sul caso Norma Cossetto sono qui.
[WM: In vista del Giorno del Ricordo 2019, con questo post inauguriamo una miniserie scritta dal gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, dedicata alla figura che più di ogni altra è divenuta l’icona della questione «foibe»: Norma Cossetto.
Nicoletta Bourbaki ha esaminato minuziosamente il recente film Red Land / Rosso Istria e il libro di Frediano Sessi Foibe rosse. Vita di Norma Cossetto uccisa in Istria nel ’43. Due opere accomunate da una scelta: di fronte alla scarsità di fonti sulla vicenda della ragazza istriana, entrambe “sopperiscono” a incongruenze e lacune iniettando nella ricostruzione robuste dosi di fiction.
Al lavoro di riscontro sulle fonti si accompagna un’analisi di quali siano i committenti politici, le finalità propagandistiche e gli agganci economici di certe produzioni sulle «foibe», che sono prive del minimo valore storico. La loro funzione è infatti un’altra: creare un immaginario collettivo nazionale, tassello di quella che fu chiamata la «memoria condivisa», sempre più cemento bipartisan per solidificare una versione della storia d’Italia reazionaria, edulcorata, vittimistica e omertosa (e stiamo usando eufemismi), alla quale ora si aggiunge un retrogusto «sovranista» molto à la page.
Questo e soltanto questo è il senso di trasmettere in prima serata un film come Red Land / Rosso Istria. Lo farà Rai 3 il prossimo 8 febbraio. Buon «Giorno del Ricordo».
Ma prima, buona lettura.]
di Nicoletta Bourbaki *
INDICE DELLA PRIMA PUNTATA
1. RedLands: «Talk about a dream, try to make it real…»
3. La pista veneta: la lunga gestazione di Rosso Istria
4. Le foibe secondo il sovranismo: un’analisi dei contenuti del film
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1. RedLands: «Talk about a dream, try to make it real…»
«Vòlli, e vòlli sèmpre, e fortissimaménte vòlli», disse l’Alfieri dopo aver visto rappresentata la sua tanto agognata opera prima, la Cleopatra.
Il senso dell’adagio è che quando desideri intensamente qualcosa prima o poi la ottieni. Ma non si dice mai se quello che ottieni sia all’altezza di ciò che hai magnificato nella tua testa, in anni di intenso anelito.
Il «marcio in Danimarca» lo assaggiamo tutti fin da piccoli, quando vogliamo un giocattolo visto in TV e lo desideriamo così tanto da mandare ai matti i nostri genitori, salvo poi inorridire quando è finalmente nelle nostre mani.
Così forse è stato anche per un certo milieu con un chiodo fisso da decenni: un kolossal sulle foibe.
L’hanno voluto in maniera così spasmodica da abboccare, in passato, ad uno dei più classici scam: un truffatore così incredibile da promettere loro… un kolossal con 12 OSCAR e 30 nominations. E prima ancora di essere girato! Salvo poi scappare con i – non si sa quanti – soldi.
È la storia del film mai esistito Foibe e dell’inafferrabile young genius Mirko Zeppellini, alias John Kaylin, alias John Michael Kane… e per certe firme del giornalismo d’assalto Foibe sarebbe stato diretto nientemeno che dai suoi due pseudonimi in contemporanea! (e tenete bene a mente quella firma).
Ma oggi la loro agognata Cleopatra è finalmente arrivata nelle sale. Il film si chiama Red Land – Rosso Istria e rispetto al progetto corale Foibe ha ristretto l’occhio di bue su un unico episodio: l’uccisione della studentessa Norma Cossetto. Non c’è Kaylin e/o Kane a dirigere (pare peraltro non se la passi benissimo) ma Maximiliano Hernando Bruno, in realtà un attore al suo debutto assoluto alla regia. Il cast è ben lontano da quello dei «12 oscar e 30 nominations». Giusto puntare su volti nuovi, ma la velleità si subodora proprio nel ritrovare i nomi di due vecchie glorie – Franco Nero e Geraldine Chaplin – piazzati in due particine marginali al solo scopo di richiamarne i fasti passati, loro che a veri kolossal presero effettivamente parte.
Franco Nero, ad esempio, ebbe un ruolo nel partisan movie La Battaglia della Neretva (1969), il film jugoslavo più costoso di tutti i tempi – fortemente voluto da Tito – con Orson Welles, Yul Brynner e Sylva Koscina.
Curiosamente anche Geraldine Chaplin, in gioventù, girò un film in Jugoslavia: Andremo in città di Nelo Risi (1966), dove interpretava la figlia di un ebreo e di una serbo-ortodossa innamorata di un partigiano jugoslavo (o dovremmo dire «titino»?), alla fine deportata nei campi di sterminio nazisti.
Da un ruolo slavo a un film antislavo, cambiano i tempi e cambiano anche i soldi. Non solo le direzioni dei flussi, ma anche gli importi: se La Battaglia della Neretva era costato 12 milioni di dollari del 1969, la casa di produzione Venice Film nelle due domande di finanziamento presentate alle Regione Veneto nel 2014 e alla Regione Lazio nel 2017 ha stimato i costi di realizzazione di Rosso Istria rispettivamente in 401.000 € e 645.000 €. Pochini per un kolossal, ma troppi per sperare di vederli tornare indietro.
Al suo picco il film è stato distribuito in 30 sale in tutta Italia, incassando in tutto circa 130.000 € in oltre un mese di programmazione, un periodo davvero lungo considerando i magri incassi. Una prestazione che in gergo si definisce box office bomb: una sòla.
Una firma del giornalismo d’assalto ha gridato al complotto rosso. Sì, proprio quella firma che aveva pompato il film-che-non-c’è Foibe girato dai due registi Kaylin & Kane: Fausto Biloslavo.
La stessa linea l’ha sostenuta nientemeno che Matteo Salvini, il quale si è speso personalmente per promuovere il film, o perlomeno ha speso i suoi profili social: su Facebook ha infatti postato l’elenco delle sale dove vedere il film, dedicando a quest’ultimo addirittura un – per lui inusitato – thread su twitter.
Non è chiaro chi siano i boicottatori «filo-titini» in questa storia: le compagnie di distribuzione? Gli esercenti? I proiezionisti? O persino il pubblico stesso che non risponde al dovere civile di andare a vedere il film? Anche perché, incrociando incassi, sale e giorni di proiezione, non si capisce dove siano finiti questi scalpitanti codazzi di spettatori, a meno che per ogni proiezione non ci sia stata una quota abnorme di portoghesi.
L’impietoso contrasto tra il desiderio di alcuni e la realtà di tutti gli altri lo restituisce il sito Mymovies.it, dove il film ha registrato 22 pagine di commenti perlopiù entusiastici, per la maggior parte scritti da utenze one-shot registrate solo per scrivere quel commento. A titolo di confronto, il film che ha sbancato al botteghino nello stesso periodo, guadagnando in Italia cento volte tanto Red Land, ovvero Animali fantastici 2: i crimini di Grindelwald (spinoff del franchise Harry Potter), ha solo 4 pagine di commenti.
La stessa pagina Facebook di Rosso Istria ha incoraggiato questa pratica fin dal giorno successivo alla prima proiezione, caldeggiando un’azione analoga sul sito ComingSoon, salvo poi gridare al complotto quando la cosa gli si è ritorta contro.
D’altronde avevano chiesto di votare, ma non avevano detto come. E andare a vedere il film non significa automaticamente apprezzarlo.
Peraltro la maggior parte dei commenti entusiastici a Red Land si esprime ben poco sulla godibilità della pellicola, come ci si aspetterebbe da una recensione cinematografica, soffermandosi piuttosto sulla necessità morale di un film sulle foibe. Come dire che andava bene qualsiasi chiavica purché portasse le foibe al cinema?
Si sa che il cinema impegnato e d’essai fatica a reggere la concorrenza delle pellicole commerciali, ma un capolavoro su un tema importante è destinato ad essere un evergreen, e Rosso Istria puntava fin da subito a diventare la pietra miliare, il riferimento imprescindibile sull’argomento foibe da mostrare ogni 10 febbraio nelle scuole e in televisione, come Katyń di Andrzej Wajda per il 13 aprile in Polonia. Il primo titolo anglofono, Red Land, auspicava una distribuzione internazionale: questo film doveva essere il veicolo artistico per far conoscere le foibe in tutto il mondo! (Cancellando la brutta figura fatta con Kaylin&Kane.)
Ma ecco, qual è stato l’esito artistico di questo film?
Allontanandosi dalle lodi del pubblico di Mymovies, che hanno un “lieve” retrogusto di cammello, si incoccia sovente in giudizi non proprio entusiastici e da parte di chi sarebbe pure stato davvero interessato a un film su Norma Cossetto. Come questo:
Pare che gli stessi parenti di Norma Cossetto non abbiano apprezzato granché la pellicola, come emerge da questo articolo:
«Alla domanda se andrebbero a rivederlo, la risposta è no.
Ma è stato un bene produrlo?
La risposta è: basta che se ne parli.
Colpisce il dolore, che il film è riuscito a riportare a galla.
Lo fareste vedere ai ragazzi delle scuole?
Il no è unanime.
La produzione ha annunciato una versione ridotta (60 minuti invece di 150) per le scuole.»
E la critica specializzata? Sui portali online, dove il target di pubblico è più generalista, i commenti tendono a non essere negativi, ma sempre lodando più l’intento che il risultato, sul quale spesso si svicola con qualche imbarazzo. Se stronchi questo film ti immagini poi 22 pagine di shitstorm contro il tuo sito? Non a caso i portali che decidono di pubblicare recensioni più perplesse, come Sentieri di cinema, decidono di disabilitare i commenti. Le cose però vanno diversamente andando a scavare nella stampa vera, dove trolls e clickbaiting non contano e i critici hanno una reputazione da difendere dinanzi ai lettori reali. Sul settimanale FilmTV leggiamo:
«drammaturgicamente, siamo dalle parti del solito Renzo Martinelli, con un gusto quasi horror e guest star tipiche in questi casi (Geraldine Chaplin, Franco Nero). Lo sguardo, però, spesso s’intorbida e l’eros-falcemartello (dopo l’eros-svastica) è a un tiro di schioppo.»
Ecco, «l’eros-falcemartello» non è esattamente il genere di film pensato per scuole e commemorazioni pubbliche. Sia ben chiaro, Rosso Istria non è la versione “titina” de L’Ultima orgia del Terzo reich, ma ciò che il critico Rocco Moccagatta sottolinea sono quegli elementi di exploitation inseriti nel film nel tentativo forse di renderlo più appetibile, o forse perché è una tara della casa di produzione Venicefilm ereditata dal primo dei tre lungometraggi prodotti nella sua breve storia, ovvero l’ultima fatica del leggendario Enzo G. Castellari: Caribbean Basterds.
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In Caribbean Basterds ha recitato anche il regista di Rosso Istria, Maximiliano Hernando Bruno, che pare essersi appassionato allo stile dei B-movie all’italiana importandone molti elementi anche nel suo film, come ad esempio certe marche di enunciazione horror: scene cupe prevalentemente notturne, situazioni claustrofobiche, improvvisi scoppi di violenza, ostentazione del sangue, cervelli spalmati sui muri, largo uso della telecamera a spalla e musica minimalista-ossessiva foriera di tensione.
Alcune scene sono dei clichés così classici da sembrare parodie: la campana che suona, gocce di sangue e il prete impiccato che dondola, per non parlare della frase pronunciata da una delle protagoniste: «Se entrano ci ammazzeranno!», battuta che pare uscire da un zombie movie. Per finire con la rappresentazione ex-abrupto di un gang rape, particolarmente disturbante per il compiacimento delle inquadrature esplicite ed insistite, introdotte allo spettatore attraverso gli occhi di un personaggio-voyeur .
Ecco, proprio lo stupro diventa centrale anche nella promozione del film, come nei più classici film d’exploitation «rape & revenge» (ma qui sarebbe più giusto dire «rape & revanche»), quando un giornale come Il Secolo d’Italia lancia la prima a Trieste con questo titolo:
«Tutto esaurito a Trieste per il film su Norma Cossetto, stuprata e infoibata dai titini»
[Significativo il «tutto esaurito» per una prima a inviti, forse si aspettavano che gli invitati dessero buca?]
Altra caratteristica promozionale del cinema d’exploitation era l’insistere, nei soffietti, su presunte censure, per solleticare il palato di un certo pubblico affamato di sesso e carnazza. Anche qui, mercè la sempre brillante penna di Fausto Biloslavo, si alludeva già in settembre a una ghiotta censura politica:
«Dopo anni di vulgata resistenziale il primo film dalla parte di Norma Cossetto, medaglia d’oro della Repubblica italiana, scatenerà i negazionisti orfani di Tito.»
E invece non si è scatenato nessuno, che delusione! Deboli anche le presunte «intimidazioni». Solo nell’ultima settimana di programmazione si son fatti vivi alcuni simpatizzanti del partito di Rizzo con un volantinaggio fuori da un cinema di Pordenone. Almeno qualcuno degnava di attenzione il film! E sì, perché dalla pagina FB del film la produzione aveva spinto tutti gli iscritti ANVGD [Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia] a riempire le sale. Considerando che erano 30 sale in tutta Italia, l’appello non deve aver raccolto un gran consenso.
Questa cosa delle sale gremite era un chiodo fisso per certi promotori, al punto da arrivare a distribuire biglietti gratis al pubblico, come pare abbia fatto Casapound a Parma (dimostrando peraltro come questo film funga da pretesto per determinati gruppi «poco costituzionali» che vogliono infilarsi nelle istituzioni). Analogamente si sono mosse alcune amministrazioni comunali, come quella leghista di Monfalcone (GO), che ha distribuito 500 biglietti gratis, e quella di Verona (da molti osservatori giudicata di estrema destra) che ha patrocinato una proiezione gratuita su prenotazione in un cinema cittadino.
2. Genealogia di un desiderio
Ma da dove nasce questo fortissimo volere di veder realizzato un kolossal sulle foibe che faccia le code alle casse?
Per rispondere a questa domanda va ripercorsa la storia di un peculiare fandom, quello di coloro che NON tifano per partigiani e Alleati nella seconda guerra mondiale. Costoro, dopo il 1945, ebbero qualche difficoltà a far proseliti. La sola strategia narrativa che rimaneva per perorare la loro causa era negare la Shoah o le camere a gas. Strategia perdente: il solo seguito che quella linea ha raccolto fino ad oggi è quello di una manica di freak svitati.
Negli anni ’80 il trend fu rimpiazzato dalla moda di equiparare le violenze dei nazisti a quelle degli Alleati, o perlomeno a quelle dei comunisti, col solo scopo di riabilitare le ragioni dei primi : «le porcherie le facevano anche gli altri, allora forse i nazisti non erano per forza i veri cattivi della storia». Era la linea di Ernst Nolte, e fece molti più proseliti del negazionismo classico, reclutando non solo complottisti suonati.
Ma nella società disimpegnata uscita degli anni ’80 incideva molto di più quel che arrivava alla pancia di quel che arrivava alla testa: più che gli storici e gli intellettuali, fu Hollywood a ricacciare indietro Nolte e soci, o almeno così pensò quel fandom dinanzi al successo di Schindler’s List. Indubbiamente il film di Spielberg rinverdì il filone degli holocaust movies e mobilitò l’immaginario collettivo, spingendo la stagione delle giornate memoriali internazionali della Shoah.
Fu allora che i fan italiani dell’Asse si decisero a investire tutto sull’auto-olocaustizzazione: la rappresentazione dei fascisti – diluiti nella più ampia categoria degli «italiani» – come vittime pari agli ebrei, sfruttando l’immarcescibile mito degli «italiani brava gente». L’olocaustizzazione era legata a doppio filo alla necessità di un film d’impatto in grado di ribaltare l’immaginario collettivo, uno Schindler’s List virato grigio orbace, con le stelle rosse al posto delle svastiche, i druži al posto delle SS e – finalmente! – i nazisti e i fascisti dalla parte dei buoni.
Fu giocoforza puntare tutto sulle foibe e il confine orientale, perché permettevano di bypassare il problema della denigrazione della Resistenza tematizzando un nemico esterno – «i titini» – e reclutando così alla causa anche elementi al di fuori del proprio fandom classico.
Così, sulle ali dell’istituzione bi-partisan del Giorno del Ricordo fotocopiato dalla Giornata della Memoria e di tutta una serie di operazioni di risemantizzazione, come quella di Norma Cossetto – già santino dei fascisti, assurta con una medaglia d’oro della Repubblica (non più solo quella di Salò) ad Anna Frank degli esuli istriani, anche grazie a un finto diario vergato dall’esperto di didattica della Shoah Frediano Sessi, del cui libro Foibe rosse ci occuperemo nelle prossime puntate – si arrivò al primo tentativo di sfornare l’agognato Schindler’s List nero.
Non è un caso che l’iniziativa fosse partita dall’allora ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri, forse colui che più si è impegnato a olocaustizzare le foibe. Celebre la sua contabilità degli infoibati (e la sua sintassi):
«L’Italia non soltanto subi’ la perdita di Fiume e della Dalmazia, ma assistemmo anche al massacro di tante persone che furono gettate nelle foibe. MILIONI DI ITALIANI furono gettati vivi solo per essere italiani»
[Per cifre più sensate rimandiamo alla nostra intervista allo storico Jože Pirjevec.]
Su impulso di Gasparri si girò lo sceneggiato RAI Il cuore nel pozzo, con grossi finanziamenti, ben 4,5 milioni di euro. Però era solo una produzione televisiva, e soprattutto era un grandissimo tripudio di vaccate: pura fiction senza alcun legame con la storia, neanche un personaggio realmente esistito, neanche un fatto storico, neppure l’epoca (il film era ambientato nel ’44 quando i fatti delle «foibe istriane» risalgono al settembre-ottobre ’43). Più che raccontare le foibe, quel film tv raccontava come Gasparri vedeva le foibe, la sua inattendibilità fattuale era così pronunciata da indispettire persino diversi esponenti delle associazioni degli esuli: «Che bisogno c’era di inventarsi di sana pianta una storia», molti si chiesero, «quando sarebbe bastato raccontare una delle tante vicende realmente accadute, per esempio quella di Norma Cossetto?»
3. La pista veneta: la lunga gestazione di Rosso Istria
Nonostante Il cuore nel pozzo sia stato bocciato da qualunque storico continua a essere riproposto ogni 10 febbraio. Ma non ha mai placato il desiderio di vedere le foibe sul grande schermo. Da qui l’avvio di altri progetti, tra i quali lo “sfortunato” film Foibe, nonché una certa pista veneta.
Quest’ulteriore iniziativa prese infatti corpo in un peculiare ambiente politico veneto in cui incocciammo all’epoca dell’inchiesta sulle «nuove foibe», l’habitat di Elena Donazzan – famosa per il tentativo di rimuovere dalle biblioteche pubbliche del Veneto i libri di autori a lei sgraditi – e Antonio Serena, foibologo con una passione particolare per Priebke.
La particolarità di questo ambiente risiede nel connubio tra ascendenze neo/post-fasciste e propensioni venetiste, due idealità in teoria inconciliabili ma che trovano una quadra in una certa simpatia filo-tedesca, che si tratti dell’impero asburgico o del Terzo Reich non fa differenza. Lo si capisce guardando Il Leone di vetro, secondo lungometraggio della Venicefilm (con buona parte del cast presente in Red Land): il film narra il contrasto tra filo-italiani e filo-veneti nel corso della Terza Guerra d’Indipendenza, un frame che è già di per sé venetista nell’identificare la Serenissima Repubblica con l’asburgico Regno Lombardo-Veneto – una tesi cara a Ettore Beggiato, storico/ideologo della Liga Veneta.
In questo ambiente si muove anche il regista Antonello Belluco, che nel 2014 tentò il colpaccio di girare un film con i partigiani dalla parte dei cattivi e i nazisti dalla parte dei buoni: Il segreto d’Italia, pellicola dedicata alle esecuzioni di repubblichini che sarebbero avvenute a Codevigo in provincia di Padova, per il quale si avvalse della consulenza storica proprio di Antonio Serena (uno con un pedigree diviso tra MSI, Liga Veneta, AN e Lega Nord).
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Chi ha visto Red Land non faticherà a riconoscere nel trailer gli stessi identici stilemi.
Pare che la cosa più memorabile del film sia stato l’improbabile accento veneto messo in bocca a Romina Power. Anche allora però l’estrema destra portò il film in palmo di mano, con tanto di ospitata della Power da Vespa per promuoverlo e grida di complotto di Giorgia Meloni per la scarsa distribuzione.
Ciò che proprio non riesce ad entrare in testa a questa gente è che se un film è pessimo nessuno lo vorrà distribuire, soprattutto in un periodo di vacche magrissime per il cinema come quello attuale.
È a questo punto che i progetti di Belluco si incrociano con quelli della casa di produzione Venicefilm, la quale già nel 2011 aveva tentato di proporre all’ANVGD un film sulle foibe. Per Belluco non significava altro che riproporre lo stesso canovaccio de Il segreto d’Italia ma, grazie all’ambientazione istriana, con più fondi pubblici (Il segreto ebbe comunque un finanziamento dalla Regione Veneto di 25.000 €) e con probabili elogi di default da parte di qualunque schieramento politico in parlamento e non solo dei soliti nostalgici.
Nel gennaio 2015 la Regione Veneto, su interessamento dell’assessore Elena Donazzan e del presidente del consiglio regionale Roberto Ciambetti, erogò per Rosso Istria un contributo di 38.964 €. Un analogo “obolo” fu richiesto anche alla Regione Lazio, non si capisce sulla base di quale criterio (per il Veneto almeno si può dire che gran parte delle scene erano programmate sul suo territorio). Non siamo riusciti a risalire all’entità del contributo, che deve esserci comunque stato poiché la Regione figura tra gli sponsor del film. Alcuni finanziamenti arrivarono dalla Treviso Film Commission e una richiesta fu fatta anche alla Friuli Venezia Giulia Film Commission, ma senza esito. La cosa non andò in porto perché quella commissione valuta anche gli aspetti produttivi e distributivi dei progetti proposti. Ci si aspetta perlomeno che i conti siano a posto e in Rosso Istria non pare lo siano.
Una settimana prima dell’uscita nelle sale, Il Piccolo di Trieste pubblicò un articolo:
Rosso Istria al debutto. E gli attori denunciano pagamenti in ritardo.
Tra gli addetti ai lavori c’è chi aspetta i soldi da un anno. La produzione ammette i disguidi. «Ma salderemo tutti a breve».
Colpisce però come anche queste valutazioni professionali siano state ricondotte dai produttori a mere ragioni ideologiche, giusto per capire lo stile: «Questa non è una storia di parte», ha dichiarato il produttore Alessandro Centenaro, «e siamo indignati che la Film Commission Fvg non abbia sostenuto il progetto».
Anche Rai Cinema è stata della partita con un accordo che le assicurava i diritti televisivi in vista del 10 febbraio 2019. Furono coinvolti alcuni piccoli imprenditori veneti: una gioielleria, alcune ditte di trasporti, un produttore di macine da caffè. Il grosso dei finanziamenti è stato coperto dall’ANVGD, 245.000 euro, stando a quanto ha dichiarato il produttore Centenaro a Il Piccolo. Dapprima si cercò di ricorrere alla legge n. 72/2001 (Interventi a tutela del patrimonio storico e culturale delle comunità degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia). I ritardi nell’erogazione di questi contributi avrebbero rallentato la produzione, dicono, sbloccata solo ricorrendo direttamente alla legge istitutiva del Giorno del Ricordo. Ma andando a scavare si scopre che all’inizio nicchiò persino l’ANVGD. Evidentemente, vista la contemporanea sòla rifilata ai colleghi della Lega Nazionale da Kaylin/Kane/Zeppellini, si erano fatti sospettosi.
La danza dei finanziamenti ha probabilmente determinato l’andazzo della produzione, fatto di annunci più o meno roboanti e progressivi ridimensionamenti, proprio lo stesso identico copione visto con Zeppellini.
Nel gennaio 2015 l’operazione venne lanciata in grande stile annunciando che Simone Cristicchi, allora fresco di Magazzino 18, avrebbe curato le musiche. Pochi giorni prima il cantautore romano si era unito alle lamentele per il boicottaggio de Il segreto d’Italia di Belluco. Come abbiamo visto, ciò rientrava già nello storytelling promozionale anche del nuovo film del regista padovano.
Già nel novembre dello stesso anno però Cristicchi si era tirato fuori dal progetto, e anche lo stesso Belluco fu retrocesso a sceneggiatore: evidentemente la produzione valutò che fosse preferibile lanciare un absolute beginner come Bruno.
Vennero annunciati anche i nomi di Giorgio Albertazzi, Anita Kravos, Rutger Hauer, Milena Vukotich, mentre per il ruolo di protagonista fu fatto il nome relativamente nuovo di Selene Gandini. Cinque mesi dopo, era l’unico ruolo confermato.
Nel febbraio 2016, proprio mentre noi chiudevamo l’inchiesta sullo young genius Zeppellini, partiva il casting per le comparse a Trieste. Nel nostro piccolo abbiamo dato una mano al film, segnalando come la locandina prescelta fosse un tantino fuori luogo, visto che ritraeva degli sfollati francesi del 1940 in fuga dai nazisti , uno dei più classici falsi fotografici da giorno del Ricordo.
L’hanno poi cambiata, preferendo mettere in primo piano i truci partigiani slavo-comunisti, evidentemente ritenuti più attraenti dello stesso personaggio di Norma Cossetto. Una ben strana idea di marketing cinematografico, forse anch’essa mutuata dal genere horror, dove gli zombie o i mostri sono messi in primo piano nel materiale promozionale.
Dalle foto di scena caricate dal regista Bruno sulla sua pagina Facebook deduciamo che il film è stato interamente girato nel 2016, tra aprile, giugno, luglio, settembre e novembre. Quindi il progetto è rimasto in un limbo lungo almeno due anni, anche la post-produzione ha i suoi costi… La dura lotta con gli schei (=i soldi, filo-titini anche loro evidentemente) passò pure per un crowdfunding lanciato nel 2017, finito maluccio: si chiedevano 30.000 € e se ne raccolsero 860. Mai chiedere soldi agli istriani… [Questo il commento di chi tra noi ha origini istriane.]
Ma forse non era solo una questione di denaro, magari si aspettava una temperie politica nazionale più affine al mood generale molto “veneto” del film.
4. Le foibe secondo il sovranismo: un’analisi dei contenuti del film
Di fronte a Red Land / Rosso Istria, come gruppo di lavoro sui falsi storiografici, dovremmo rilevare le incongruenze della pellicola rispetto alla ricostruzione storica del periodo in cui si svolge la trama, operazione invero imbarazzante di fronte a un prodotto essenzialmente di fiction. Sebbene ispirato alla vicenda di Norma Cossetto, il film inventa infatti moltissimo.
Almeno metà dei personaggi sono di pura fantasia, compreso il super-villain della locandina: il capo «titino» Mate, probabilmente tratto dalla ricostruzione dichiaratamente immaginaria di Frediano Sessi nel libro Foibe rosse. Anche i personaggi ispirati a figure realmente esistite, come il professore interpretato da Franco Nero, vengono radicalmente stravolti. Non a caso il cognome del personaggio, D’Ambrosi, viene cambiato in Ambrosin, forse per tutelarsi da eventuali rimostranze degli eredi, essendo la sua storia ampiamente rimaneggiata.
Va detto che tutto ciò è normale al cinema, e a maggior ragione lo è in una vicenda in gran parte oscura come quella di Norma Cossetto dove per imbastire un film è impossibile non inventarsi qualcosa. Però la faccenda si fa sempre delicata quando si trattano fatti storici sensibili. Spike Lee è stato criticato per molto meno ma, come scrisse all’epoca Wu Ming, se è vero che ha poco senso rimproverare a una storia di non essere vera, l’autore deve comunque assumersi la responsabilità delle scelte di fantasia che opera sui fatti, dei messaggi che queste veicolano e degli effetti di verità che producono nello spettatore grazie al meccanismo della sospensione dell’incredulità.
Quali sono dunque i messaggi veicolati dal film? Una chiave interpretativa ce la offre Il Giornale, il quotidiano che più si è speso nella promozione di questo film, il quale proprio nei giorni in cui un’anteprima di Rosso Istria veniva presentata alla mostra del Cinema di Venezia, titolava:
«Effetto Sovranista: ora le foibe possono sbarcare in RAI»
L’articolo non commentava Red Land ma un excursus sulle foibe all’interno del programma Linea Verde su RAI 1, eppure una certa aria «sovranista» si respira anche nel film, nel quale mancano i riferimenti classici all’Italia come ai tempi del Cuore nel pozzo – menzionata solo di sfuggita come una nazione malandata e lontana, asservita a potenze straniere – mentre invece viene rivendicato ossessivamente l’attaccamento alla terra rossa dell’Istria. Uno dei dialoghi chiave del film, per quanto gratuito, è quello tra Selene Gandini/Norma e Franco Nero/Ambrosin in casa di quest’ultimo, dove la prima dichiara:
«Io amo questa terra…ha lo stesso colore del sangue che scorre nelle nostre vene».
Passaggio rimarcato nel finale dove una Norma grondante di sangue “fa l’angelo” distesa nel terriccio rosso dei campi arati istriani.
L’ideologia Blut und Boden, terra e sangue, è esattamente il trait d’union sovranista tra ascendenze fasciste e simpatie venetiste di cui avevamo notato la curiosa convergenza nell’ambiente politico che ha in parte finanziato questo film. Fondamentale in questa ideologia è la rappresentazione dell’altro da sé: nel film sono gli «slavi», addobbati come zingari in contrapposizione agli italiani vestiti invece con abiti “normali”. Anche i bambini istriani identificati come «slavi», scalzi e dalla carnagione ambrata, ricordano più che altro la rappresentazione leghista dei rom e degli immigrati.
Forse questa è la caratterizzazione del film più straniante per i pochi testimoni rimasti dell’Istria dell’epoca. In un ambiente in cui si era obbligati a essere tutti italiani capitava che contrapposti sentimenti di italianità e jugoslavismo coesistessero nella stessa famiglia, dividendo cugini, talvolta persino genitori e figli, specie nei villaggi agricoli dell’Istria nord-occidentale. Una realtà raccontata ad esempio da Fulvio Tomizza nei suoi libri Materada o La quinta stagione, romanzi ambientati in una zona a una dozzina di chilometri in linea d’aria da Santa Domenica di Visinada/Labinci, il paese dei Cossetto.
Figuriamoci, dunque, se potevano esserci un dress code o dei tratti somatici a connotare le appartenenze. Si capisce quanto poi sarebbe stato assurdo in un contesto così misto che i partigiani scatenassero la propria furia sulle donne slave «colpevoli di aver sposato un italiano», come accade nel film, confondendo forse l’Istria del ’43 con la Bosnia del ’93.
In quest’ottica è facile rintracciare nella rappresentazione che Red Land dà dei «titini» – Nota Bene: termine all’epoca inesistente, anche perché nel ’43 buona parte degli italiani, e probabilmente anche dei croati istriani, non aveva nemmeno idea di chi fosse Tito – quali stupratori seriali e assassini sanguinari, l’immagine degli immigrati/”sostituti etnici” nella mentalità sovranista. Significativamente i «titini» vengono fatti arrivare da lontano (addirittura da Dubrovnik, dall’altro capo dell’Adriatico) e vengono ritratti come dei tartari barbuti, più simili in realtà ai četnici, loro sì villosi per questioni ideologiche a differenza dei partigiani jugoslavi generalmente sbarbati.
Ancora più significativi sono i partigiani italiani collaboratori dei «titini», mostrati non solo come traditori ma anche come… dei perfetti imbecilli, dato che Mate ricorda loro fin dal primo incontro che non appena sarà possibile li sbatterà fuori dall’Istria o li butterà in foiba. Assomiglia molto all’idea che i sovranisti hanno dei cosiddetti «buonisti» di sinistra: complici idioti di una sostituzione etnica che estinguerà anche loro. Però tutti i personaggi italiani, per quanto traditori, alla fine si ravvedono, riconoscono i propri errori e si redimono sacrificandosi perché in quanto italiani vengono caratterizzati con una personalità sfaccettata, a differenza dei personaggi slavi mostrati invece come bestie prive di caratterizzazione, senza alcun sentimento umano proprio come i morti viventi o gli orchi di Mordor.
C’è un solo personaggio italiano a non redimersi, quello di Adria, amica d’infanzia (inventata) di Norma. Lei viene mostrata come la principale fautrice del collaborazionismo italiano con i «titini», e mentre tutti gli altri riconoscono man mano il proprio sbaglio lei persevera diabolica fino alla fine e per questo subisce una giusta nemesi: viene braccata e uccisa dai tedeschi.
Rosso Istria è il primo film del dopoguerra in cui i nazisti fanno un ingresso alla «arrivano i nostri».
Rispetto a Il segreto d’Italia, precedente prova dello sceneggiatore Belluco, qui i nazisti non sono dei gentiluomini, anzi, sono anch’essi mostrati come una massa senza volto, ma diversamente dai «titini» sembrano più una specie di furia degli elementi, un nubifragio per l’appunto (come il nome di un’operazione antipartigiana che non ha riguardato l’Istria), l’incarnazione di una biblica ira di Dio scatenata dalle scelleratezze dei comunisti colpevoli di aver evocato il demonio slavo. I nazisti calano sull’Istria come Jahvé su Sodoma e Gomorra a ristabilire l’ordine sociale, morale e nazionale sul territorio. La loro identificazione con una sorta di spietata giustizia superiore è simboleggiata da una delle ultime scene in cui Adria, ferita e sorretta dalla madre e dalla sorella di Norma Cossetto, viene freddata da un cecchino tedesco che le spara da lunga distanza con un fucile di precisione, lasciando invece incolumi le altre due.
Anche questo significato viene perseguito distorcendo i fatti storici: nel film il periodo dell’insurrezione istriana sembra durare molto di più dei pochi giorni che passarono tra l’8 settembre e la calata dei tedeschi in Istria. Peraltro i centri maggiori come Trieste e Pola passarono quasi immediatamente in mani tedesche dopo l’8 settembre e sebbene sia vero che i nazisti si assicurarono il pieno controllo dell’Istria interna soltanto nella prima decade di ottobre, ciò non significa che nelle settimane precedenti colonne tedesche non vi abbiano scorrazzato e i partigiani non abbiano tentato di opporsi, come avvenne al bivio di Tičan/Tizzano (a 5 km da Visignano) l’11 settembre, dove morirono 84 persone tra partigiani e civili.
Non mancarono i rastrellamenti, come quello del 16 settembre a Canfanaro in cui furono fucilate 26 persone su delazione fascista, dopo che i partigiani avevano fermato un treno nazista liberando i soldati del Regio Esercito destinati ad essere deportati in Germania.
Nel film invece la parentesi insurrezionale istriana viene rappresentata come un lungo e placido periodo di gozzoviglia e “dilettevole” sadismo nei confronti della popolazione italiana, prolungato appositamente per ragioni di suspense e per mostrare distintamente l’ignominia e il contrappasso, che non colpisce però i «titini», poiché questi si ritirano alla spicciolata lasciando i locali a pagare il fio delle loro malefatte.
La coloritura sovranista non fa altro che rinnovare i vecchi clichés: gli stereotipi sugli slavo-comunisti e l’esaltazione dei fascisti. I primi sono condensati nel villain Mate: spiace molto vedere l’attore sloveno Romeo Grebenšek, che abbiamo apprezzato al Teatro sloveno di Trieste, prestarsi ad impersonarlo. È stato ripagato con la celebrità offertagli da Il Giornale con tanto di lunga e dettagliata intervista (privilegio curiosamente non concesso a Selene Gandini, l’interprete di Norma Cossetto). Il loro apprezzamento prosegue idealmente la linea del film nel quale gli unici «slavi» buoni sono quelli felicemente sottomessi agli italiani e ai ruoli che essi assegnano loro.
Mate è il solo «titino» a cui venga concessa una personalità, però grottesca e caricaturale, quella di un sadico serial killer in salsa partigiana senza alcuna logica che non sia uccidere e terrorizzare gli italiani. Il personaggio è talmente cattivo e privo di sfumature da risultare addirittura esilarante in alcune scene, come quando con fare trucido pugnala… la bambola di pezza di una bambina.
Agli occhi dello spettatore triestino la crudeltà e la stupidità di Mate producono uno strano quanto divertentissimo mix tra l’Amon Göth interpretato da Ralph Fiennes in Schindler’s List e Mirko Drek, un fumetto parodistico creato dagli umoristi locali (di area conservatrice) Carpinteri & Faraguna nel 1948 per rappresentare lo stereotipo del contadino comunista sloveno.
#Tweetreview sul film #RossoIstria [Mirko Drek (=Mirko merda) era una macchietta “anti-slavo/comunista” chiaramente razzista comparsa nel 1948 in piena “questione di Trieste” – maggiori informazioni qui https://t.co/SJnIPZeKwH] pic.twitter.com/uk8SieWM5y
— Lorenzo Filipaz (@LorenzoFilipaz) 24 dicembre 2018
Puerile è anche la rappresentazione di tutti i personaggi fascisti e fedeli al regime decaduto come buoni, generosi ed eroici. Nonostante vengano “traditi” infatti non dimenticano mai la solidarietà nazionale, come il disertore “fedele al duce” che si rifiuta di uccidere il disertore italiano comunista che pure lo voleva ammazzare, o come le stesse Cossetto che aiutano Adria all’arrivo dei tedeschi nonostante fosse corresponsabile dell’arresto di Norma.
Viene addirittura inventato un assalto «titino» ad una caserma dei carabinieri allo scopo di mostrare l’eroica quanto disperata resistenza fascista alle orde slave. Non risulta ci sia stato alcun scontro di questo tipo, non prima dell’arrivo dei tedeschi, tanto meno risulta il fatto che i partigiani utilizzassero gas, lacrimogeni o maschere antigas nelle loro azioni come si vede nel film. Ma mostrare i fascisti che docilmente consegnano armi e munizioni ai partigiani, come effettivamente avvenne (ad esempio ad Albona, dove 1200 soldati consegnarono le armi a 30 contadini di ambo i sessi, Cfr. Jože Pirjevec, Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, 2009, p. 39), avrebbe significato raccontare tutta un’altra storia e con ben altri toni.
L’esaltazione fascista viene solo apparentemente temperata dai discorsi del professor Ambrosin (Franco Nero), in parte critici verso «Il Duce» (sempre appellato così nel film), assolutori e qualunquisti («Chi sono questi? Fascisti? Comunisti? No… sono solo povere vittime… siamo tutti noi!»). In realtà il ruolo del professore è una tipica figura di destra, il suo personaggio rappresenta ciò che Furio Jesi chiamava il lusso spirituale: nei suoi discorsi egli infatti ammassa «roba di valore» – Roma e Venezia e la loro tradizione storica di armonia, la musica di Tartini ecc. – a rappresentare la superiorità italiana sugli slavi senza storia. Tra questi valori di lusso si celano messaggi criptici. Occorre ricorrere a materiale extra-filmico per analizzarli, in questo caso il primo trailer presentato a Venezia nel 2016 dove si faceva recitare al prof. Ambrosin-Franco Nero un lungo monologo che desta l’attenzione di tutti i personaggi del film (quelli “buoni”):
–
«Molto è ancora celato, molto è ancora trattato con troppa attenzione, senza avere il coraggio di esternare ciò che la storia realmente desidera dichiarare a chiunque.»
Cos’è che è stato trattato con troppa attenzione? Forse i meriti della resistenza o i crimini nazifascisti? Ma la stessa idea di una personificazione della storia che «desideri dichiarare una verità a chiunque» è già di per sé una vuota idea senza parole.
E ancora:
«Questa non è una storia di parte, non ha un colore politico, ha solo il desiderio di raccontare che il colore delle anime delle persone sono tutte uguali e che a nessuna di esse dovrà mai essere annientato il pensiero, la speranza in qualsiasi ideale, il credo in Dio.»
Questa pare proprio la strategia oggi tipica della cosiddetta alt-right: nascondere il diritto all’apologia del nazifascismo dietro la libertà di pensiero.
Di questi dettagli non pare però essersi accorto il triestino Ettore Rosato, vice-capogruppo del PD alla Camera, che dopo la visione del film ha dichiarato candidamente: «È un film duro ma molto bello, capace di raccontare la storia con obiettività notevole». [Corsivo nostro]
Eppure se n’è accorto Luigi Vatta, coordinatore provinciale di ANVGD Torino nonché del movimento culturale “Sovranità” di Casapound, che scrive su Il Primato Nazionale: «Finalmente gli indiscussi cattivi della storia hanno un nome e una fisionomia precisi: sono partigiani, sono slavi, sono titini (e non sono i fascisti)».
E se n’è accorto Renato Farina su Libero: «il film esalta la lealtà dei fascisti martiri dei comunisti».
È per questi “valori” che un po’ ovunque leghisti e neofascisti si stanno mobilitando per diffondere questo film nelle scuole. Chi potrebbe opporsi spesso è talmente irretito dalla confusione che i discorsi dei Giorni del Ricordo hanno generato da non accorgersene nemmeno.
Il livello di ignoranza lo si nota dai servizi televisivi fioccati intorno al film, in una drogata sovraesposizione mediatica sul servizio pubblico, battage mai riservato ad altre pellicole di quel livello: ben 2 servizi su Tg1 e Tg2, uno su Tg3 più svariati programmi di approfondimento, effetto Rai Cinema.
Il 7 novembre il Tg1 dice che Norma Cossetto fu «uccisa perché donna, emancipata e istruita» (stiamo parlando dell’Istria o dell’Arabia Saudita?), lo stesso giorno il Tg2: «il suo corpo fu ritrovato assieme a tanti altri, almeno 7000, nell’oscurità di una foiba». In 7000 nella stessa foiba?! Il servizio fa probabilmente confusione con le cifre, comunque prive di riscontri storici, date alla fine del film: 1000 infoibati nel ‘43 e 7000 tra infoibati e deportati nel ’45.
Nello stesso film è difficile separare l’ignoranza dalla malafede, come quando per espedienti narrativi vengono ricreate scene del tutto irreali che dimostrano una totale assenza di cognizione storica, tipo i fascisti che immediatamente dopo l’8 settembre – prima dell’arrivo dei tedeschi – vanno in cerca dei disertori casa per casa. In Istria dopo l’Armistizio ogni presidio italiano era allo sbando, ogni comando si sciolse e i militari quando ne ebbero occasione si diedero alla macchia per non venir deportati dai tedeschi.
O ancora, la stessa ragione per cui Norma Cossetto e il professor D’Ambrosi vengono arrestati e interrogati: carpire loro informazioni strategiche. Ma quali informazioni interessanti per i partigiani avrebbero potuto dare, dato che nessuno dei due ricopriva incarichi di alcun genere? Norma Cossetto era semplicemente una studentessa e D’Ambrosi un insegnante. Per molti di questi particolari il film dimostra carenze dal punto di vista logico, prima ancora che storico.
Anche come intrattenimento il film funziona molto male. Le incursioni nel fantastico e nel gore sono trattenute dal mandato ideologico a cui il film è subordinato. Il risultato sono 150 minuti – diconsi due ore e mezza, come Apocalypse Now! – in gran parte privi di qualsiasi azione significativa, riempiti da bolsi dialoghi infarciti di luoghi comuni irredentistico-revisionisti messi in bocca ai personaggi in scene forzate, il tutto in attesa di uno stupro e un infoibamento. Il livello generale non si stacca molto da Il cuore nel pozzo, che per certi versi era quasi preferibile: almeno la storia in quel caso era inventata di sana pianta.
Anche nel celebrare la memoria di Norma Cossetto, infatti, questo film fa un pessimo lavoro, accodandosi semplicemente alla lunga tradizione di «incontrollate fantasie» – come le ha chiamate Roberto Spazzali – legate al suo nome. Ed è di queste fantasie che parleremo nelle prossime puntate.
Il tema della seconda puntata sarà infatti: «Cosa sappiamo veramente di Norma Cossetto? Corpo femminile e potere politico ai confini della nazione».
Fine della prima puntata (di 3).
Aggiornamento: la seconda puntata è qui.
N.d.R. Lo spazio dedicato ai commenti è in calce alla terza puntata.
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* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete, sulle false notizie a tema storico e sulle ideologie neofasciste, nato nel 2012 durante una discussione su Giap, il blog di Wu Ming. Ne fanno parte storici, ricercatori di varie discipline, scrittori, attivisti e semplici appassionati di storia. Il nome allude al collettivo di matematici noto con lo pseudonimo collettivo «Nicolas Bourbaki», attivo in Francia dagli anni Trenta agli anni Ottanta del ventesimo secolo.
Il metodo di lavoro di Nicoletta Bourbaki è illustrato nell’ebook Questo chi lo dice? E perché? (2018). Il gruppo ha all’attivo diverse inchieste – pubblicate su Giap e su Medium – sulle manipolazioni neofasciste della Wikipedia in lingua italiana e sui falsi storici in tema di foibe. Tra i vari risultati, ha contribuito a smontare la bufala della cosiddetta «foiba di Rosazzo», altrimenti detta «foiba volante».
Per l’edizione on line della rivista Internazionale, in occasione del Giorno del Ricordo 2017, Nicoletta Bourbaki ha curato lo speciale La storia intorno alle foibe.
Al momento, Nicoletta Bourbaki, coi suoi ricercatori sparsi in tutta Italia, sta lavorando sui materiali di diversi archivi per ricostruire, per la prima volta in modo storiograficamente sensato e accurato, il caso Giuseppina Ghersi.
Nicoletta Bourbaki è su Medium.
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