[Oggi in libreria, per i tipi della casa editrice bolognese Odoya, c’è una doppia uscita. Vita e morte dei grandi vichinghi, l’ultimo libro di Tom Shippey, filologo germanico e studioso di letteratura medievale, nonché discepolo e massimo conoscitore dell’opera J.R.R.Tolkien, e la nuova edizione di Difendere la Terra di Mezzo di Wu Ming 4. Questa coincidenza è stata l’occasione per restituire il favore a Shippey, che a suo tempo concesse un proprio articolo da pubblicare in appendice al libro di WM4. Lo stesso Wu Ming 4 infatti ha scritto la prefazione al nuovo libro di Shippey, un saggio divulgativo e originale sulla mentalità vichinga, indagata con ogni mezzo necessario, e scritto con la prosa ariosa e lo stile ironico tipici dello studioso inglese. Sul sito dell’AIST si può leggere una parte dell’introduzione di Shippey. La prefazione invece la riproduciamo qui sotto.]
Prefazione all’edizione italiana
di Wu Ming 4
Il vichingo che ride
C’è un uomo in fondo a una fossa piena di vipere. Mentre viene attaccato dai serpenti, declama una poesia, che si conclude con le criptiche parole: «ridendo io morirò». O piuttosto rivolge a chi lo ha gettato là sotto un verso ancora più oscuro: «Strepiterebbero i porcellini se sapessero della morte del vecchio verro».
Si tratta di un canto di morte dell’eroe, stilema della letteratura norrena. A intonarlo è Ragnar Lothbrok, personaggio leggendario o semistorico scandinavo, buttato in quella fossa da re Ella di Northumbria.
Ragnar è l’epitome dell’essere vichingo, e la sua leggenda è un esempio di come la letteratura medievale nordica impasti senza remore storia e fiction, creando un prolifico genere letterario. Sì, perché se dell’esistenza storica di Ragnar «Brache Pelose» non possiamo essere certi, né di quella dei suoi quattro figli – i «porcellini» che ne avrebbero vendicato la morte -, tuttavia le cronache ci dicono che nell’865 d.C. una grande spedizione vichinga invase l’Inghilterra e pose fine al regno e alla vita di re Ella.
L’uomo in punto di morte ride, dunque, perché coglie l’ironia del destino a discapito dei suoi carnefici. È una risata cattiva, che racchiude l’essenza dello spirito vichingo e che è l’oggetto d’indagine di questo libro.
Tom Shippey, filologo e studioso di letteratura medievale, ritiene che quel ridere in faccia alla morte, come elemento originale della visione del mondo dei vichinghi, rappresenti una delle chiavi del loro successo, nei secoli durante i quali spadroneggiarono su un’area geografica che va dalla Groenlandia al Mar Caspio. Un elemento che ha lasciato un segno nell’immaginario occidentale, ancora ben visibile a mille anni di distanza.
Nella sua ricerca, Shippey passa in rassegna ogni genere di fonte, a prescindere dall’affidabilità storica. Per esplorare la mentalità, infatti, la letteratura non è meno importante delle cronache coeve e dei reperti. Questo saggio utilizza con dichiarata disinvoltura le saghe e i siti archeologici, i poemi e il carbonio 14. In questo modo Shippey ci regala un meraviglioso excursus sulla storia e sulla letteratura ispirata da quell’Era Vichinga, che va dalla fine dell’VIII all’inizio dell’XI secolo.
Le date di confine sono di comodo, com’è ovvio, ma bene impresse nel calendario cristiano.
L’8 giugno 793 una spedizione di pirati scandinavi saccheggiò l’abbazia di Lindisfarne, una piccola isola della costa inglese nord-orientale, dalla quale si era irradiata l’evangelizzazione dell’Inghilterra. Fu la prima di un’innumerevole serie di razzie stagionali che flagellarono l’arcipelago britannico e sfociarono in una penetrazione sempre più prolungata nel tempo fino a divenire stanziale.
All’estremo opposto, la data che chiude l’epoca delle invasioni vichinghe è quella del 25 settembre 1066, quando re Harald III di Norvegia venne ucciso dalle forze inglesi alla battaglia di Stamford Bridge, vicino a York. Forze che però, di lì a tre settimane, sarebbero a loro volta state sconfitte dagli invasori Normanni di Guglielmo il Conquistatore (o il Bastardo, a seconda dei punti di vista). E i Normanni, in effetti, erano discendenti dei vichinghi, ancorché francesizzati. Dunque non si diede una vera e propria soluzione di continuità, ma piuttosto il confluire di una cultura nell’altra, che produsse un’ibridazione, come quasi sempre avviene nella storia.
Tuttavia, se il leggendario Ragnar rappresentava un idealtipo vichingo, il suo epigono Harald è un personaggio storico che di quell’idealtipo incarna l’ultimo esempio vivente. La sua biografia è un’odissea picaresca degna delle più avvincenti serie televisive. La carriera di Harald Hardrada («il Tiranno» o più semplicemente «il Duro») comincia con i viaggi attraverso la Russia e l’Ucraina, percorrendone i grandi fiumi, per proseguire con l’arrivo alla corte di Bisanzio, dove serve nella Guardia Variaga dell’imperatore, arrivando così a toccare la Terra Santa e a combattere gli Arabi in Sicilia. Con i lauti guadagni e i tesori accumulati, Harald se ne torna poi in Scandinavia, dove arriva ricco e famoso. Lì entra nei giochi di potere che lo porteranno a diventare re di Norvegia, ma anche a partorire il sogno ambizioso di una riconquista dell’Inghilterra, seguendo il quale, alle soglie del suo cinquantunesimo autunno, troverà la morte in battaglia degna di un vichingo.
Ecco il genere di biografie raccontate in questo libro, che hanno ispirato saghe o poemi, spesso arricchiti di elementi leggendari o perfino fantastici, e i cui protagonisti condividono appunto una particolare mentalità. Se gli eroi dell’epica classica combattono per trionfare sul campo di battaglia, gli eroi dell’epos nordico non vogliono necessariamente vincere e non si limitano a convivere con l’idea della morte, ma piuttosto flirtano con questa, e letteralmente ci scherzano sopra.
Sotto questo aspetto sono irriducibilmente pagani e proprio la cristianizzazione è uno dei fattori che determinerà il tramonto della concezione etica vichinga, benché questa permarrà ancora a lungo come elemento contraddittorio nella fase di transizione dal paganesimo al cristianesimo.
Secondo Shippey la pulsione e fascinazione dei vichinghi per la morte non nasce tanto dal culto del coraggio, quanto da qualcosa di più profondo. Certo, Odino accoglie nel Valhalla i migliori guerrieri caduti in combattimento e li arruola nel suo esercito, per l’ultima battaglia contro i mostri inferici, alla fine dei tempi. Ma il punto è che quella battaglia è destinata a essere perduta, in una conflagrazione che garantirà la palingenesi del mondo. C’è una vena pessimista in questa visione teleologica, che conta più del meccanismo premiale nell’Aldilà, e produce l’idea che l’eroe sia consacrato non già dalla vittoria ma dalla sconfitta.
La letteratura nordica racconta di gloriosi perdenti, laddove la gloria nasce proprio da come scelgono di morire: accettando sfide disperate, andando consapevolmente incontro alla cattura, o perfino rifiutando di difendersi, ma rimanendo impassibili fino all’ultimo. Per uscirsene proprio all’ultimo con una battuta sagace e una risata di scherno verso i nemici.
È ciò che rende le figure raccontate in questo libro tanto inquietanti quanto affascinanti. Senz’altro indimenticabili.
Il discorso vale anche per le eroine che, a modo loro, condividono la stessa etica della morte. Da Signy dei Volsunghi alla valchiria Brunilde, da Gudrun/Grimilde dei Nibelunghi a Sigrid la Superba, dall’anziana Bergthora alla regina vichinga d’Irlanda di cui riferisce un fantasioso cronista arabo, le nobili donne dell’epopea nordica rappresentano una gamma variegata di tipi femminili. In certi casi mandano verso morte certa mariti, figli, fratelli, e loro stesse muoiono per i propri uomini, senza battere ciglio; così come in altre occasioni tramano, seducono, e tradiscono per conseguire i propri scopi. Le donne, siano esse riflesso finzionale di figure storiche, personaggi leggendari o attrici della storia documentata, hanno un ruolo importante, sia nelle trame romanzesche sia nelle politiche dinastiche dei regni fondati dai vichinghi al tempo della loro ascesa. Soprattutto condividono con i loro uomini l’idea che la propria virtù non si misuri tenendo un’integerrima condotta morale – laddove la spietatezza e il raggiro sono spesso la scelta più efficace -, bensì rimanendo impavidi davanti a qualunque sorte.
Ecco un altro elemento originale. L’eroismo vichingo è spesso immorale, e senza dubbio si macchia di crudeltà. Così come crudeli erano i razziatori dalle lunghe navi, che predavano, rubavano, e rapivano uomini e donne per venderli come schiavi. La ricchezza dei grandi personaggi della storia scandinava era accumulata in modi ben poco leciti e senza dubbio poco simpatici.
Scaltrezza, senso pratico, coraggio da vendere, erano le loro virtù riconosciute, alle quali si aggiungeva una certa vena di crudele follia. Secondo alcuni, un tratto vagamente patologico, addirittura “psicopatico”, serpeggia nel carattere vichingo. Shippey non esclude che anche questa componente – unita a un certo egualitarismo nel rischio d’impresa, che garantiva bottino e rapida ascesa sociale ai valorosi e ai fortunati – non sia stata cruciale per determinare l’efficacia dei vichinghi in battaglia.
I protagonisti di queste pagine risultano in definitiva complessi e finanche difficili da decifrare. Possono essere feroci e spietati come berserkr nella mischia, oppure decidere sportivamente di combattere alla pari con il proprio avversario, rinunciando al vantaggio del numero di seguaci o del terreno, per vedere chi dei due è il più forte. O ancora – come accade nella Saga di Oddr l’Arciere – possono decidere che il gioco non vale la candela, perché il bottino è scarso, e sarebbe meglio unire le forze contro terzi, anziché consumarle massacrandosi l’un l’altro per poco guadagno. Spesso è questa imprevedibilità a rendere le loro avventure così sorprendenti.
Perfino i loro soprannomi sono bizzarri: «Brache Pelose», «Senz’ossa», «Serpente nell’Occhio», «Fianco di Ferro», «Barbaforcuta», «Dente Azzurro». Shippey si diverte a decifrarli, perché da buon filologo sa che dietro ogni nome c’è una storia. Essendo poi un conoscitore della letteratura fantasy contemporanea e romanziere a sua volta, sa anche che proprio le saghe sulle gesta degli eroi del nord stanno alla base dei cicli fantasy di maggiore successo. Difficile pensare che Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di G.R.R. Martin non abbiano tratto almeno uno spunto dalla grande epopea nordica, tanto per la complessità dell’intreccio – fatto di guerre, intrighi politici e trame amorose – quanto per gli scenari o l’efficacia di alcune descrizioni iperrealistiche, che oggi definiremmo splatter:
«Visinn balzò sulla nave di Ásmundr e gli scagliò contro due lance contemporaneamente. Ásmundr cercò di opporre all’una lo scudo, ma la lancia lo trapassò e gli penetrò nell’avambraccio proprio sotto il gomito, conficcandosi nell’osso. L’altra lancia Ásmundr l’afferrò in volo e la riscagliò contro Visinn: l’arma gli penetrò in bocca e fuoriuscì dalla nuca per metà dell’asta, andandosi a conficcare nell’albero con tutta la punta, e Visinn rimase lì appeso, morto.»
Questo non è Martin, né lo sceneggiatore del serial Vikings, bensì l’autore della Saga di Egill il Monco (nella traduzione di F. Ferrari, Iperborea, 2015), che scrive in epoca relativamente tarda, ma pur sempre contemporaneo di Dante o Petrarca.
Soprattutto non si può non ricordare che la materia nordica ha offerto spunti già al padre del fantasy contemporaneo J.R.R. Tolkien, se non altro perché Shippey è uno dei massimi esperti mondiali della sua opera, oltreché suo allievo accademico. Chi in Italia si interessa a Tolkien conosce Tom Shippey per i suoi saggi, diventati pietre miliari degli studi sul grande autore di Oxford. Non stupisce quindi che Tolkien faccia spesso capolino nelle pagine di questo libro, anche perché più di altri ha voluto trattare la problematicità che una certa etica guerriera e una certa etica della morte portano con sé.
Shippey ricorda, ad esempio, la celebre scena del Signore degli Anelli, nella quale Gandalf sventa il tentativo di Denethor di morire su una pira infuocata insieme al figlio moribondo e lo accusa di voler ripristinare l’usanza degli antichi re “pagani” (heathen). Difficile non pensare che in quel passo apparentemente incongruo Tolkien metta in scena il conflitto tra la coscienza cristiana e l’usanza pagana di immolare parenti o servitori insieme al loro congiunto o signore, testimoniata da diversi ritrovamenti archeologici.
Shippey chiosa anche il celebre episodio della battaglia di Maldon tra inglesi e vichinghi, al centro dell’omonimo poemetto anglosassone e della riflessione tolkieniana sull’eroismo nel Ritorno di Beorhtnoth figlio di Beorhthelm. Lo sbandamento di una parte dei difensori dell’Essex dopo che il loro signore cadde sul campo, e che lasciò soli i guerrieri più fedeli a morire intorno al suo cadavere, sarebbe stato una conseguenza della composizione sociale dell’armata inglese. Essa riproduceva infatti la stratificazione sociale dell’Inghilterra dell’epoca, per cui fittavoli o servi reclutati per la battaglia non sentivano verso il proprio signore lo stesso legame di lealtà dei suoi consanguinei o vassalli, trovandosi tutto sommato davanti allo scontro tra due padroni, uno non necessariamente peggiore dell’altro. La spedizione vichinga, al contrario, era composta da individui liberi e indipendenti, con le medesime possibilità di arricchirsi e il medesimo istinto predatorio. In buona sostanza a Maldon si prefigura la dialettica tra un esercito popolare di leva e un esercito professionistico mercenario, che si proietta fino alla storia moderna e contemporanea.
Questi ultimi sono soltanto alcuni esempi di come le storie narrate in questo libro dialoghino ancora con la letteratura e la storia contemporanea, e sollevino problemi che non sono spariti dalla faccia della cultura europea o della civiltà occidentale, ma piuttosto giacciono sotto le ceneri dello scomparso mondo nordico. Pensare che siano relegati ai secoli del buio Medioevo boreale sarebbe un errore di sottovalutazione. Per parafrasare Lavoisier, nella storia nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma. I vichinghi fanno parte del nostro bagaglio storico-culturale e del nostro immaginario. Piaccia o no, sono ancora qui, con tutto il loro carico di mistero, anche se hanno l’aspetto di fantasmi letterari. Per questo continuano a esercitare un fascino ambiguo su di noi. Per questo è ancora interessante, e forse perfino necessario, seguitare a interrogare quei fantasmi.
Bologna – ottobre 2018
Hai giocato\conosci “Hellblade Senua’s sacrifice”?
Si tratta di un videogioco, in prima persona, molto particolare. Racconta del viaggio agli Inferi di una guerriera vichinga con disturbi mentali.
Unico.
Purtroppo no. Faccio un solo videogame, per “accompagnare” l’erede minore, ed è a tema Terra di Mezzo… :-)
A questo punto vale la pena citare Vinland Saga, “un manga di Makoto Yukimura, incentrato sulle vicende in Europa settentrionale dell’XI secolo, con particolare attenzione alle gesta dei vichinghi in quel periodo”.
https://it.wikipedia.org/wiki/Vinland_Saga_(manga)