14 novembre 1974).
Pasolini i neofascisti li conosce sin troppo bene, conosce la loro violenza, e non smette mai di descriverli come sicari al soldo del potere, «autori materiali» delle stragi di quella che verrà chiamata «strategia della tensione», con la «protezione politica» dei partiti al potere. Cioè quei partiti dell’«arco costituzionale», con l’esclusione del PCI, che — come dichiara Pasolini nel giugno 1975 — cercano di «rifarsi una verginità antifascista […] ma, nel tempo stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero, liquiderebbero in un giorno.»
Ricorda qualcosa o qualcuno?
5. Solo la Resistenza (e intorno il deserto)
Pasolini scrive nella sua epoca dando per scontate, come facciamo tutti in ogni epoca, le premesse che tutti conoscono, che formano un vero e proprio dato ambientale. Una di queste è l’antifascismo, non solo come postura etica individuale, ma come manifestazione storica, concreta, collettiva. L’ago della bussola di Pasolini rimane sempre puntato agli ideali della Resistenza, unico momento — insieme al ’68, e mi immagino la reazione di chi crede che PPP fosse «contro il ’68» — in cui il popolo italiano ha conosciuto ed espresso democrazia dal basso:
«Nel ’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di democrazia reale. La Resistenza e il Movimento Studentesco sono le due uniche esperienze democratiche-rivoluzionarie del popolo italiano. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche, papaline.» (Tempo, 21 settembre 1968)
Di più: in almeno un’occasione, Pasolini cita come riferimento positivo e addirittura fondativo la catarsi di Piazzale Loreto.
«ciò che, oggi, conta individuare e vivere è una “obbedienza a leggi migliori” – simile a quella che, dopo piazzale Loreto, è nata dalla Resistenza – e la conseguente volontà di “ricostruzione”» (Lettere luterane, 1975).
Essere contro fascismo e neofascisti, riferendosi sempre ai valori della Resistenza, era dunque per Pasolini una «banalità di base».
Dando per intesa tale banalità, Pasolini partiva per problematizzare, per sollevare altri punti, introdurre varianti e riaperture di gioco. Il «nuovo fascismo della società dei consumi» è precisamente una di queste riaperture. «Tutto ciò che io ho detto “scandalosamente” sul vecchio e nuovo fascismo è», scrive nel 1974, «quanto di più realmente antifascista si potesse dire.» La cornice non smette mai di essere l’antifascismo. Non può esserci anticapitalismo senza antifascismo.
Per un’analisi al tempo stesso idiosincratica e approfondita delle tattiche usate da Pasolini in quest’occasione, rimando al saggio di Valentino Valentini Pasolini al «Corriere della Sera» (2014, integrale qui)
Nella polemica sollevata da Pasolini il ricorso alla parola «fascismo» non ha né vuole avere esattezza storica o politologica. Si tratta al tempo stesso di una metafora e di una metonimia: «fascismo» sta per dittatura, tirannide, potere totalitario par excellence.
Pasolini non è certo l’unico a usare il vocabolo in questo modo: per lui e per molti altri, i termini «fascismo» e «fascista» sono parametri di negatività e orrore, e vi ricorrono per definire ciò che vedono di negativo e orrendo nel presente e nel futuro prossimo.
È confidando su un’eco distorta di questi discorsi che oggi si inventa una frase rivolta a Moravia, nella quale Pasolini dice che non ci sono più fascisti e parlarne è solo un diversivo. La frase è falsa, ma è diventata un meme e viene usata per attaccare chiunque cerchi di contrastare la violenza squadristica e razzista di oggi.
6. Il «fascismo» degli «antifascisti»
È del periodo «corsaro» anche l’espressione «fascismo degli antifascisti», che tutti citano e riducono a slogan senza mai, proprio mai, andare a vedere cosa Pasolini volesse dire. A volte linkano persino l’articolo del 16 maggio 1974 dove compare — o meglio, tutti credono che compaia — l’espressione. Lo linkano, ma non lo leggono.
Se lo leggessero, per prima cosa vedrebbero che l’espressione… non c’è. Verrà aggiunta come titolo solo in seguito, nella raccolta Scritti corsari.
In seconda battuta, forse — ma non è detto — capirebbero che col significato inteso da Pasolini il loro slogan non c’entra assolutamente niente.
In quell’articolo — sul Corriere della Sera intitolato semplicemente «Apriamo un dibattito sul caso Pannella» — Pasolini attaccava diversi soggetti istituzionali: la Democrazia Cristiana, il presidente della repubblica Saragat, la Rai e la Commissione sanità della Camera, tutti colpevoli di ignorare alcune richieste di Marco Pannella, in sciopero della fame da oltre due mesi.
Erano dunque costoro, non certo chi si opponeva nelle piazze alla violenza neofascista, gli «antifascisti» che secondo Pasolini si stavano comportando da fascisti.
Repetita iuvant: in questo periodo, quando scrive polemicamente degli «antifascisti», Pasolini si riferisce alla classe politica, alla DC e ai suoi alleati di governo, nominalmente antifascisti ma cinici nel giocare di sponda col neofascismo e nel capitolare di fronte al «nuovo fascismo» neocapitalista.
Chi usa l’espressione «fascismo degli antifascisti» fuori da quel contesto, facendosi scudo con Pasolini per delegittimare quanti contrastano gli odierni neofascisti e le estreme destre, è un ignorante, un mistificatore, o entrambe le cose.
Lo ripeto con le esatte parole usate sopra: il 99,99% di quel che Pasolini scrisse, se letto da quelli che ne citano a cazzo di cane lo 0,01%, li farebbe fremere d’odio nei confronti dell’autore che stanno usando come pezza d’appoggio.
Appendice. I memi e l’antimateria
Per riaprire a nostra volta il gioco su Pasolini e sul suo antifascismo, possiamo usare degli «anti-memi», cioè memi-antimateria, o almeno memi-kryptonite, che elidano o se non altro indeboliscano il messaggio dei memi «anti-antifascisti» in circolazione, facendoli apparire stupidi e ridicoli, e facendo apparire stupido e ridicolo chi li usa.
Gli anti-memi che illustrano questo articolo sono disponibili in un’unica cartella zippata scaricabile qui.
[Testo aggiornato il 31 ottobre 2018.]
[…] anche in Italia, dove più di un furbone si riempie la bocca di una stupida battuta di Flaiano: «Il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo». Del tutto privo di senso, questo aforisma è diventato uno degli artifici retorici preferiti dei […]
In realtà, la frase di #Flaiano è apocrifa, “tornita” a forza di passaparola e semplificazioni, forse partendo da alcune sue vere riflessioni.
Riflessioni il cui significato oggi sfugge totalmente, per questo la frase è usata a sproposito, anzi, proprio a rovescio.
Flaiano, che per il fascismo nutriva un profondo disprezzo, denunciava la continuità tra fascismo e democrazia post-bellica, il mancato fare i conti col fascismo, la mancata epurazione. In primis, epurazione delle coscienze. Faceva notare che la classe dirigente del Paese, in teoria «antifascista», era in realtà composta da ex-fascisti, e continuava a servire le logiche, i meschini interessi e i blocchi di potere che anche il fascismo aveva servito.
Cosa pensasse Flaiano del fascismo – inteso come ideologia, anzi, antropologia di un certo tipo di italiani, che possiamo identificare coi piccoli borghesi – si può leggere, ad esempio, nel suo Diario degli errori:
«[…] Il fascismo conviene agli italiani perché è nella
loro natura e racchiude le loro aspirazioni,
esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità.
Il fascismo è demagogico ma padronale
retorico, xenofobo, odiatore di cultura,
spregiatore della libertà e della giustizia,
oppressore dei deboli, servo dei forti,
sempre pronto ad indicare negli “altri”
le cause della sua impotenza o sconfitta.
Il fascismo è lirico, gerontofobo,
teppista se occorre, stupido sempre,
ma alacre, plagiatore, manierista.
[…] Non ha senso religioso, ma vede nella religione
il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere.
Intimamente crede in Dio, ma come ente
col quale ha stabilito un concordato, do ut des.
È superstizioso, vuol essere libero di fare
quel che gli pare, specialmente se
a danno o a fastidio degli altri […]»
Flaiano pensava, a ragione, che questi “valori” del fascismo fossero anche quelli della classe politica post-1945, democristiana, voltagabbana, filistea, codarda, dedita al piccolo cabotaggio.
Questo è il senso del suo discorso sui sedicenti “antifascisti” (gli “antifascisti” al governo) che in realtà erano fascisti.
Come si vede, il significato del paradosso (che tale nemmeno era) è esattamente opposto a quello che gli attribuiscono gli ignoranti «anti-antifascisti» che a colpi di ipse dixit farlocchi ostentano una cultura posticcia.
Questo è l’inizio della lettera che #Flaiano scrisse alla figlia di un anno, perché la leggesse da grande, il giorno della caduta di Mussolini, 25 luglio 1943:
«Cara Lelè,
questa è la prima lettera che ti scriviamo per dirti che oggi il tiranno d’Italia è stato mandato a spasso. Si chiamava Mussolini. Un giorno tu ti sorprenderai quando ti racconteremo quello che si è sofferto in ventun’anni di miseria morale. Non vorrai crederci. E forse ci rimprovererai dicendo: “Perché non l’avete cacciato prima?”. Le, era impossibile. Aveva un esercito di spie, di poliziotti e di mascalzoni […]»
Quell’esercito non è mai stato smobilitato, ed è ancora in servizio.
Per piacere dove si trovano quelle riflessioni di Flaiano? Sarebbero utili.
Grazie.
Sì S-J il commento è troppo breve, non c’è bisogno che me lo ricordi.
Sono sparse un po’ ovunque nel corpus dei suoi scritti, spesso affidate a notazioni sarcastiche, ritratti di personaggi, epigrammi, paradossi («Il fascismo è una trascurabile maggioranza», da Diario notturno). La sua cifra era quella, non era un saggista politico.
Va detto che non erano certo riflessioni soltanto sue. La continuità tra fascismo e democrazia era talmente evidente che diversi intellettuali le dedicarono analisi e opere.
Anche i neofascisti, benché nel loro modo banale, canagliesco e finalizzato a screditare l’antifascismo stesso, polemizzarono molto sui «voltagabbana». Nel 1976 le edizioni B & C – quelle che mandavano in edicola «Il Borghese» – pubblicarono un pamphlet anonimo intitolato Camerata dove sei? Dentro si attaccavano, oltre agli uomini del potere DC, anche ex-partigiani, dirigenti e intellettuali di sinistra, mettendo sullo stesso piano personaggi che durante il ventennio avevano già una carriera avviata e altri che erano ancora ragazzini e magari avevano solo partecipato ai Littoriali della gioventù.
La retorica di fondo era quella – qualunquistica – del «prima tutti fascisti, poi tutti antifascisti», che ovviamente è falsante. Anziché gettare luce sulle continuità d’apparato, sulla mancata epurazione, sulle gravi storture dell’amnistia Togliatti, sulla mancanza di una Norimberga italiana ecc., questo discorso, al contrario, mira a screditare la parte antifascista della società italiana, ed è quindi completamente diverso da quello di Pasolini, come anche da quello di Flaiano.
Un esempio di diffamazione dell’antifascismo in base alla narrazione «prima tutti fascisti, poi tutti antifascisti», secondo lo schema di quel libello anonimo del ’76, è quella nei confronti di Giorgio Bocca.
Da ragazzo Bocca fu fascista, come moltissimi giovani cresciuti sotto il regime. Era iscritto ai Guf (Gruppi universitari fascisti), organizzazione che poi qualcuno ha definito – esagerando – «palestra di antifascismo». La realtà è più complessa e sfumata: molti aderenti ai Guf erano convinti che il fascismo avesse tradito o comunque attenuato la sua indole «rivoluzionaria» delle origini, e vagheggiavano un ritorno a quelle radici. Per questo si atteggiavano a fascistissimi, e manifestavano un’intransigenza «antiborghese» che il regime, dal 1938, incalanò nell’odio contro gli ebrei. È un meccanismo classico: non a caso «l’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli» (August Bebel).
Molti giovani di quella generazione, una volta capito che il mito delle origini di un fascismo «rivoluzionario» era una truffa, passarono dal desiderare una rivoluzione dentro il fascismo al desiderarne una contro il fascismo.
Nel 1942, a 21 anni e mentre era sotto le armi, Bocca aveva scritto un articolo antisemita su un foglio fascista del cuneese. Articolo che la destra gli avrebbe rinfacciato e tuttora gli rinfaccia, con l’intento di descriverlo come voltagabbana. In realtà, già l’anno dopo quell’articolo, Bocca conobbe esponenti di Giustizia e Libertà, e dopo l’8 settembre aderì alla Resistenza.
Da questa polemica, nell’epoca dell’ignoranza social e del suo mefitico contagio, è nata la mega-bufala su Giorgio Bocca «firmatario del Manifesto della Razza» e addirittura «firmatario delle leggi razziali» (!). Si può leggere, con l’una o l’altra formulazione, in svariati siti fascisti e fascioleghisti (ma non solo). Un paio di esempi (tranquilli, cliccando non portate traffico a quei siti, sono le versioni delle pagine salvate su archive.org):
L’Indipendenza Nuova
A tutta destra
(Qui, tra l’altro, si sbaglia l’anno di pubblicazione del Manifesto: c’è scritto 1940 anziché 1938, tanto per capire il livello di competenza)
Proprio su questo, una decina di anni fa, nella pagina di discussione della voce che Wikipedia dedica a Bocca, c’è stato un dibattito molto acceso.
Per quanto riguarda le leggi razziali, è del tutto ovvio che Bocca non potesse esserne in alcun modo “firmatario”. Quando entrarono in vigore, aveva appena compiuto 18 anni, viveva a Cuneo e in buona sostanza era uno sconosciuto. Le firme in calce alla legislazione razziale sono invece, molto ovviamente, quelle del duce, dei membri del Gran Consiglio del Fascismo e di Vittorio Emanuele III.
Quanto al Manifesto della Razza, fu firmato da dieci scienziati (ma scritto da Mussolini di suo pugno). In rete circola una lista di oltre 300 pubblici sostenitori del manifesto, VIP dell’epoca sottoscrittori di una petizione in sostegno dei suoi contenuti, tra i quali compare anche Bocca. Questi personaggi vengono definiti tout court “firmatari del manifesto”, che già sarebbe inesatto. Ma soprattutto, chi riporta quella lista non cita mai alcuna fonte storiograficamente attendibile.
Ripeto: Bocca era un giovanissimo signor nessuno. Che all’epoca fosse d’accordo col contenuto di quel manifesto è assodato, e può anche darsi (ipotizzo) che avesse apposto la firma sotto una qualche petizione che circolava, come si fa oggi su change.org, ma includerlo tra i personaggi famosi “firmatari del manifesto” è una bufala, per giunta platealmente anacronistica. Bufala finalizzata a ingigantire il suo ruolo e la sua partecipazione al regime prima del 25 luglio e dell’8 settembre, per potergli dare del voltagabbana. Si mettono sui due piatti della bilancia le illusioni giovanili e la concreta, formativa esperienza della guerra partigiana e dell’impegno antifascista successivo, e si trucca la bilancia per far pesare di più il primo piatto.
Con ciò non voglio certo difendere tutte le scelte e le prese di posizione di Bocca nel periodo repubblicano fino alla morte. Di cose molto discutibili ne disse e ne fece parecchie, e io non faccio l’agiografia di nessuno. Non la faccio di Pasolini, figurarsi se la faccio di Bocca.
Tuttavia, Bocca va difeso da queste orride manipolazioni, soprattutto perché si attacca lui per attaccare molto altro. E anche perché i falsi storici vanno contrastati sempre.
L’argomento del “dall’oggi al domani i fascisti divennero antifascisti” (sottinteso: per opportunismo) è uno dei più gettonati nella chiacchiera fascista. Perché si dà per certo che non ci siano esperienze che ti fanno cambiare idea di colpo – come se tutti dovessero leggere vagonate di studi prima di mutare parere. Cito il caso di mio padre, classe 1927, che di se stesso ragazzo dice di essere stato “un fascista di sinistra” (espressione con la quale si intendeva qualcosa di paragonabile all’odierna destra sociale). Adolescente in una città portuale, conosceva, come tutti i suoi coetanei, i profili delle navi italiane uno per uno. Un giorno la radio annuncia che si è svolta una battaglia navale nel Mediterraneo, e le navi italiane hanno respinto l’attacco britannico senza perdite. Poi va al porto a vedere le navi tornare, e si accorge di quelle che mancano, e di quelle che tornano sì, ma a rimorchio, E scopre che la radio può mentire, e diventa antifascista. Ad altri suoi coetanei è capitato lo stesso con i bombardamenti aerei, con le lettere dei familiari dal fronte, con l’irruzione della stampa libera nelle edicole dopo il 25 luglio (come racconta Eco). O con l’incontro con un amico che ti fa cambiare idea, come Bocca. O con due insegnanti di liceo, come Fenoglio (uno dei quali, Chiodi, la decisione di andare in montagna non la prese meditando sul grosso tomo in tedesco che aveva nello zaino, ma alla vista di tre ragazzi, neanche partigiani, fucilati e lasciati marcire come esempio). In ogni caso, si è sempre quel che si è diventati.
La frase è estratta da un articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 3 settembre 1972, poi raccolto ne La solitudine del satiro l’anno seguente. Flaiano la attribuisce a Mino Maccari.
Personalmente, leggendola nel suo contesto, non la trovo riducibile ma nemmeno “esattamente opposta” all’interpretazione comune. La riflessione di Flaiano non sembra in ogni caso rivolta alla classe dirigente democristiana.
(Ringrazio @anubidal per il suo commento che mi ha dato lo spunto per la ricerca della fonte:
https://twitter.com/anubidal/status/967062104124674049)
Grazie, anch’io dopo il tweet di Anubi sono andato a cercare riscontri. La mia ipotesi iniziale era che la frasetta fosse un “riassunto” banalizzato di certe esternazioni di Flaiano, e invece, almeno stando a Flaiano, sarebbe farina del sacco di Maccari.
Attenzione: non è una «riflessione di Flaiano», è una boutade di Maccari in un “siparietto” tra i due che Flaiano riporta.
[A voler risalire oltre, la boutade potrebbe persino essere una rielaborazione, da parte di Maccari, di una frase simile, consuetamente attribuita ad Amadeo Bordiga, che però aveva un altro significato: «Il peggior prodotto del fascismo è l’antifascismo».]
Hai ragione, sicuramente Maccari – che era amico di Flaiano ma aveva un profilo diverso, e diversi trascorsi – non si riferiva alla classe dirigente, e nemmeno alla piccola borghesia, fascista nell’animus, come la descrisse Flaiano. La nota che risuona è più quella del «rossi e neri son tutti uguali», ci sono arruffapopoli a destra come a sinistra ecc.
Maccari era stato un superfascista e poi un fascista “di fronda”, uno di quei finti anticonformisti che il regime si coltivava per simulare una dialettica che non c’era. Dopo il 1945, costoro antedatarono un’estraneità al regime che invece aveva pochi riscontri.
Per quanto riguarda il passaggio dal fascismo alla democrazia, la retorica di Maccari, Longanesi, e ovviamente Montanelli – era tutta una cerchia – era quella classica del «prima tutti fascisti, poi tutti antifascisti» di cui ho scritto in un altro commento.
Cercando “antifascisti Maccari” e “antifascisti Flaiano” su Google Books, si vede che dopo il 1972 la frase, sulla scorta di Flaiano, viene quasi sempre correttamente attribuita a Maccari, poi, a un certo punto, comincia a essere attribuita allo stesso Flaiano, con un crescendo a partire dal cambio di millennio. Nel XXI secolo, trionfa l’attribuzione apocrifa a Flaiano e la frase diventa tout court “di Flaiano”. Perché?
Credo che la risposta giusta l’abbia data Yadad De Guerre su Twitter: nel 2001 Oriana Fallaci usa la frase nel suo best-seller La rabbia e l’orgoglio, attribuendola a Flaiano.
La rabbia e l’orgoglio ha venduto milionate di copie ed è uno dei pochissimi libri letti dai fascioleghisti e neo-qualunquisti italiani. È più che verosimile, dunque, che la “svolta” l’abbia impressa Fallaci, tra le cui preoccupazioni, del resto, non c’è mai stato il fact-checking, e mi fermo qui, perché se dovessi aprire un OT sulle balle sparate da Oriana, diventerebbe chilometrico. Tra lei e Montanelli è stata una sfida all’ultima bufala, fino alle rispettive morti, e pensare che c’è chi considera entrambi «maestri di giornalismo»…
Ecco come la mette giù Oriana «Nomen Omen» Fallaci ne La rabbia e l’orgoglio. Corsivo mio. A me sembra proprio la matrice dell’interpretazione e dell’utilizzo che oggi spopola sui social:
«L’Italia ancora mussolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono ad adottare la tremenda battuta di Ennio Flaiano: “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti”.»
Da notare che, pur nel suo tarantolismo xenofobo, persino la #Fallaci del 2001 era più a sinistra dei commentatori attuali (tutti suoi figliocci, comunque). Infatti parla di «Italia ancora mussolinesca», mentre oggi si tende a dire: «Ancora parlate di fascismo nel [inserire anno corrente]?!! È roba antica!!1!! Il fascismo è morto 70 anni fa!!!1!!»
N.B. Alcuni scrivono «50 anni fa», perché non hanno la minima idea di dove si collochi il ventennio.
Attenzione: non è una «riflessione di Flaiano», è una boutade di Maccari in un “siparietto” tra i due che Flaiano riporta.
Mi riferivo al discorso che poi Flaiano ci elabora intorno e alla traiettoria dell’articolo (anche nell’ipotesi che sia un parafrasare il pensiero dell’amico, si intuisce una qualche condivisione critica).
Spero di fare cosa utile e gradita se lo riporto qui interamente:
Appartengo alla minoranza silenziosa. Sono di quei pochi che non hanno più nulla da dire e aspettano. Che cosa? Che tutto si chiarisca? È improbabile. L’età mi ha portato la certezza che niente si può chiarire: in questo paese che amo non esiste semplicemente la verità. Paesi molto più piccoli e importanti del nostro hanno una loro unica verità, noi ne abbiamo infinite versioni. Le cause? Lascio agli storici, ai sociologhi, agli psicanalisti, alle tavole rotonde il compito di indicarci le cause, io ne subisco gli effetti. E con me pochi altri: perché quasi tutti hanno una soluzione da proporci: la «loro» verità, cioè qualcosa che non contrasti i loro interessi. Alla tavola rotonda bisognerà anche invitare uno storico dell’arte per fargli dire quale influenza può avere avuto il barocco sulla nostra psicologia.
In Italia infatti la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi.
Appena un mese fa parlavo con Mino Maccari. Che si fa? Niente, si aspetta. Godot? No, si aspetta la rivoluzione. Chi dovrebbe farla, i fascisti? «I fascisti» gli ho ricordato «sono una trascurabile maggioranza». Maccari ha precisato: «Il fascismo si divide in due parti: il fascismo propriamente detto e l’antifascismo». Tutti e due vogliono confusamente ma subito le stesse cose: ordine, lavoro, democrazia, livellamento delle classi, un partito autoritario, nessuno vuole la libertà. Ossia ognuno vuole la sua versione della libertà, che consiste nel sopprimere quella dell’altro.
La libertà comunemente intesa, quella per esempio di esprimere le proprie opinioni, è una cosa da disprezzare perché bene o male l’abbiamo. Siamo come quei seduttori incalliti che disprezzano la donna che cede alle loro voglie. Se riesci a sedurre la libertà prima di sposarla, inutile sposarla. Se essa invece pretende di essere impalmata, meglio lasciar perdere. Si può sempre sostenere che la libertà è frigida.
«Qual è il nostro ideale più diffuso, oggi?».
«Essere scambiati per quello che non si è, per rivoluzionari. In realtà siamo solo dei rivoltosi sentimentali. È il paese che dà il più alto quoziente di miliardari rivoluzionari, a destra e a sinistra. La rivoluzione da noi è una forma d’investimento, di assicurazione per la vecchiaia. Io sono circondato da amici “benpensanti” che hanno per amici almeno due estremisti, uno per parte».
«Una volta si manteneva il figlio agli studi, oggi lo si mantiene nella contestazione, qualunque essa sia».
Basta dare un’occhiata alla nostra cronaca. Confesso che lo faccio malvolentieri, ma bisogna farlo, o si rischia di non capire più niente. Ogni fatto si propone come una tragedia che non avrà mai la sua catarsi. Non esistono colpevoli, esiste solo il fatto, che cresce, si sviluppa, fa il suo corso; e alla fine, senza soluzione, rientra nel grembo del nulla, non appena sorge un fatto più grosso all’orizzonte. I colpevoli svaniscono, i presunti colpevoli restano dentro, a tirarli fuori c’è sempre tempo. Tu mi dirai: sono casi limite, casi di «pazzia» momentanea. No, i pazzi da noi sono normali e anche abbastanza pazienti (basta vedere dove vengono rinchiusi); i veri pazzi sono gli altri, come diceva il filosofo, sono quelli che hanno perduto tutto fuorché la ragione. E l’adoperano per costruire sistemi di intolleranza, di menzogna, di sopraffazione, ma soprattutto per imporre dogmi. E tutti ne hanno uno da imporre, costruito su letture affrettate, su vecchi rancori esistenziali, sulla loro trionfante inferiorità, sulla loro naturale volgarità, sulla teoria del massimo successo col minimo sforzo.
Lo scopo è di far paura a quelli che non la pensano come loro. Il terrore ideologico viene così mantenuto in continua riparazione.
Dopo il furioso temporale dell’altra notte è tornato il bel tempo, l’Italia del colonnello Bernacca, in piedi, scruta il cielo e stamane un leggero scirocco plana sulla laguna come un foulard. Sono qui da qualche giorno per il festival del cinema, al Lido, ma a Venezia c’è anche un contro-festival, di protesta e di contestazione, e si spera che il prossimo anno ne avremo tre o quattro. Quello che viene chiamato il contro-festival ha risuscitato, come leggo in un giornale, «il clima partigiano» fra gli aderenti: forse un po’ in chiave di commedia, secondo la nota legge di Marx sulla ripetizione degli eventi storici. Tuttavia si sono visti registi e autori dedicarsi a colpi di mano e azioni da commandos, come negli anni di guerra, per trafugare e trasportare un film, mettendo a repentaglio anche i loro yachts personali, poiché tra gli idealisti, ai quali mi inchino, c’è anche gente ormai affermata, ossequiata, inserita nel più calmo benessere e amareggiata soltanto dal contegno del fisco. Affinché la protesta fosse totale, costoro hanno chiesto e ottenuto l’adesione dei metalmeccanici.
I metalmeccanici devono avere un buon carattere: non solo fanno un duro lavoro e, coi tempi che corrono, non ben compensato, ma corrono in soccorso ai benestanti; e questo è bello, perché i ricchi vanno aiutati, abbiamo già troppi poveri. Rileggevo giorni fa Machiavelli e di colpo ho avuto questa modesta illuminazione: non sono gli italiani che vanno verso «la sinistra», è la sinistra che va verso gli italiani, i quali sono inamovibili come la montagna di Maometto. Essi faranno la sinistra a loro immagine e somiglianza. Cioè, molto elegante.
Sono stato a vedere di soppiatto un film tratto da un mio racconto e non l’ho riconosciuto. Eppure intorno a me si parlava di diritti e di proprietà d ’autore. Eccomi dunque decaduto dalla mia qualità di autore. Mi consolo più tardi, nell’atrio dell’albergo, dove incontro Tretti, regista vicentino, autore di due film che a me piacciono molto e che non sono mai usciti, perché danno fastidio a tutti. Eretti ha messo la sua fortuna personale in questi due film e non ha ancora perduto la speranza che il pubblico li veda. Chi potrà aiutarlo, ormai? Il suo
sereno ottimismo mi sconvolge. Mi ha parlato di un terzo film che ha in animo di proporre… a chi? Tretti è il tipico autore ingombrante che non ha ancora capito e forse non capirà mai il gioco degli interessi creati, e perciò lo stimo e gli voglio bene. Che sia non-italiano?
Provo insistentemente a consolarmi con la retrospettiva di Mae West, che danno al festival del Lido, quello «ufficiale», che a mio avviso ha perso il suo carattere di passerella delle stelle e di sagra dell’autografo per diventare un’esposizione di opere belle o brutte, ma in quantità tale da potersi dire veramente democratica, cioè aperta a ogni pur piccolo ingegno. Di Mae West sono in visione sette film,
per sette giorni, alle tre del pomeriggio. Ne ho visti due, ne ho dormiti altri due, ho rinunciato agli altri. Mae West, pensavo, dovrebbe dire qualcosa a quelli della mia generazione. Dei suoi film, «allora», in Italia ne arrivò uno soltanto, e lo mancai. Mi aspettavo una rivelazione aggravata dall’indulgenza verso le memorie lontane della giovinezza. Confesso che il giudizio di Andy Warhol, confermato da Tommaso Chiaretti, che su Mae West va scrivendo in questi giorni bellissime note, può essere seducente: «Mae West era un travestito». Io lo trovo sbrigativo. Mae West era forse peggio di un travestito, mancava cioè di quell’aspirazione alla femminilità che spinge i travestiti ad assumere pose vezzose e a mimare il sesso debole un po’ sopra le righe. Mae West mima piuttosto la donna «della frontiera», quelle che seguivano i cercatori d’oro e impiantavano i saloons. Probabilmente fornita di uno spirito smoderatamente pratico e chiaro, più da tenutaria che da peccatrice, le sue battute sono tutte costruite come mots d’auteur. E lei, vestita sempre come un cavallo da parata, carica di diamanti veri e di pellicce bianche, circondata da adoratori feticisti e da comprimari annoiati, ci appare oggi come una dea maya della civiltà del vapore, con la sua andatura da guappa, senza mai concedersi, incapace di soffrire
e di gioire veramente, «indomita», come diceva di se stessa Messalina. Suvvia, una proprietaria di appartamenti, piuttosto stella del varietà, che attrice. Non ho rimpianto i miei sonni pomeridiani.
Per fortuna, a entusiasmarci, la serie del «tutto Chaplin» offerta, con geniale trovata, gratuitamente, ogni pomeriggio, a grandi e piccini. La sala sempre animatissima mi ha riportato a certi climi dell’infanzia, alla constatazione
di una felicità che forse (no, senza forse) nessun altro autore di cinema potrà mai darci.
E intanto il contro-festival, con l’arrivo di Godard, di Mastroianni e di Rascel, e probabilmente anche di Marilù Tolo, ha guadagnato il suo bravo terreno, si è imposto all’attenzione dei prudenti e degli indecisi. Poiché è noto che una qualità degli italiani è quella di volare in soccorso del vincitore, il contro-festival si
sta popolando di autori e registi venuti all’ultima ora di corsa da Roma. È il peggior risultato che temevano gli organizzatori. Anzi questo mi ricorda un aforisma di Malraux: «In ogni minoranza intelligente c’è una maggioranza di imbecilli».
[«Corriere della Sera», 3 settembre 1972]
È un classico elzeviro satirico alla Flaiano, soprattutto del tardo Flaiano (ricordiamo che è morto poco dopo). O meglio, sono più elzeviri, frammenti proposti insieme, una carrellata di episodi, coi nessi tematici impliciti o addirittura assenti.
(In fondo, la frammentarietà del quadro, la straniante mancanza di nessi – almeno agli occhi di Flaiano – tra azioni e reazioni, tra stimoli e risposte, è il tema stesso del suo scrivere, quindi in un certo senso il contenuto e l’espressione coincidono).
Gli scritti del tardo Flaiano sono improntati a una sorta di morbido, sconsolato nichilismo passivo. Ho visto qualcuno usare l’espressione «liberal-conservatore», ma a me non sembra che Flaiano voglia “conservare” alcunché (a parte il proprio distacco), né mi sembra un alfiere dei «valori liberali». È troppo sfiduciato nei confronti del mondo intorno. L’unica cosa che davvero tiene a ribadire è il proprio straniamento di fronte alla pressante richiesta di scegliere tra la conservazione e (quella che lui vede come) pseudo-innovazione, pseudo-contestazione, pseudo-rivoluzione. Si veda l’accenno alla «sinistra che va agli italiani», nel senso che si normalizza.
Nel fare questo, non discerne, mette tutti i fenomeni nello stesso sacco. La contestazione dei cineasti – al festival di Venezia e in generale – non era solo la farsa radical-chic che descrive lui. Nello stesso periodo, diversi registi, Pasolini primus inter pares, venivano processati per reati d’opinione, o per resistenza alla forza pubblica, le loro opere venivano sequestrate dalla magistratura ecc.
Per questo dico “nichilismo”: su ogni cosa Flaiano pone il suo nihil… fatto salvo qualche sprazzo di gioia ogni tanto. Molto tenero il riferimento al «Tutto Chaplin», il ritorno all’infanzia nel vedere i film di Charlot insieme a grandi e bambini.
C’è una qualche forma, se non proprio di condivisione, quanto meno di accettazione del paradosso attribuito a Maccari. Ad ogni modo, mi sembra che siamo pur sempre ben lontani dall’appiattimento successivo, dal tormentone «come diceva Flaiano, gli antifascisti sono fascisti» e relative varianti.
Un’obiezione che circola è questa: «la citazione di #Flaiano, anche se la frase non è sua, comunque è azzeccata, perché Flaiano diceva peste e corna dei comunisti, dell’URSS ecc».
Si tratta di una duplice fallacia logica. C’è una fallacia logica di base, quella secondo cui il contrario del fascismo sarebbe non l’antifascismo ma il “comunismo”, e quindi il contrario dell’antifascismo non sarebbe il fascismo ma l’anticomunismo. Di solito a proporre questo paralogismo sono i fascisti, che con la lotta al “comunismo” giustificano da sempre la propria esistenza.
Su questa fallacia di base se ne costruisce un’altra, come il quadrato sull’ipotenusa: Flaiano ce l’aveva coi comunisti, ergo pensava tout court che «gli antifascisti» (dunque compreso lui stesso?) fossero fascisti.
(A mio modo di vedere c’è anche una terza fallacia, e riguarda proprio la definizione di comunismo, ma ci porterebbe troppo lontano)
Scompare dunque il gioco sul filo del paradosso, scompaiono l’ironia, la satira e i sensi figurati, scompare la letterarietà del testo e viene sostituita dalla letteralità, da una lettura pedissequa e piatta. Un elzeviro viene letto come un editoriale.
Che Flaiano non fosse marxista è un’ovvietà, come non lo furono tantissimi antifascisti. Il fatto che polemizzasse con certe posizioni, retoriche e pose non significa che avrebbe approvato l’utilizzo odierno della frase di Maccari che gli viene attribuita. Nemmeno il Flaiano degli ultimi anni lo avrebbe approvato, perché tale utilizzo:
1) è improntato al lassismo, e spesso addirittura al giustificazionismo, nei confronti dei neofascisti, cosa che avrebbe fatto inorridire Flaiano e forse, chissà, persino Maccari (tanto per intenderci su quanto si sia spostato a destra il senso comune borghese dagli anni Ottanta a oggi);
2) esprime precisamente quel fascismo di fondo, antropologico, descritto nel Diario degli errori. Quello che «conviene agli italiani» perché «esalta i loro odi e rassicura la loro inferiorità».
In rete c’è anche chi chiede: come mai Flaiano non ha mai smentito chi attribuiva a lui l’aforisma di Maccari?
Boh, forse perché Flaiano… al iera mòrt. Nel ’72.
Come si è ricostruito sopra, il successo “virale” dell’attribuzione a Flaiano comincia con La rabbia e l’orgoglio di Oriana Fallaci, mega-bestseller uscito nel 2001.
Grazie. Non che le Norimberghe abbiano poi realmente epurato, ma almeno un segno di discontinuità l’hanno dato. Da noi no.
Non lo ricordo tutto benissimo ma forse a proposito della continuità e della contiguità tra le due classi dirigenti si esprimeva anche un film non a caso odiatissimo dalla destra, All’armi siam fascisti, realizzato tra mille difficoltà negli anni ’60 e periodicamente rimosso da you tube oggi… i commenti che vi erano sotto erano incommentabili tanto schizzavano livore e odio impotente. Nelle ultime sequenze, una manifestazione a Porta San Paolo a Roma, si inquadra poi un uomo trascinato dalla polizia che a me ricorda proprio la faccia di Pasolini, ma potrei sbagliarmi.
Ho scritto della mancata defascistizzazione nella prima puntata di #Predappio Toxic Waste Blues, nel capitolo dove cerco di spiegare perché funziona poco l’impostazione «il fascismo è un reato», «la Repubblica nata dalla Resistenza», «mettiamoli fuorilegge» ecc.
Gli “uomini al potere”
Caro Pasolini, lei purtroppo non c’é più ma qualcuno dei suoi giovani pieni di domande è ancora in circolazione. Lei pensa che sia corretto fare un parallelismo fra l’arco costituzionale del 1975, quello che “organizza assassini e stragi” e “crea una tensione antifascista”, e quello di oggi (2018)? Nessun dubbio riguardo al -tutti sul carro dell’antifascismo- per “rifarsi una verginità antifascista”, fenomeno ancora quanto mai di moda.. Ma mi riferisco al meme del 6 giugno 1975. Si ha infatti la sensazione che, in confronto alla democrazia cristiana di allora, i partiti odierni non sarebbero in grado di organizzare alcunché.
In mancanza di Vie Nuove ci si rivolge (e si ringrazia) chi cerca di mantenere vivo lo spirito di quei dialoghi.
G. I. – Berlino
Tutta apparenza, appunto. È solo perché le nefandezze sono “lontan dagli occhi, lontan dal cuore”.
Questa classe politica “antifascista” ha promosso e finanziato l’apertura, in Libia, di veri e propri campi di concentramento per migranti dove vige l’arbitrio assoluto, dove si stupra e uccide e si organizzano tratte di schiavi, roba da “Salò” di Pasolini.
Questa classe politica “antifascista” ha diffamato e ostacolato chi voleva soccorrere esseri umani che annegavano. Tutto questo per qualche punto in più nei sondaggi.
A ben vedere, è plausibile che queste scelte abbiano fatto molti più morti di quanti ne fece la strategia della tensione, solo che non sono morti “nostri”, la narrazione razzista blocca l’empatia.
Per non dire che questa classe politica ha coperto e copre la vendita di armi all’Arabia Saudita che le usa nella sua guerra di annichilimento contro lo Yemen ecc. ecc.
Secondo me questa gente è anche peggio di quella che Pasolini attaccava. È più cinica, e al tempo stesso ha meno spessore, meno cultura.
Confesso, andando ot, che Pasolini lo conosco malissimo perché mi hanno sempre respinta il suo paternalismo, la sua venerazione del sottoproletariato supposto innocente, il pauperismo nostalgico e mitizzante, il suo ergersi a predicatore, più cattolico che luterano peraltro (dove sarebbe la fede salvifica del luteranesimo?). Nonché, se posso dirlo, pure il turismo sessuale fuori porta. Forse era solo una scelta di stile letterario-satirico, definisce ironica e autoironica la poesia su Valle Giulia, ad esempio, per portare la riflessione su altri temi più strutturali e politici, ma non ne sono sicura. Su questo sei sicuramente più in grado di comprendere tu. Sta di fatto che oggi quegli stessi approcci costituiscono la migliore arma per riappropriarsene in senso compiutamente reazionario, arcaizzante, da parte di una destra i cui spettri sono la perdita della morale tradizionale, usata come esca per arrivare al vero bersaglio, cioè l’ “esperienza democratico-rivoluzionaria” del ’68 studentesco, e il ritorno del liberismo, come se il primo avesse mai voluto o lottato per il secondo. Confusione voluta che Pasolini seppe evitare, nella riflessione come nella prassi, scegliendo di firmare uno dei più importanti giornali del movimento consentendogli così di vivere, tra l’altro. In questo le critiche reazionarie e filofasciste (quanto meno), anziché costituire un’analisi dalla novità rivoluzionaria o la riscoperta di una verità nascosta, rappresentano molto bene l’ennesima riappropriazione del tutto pretestuosa che proprio quel capitalismo che pretendono di combattere ha compiuto di tante parole d’ordine degli anni ’70, svuotandole completamente del loro originario significato.
Sarebbe interessante sapere se Pasolini stesso avesse trovato spunti per queste critiche in qualche testo anteriore o se fosse solo farina del suo sacco.
Bellissimo soggetto, comunque.
(Vado a leggere Predappio, grazie.)
Senza nessun intento di santificazione e con una congenita e condivisa diffidenza nei confronti di ogni paternalismo, credo che Pasolini non sia interessante solo per le tensioni che di volta in volta esprime e rappresenta, che si prestano (forse) a bassissime forme di manipolazione, ma anche per come nella vita ha combattuto personalmente usando il suo corpo come arma e come scudo contro la violenza fascista. Il suo corpo: un argomento che non può prestarsi ad alcuna forma di retorica manipolazione. Quando penso a Pasolini non riesco mai ad operare una scissione fra l’uomo e l’intellettuale, mi rimane di lui l’idea di un uomo coraggioso che ha pagato a caro prezzo ciò che altri, meno esposti di lui, non hanno mai pagato. Nella vita normale se ne incontrano ogni tanto di persone così, in lotta, che non essendo intellettuali rimangono sconosciuti.
Post molto interessante. Il fascismo sta cercando di tornare ed è opportuno denunciarlo e ricordare un intellettuale come Pasolini che lo combattette.
Però oggi ci troviamo di fronte ad un nuovo, ulteriore passo in avanti del nazi-fascismo: l’ordoliberismo.
In questo senso mi piacerebbe una vostra presa di posizione su cos’è l’UE. Cosa è Maastricht. Cos’è La BCE e l’austerità. Queste cose come hanno influito sulla nostra vita è sulla disoccupazione?
E mi piacerebbe una presa di posizione netta su questi temi, non una generica denuncia del Capitalismo.
Pasolini cosa ne scriverebbe?
Io credo si tratti di organizzazioni evidentemente antidemocratiche naziste e capitalistiche atte a produrre maggiori diseguaglianze, derive razziste e un’uscita a destra.
Vi chiedo un parere non per tirarvi la giacchetta da una qualche parte, nè perché vi reputa economisti, ma per togliere l’alibi a chi vi accusa di combattere e denunciare solo il fascismo nelle sue classiche espressioni.
Su Twitter ho più volte consigliato la lettura del saggio di Dardot e Laval Guerra alla democrazia, per la chiarezza con cui spiegano come il neoliberismo dell’Ue non sia accidentale ma inscritto nei suoi ordinamenti sin dal principio, sotto forma di una precisa teoria economica sottesa a una precisa filosofia del diritto.
Sul lato pratico, abbiamo sempre dato risalto, nei limiti della nostra sfera di discorso, ai movimenti antiliberisti (e vi abbiamo preso parte sin dagli anni ’90, tanto che eravamo a Praga contro il FMI nel 2000, a Quebec contro l’Alca nel 2001 e ovviamente a Genova), nonché a mobilitazioni come Blockupy, che in Italia molti sedicenti nemici dell’ordoliberismo hanno ignorato.
A questo non saprei aggiungere molto altro – perché appunto non sono un economista ma uno scrittore e questo è un post sulla strumentalizzazione di uno scrittore – salvo consigliare la lettura di un post di Mauro Vanetti che pubblicammo qui su Giap alcuni anni or sono, intitolato “Sfiga e rivoluzione”.
Detto ciò, ritengo che definire l’ordoliberismo una “nuova fase del nazifascismo” sia una grave scorrettezza terminologica e concettuale, e risulti stiracchiato e poco efficace anche come metafora.
“Però oggi ci troviamo di fronte ad un nuovo, ulteriore passo in avanti del nazi-fascismo: l’ordoliberismo”.
Questa idea è simile a quella già espressa da PPP, riportata nel post, e dalla quale discende il passo tratto dalla lettera a Moravia. In questo caso non si tratta né di ignoranza, superficialità, malafede o altro. Questo passaggio viene usato anche perché risponde a un sentimento e a una convinzione, un po’ come la “Potemkin”. E in questo non trovo affatto l’uso che se ne fa sbagliato. Le persone che usano le frasi di Pasolini parlano di fascismo dell’UE, della sostituzione dei popoli ad opera della grande finanza, del politicamente corretto, dell’ideologia gender, delle case farmaceutiche, eccetera: un contesto nel quale l’antifascismo classico è strumentale come diversivo. PPP si riferiva alla DC, chi lo usa oggi alla UE, in piccolo al PD, alla Boldrini, a Emma Bonino. Salvini può crederci o meno, altri ci credono fermamente, e la maggior parte di costoro non fanno parte di movimenti di estrema destra. Hanno in mente un potere diverso da quello che aveva in mente PPP o da chi non vuole che PPP sia strumentalizzato? Hanno in mente una società diversa, ma tutti hanno in mente un nemico. PPP ha usato fascismo come metafora e/o metonimia? Più la seconda (la metafora è quella di Maccari/Flaiano), ma il fatto è che lui ha identificato borghesia e fascismo, con una precisa qualità. Ora, al di là di cosa pensasse, che in ogni caso è già comprensibile da quello che ha scritto e a un certo punto può anche essere lasciato riposare, io vorrei capire come si fa a pensare che l’ordoliberismo o in generale il sistema attuale sia un passo avanti del nazi-fascismo. Forse si può uscire dalla metafora, dalla metonimia e dalla cornice intera e mettere in discussione la sua psicanalisi e la sua antropologia. L’anticapitalismo può ben esserci con il fascismo e col socialismo, come storicamente è stato (è anche per questo che la metefora di M/F ha un senso, a prescindere dal cattivo uso che se può fare). Le due cose non sono in relazione diretta. I tassisti di Roma sono fascisti e corporativisti, che è il lascito economico del fascismo per l’Italia, l’opposto del liberismo. Ma l’errore è a monte, semplicemente non c’è un nuovo fascismo peggiore di quello passato. Si può discutere sul regime peggiore o migliore e su che regime sia, non vedo come si possa parlare di nuovo fascismo.
Non voglio togliere spazio al blog che ospita questi commenti a PPP che amo profondamente. E rispetto. E provo a comprendere.
Mi chiedevo solo chissà cosa ne avrebbe pensato del’UE. E quindi cosa ne pensano i WM che sono suoi profondi conoscitori. Mi avete risposto e li ringrazio.
Ho letto l’articolo di Vanelli che mi avete consigliato e lo trovo inadeguato al dibattito attuale. Già il fatto che citi l’Economist come spauracchio per non uscire dall’€, dovrebbe far riflettere sul livello di dibattito della sinistra su questo tema. Ci sono diverse inesattezze ma non è questa la sede.
L’ordoliberismo non sarà peggiore del nazi-fascismo. Ok. Ma toglie libertà. In una maniera diversa, se vuoi più discreta.
Solo un paio di cose sull’effetto della moneta unica: dal ‘97 blocchiamo il cambio della lira e l’economia comincia ad andare a rotoli.
Non potendo svalutare, abbattiamo il costo dei salari. Con le conseguenze che vediamo. Disoccupazione, precariato, importazione di manodopera a basso costo, schifose derive razziste. Il ritorno delle destre.
La nostra Costituzione, quella che è uscita dalla Resistenza, viene sovrascritta (nel senso che valgono di più le regole comunitarie). Lo Stato costretto a chiudere ospedali. Ci vengono imposti addirittura i numeri di posti letto (questo come vogliamo chiamarlo, se non nazismo?). Apriamo la sanità ai privati.
Le Riforme. Intese come tagliare servizi e welfare. La pensione a 69 (sessantanove) anni. Lo spread.
Spostiamo ricchezza dalle periferie dell’impero a Bruxelles (Berlino). Abbiamo una banca privata, chè i politici se so’ magnati tutto. Come se i privati “al riparo de processo elettorale” (cit.Monti) facessero i nostri interessi. Esattamente come se lo facessero le nazioni europee che nostre competitor sui mercati.
Io non sono un economista. Sto provando da alcuni anni a capirci qualcosa e ho scoperto il Matrix nel quale ci troviamo.
Perché credo che per commentare la storia del XXI secolo sia indispensabile approfondire anche questi temi. Magari mi sbaglio.
A me invece non hanno mai convinto, e quindi non interessano, i discorsi imperniati tout court sull’euro, i discorsi che pongono l’euro come la contraddizione delle contraddizioni, e a ogni altra questione sostituiscono la questione monetaria. C’è una “tribù” di persone che, di qualunque cosa si stia parlando, tirano in ballo l’euro come problema dei problemi, al cui cospetto ogni altro problema diventa minore. Trovo questa impostazione inconcludente e pericolosa, e sarei tentato di spiegare perché, ma non farei che prolungare l’OT, quindi mi fermo. Ci saranno altre occasioni.
Jackie, su una cosa sono d’accordo con te, e su un’altra in disaccordo.
Sono d’accordo sul fatto che usare il termine «fascismo» per indicare qualunque potere oppressivo o condizionamento presente e futuro, o addirittura – come spesso si vede fare – chiamare «fascismo» qualunque forma di violenza, genera solo confusione e apre la strada a strumentalizzazioni e discorsi tossici. Quello della «società dei consumi» non era un «nuovo fascismo», men che meno l’ordoliberismo è un «nuovo nazifascismo». Quel che si può dire è che le contraddizioni esasperate dall’ordoliberismo rinfocolano ideologie e pulsioni fasciste, ma non che tutto è uguale a tutto. E se oggi ci tocca ricontestualizzare certe formule di Pasolini, è anche perché, purtroppo, si prestavano molto bene a essere decontestualizzate.
Invece non sono d’accordo sul fatto che possa esservi anticapitalismo con il fascismo. Storicamente non si è mai dato un regime fascista che abbia fatto politiche anticapitalistiche. Durante il ventennio la classe dominante è rimasta la stessa di prima, la divisione del lavoro idem, c’erano esattamente gli stessi sfruttati e sfruttatori di prima del 1922, la ricchezza era concentrata nelle mani di pochi proprietari di industrie e latifondi. L’Italia era un paese capitalista, il fascismo faceva gli interessi di Agnelli e degli altri grandi industriali. Tu stai facendo confusione tra capitalismo e liberismo: il liberismo è “solo” un insieme di politiche economiche, il capitalismo è ben di più, è un sistema, una formazione sociale e storica basata su un modo di produzione. Può esserci un capitalismo prevalentemente liberista, come oggi, e può esserci un capitalismo prevalentemente keynesiano, come nei decenni centrali del XX secolo. Può esserci un capitalismo la cui forma politica è il fascismo, e un altro la cui forma politica è la dittatura di un partito nominalmente comunista, come in Cina. Ecc. ecc.
Quanto ai tassisti di Roma, sono corporativi, ma non certo anticapitalisti!
Di corsa, quindi ad alto rischio di semplificazioni e imprecisioni, scusandomi per il tono alquanto brusco. Non credo affatto che la questione sia off topic. Non c’è difficoltà a ritenenere i fini della UE e la Ue stessa “fascisti” se con “Fascismo” intendiamo un fenomeno sostenuto e finanziato dal grande capitale mirante a stabilirne un dominio il più possibie incontrastato e assoluto, utilizzato per annientare i risultati, per quanto sembrino parziali, derivanti dalle lotte di classe. Non è difficile neppure vedere come storia e attualità della UE annientino i diritti del lavoro, anche quando costituzionalmente garantiti, cioè usciti dalla lotta di classe dei secoli scorsi, considerati appunto da annientare. Cosa di cui si è ben poco consapevoli. Quante volte si sono identificati l’avversario, il nemico, con un governo o un personaggio più o meno esecrabili, dimenticando di vedere che non faceva che applicare scelte imposte dalla UE? Ancora una volta si reagiva allo sterco del demonio.
Allo stesso tempo considero la fobia relativa alla supposta teoria del gender una delle più interessanti mistificazioni psicologicamente patologiche del nostro tempo. Idee deliranti dal fondo palesemente reazionario tanto quanto i maldestri tentativi di appropriazione di un Pasolini decontestualizzato. Se possono oggi circolare e ahimé convincere cerchie sempre più vaste di persone non particolarmente politicizzate che un tempo le avrebbero accolte con la tombale risata o l’indifferente scetticismo che meritano una ragione ci sarà.
Chi le sostiene ha avuto gioco facile a trovare visibilità inserendosi in un dibattito, rifiutato a sinistra, che dopo troppo tempo tornava a parlare di questioni strutturali all’interno dell’ occidente, chiarendo come e in che modo il liberismo da tutti deprecato venisse applicato in paesi del continente europeo che bene o male lo avevano respinto nel diritto come nella politica economica, cioè spiegando i meccanismi dell’impoverimento in atto negli ultimi trent’anni (ma avviato venti anni prima) che dilaniava diritti acquisiti.
Piaccia o no, della marcia trionfale del liberismo fanno parte, perché qui ne sono stati il grimaldello, anche un sistema di cambi fissi chiamato euro (che porta per mantenerlo a squilibri tali da imporre il taglio dei redditi, quindi dei salari e dei diritti, cioè a non poter mai interrompere l’austerità tanto deprecata e a perpetuare la “crisi”) e il controllo del governo sulla banca centrale (vale a dire la possibilità ragionevolmente semplice per un governo di finanziare la propria politica economica, inclusi i servizi pubblici, senza essere strangolato dalla spesa per interessi, dai capricci interessati dei finanziatori privati o da regole imposte da organismi come la UE). Sono disposizioni che rendono comunque impossibile qualsiasi politica di occupazione dignitosa e qualsiasi welfare, cioè qualsiasi difesa efficace dei diritti e dei salari, anche sul breve o medio periodo. Si vede che la tribù che sostituirebbe a ogni questione quella monetaria ha preso un altro sentiero, perché io non l’ho incontrata.
Ma anche quella questione modella il contesto in cui ci troviamo immersi, e il contesto è qualcosa su cui Giap ha sempre richiamato l’attenzione: qualsiasi importanza le si voglia poi dare, è un discorso che va detto e capito per poterne combattere gli esiti. Sono tutti temi abbandonati dai cosiddetti partiti di sinistra a partire dagli anni’70 (scelsero di essere complici di quelle scelte, complici, attenzione, non iniziatori come la vulgata reazionaria di oggi vuol far passare) e purtroppo non ripresi altrove. Senza soffermarsi su ingenuità, peraltro rimarcate già nei 207 commenti a quel post, come il ruolo del debito pubblico nella crisi (smentito perfino dall’austeritaria BCE) o l’inflazione da uscita dall’euro, nel 2012 Sfiga e rivoluzione offre tra le righe una spiegazione piuttosto agghiacciante su questo silenzio: poiché il nemico sono i ghigni orrendi delle socialdemocrazie capitaliste (ironia della sorte sarebbe l’ultima bocca da cui si penserebbe proferita cotal gerarchia), inutile dargli una mano, lasciamole affondare per la rivoluzione, il capitalismo si sta distruggendo da sé.
Be’, sono passati cinque anni. Tentiamo un bilancio di quella strategia? Parlare ancora dell’entusiasmante Syriza sarebbe sparare sulla croce rossa, ma i Greci si sono trovati crocefissi nel frattempo. Malgrado tutte le piazze che hanno potuto occupare. L’Italia ha conosciuto, non piazze altrettanto ribollenti o chiare rivendicazioni, ma crescita della disoccupazione, finto calcolo della disoccupazione, calo dei redditi, distruzione dei salari, voucher, deindustrializzazione, delocalizzazione, calo della speranza di vita (!!!), distruzione della sanità, crisi bancarie pagate dai piccoli risparmiatori, calo delle iscrizioni universitarie, quindi dell’istruzione, degrado del territorio, centri commerciali e GDO, emigrazione economica (in uscita, eh), magari conclusasi andando arrosto a Grenf(h)ell, fino alla precarizzazione totale del Jobs Act. Causa? C’è la crisi. Perché? La corruzione, forse, penitenziagite per la nostra avarizia, restiamo pur sempre un paese beghino e cattolico, il capitalismo è in crisi perché è in crisi, ah. Questo è il livello di coscienza. Ci aspettano la licenziabilità dei dipendenti pubblici, la contrattazione aziendale, il WELFARE AZIENDALE(!!!), come negli USA. Gran favorito un partito che vuole generalizzare il DASPO e vedremo forse Traini in parlamento. Rivoluzionario, certo, ma in che direzione?
E oggi? Voi stessi avete affermato più volte che le conquiste delle generazioni passate, pur non rivoluzionarie, aiutano a combattere. Si lotta meglio da precari o con un salario infimo? La risposta ha un nome: Abd Elsalam.
Questioni economiche, meramente? Come pensare che una questione economica possa restare meramente tale?
No, per niente. L’incapacità a sinistra (escludendone evidentemente i partiti cosiddetti di) di dare risposte più dettagliate del “eh, è il liberismo” per quanto stava avvenendo ha deluso molti, che magari si trovavano la fabbrica chiusa dall’oggi al domani o il contratto precario sottoinquadrato non rinnovato. Ha ritardato la presa di coscienza, sia pure di una piccola parte della popolazione, non l’ha agevolata in senso rivoluzionario. Ci sarebbe voluta una formazione approfondita, invece. Conoscere è rivoluzionario, o quantomeno permette di porne le premesse. Ha aiutato le mistificazioni e le falsità propalate a livello politico e mediatico sulle ragioni della crisi, ha aiutato la narrazione tossica ad opera delle istituzioni UE, il suo fascismo in ultima analisi. E qui forse qualcosa da dire ci sarebbe stato.
Ha facilitato la mistificazione, purtroppo, presso un più largo pubblico, che sarebbe stata la destra(!), semprenuova e semprevecchia, a denunciare l’abbandono da parte (dei partiti) di sinistra degli interessi di classe fino ad allora difesi.
Attraverso questo e proprio perché ha fatto questo, ha spianato infine la strada alla melma pseudo culturale da cui escono anche i revisionismi pasoliniani, inevitabile corollario quando si lasciano le battaglie per la dignità di vita (fossero pure ghignanti) a una destra che certamente non ha i lavoratori tra i principali destinatari del proprio programma e che essendo di abissale ignoranza congiunta all’abituale perbenismo non trova difficoltà né difesa a saldarsi culturalmente con misticheggianti arcaismi del peggior stampo reazionario.
Non credo ci saranno altre occasioni. Se dal 2012 non ve ne sono state è perché il discorso porta, come dire, troppo fuori dalla comfort zone. Eppure è qui che si impara che bisogna uscirne.
Scusate l’insopportabile tasso di pasolinismo di questi fluviali commenti. Mi dò fastidio da sola. Vado a leggere Guerra alla democrazia (peraltro, piuttosto recente, è uscito nel 2016).
Mi limito a far notare che, se il fascismo è certamente un «fenomeno sostenuto e finanziato dal grande capitale mirante a stabilirne un dominio il più possibie incontrastato e assoluto, utilizzato per annientare i risultati, per quanto sembrino parziali, derivanti dalle lotte di classe», non per questo ogni «fenomeno sostenuto e finanziato ecc.» può essere definito fascismo, a meno di non rinunciare a qualsivoglia precisione concettuale, gettando in pattumiera un dibattito ormai quasi secolare e un enorme corpus di studi su cosa sia il fascismo e come funzioni. Il fascismo come ideologia, movimento e regime ha una storia e caratteristiche specifiche. Se ogni mossa del capitale viene descritta come fascista, si fa solo confusione e si crea l’effetto «al lupo, al lupo», col risultato di disarmare teoricamente sia di fronte al fascismo sia di fronte alle strategie del capitale.
Per il resto, trovo non solo che in questo thread siamo OT, ma che siamo clamorosamente OT. Certamente tutto è collegato a tutto, ma nel discutere bisogna mantenere un focus. Non ho la minima intenzione di disquisire sull’euro e su come si discute di euro sotto un post dove si smontano false citazioni di Pasolini, come non scriverei lenzuolate critiche su Petrolio in un post sulle lotte nella logistica. In passato, su questo blog, ci sono già stati tentativi, da parte di alcuni ossessionati, di spostare qualunque thread verso il dibattito sull’euro. Per questo genere di perversioni consiglio il blog di Bagnai.
Sì certo, non è detto che qualunque fenomeno porti al fascismo. Per il resto, prendo atto della tua posizione, sappiamo bene che i disaccordi esistono e meglio gestirli con calma, ma proprio per questo devo assolutamente ribadire che non è affatto mio interesse spostare la discussione sull’euro, bensì, se mai, mostrare come un fenomeno economico e il modo di considerarlo possa aprire la strada a revisioni culturali che sanno di liquame come quella che avete smontato e come, in questo contesto, temo ci si troverà sempre più a dover smontare.
Ad ogni modo, per citare quanto tu hai scritto, “non mancherà occasione”, grazie anzi a te e a SJ della pazienza e a presto.
Rileggendo oggi il commento mi accorgo che manca una parola la cui assenza capovolge il significato della frase. Senza voler riaprire la discussione la correggo. Non si tratta del “controllo del governo sulla banca centrale” bensi’ del “mancato controllo del governo sulla banca centrale”, ecc.
Errata: intendevo Tonelli non l’altro che non è candidato.
Chiedo scusa per l’errore.
S-J, non ho altro da dire in questo commento di servizio.
Segnalazione | #Pasolini, manipoli e manipolazioni – di Mimmo Cortese.
Smontaggio di un tweet di tale Cerasa sul «fascismo degli antifascisti» ecc. ecc. bla bla bla.
Una modesta proposta: i fascisti, leghisti, qualunquisti e “ben”-pensanti che citano #Pasolini pro domo eorum costringiamoli a vedere #Salò in modalità «Cura Ludovico».
Avvertenza: la Salò di Pasolini non è la Salò di Violante. I ragazzi di Salò di Pasolini non sono i «ragazzi di Salò» di Violante.
Ciao a tutt*, non so se qualcuno ha già fatto riferimento a questo passo di PPP che vorrei riportare e che è, a mio avviso, inequivocabile.
Il 26 luglio ’74, sul Corriere, parlando dell’omologazione e dell’appiattimento dei costumi, dei dialetti e delle culture regionali sotto il rullo compressore della società dei consumi capitalista, PPP scrive:
“Anche qualche giovane «estremista» di sinistra ha capito male le mie parole (ho ricevuto delle lettere, peraltro molto care, da Milano, da Bergamo). Ma sia ben chiaro. Io ho condannato l’identificazione degli opposti estremismi fin dal 13-14 dicembre 1969. E, facendo il nome di Saragat, inauguratore ufficiale di tale identificazione, ho reso la mia condanna anche abbastanza solenne (nella poesia Patmos, scritta appunto il giorno dopo la strage di Milano e pubblicata su «Nuovi argomenti», n. 16 dell’ottobre-dicembre 1969). Non sono gli antifascisti e i fascisti estremisti che si identificano. D’altronde le poche migliaia di giovani estremisti fascisti sono in realtà forze statali: l’ho detto più volte, e ben chiaramente”.
Più chiaro di così :)
«Lombardi al Governo! Tra voi e il paese c’è un abisso.
È la vostra banalità che lo scava […]
fare d’ogni erba un fascio degli estremisti […]
va bene per i giornali indipendenti (dalla Verità) […]
ma un presidente della Repubblica!
Non si può predicare moderazione […]
in un paese dove è appunto la moderazione che va male […]
e dove non si può essere moderati senza essere banali […]
No, davvero non si può,
l’ecolalie neanche notarili
vomitate su noi dai nostri coetanei al Governo…
Da letterato che fa della letteratura
dichiaro la mia solidarietà a «Potere Operaio»
e a tutti gli altri groupuscules di estrema sinistra […]»
Pier Paolo Pasolini, Patmos, dicembre 1969
Ringraziamo il Centro studi Pier Paolo #Pasolini di #Casarsa per aver ripreso sul suo sito questo post di WM1, con un’intro di Angela Molteni che più chiara di così non potrebbe essere.
«Nel clima acceso della competizione elettorale in corso circolano anche velenose appropriazioni indebite delle citazioni d’autore, al crocevia tra l’uso strumentale, la diffusione di false verità o la malafede. Il caso riguarda in particolare Pasolini, non da oggi icona passe-partout buona, suo malgrado, per tutte le stagioni, le banalizzazioni e gli stravolgimenti. Di recente gira così in rete, oltre che nei comizi urlati di piazza, una sua frase del 1973 (un «antifascismo rabbioso» usato dalla classe dominante come «un’ arma di distrazione» per vincolare il dissenso) che, estrapolata dal contesto e dal complesso ragionamento ossimorico dell’autore, comproverebbe in lui una deriva reazionaria e, in buona sostanza, una finale presa di posizione fortemente polemica nei confronti dell’antifascismo. Nulla di più scorretto e falso, come provvede a chiarire un lucido e informato intervento di Roberto Bui, alias Wu Ming 1, del collettivo WumingFoundation.
A Pasolini si dà atto di un procedimento argomentativo contraddittorio e talora perfino sconcertante, ma che resta sempre puntellato da un’architettura di cardini fermi e non negoziabili. Uno di questi è la convinta battaglia polemica contro il fascismo, sia nelle sue violente espressioni storiche che nelle incarnazioni della nuova Preistoria consumistica. E dunque, a chi oggi rovescia le premesse di quel pensiero e ne imbratta lo spessore democratico, non resta che dare il consiglio di leggere realmente e integralmente i testi di Pasolini. A Cesare quel che è di Cesare.»
Sto cercando di capire da dove venga la citazione della cosiddetta “lettera a Moravia del 1973”, quella che inizia con “Mi chiedo caro Alberto”, citata al punto 5. Mi sembra di capire che sia tratta da un testo diverso da quello corsaro del punto 6.
Nei due epistolari curati da Naldini nel 1986 e nel 1994 non la trovo, né nelle Lettere luterane, né il sito della Fondazione Pasolini dà indicazioni in merito, almeno a una prima occhiata.
Si tratta di un inedito recentemente pubblicato?
Qualcuno conosce il testo intero e sa dove trovarlo? O almeno dove guardare?
In internet mi sono imbattuta in un’altra frase di cui non riesco a trovare la fonte: “io non intendevo il consumismo, ma il consumismo degli italiani”, penso in reazione alla polemica suscitata dall’articolo Il consumismo degli Italiani”. Anche qui non riesco a recuperare il testo completo, diretto forse proprio a Moravia.
E io che non avevo mai voluto leggere Pasolini perché non mi piaceva per niente. Non che adesso mi piaccia di più, ma apprezzo sempre meglio la sua durezza contro il mondo democristiano-fascista dei suoi tempi e la immediatezza del suo linguaggio polemico.
Grazie.
[…] Il giudice che ha arrestato Valeria Grassi e i suoi compagni avvalora una tesi che ormai circola da un po’, e cioè che esista un “fascismo degli antifascisti”, strumentalizzando la citazione di volta in volta attribuita a Pier Paolo Pasolini o a Ennio Flaiano. […]
[…] Ecco, è forse quest’ultima frase che più sentivo di dover riaffermare: perché mi capita sempre più di sovente di non riuscire a pronunciarla, senza che qualcuno dei miei interlocutori mi guardi aspettandosi la stessa espressione di contrizione che dovrei assumere dopo aver confessato che mi piace tirar sotto le famiglie di ricci, come Giovanni Storti nello sketch della Subaru Baracca; senza che qualcuno non mi vomiti addosso un cumulo di “ma”, di “tuttavia”, di “eh sì, però” e di citazioni di Giampaolo Pansa; senza che qualcuno non tiri fuori il ferale luogo comune: tanto fascismo ed antifascismo sono uguali (ma può sempre andare peggio: prima o poi, qualcuno mi citerà, senza capirlo, ovviamente, il celebre aforisma pasolinino il nuovo fascismo è l’antifascismo, sul quale vi invito a leggere qui). […]
[…] qui, per discuterne insieme, uno spunto di riflessione risalente a qualche mese fa, quando il lavoro di debunking del Pasolini «anti-antifascista» era ancora agli […]
[…] a una lettura superficiale del recente libercolo Il fascismo degli antifascisti (Garzanti)” (Qui c’è un pezzo di Wu Ming 1 che ricostruisce bene il disgusto per il fascismo e la militanza […]