«E capirai che una sera o una stagione
son come lampi, luci accese e dopo spente.»
Francesco Guccini, Canzone della bambina portoghese
di Davide Gastaldo *
In valsusa quando si sono spente le fiamme dell’incendio si sono spente anche le telecamere, le voci e le penne.
Che il nostro sia un Paese che vive di emergenza e voyeurismo macabro non è una novità, ce lo raccontano tutte le catastrofi cosiddette ambientali degli ultimi decenni, in prima pagina per due giorni e poi subito relegate a trafiletti in terzultima: non stupisce, come non stupiscono le passerelle farcite di promesse dei vari big della politica che poi subito scompaiono rumorosamente.
C’è però chi nei luoghi toccati da queste sciagure continua a vivere, in alcuni casi sfidando l’abbandono in cui si trova, cercando di richiamare un po’ di attenzione, provando a ricostruire, in altri – incredibile dictu – conformandosi alla narrazione mainstream.
Il giorno seguente allo spegnimento dell’incendio un mio concittadino – che 24 ore prima stava piangendo, pregando che le fiamme non gli distruggessero casa – era a pretendere le dimissioni dell’amministrazione comunale perché lui aveva poca acqua per bagnare l’orto, ché nei giorni precedenti si erano deviate le condotte per contrastare il rogo.
A decine, nei giorni e mesi seguenti a lamentarsi: «Perché è chiusa la strada per la borgata xx?» «È una vergogna!», «L’acqua dei rii é sporca!»… E alla risposta «È a causa dell’incendio» rispondono con uno sguardo trasognato, come se avessi rammentato loro una vecchia leggenda: «Ah, già, l’incendio… Ora mi ricordo». Queste dinamiche di non memoria paiono ammorbare pesantemente l’Italia, si tratti di politica, di territorio, di storia…
A livello più istituzionale i tecnici di Città Metropolitana e Regione si son dimostrati preoccupati e interessati, presto daranno indicazioni su cosa andrebbe fatto. Soldi per farlo? Forse l’anno prossimo. Evidentemente, a differenza dei tecnici, gli amministratori degli enti superiori non sono troppo preoccupati.
Di fatto solo chi è abituato o obbligato ad impegnarsi sulla montagna tiene costantemente gli occhi sui versanti, ormai quasi da sette mesi, e trema ad ogni pioggia, sapendo che l’incendio non ha finito il suo lavoro.
Uno sguardo in alto, a terra
Nelle zone dei versanti colpite più fortemente in autunno, il terreno è “cotto” in profondità: le radici delle grandi conifere han continuato a bruciare per giorni trasformando la terra in cenere e sabbia e le pur abbondantissime piogge di questo inizio 2018 non sono riuscite a farvi ricrescere nemmeno un filo d’erba, mentre hanno gonfiato i numerosi rivi montani, il cui letto in molti casi è ostruito da verzura varia, depositatasi durante l’incendio.
L’esito è che in alcuni di essi l’acqua fuoriesce, trovando nuove vie per scendere a valle, creandosi un nuovo letto e compromettendo muri, strade, alberi già intaccati dal fuoco; in altri si creano delle dighe “naturali”, pozze che tengono fino ad un certo punto, poi di colpo cedono, liberando una gran quantità d’acqua, fango e detriti in un medesimo istante.
Questa dinamica continua a verificarsi ad ogni pioggia, e continuerà per mesi, anni.
Bussoleno
La frana in frazione San Lorenzo a Bussoleno è ad oggi il più devastante evento post-incendio in Valsusa: strade, garage, macchine, case coperte dal fango. Un vero disastro. Il conto dei danni, mentre sto scrivendo, è di 30 abitazioni danneggiate, 4 da radere al suolo, 120 persone ancora sfollate. Tre giorni dopo il distacco la zona è ancora un cantiere aperto: colonne di camion portano via fango e detriti mentre si scava, le case di un quartiere intero sono toccate dalla frana e hanno barriere di fortuna – sacchi di sabbia, tavole – agli ingressi. Il fatto che l’evento sia accaduto di giorno e non di notte é forse l’unico motivo per cui non vi sono feriti e morti.
Alla faccia di chi parla di «straordinaria bomba d’acqua» per spiegare l’accaduto, è un disastro preannunciato, e in più modi: nella stretta attualità, da almeno quattro allagamenti nella zona negli ultimi mesi; storicamente, ché quell’area è da lungo tempo soggetta ad esondazioni e smottamenti, e l’incendio l’ha ovviamente resa ancora più instabile.
Qui è chiaro che qualcosa non ha funzionato, non ha funzionato nella prevenzione e nella risposta ai “segnali” (consiglieri comunali di Bussoleno hanno apertamente puntato il dito contro l’immobilismo della Regione Piemonte) e probabilmente non ha funzionato decenni fa, nella progettazione urbanistica. Io però non sono un tecnico, né un profondo conoscitore della zona e non me la sento di andare più nel dettaglio.
Resta che c’è chi ha perso la casa, chi – ora – sta scavando nel fango per recuperare le proprie cose, aiutato da VVFF, volontari AIB e dalla comunità valsusina.
(Permettetemi una parentesi su questa comunità, quella dei No Tav, quei “terroristi” vituperati per decenni da procure e media, che alla fine sono sempre in prima linea, in forze, a portare aiuto a chi ne ha bisogno, dai migranti, ai terremotati, agli sfollati di oggi).
Eventi del genere – di frane ce ne sono già state altre in questa primavera, fortunatamente in zone alte e non antropizzate, e temo ne avremo altre – non sono comunque esito del solo incendio; vi sono sempre concause: versanti trascurati, urbanistica “allegra”, cambiamento climatico…
«Avete abbandonato la montagna, colpa vostra»
In particolare quando si va a cercare le concause di queste dinamiche, le “colpe” vengono solitamente divise in due filoni:
1. La politica, che non cura abbastanza il territorio, preferendo investimenti di sedicente sviluppo spesso scellerato. Di questo si é detto qui ed altrove in mille modi, non credo sia necessario tornarci: é uno scandaloso dato di fatto.
2. «Le comunità hanno abbandonato la montagna». E anche qui di primo acchito verrebbe da dire che è una cosa sacrosanta però poi, sull’eco di alcune letture di Wolf Bukowski, viene da fermarsi un momento, ragionare ed incazzarsi.
La colpa sarebbe dunque degli abitanti locali, al solito l’ultimo e più debole anello della catena, rei di preferire le comodità di valle alla vita montana, cui evidentemente sarebbero invece destinati da un dio, dal fato o dalla società. Un tempo la nostra montagna era molto più in ordine – vero – vissuta, coltivata, pascolata quasi in toto. Ma.
Ma fino a una settantina d’anni fa le famiglie qua tiravano a campare con due vacche e un po’ di orto, si dividevano stagionalmente su due o tre baite sgangherate e senza pavimento, tante grazie se riuscivano a far fare un paio di anni di scuola ai figli, si crepava cadendo nei valloni, si vendevano i capelli per comprarsi un paio di scarpe… Sì, «le comunità hanno abbandonato le montagne», e ‘sti cazzi, le capisco!
Una possibile via al recupero
Non si può pensare ad un recupero montano che preveda un ritorno all’ottocento, chiedendo a chiunque abbia un terreno di comprarsi delle capre per tenerlo pulito, o di coltivarlo (in che modo poi? Abbandonando il proprio lavoro? Pagando due euro l’ora un ragazzo rumeno che guardi le bestie o zappi?). La frammentazione fondiaria del nostro territorio inoltre è enorme: si pensi che nella sola Mompantero, a fronte di una popolazione di 660 abitanti, ci sono circa 22.000 lotti di terreno, e molti di essi sono «silenti», ossia oltre che abbandonati se ne ignora il proprietario; l’unica soluzione sensata qui, come sempre, è quella di provare a «salvarsi il culo il più collettivamente possibile», creando associazioni fondiarie in cui coloro che hanno terreni riuniscano vari lotti contigui e li cedano ad un pastore o ad un contadino che si impegni a gestirli. Operazione che si sta portando avanti da tempo, e darà quest’anno i primi frutti, ma è molto difficoltosa perché «quel terreno non lo coltivo da trent’anni, anzi manco so bene dove è, ma è MIO, non voglio lasciarlo pascolare da altri» è un’obiezione assurdamente frequente.
E poi servono subito lavori, tanti lavori, che vogliono dire soldi, tanti soldi. Denari che il pubblico dovrebbe immediatamente spendere per la messa in sicurezza dei numerosissimi alvei e delle principali strade montane, per permettere a quelli che di montagna ancora vivono di poter lavorare, per permettere alla montagna di essere vivibile anche da chi vuole solo “assaggiarla” per svago, nonché per far prevenzione: i cambiamenti climatici – è assodato tra tutti i professionisti dello spegnimento degli incendi boschivi – stanno modificando il tipo di roghi che percorrono i nostri territori e la nuova tipologia : fiamme oltre i 20 metri, alta velocità di espansione, ecc. Incendi non spegnibili, neanche coi canadair. Occorre dunque “preparare” il territorio ad essere resiliente al fuoco.
E invece i soldi arriveranno, forse, l’anno prossimo; e qui ci si ritrova, frustrati, preoccupati ed impotenti, davanti ai dinieghi istituzionali (spesso spacciati per mere lentezze) a chiedere sottoscrizioni, lavoro in volontariato, a bussare ad associazioni filantropiche… in una dinamica schizoide in cui il pubblico (Comune) deve rivolgersi al privato per garantire la sicurezza pubblica.
E intanto si parla di rifare le Olimpiadi Invernali nel torinese, e la settimana scorsa hanno appaltato per milioni gli ampliamenti del cantiere Tav di Chiomonte.
–
* Davide Gastaldo è consigliere comunale a Mompantero, dove – come nella grande maggioranza dei comuni valsusini – c’è un’amministrazione No Tav. Con Mariano Tomatis e Filo Sottile è autore del libro Il codice Dell’Oro. Sulle tracce del tesoro del Rocciamelone (Tabor, 2018).
ALTRE LETTURE:
Mi sono sempre chiesto, nella mia ignoranza urbanistica e logistica del caso: ma questi paesi montani come del resto tanti villaggi “silenti” dell’Appennino, non potrebbero riprendere vita “donandoli” ai migranti? Non si creerebbe una sorta di circolo virtuoso? O è fantapolitica?
Beh, in teoria è un’idea, mi pare che che ci siano un paio di comuni che la stanno portando avanti, però, lasciando perdere i singoli casi e pensando alla mia valle:
1) un’istituzione non può far vivere gente in case che non abbiano l’abitabilità (le nostre baite montane sono fuori norma e prive di requisiti, e questo è cogente, un po’ per questioni burocratiche- talvolta esagerate, un po’ perché è giusto sia così, per garantire un minimo di salubrità, e metterle a norma avrebbe costi spropositati – luce -acqua-fogne- coibentazione…) e situate in zone fortemente isolate.
2) nel pezzo scrivo che la vita sui nostri monti era di merda, vale pure per eventuali migranti…
3) molti dei nuovi arrivati non sanno cosa siano il freddo, la neve… vengono da orizzonti molto diversi.
Ciò detto, in altri contesti credo sarebbe auspicabile dare a chi arriva la possibilità di riabitare borghi in rovina, ma in realtà che non si trasformino, come avverrebbe da noi, in luoghi di stenti. E faccio presente che per portare avanti un discorso simile in maniera non isolata occorrerebbe una volontà dello Stato centrale, che – inutile dirlo- al momento non c’è.
.
È un’idea circolata qualche anno fa, a partire dall’esperienza di Riace e con molte ingenue adesioni. Nel 2016 ho scritto le riflessioni che copincollo qui sotto, riflessioni che partivano dalla critica del socialismo utopico e giungevano, infine, alla stessa conclusione di Davide nel commento qui sopra:
—-
[…] come accade in una proposta-appello pubblicata da Il Manifesto nel settembre 2015, con la quale dieci intellettuali si propongono di trasformare
«l’immigrazione […] da minaccia in speranza, da disagio temporaneo in progetto per il futuro»
costruendo, con e per i migranti, prospettive di insediamento nelle aree interne e appenniniche soprattutto del sud. Dove
«vengono abbandonate terre fertili […], i boschi si inselvatichiscono [… e] borghi e paesi decadono, perdono i presidi sanitari, le scuole, i trasporti. E in tale progressivo abbandono […] un immenso patrimonio di edificato rischia di andare in rovina insieme ai territori rurali. Ebbene, queste aree non hanno bisogno che di popolazione, di nuove energie, di voglia di vivere, di lavoro umano. Queste terre possono rinascere, ricreare le economie scomparse o in declino con nuove forme di agricoltura che valorizzino l’incomparabile ricchezza di biodiversità dell’agricoltura italiana.
In questi luoghi si può creare reddito con nuove forme di allevamento, in grado di utilizzare immensi spazi oggi deserti […]. Senza dire che in molti di questi borghi anche i nostri giovani possono sperimentare un nuovo modo di vivere il tempo quotidiano, di sfuggire alla fretta che svuota l’animo e frammenta ogni soggettività, di creare relazioni solidali, di scoprire la bellezza del paesaggio, di curare la natura e gli animali. Si ciancia sempre di crescita, mai di arricchire di senso la nostra vita.»
Non sentite risuonare le stesse corde dell’utopia – compreso quel moralismo (“la fretta che svuota l’animo” e così via) che è l’illusorio libretto di istruzioni della trasmutazione del sogno in realtà? Nonché quella generosa inversione di causa ed effetto che del moralismo è gemella?
Quei paesi sono spopolati, le terre abbandonate eccetera perché non hanno un appeal economico nel mercato capitalistico, e sono privati di scuola, trasporti eccetera nell’ambito di un processo generale di tagli e privatizzazioni, e non in modo semplicemente fattuale.
E dunque, senza servizi pubblici e senza motore economico, cosa avrà da fare in quei luoghi chi da vendere ha solo la propria forza lavoro? E il fantomatico mercato in cui i prodotti di quelle nuove forme di allevamento e agricoltura potrebbero trovare collocamento, che tipo di redditività offre e come si struttura?
Nell’appello de Il Manifesto la risposta a queste domande non la troverete. C’è il nobile intento prioritario di abrogare la Bossi-Fini, e da questa abolizione ne deriverebbe che i migranti non finirebbero più
«schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori [ma diventerebbero] coltivatori o allevatori in cooperative, costruttori e restauratori delle case che abiteranno, dei laboratori artigiani in cui si insedieranno loro compagni. […] La seconda cosa da fare è avviare e mettere insieme un vasto movimento di sindaci […] aiutati con un minimo di soccorso pubblico. I sindaci dovrebbero fare una rapida ricognizione dei terreni disponibili nel territorio comunale: patrimoniali, demaniali, privati in abbandono e fittabili, ecc. […] Sappiamo che a questo punto si leva subito la domanda: con quali soldi? È la risposta più facile da dare. Soldi ce ne vogliono pochi, soprattutto rispetto alle grandi opere o alle altre attività in cui tanti imprenditori italiani e gruppi politici sono campioni di spreco. I fondi strutturali europei 2016–2020 costituiscono un patrimonio finanziario rilevante a cui attingere. E per le Regioni del Sud costituirebbero un’occasione per mettere a frutto tante risorse spesso inutilizzate.»
Ora: questi fondi strutturali (che sono poi 2014-2020 e non 2016) sono una possibilità di fare un po’ di spesa pubblica, ed è bene insistere che vengano utilizzati nel modo più redistributivo possibile. Ma senza farsi illusioni. Essi sono assegnati in coerenza con la strategia Europa 2020, che lancia esplicitamente ( http://ec.europa.eu/europe2020/services/faqs/index_it.htm#1 ) una “crociata per mantenere l’Europa competitiva” e lega a questa competitività il mantenimento dei “livelli di protezione sociale” – che tradotto vuol dire che non si sostiene il welfare per alimentare l’economia, ma, al contrario, si dopa l’economia per spremervi un goccio di welfare caritatevole; inoltre i FESR (Fondi Europei di Sviluppo Regionale) sono sottoposti a valutazione ex-ante nell’ambito della Smart Specializacion Strategy (S3), che ha come obiettivo la valorizzazione degli
«ambiti produttivi di eccellenza tenendo conto del posizionamento strategico territoriale e delle prospettive di sviluppo in un quadro economico globale.»
Altro che “si ciancia sempre di crescita”: qui non si ciancia, la si impone. E non solo una crescita genericamente intesa (che, volendo essere ottimisti, potrebbe pure essere declinata al locale, di piccola scala, labour-intensive etc.): quella che si pretende in cambio di un po’ di spesa pubblica è la competitività dei territori nella globalizzazione iperliberista.
I FESR esigono quindi competitività, ma le filiere immaginate dall’appello non sono per niente competitive, anzi nella misura in cui prevedono una retribuzione dignitosa del lavoro sono necessariamente fuori mercato. Il mercato richiede infatti, particolarmente nell’agroalimentare, condizioni di ipersfruttamento (o in alternativa di meccanizzazione spinta) per massimizzare il profitto. Non è quindi la sola Bossi-Fini a determinare il lavoro da “schiavi come raccoglitori stagionali di arance o di pomodori”, e dunque non basta la sua (sacrosanta) abolizione per farlo cessare. Un tale regime di lavoro riguarda infatti anche migranti regolari, cittadini comunitari e perfino cittadini autoctoni (ne parlo qui: http://www.internazionale.it/weekend/2015/09/26/braccianti-pomodori-venosa-scuola).
Allora, ricapitolando: la leva economica dei Fondi è un po’ un’illusione; il mercato non impiega lavoratori pagati decentemente e, infine, se l’idea fosse quella di affidare un tale progetto a fragili esperienze volontaristiche la troverei oltremodo irresponsabile.
Dunque non rimangono che due strade per ripopolare quei paesi del sud: o si forzano i migranti a trasferirvisi (ed escludo in modo assoluto che questo sia il pensiero o retropensiero dei nostri utopisti), oppure si pretende dallo stato un intervento per chi li abiterà e vi lavorerà, intervento così sostanzioso da renderli attraenti.
Questa richiesta – che a me parrebbe coerente con l’appello – non vi è contenuta, in realtà. Forse a causa di quello “smuss[are] gli angoli acuti della precisione, come ciottoli levigati nel torrente” per trarne “una specie di socialismo medio eclettico” per nulla incisivo, come quello degli eredi dei grandi utopisti secondo Engels (Anti-Dühring). E in effetti la richiesta di un intervento vero e proprio dello stato in economia sarebbe un angolo acuto difficile da aggirare, se l’appello è rivolto a una classe politica (sindaci virtuosi compresi) che lo rifiuta con fanatismo ideologico.
[…] e oggi potrebbe mettere a disposizione risorse per calmierare il mercato immobiliare, sostenere la messa in sicurezza del territorio eccetera… Invece, al contrario, opera sistematicamente a favore della […]
[…] tempo è un albero che cresce (benefit per la Valsusa colpita dagli incendi e dalle loro conseguenze). Presentazione della mostra di Federica Caprioglio dal titolo: Brucio anch’io. Tavola rotonda: […]