Manca ormai soltanto un mese al Grande Rituale Ambulante “Viva Menilicchi!”, momento clou dell’omonimo progetto orchestrato da Wu Ming 2 per Manifesta 12. Prima dell’estate, vi abbiamo raccontato com’è nata la nostra partecipazione alla Biennale d’Arte Nomade, nonché i principali ingredienti del nostro intervento:
- Una ricerca sui luoghi della città di Palermo attraversati dai fantasmi del colonialismo italiano.
- Un’installazione al Teatro Garibaldi, realizzata dal collettivo Fare Ala, con mappe, video, documenti d’archivio, immagini e testi.
- La camminata in programma il 20 ottobre, dal mattino alla sera, per circa 16 chilometri, con incontri, letture, attacchi psichici e guerriglia odonomastica.
Nel frattempo, altri elementi si sono aggiunti ad arricchire il quadro:
- Il trimestrale “The Chronic“, prodotto dal collettivo pan-africano Chimurenga, pubblicherà un inserto speciale su “Viva Menilicchi!”, con la mappa “coloniale” di Palermo, una legenda dettagliata e cinque brevi racconti di Wu Ming 2, incentrati sui rapporti tra Italia ed Etiopia, dalle esplorazioni del marchese Orazio Antinori fino alle dighe di Salini – Impregilo, passando per la battaglia dell’Amba Alagi, la proclamazione dell’Impero e le bombe al fosgene sganciate dall’aviazione italiana, sotto la guida del palermitano Vincenzo Magliocco (puntualmente onorato dalla sua città natale con l’intitolazione di una strada).
- Il trio Booku Ndal, crew hip hop con base a Palermo e origini in Gambia e Senegal, ha composto un brano in risposta allo stornello fascista “L’abissino vincerai“, scritto ai tempi dell’invasione italiana dell’Etiopia. Il pezzo (e il relativo video) verrà inciso nei prossimi giorni.
- L’Istituto italiano di cultura di Pretoria/Johannesburg, insieme alla Fondazione Volume! di Roma, ha scelto di proiettare il video “Viva Menilicchi!” al Bioscope Independent Cinema di Johannesburg, il prossimo 9 ottobre, in occasione della “Settimana del contemporaneo”.
Esiste anche una pagina Facebook del progetto, curata da Fare Ala, che pubblica a scadenza irregolare le storie legate ai luoghi della camminata.
Qui di seguito ve ne proponiamo una, realtiva all’ex-Ospedale Psichiatrico, dove dal 1912 al 1939 alloggiarono gli “alienati” libici, somali ed eritrei, dal momento che nelle colonie italiane non esisteva una struttura adeguata.
Il brevissimo racconto è stato scritto da Wu Ming 2 per la fanzine “Viva Menilicchi!” distribuita al Teatro Garibaldi. La vicenda reale a cui s’ispira, ci è stata segnalata da Francesca Di Pasquale ed è indagata nel dettaglio da Marianna Scarfone, La psichiatria coloniale italiana. Teorie, pratiche, protagonisti, istituzioni (1906 – 1952), tesi di dottorato discussa nel 2014 all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
ALI BEN HRAHIM SUEZZIN
di Wu Ming 2
Quell’autunno fu più freddo del solito, con vento e burrasche sul mare, difficoltà nei trasporti tra Siracusa e Tripoli, naufragi di pescherecci nel canale di Sicilia.
Ali Ben Hrahim Suezzin non era mai salito su una barca in vita sua. E fino a qualche mese prima, non aveva mai nemmeno indossato una divisa.
La guerra di Libia s’era appena conclusa, pace fatta. Gli ottomani già combattevano nuove battaglie contro nuovi nemici. I generali dell’esercito italiano assegnavano medaglie. Contavano morti, feriti e invalidi. Li visitavano negli ospedali con i cronisti al seguito. Scoprivano che le mutilazioni non colpivano più solo braccia e gambe, ma toccavano il cervello. Era il frutto inatteso delle artiglierie ad alto potenziale, delle prime piogge di bombe dal cielo, lanciate con le mani dagli avieri tricolori. Le esplosioni offendevano il senno, la paura delle granate non andava più via.
Gli scemi di guerra vennero rimpatriati in fretta. Non erano un bello spettacolo, in corsia con gli altri soldati. E poi a Tripoli non si sapeva dove curarli. Meglio spedirli negli ospedali psichiatrici delle loro città, dove amici e parenti se ne sarebbero presi cura, una volta dimessi.
Un piano perfetto, se non fosse per Ali Ben Hrahim Suezzin, che a Tripoli ci era nato e aveva tutta la famiglia. Ali aveva combattuto con gli italiani, chissà perché. Forse ce l’aveva coi turchi, o con un turco in particolare, e credeva che gli italiani fossero lì per liberare i libici dal giogo ottomano. Forse aveva colto l’occasione, rancio e paga non fanno schifo a nessuno. O magari era già demente, e quell’arruolamento era soltanto una delle sue mattane. Nel dubbio, l’esercito regio aveva messo agli arresti i suoi genitori, come garanzia che facesse il suo dovere. Ma cos’era la follia? Un marchio d’eroismo, al pari delle altre mutilazioni, o una fuga da disertori, in una terra di nessuno lontana dalla ragione?
Ali Ben Hrahim venne aggregato ad altri dieci mentecatti e spedito in Italia col piroscafo Bisogno, sul mare in tempesta. Sbarco a Siracusa e poi trasferimento al manicomio di Palermo.
Dice che al suo paese lo consideravano un santone, un marabutto. Succede spesso, da quelle parti. Se un matto sa leggere il Corano, allora è temuto e riverito. Altrimenti è indemoniato. Oppure, nemmeno lo si considera. Si sa che le razze inferiori hanno il cervello più piccolo, e quindi la follia risalta di meno.
Qua da noi, invece, lo aspettava la Vignicella. Che un tempo era una casa di vacanza per preti, ma poi i preti se ne sono andati, e la vacanza pure. Fatto sta che nessuno lo trattava più da marabutto, e intanto la guerra era pure finita. Si vede che di essere matto gli è passata la voglia, o che in qualche modo gliel’abbiamo fatta passare. In capo a tre mesi, era già guarito. Rispedito al mittente per non constatata pazzia. Di nuovo un piroscafo, di nuovo bufera.
Tornato in Libia, dicono che abbia ripreso ad esser marabutto. Come se davvero a Palermo fosse venuto in villeggiatura, e tornato a casa avesse ripreso a lavorare.
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