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di Wu Ming 4
[Venerdì 7 dicembre a Bologna dialogheremo con Valerio Mastandrea sul tema: «Ride e Proletkult. Come comporre le storie affinché il nostro fare vada a buon fine». L’incontro si terrà alle h.18 al Cinema Lumière, Piazzetta Pasolini, entrata da via Azzo Gardino 65/b. Dopo l’evento, Valerio presenterà il suo film Ride alle h.21 al Cinema Arlecchino, via Lame 59/A. Anticipiamo qui alcuni appunti di (doppia) visione su Ride e In guerra di Stéphane Brizé.]
Ridere per non piangere
La prima prova di regia di Valerio Mastandrea è innanzi tutto un film su un blocco emotivo davanti alla morte. Un’assenza che si verifica come un fulmine a ciel sereno lascia spiazzati, shockati e incazzati. Ci vuole tempo perché il dolore esploda, bisogna prima rendersi conto di ciò che è successo, e così capita che la disperazione e le condoglianze altrui circondino chi resta, mettendolo in imbarazzo per un dolore che non ce la fa a uscire. Ma se questo è il problema di Carolina, la protagonista del film interpretata da Chiara Martegiani, e di suo figlio Bruno, si staglia su un contesto nient’affatto casuale. La morte è una delle tante «sul lavoro». È la morte di un operaio figlio d’operaio. Perché questo è Ride, una storia operaia, ambientata tra il proletariato urbano di Nettuno, una delle città-satellite di Roma. E se anche è difficile riconoscere nella protagonista una casalinga moglie di metalmeccanico, proprio per questo è il personaggio che serve a questa storia, una sorta di aliena – riminese emigrata al contrario – che improvvisamente si trova a dover affrontare la gestione sociale del lutto, prima ancora che la mancanza privata.
I personaggi che le si muovono attorno sono una carrellata balzachiana d’umanità varia. Su tutti si staglia il conflitto maschile nella famiglia d’origine del morto, tra il padre, operaio in pensione, e il figlio superstite, che l’operaio non ha voluto farlo e per questo ha scelto l’altra via del proletario, cioè la delinquenza, la vita di espedienti. Il padre tutto d’un pezzo, reduce della vecchia guardia rossa, insieme agli ex-colleghi, osserva con amarezza la generazione successiva rientrare in fabbrica senza colpo ferire, anche dopo una morte che la riguarda così da vicino. Le parole pesano come macigni, pronunciate dalla voce roca con l’accento laziale: «Se c’eravamo noi, Mauro non sarebbe morto». Gli operai della generazione degli anni Settanta, quelli delle grandi battaglie dentro e fuori le fabbriche, avrebbero lottato senza tregua contro le morti bianche, contro l’insicurezza sul posto di lavoro, contro lo sfruttamento sempre più selvaggio. Sono uomini superati dai tempi, che serbano l’orgoglio d’essere stati classe di ferro, capace di farsi rispettare dal padronato, ma nascondono l’amarezza della sconfitta, del non avere trasmesso ai figli la stessa voglia di cambiare il destino collettivo. Dovranno scusarsi con la generazione successiva, per non esserci stati, in una delle scene più commoventi del film; per non essersi preoccupati di trasmettere l’affetto e insieme a quello anche la caparbietà di non accettare lo stato delle cose.
La morte di Mauro fa venire al pettine tutti i nodi, quelli famigliari, quelli politici e sociali. Quelli di un paese paradossale dove i vecchi sopravvivono e i giovani muoiono, di lavoro, di remissività, di inettitudine, sepolti vivi, come fosse un universo capovolto. Lo stato delle cose, appunto.
Chi resta, insieme agli anziani, sono le vedove e i figli, come in una tragedia antica. Il film è dedicato a loro, che alla fine ci restituiscono lo sguardo, come a chiamare in causa proprio noi che siamo ancora qua e qualcosa dobbiamo pur fare, rimboccarci le maniche, reagire, elaborare questo maledetto lutto e andare avanti.
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Je lutte des classes
Il film di Stéphane Brizé ha invece un protagonista maschile, un operaio non più giovane ma nemmeno già vecchio, il delegato sindacale Laurent Amédéo – interpretato da un grande Vincent Lindon – che sta per diventare un giovane nonno. In guerra potrebbe essere la versione aggiornata de I compagni di Monicelli (1963): un perfetto apologo sulla lotta di classe, che racconta in modo asciutto e al tempo stesso avvincente – telecamera a spalla, attori non professionisti (eccetto il protagonista) – una lunga vertenza sindacale.
Per rendere perfetto l’apologo è necessario che le burocrazie sindacali non entrino mai in gioco, e infatti le uniche parti in campo sono gli operai, con i loro rappresentanti di base; i padroni, cioè i rappresentanti di una multinazionale; lo stato, cioè i rappresentanti del governo. Alla dimensione privata di tutti è concesso poco o niente, anche se in ogni istante si ha l’assoluta consapevolezza di quanta vita e quante vite siano in gioco. La storia racconta senza sbavature né retorica di come la spesso evocata «responsabilità sociale» dei capitalisti sia una chimera. Eppure negli anni delle vacche grasse, quando l’economia tirava e le bolle speculative si gonfiavano, la sinistra liberale s’era convinta che fosse davvero possibile rendere compatibili gli interessi dei lavoratori e quelli del grande capitale, fino a negare la contrapposizione stessa e a tirare la volata a quell’«interesse nazionale» che oggi si ripresenta nella sua vecchia veste sciovinista e fascistoide.
In tanti hanno finito per crederci. Ma il film di Brizé ci ricorda con una semplicità disarmante quanto quella narrazione sia falsa, perché alla fine della fiera l’interesse del capitale è irriducibile a qualunque altro, ed è ben protetto dalla legge dello stato borghese. Fu il motivo per cui durante la rivoluzione industriale gli operai immaginarono nuove forme di proprietà e nuove forme statali, vale a dire il socialismo. La storia ci riporta ancora lì, dopo gli anni in cui i gonzi si erano autoillusi di avere liquidato il conflitto di classe semplicemente affermando che eravamo tutti ceto medio. Invece è da sempre in corso una guerra, ci ricorda Brizé, e c’è gente che la combatte quotidianamente perché non ha scelta, dato che arrendersi significa perdere tutto.
Ciò nonostante la resa è sempre dietro l’angolo: non è certo un segreto che quella degli ultimi trent’anni è la storia di una lunga sconfitta. Infatti non c’è un briciolo di autocompiacimento o di sconfittismo in questo film, anzi, tutto il contrario. La lotta è dura, e le fratture nel fronte dei lavoratori si riveleranno rovinose, perché il divide et impera è la tattica del nemico di classe, che alletta i lavoratori con un uovo oggi (buonuscita) contro l’aspettativa di una gallina forse mai (il mantenimento del posto di lavoro). Argomento forte, anche fortissimo per chi ha bisogno subito e vede il domani già come un lusso. Proprio questo è il punto, l’assenza di orizzonte, di un’alternativa sistemica, di una progettualità di cambiamento radicale, cioè di un avvenire. Senza una prospettiva d’avvenire nessuna lotta può vincere davvero…
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To Be Or Not To Be
[ATTENZIONE: questo paragrafo contiene spoiler, se ne sconsiglia la lettura a chi non volesse rovinarsi la visione dei film.]
…e infatti la lotta degli operai francesi non vince. Lo stato borghese si chiama fuori dalla contesa e la logica della responsabilità sociale si infrange contro la netta e cristallina logica del profitto, laddove quello che conta è ingrossare i dividenti degli azionisti, non salvare il lavoro e le vite degli operai. Così funziona il sistema, non c’è niente da fare. Se non un gesto estremo, come quello di Jan Palach e dei bonzi vietnamiti. È il martirio a fermare la rappresaglia padronale e a riaprire la trattativa, non è dato sapere con quali esiti.
Se nel film di Mastandrea la morte dell’operaio intorno a cui ruota la storia è l’antefatto, e lui compare soltanto alla fine, come un fantasma nei ricordi della compagna, nel film di Brizét la morte si colloca alla conclusione della vicenda, come colpo di scena finale, forse troppo inatteso, quasi sleale nei confronti dello spettatore, eppure terribilmente realistico stando a certe cronache. Ed è un sacrificio che riapre la vertenza e getta un poco più avanti l’orizzonte cortissimo della classe.
Ecco, questo – non c’è altro modo di dirlo – fa incazzare. Per incidente o per disperazione, non può essere che l’unica cosa rimasta da fare agli operai sia morire e con la loro morte scuotere le coscienze, creare imbarazzo, emergenza, o muovere a compassione. Perché sarà pur vero che come diceva Nino Manfredi nei panni del fantomatico eroe della plebe Pasquino, alla fine di un altro film, girato nel tempo in cui in Italia la classe operaia dettava le proprie condizioni, cioè Nell’anno del Signore di Luigi Magni (1969): «Li morti pesano… e col tempo diventano la cattiva coscienza del padrone…» Ma in quel film e in quel tempo, l’avvenire c’era eccome e infatti ci si ribellava e si poteva chiosare ancora come Pasquino/Manfredi: «Solo sul sangue viaggia la barca della rivoluzione.»
Senza rivoluzione rimane solo il sangue, il sacrificio senza redenzione. Ed è una bella fregatura.
In fondo è il problema che ha anche la cinematografia del grande vecchio Ken Loach, che nel corso dei decenni più di ogni altro ci ha raccontato con realismo implacabile e amore pasoliniano la lenta agonia della classe lavoratrice britannica. L’impossibilità di raccontare il riscatto è il vicolo cieco nel quale rischia di rimanere intrappolato il cinema working class.
Chissà allora che la via d’uscita non sia il crossover tra realismo e fantastico, come sembra suggerire – magari premendo troppo l’acceleratore – Gabriele Mainetti con il suo Jeeg Robot, supereroe della suburra. Del resto è un’idea con la quale anche la letteratura omologa si sta confrontando, vedi l’ultimo romanzo di Alberto Prunetti, 108 metri, nel quale compare a più riprese una sorta di demone lovecraftiano che incarna l’essenza del neoliberismo. Ma vengono in mente anche le fantomatiche e pur così realistiche Irontowns, dell’ultimo romanzo di Anthony Cartwright, dove una leggenda del tutto immaginaria dei minatori del Black Country si presenta come ispirazione per il fantasy di J.R.R.Tolkien, cresciuto da quelle parti.
È bello ipotizzare – bogdanovianamente – che sarà il fantastico proletario a liberarci dalla visione sacrificale e vittimaria della classe, portandoci fuori dal vicolo cieco, verso nuovi cieli e nuove terre. Quelli che bisogna essere capaci di immaginare per poter lottare qui e ora.
[La riflessione prosegue con un intervento di Wu Ming 1 su un altro film working class, The Harvest di Andrea Paco Mariani.]