di Davide Grasso *
Questo mese di marzo, oltre ad essere il primo anniversario della caduta della città rivoluzionaria siriana di Afrin e il primo mese senza califfato in Siria, sarà il mese della tentata criminalizzazione degli italiani che il califfato, in Siria, lo hanno combattuto. Proprio mentre migliaia di jihadisti e jihadiste dello Stato islamico invocano la possibilità di tornare nei nostri paesi «per ricostruirsi una vita», l’amico Luisi Caria, detto «Luiseddu», un ragazzo sardo della provincia di Nuoro, viene proposto dalla procura di Cagliari per la misura di prevenzione della sorveglianza speciale, già proposta anche per me e per altri quattro torinesi, per essere andato a combattere in Siria contro il sistema di morte e persecuzione che quelle persone avevano messo in piedi. Quasi tutti, tra i proposti per la sorveglianza speciale a Torino e Nuoro, siamo stati parte delle Unità di protezione del popolo (Ypg) nel Rojava e nella Siria del nord.
Le Ypg sono l’esercito popolare, formato prevalentemente da curdi, che dal 2014 – anno dell’espansione dell’Isis, bloccata da questa forza a Kobane – ha distrutto pezzo per pezzo lo Stato islamico in Siria. Non hanno combattuto da sole in questa impresa: hanno formato nel 2015, d’accordo con decine di battaglioni arabi ostili ad Assad, ma anche ai fondamentalisti, le Forze siriane democratiche (Sdf), che comprendono anche unità formate dalle minoranze religiose cristiane ed ezide. Le Sdf hanno costituito, e costituiscono tuttora, la forza di terra della Coalizione internazionale formata dagli Stati Uniti nello stesso anno, formata per debellare l’Isis. Proprio in questi giorni, dopo quasi cinque anni di guerra, l’ultimo villaggio controllato dall’Isis, Baghuz, è stato liberato, mettendo fine a un incubo per i siriani e a un’onta per i musulmani di tutto il pianeta.
Ci si può chiedere cosa c’entri un ragazzo sardo con tutto questo. Ci si può chiedere, soprattutto, come sia possibile che una persona che non ha alcun obbligo di rischiare la vita, né può guadagnarci del denaro (la partecipazione alle Ypg non è retribuita), parta per un paese come la Siria e si metta in prima persona in mezzo alla mischia rischiando la vita, per non parlare della sofferenza e dell’angoscia che una scelta del genere può lasciare nei suoi familiari e negli affetti, e delle difficoltà psicologiche che un’esperienza della guerra può provocare.
È vero, una persona come Luisi è inusuale. Nondimeno, non è l’unica ad aver fatto questa scelta. Dal 2014 ad oggi sono state decine gli italiani che hanno scelto di far parte delle Ypg, e assieme a loro centinaia di donne e uomini sono partiti e sono tornati, per lo più nel silenzio e lontano dai riflettori, dalle regioni curde del Rojava e da quelle arabe della Siria del nord e dell’est per svolgere attività civili di supporto sanitario, educativo, operaio, d’informazione. È il caso di Jacopo Bindi, a sua volta proposto a Torino per la Sorveglianza speciale, come me e Luisi. Il contributo di Jacopo, Luisi e tutti gli altri fa da positivo contraltare agli italiani – oltre cento – partiti per vivere sotto lo Stato islamico o per combattere come miliziani jihadisti. Adesso, catturati dalle Sdf, dicono di essersi sbagliati, di non aver capito dove andavano, invocano pietà agli odiati “infedeli” e cercano di minimizzare i crimini che hanno commesso.
Se i foreign fighter dell’Isis hanno approfittato per anni di privilegi orrendi in un sistema crudele, gli internazionalisti – con o senza armi – che hanno raggiunto il movimento confederale del Rojava e della Siria del nord hanno supportato l’unico tentativo esistente al mondo di modificare i rapporti sociali in una direzione nuova, che tenga conto dei fallimenti o dei difetti dei tentativi rivoluzionari del passato proponendo un mutamento della vita oltre le condizioni di sfruttamento, discriminazione e violenza imposte dal capitalismo. Scegliere questa prospettiva e quella rivoluzione, anche arrivando a concludervi la propria esistenza – come nel caso del martire bergamasco Giovanni Asperti mancato a dicembre, nome di battaglia Hiwa Bosco – diviene perciò possibile per chi, come Luisi, crede fino in fondo alla necessità di dare un contributo per risolvere i problemi del mondo.
Gli internazionalisti che ho conosciuto nella Siria del nord mi sono sembrati ansiosi di approfittare dell’atmosfera rivoluzionaria per togliersi non poche maschere, esistenziali ma anche politiche, che avevano indossato nei propri paesi. Non ardevano dal desiderio di dimostrarsi più radicali degli altri, né avrebbero impugnato l’arma che portavano con sé una volta in più del necessario. Erano disposti a mangiare, dormire e combattere al fianco di persone totalmente diverse per lingua e per cultura, nonostante non sempre sia facile. Le vicende personali e le convinzioni politiche di molti di loro sembravano spesso incompatibili le une con le altre, eppure si diceva sovente, di questo o di quello (che magari in patria sarebbe stato cordialmente detestato): «Insan ku bashe» o, in inglese, «He’s a good person». Più l’essere umano penetra la realtà delle masse, entra nel processo storico costituente, si confronta con la varietà dell’umano – non bella, ma anche meno brutta di ciò che spesso pensiamo – più si rende conto che è questo che conta: giunti all’essenziale, là dove la linea del fronte immaginario si dissolve in quello reale, l’elemento etico fa la differenza.
Luisi, che la procura di Cagliari dipinge come un terrorista, è una persona timida e pacata. Come è stato detto di me, e come io ho detto di altri, sembra difficile immaginarlo nei luoghi dove è stato e fare quello che ha fatto. Posso testimoniare di ragazzi curdi o arabi, minuti, taciturni o mingherlini fare il loro dovere con la mitragliatrice o assumersi responsabilità incredibili nel cuore dei combattimenti. Usare un’arma, di per sé, non è difficile. Gran parte di questa elucubrazione poliziesca sulla nostra «pericolosità» perché abbiamo imparato i rudimenti dell’uso di alcune armi è frutto, oltre che di ipocrisia, di una superfetazione immaginifica che c’è in occidente rispetto a questo tema, divenuto da tempo scabroso. Abbiamo dimenticato chi coinvolge la guerra. Abbiamo dimenticato cos’è il popolo. Non mi stupisce che tra gli Ypg italiani che ho conosciuto non ci siano mai stati omaccioni imbottiti di steroidi. La maggior parte delle persone, a ben vedere, non è così né in Italia né in Siria; e una guerra civile, purtroppo, riguarda la maggior parte.
Se Luisi, il 19 marzo a Cagliari (data della sua udienza decisiva), o noi cinque a Torino, il 25 marzo, saremo giudicati «socialmente pericolosi» dai rispettivi tribunali, per tre anni non potremo uscire dal nostro comune di residenza, né dalla nostra casa, dalla sera alla mattina. Dovremo presentarci continuamente alla polizia e tenere addosso un libretto rosso dove gli agenti potranno annotare tutto quel che vogliono. Come persone interessate alla politica, desiderose di essere parte dei destini della nostra terra, saremo menomati e, in qualche modo, resi “inoffensivi”.
Non inoffensivi per la società, ma per il conformismo vile che è in tutti i sensi al potere. Ci vedremmo revocati addirittura patente e passaporto, come se fossimo incapaci di intendere e di volere. Queste misure comprendono volutamente una forma di infantilizzazione e umiliazione della persona. Il passaporto sarebbe tolto a Luisi, in particolare, per la seconda volta a distanza di settimane. Dopo il sequestro seguito alle accuse di terrorismo a settembre, infatti, gli era stato riconsegnato dall’autorità giudiziaria. Quelle accuse, tentate dalla procura contro di lui e altri due sostenitori sardi delle Ypg, si erano arenate nel giro di poco tempo perché prive di senso, rendendo inevitabile la revoca del suo divieto d’espatrio.
È proprio dopo questo fallimento che la polizia di Nuoro, la sua provincia di provenienza, ha deciso di intervenire suggerendo alla procura di Cagliari di passare da un’accusa impossibile da dimostrare a una persecuzione senza accuse: la sorveglianza speciale.
Nell’ordinamento giuridico italiano esiste infatti, benché molti non lo sappiano, uno spazio di eccezione rispetto alla regola secondo cui l’individuo può essere privato delle sue libertà soltanto attraverso accuse intellegibili e un processo. La sorveglianza speciale per come la conosciamo oggi è stata introdotta dalla L. n. 1423/1956, ma le sue caratteristiche essenziali vengono dritte dalla concezione fascista delle misure preventive.
Come dice il nome stesso, tali misure non si basano sull’individuazione di ciò che è accaduto nel passato, ma su ciò che si pensa – o si finge di pensare – potrebbe accadere in futuro. L’idea che qualcuno possa essere confinato e privato dei propri diritti (persino della possibilità di riunirsi con più di due persone, o di tenere interventi in pubblico) senza essere accusato di nulla, e soltanto sulla base di un’indicazione della polizia, è classica del fascismo. Questo spazio eccezionale non è stato, per quanto ciò possa stupire, espunto dopo la guerra; anzi, negli anni Cinquanta e ancora in tempi recentissimi (a partire dal decreto sicurezza del 2011), i margini di applicazione di queste misure sono stati estesi.
Perché questo accanimento contro chi ha combattuto l’Isis? Agli atti del procedimento c’è una comunicazione del 2 ottobre 2018 del procuratore aggiunto Emilio Gatti al coordinatore del “Gruppo 3” della procura di Torino Cesare Parodi, nella quale si avanza
«la richiesta di applicazione di Misure di prevenzione personali a cittadini italiani aderenti all’Ypg e all’Ypj […] per avere preso parte a un conflitto in un territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le attività terroristiche di cui all’art. 170 sexies del codice penale».
Il giorno stesso, con solerzia, Parodi compila la scheda di iscrizione per me e gli altri quattro volontari torinesi a «misure di prevenzione personali antiterrorismo» vista «la segnalazione della Digos di Torino». Nell’incipit della convocazione torinese è stato anche inserito un richiamo all’operato della procura di Cagliari, come a voler sottolineare una dinamica nazionale. Alla richiesta torinese è seguita a ruota a dicembre quella della Digos di Nuoro per Luisi, e alla prima udienza contro Luisi, lo scorso 21 febbraio, il pm ha citato come testimone indispensabile il questore di Nuoro, a testimonianza del ruolo centrale delle forze di polizia.
Queste ultime, negli ultimi mesi, hanno agito in due regioni dello stato italiano con un evidente parallelismo cronologico per ottenere ciò che la magistratura non è stata ad ora in grado di produrre: la criminalizzazione e la vessazione politica delle Ypg, nelle persone degli internazionalisti che le hanno supportate. Questo avviene con un tempismo particolare: a un anno dal primo attacco turco contro il Rojava, ad Afrin, e mentre gli Stati Uniti cullano l’idea di un disimpegno dalla Siria del nord. Nel frattempo, forte di un sostegno ambiguo da parte della Russia, Erdogan punta apertamente ad occupare l’intero Rojava a partire da Manbij, per poi proseguire a Kobane, Qamishlo ed oltre. In questa situazione i combattenti e le combattenti curde non servono più, ed anzi è possibile tornare alla loro usuale criminalizzazione in quanto militanti di un movimento anticapitalista.
C’è anche dell’altro. Le questure italiane si trovano oggi ad agire alle dipendenze di un Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che ha sempre fatto gran mostra – nelle sue permanenti campagne elettorali – di considerare l’Isis un problema da affrontare con durezza. In più di un’occasione, quando il fenomeno riempiva i teleschermi con attentati e decapitazioni, insisteva dall’opposizione sulla necessità di muovere armi e truppe contro i miliziani del califfato, o meglio contro quelle «bestie», come le chiamava, che attaccavano le nostre città, per arrivare una volta a dichiarare, su Radio24, che sarebbe stato disposto a combattere l’Isis, in Siria, addirittura in prima persona.
È chiaro che le parole del leader della Lega non erano serie né sincere. Da quando lui e i suoi alleati sono al governo gli affari dell’Italia con paesi islamisti e oscurantisti come Turchia e Arabia Saudita vanno a gonfie vele, per non parlare degli aguzzini libici che tengono in scacco diverse città costiere e dell’entroterra, i quali hanno una visione intollerante non così diversa da quella dei miliziani siriani che io, Luisi e gli altri abbiamo combattuto a Raqqa o a Manbij. La Lega punta a capitalizzare l’identificazione indebita dell’islam con il fondamentalismo islamico, sua corrente specifica, e dei movimenti migratori con un’invasione islamica, magari islamista (cioè orientata al fondamentalismo). Nel frattempo il governo Conte rinsalda relazioni politiche con il neo-sultano Erdogan e con i miliziani libici per trasferire su quegli attori politici il contenimento delle migrazioni verso i nostri confini. Come dire: politiche e messaggi sbagliati e controproducenti tanto sul piano teorico, quanto su quello pratico.
Il governo turco alleato di Conte e Salvini, che ha finora incassato sei miliardi dei contribuenti europei grazie al ricatto dei profughi siriani, sta creando un esercito jihadista in Siria che occupa Idlib e Afrin ed è pronto a muovere verso Manbij e Raqqa, riportando i territori liberati dalle Ypg sotto i tribunali della sharia. L’intera opera di liberazione politica compiuta dalle Ypg-Sdf in Siria, a costo di migliaia di martiri, rischia di essere vanificata dalle manovre turche, senza parlare della destabilizzazione regionale che la politica di «rinnovamento islamico» oscurantista e violento della Turchia porta con sé.
Salvini blocca di tanto in tanto qualche decina di persone su una nave lungo le coste della Sicilia, millantando di agire per la sicurezza degli italiani, e nel contempo rinsalda rapporti pericolosi tanto per gli italiani quanto per i mediorientali, ponendo le fondamenta concrete, ben al di là della propaganda, per i nuovi “Isis” di domani, qualunque sarà il loro nome; e mentre fa visita in carcere a chi ha usato un’arma contro un uomo disarmato che aveva rubato qualche litro di gasolio, coordina la persecuzione poliziesca di persone la cui unica colpa è aver agito (armati, perché non c’era altra scelta) contro quel califfato che a portato morte e distruzione nelle città europee.
La campagna di criminalizzazione avviata dalle procure di Torino e Cagliari contro i volontari italiani delle Ypg va letta all’interno delle relazioni, dei contesti e delle implicazioni che la rendono possibile. Essa attua un tentativo tutt’altro che scontato, giacché la sensibilità delle popolazioni dell’Italia e dell’Europa tende a considerare la nostra scelta sacrosanta e i movimenti jihadisti un nemico.
La nostra esperienza, però, è di per sé una smentita delle teorie che oggi si fanno pratica di governo: abbiamo vissuto tra i mediorientali, molti dei quali musulmani, e abbiamo avuto il privilegio di contribuire alla sconfitta dell’Isis grazie alle rivoluzioni e ai movimenti di libertà che loro hanno costruito. Abbiamo toccato con mano i vantaggi di una collaborazione tra stili di vita e religioni diverse per un cambiamento che sia utile a tutti. Abbiamo anche visto quali condizioni di (non) vita inducono tanti esseri umani a mettersi in viaggio verso altri paesi, e riscontrato quanto sia profonda la consapevolezza sociale delle responsabilità coloniali (economiche e politiche) dell’intera Europa, ieri e oggi, verso le società dell’Africa e dell’Asia occidentale. Per questo non è impossibile vedere una razionalità politica nell’ostilità di un ministro come Salvini nei nostri confronti; ma questa razionalità può con successo toglierci la parola soltanto nella misura in cui la popolazione italiana è tenuta all’oscuro di ciò che ci stanno facendo e di ciò che ci accade.
Per questo invito tutti a mobilitarsi, in questo mese di marzo, per la denuncia di queste manovre di polizia e per la tutela della reputazione delle Ypg e delle Ypj e della libertà degli internazionalisti, anzitutto a partire dal web.
* Davide Grasso ha pubblicato reportage indipendenti dagli Stati Uniti e dal Medio oriente e diversi articoli di filosofia dell’arte e teoria della realtà sociale. Nel 2013 ha pubblicato New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela per Stilo Editrice. Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno alla Federazione democratica della Siria del Nord. Nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere Daesh. La sua esperienza è raccontata nei libri Hevalen. Perché sono andato a combattere l’Isis in Siria, uscito per Edizioni Alegre nella collana Quinto Tipo curata da Wu Ming 1, e Il fiore del deserto. La rivoluzione delle donne e delle comuni tra l’Iraq e la Siria del nord, Agenzia X, Milano 2018.
Mi fa piacere umanamente e politicamente (a dispetto delle circostanze) ritrovare Luiseddu Caria qui, in un pezzo firmato da Davide Grasso ospitato su Giap.
Il senso e la portata di queste misure repressive *mirate* mi sembra evidente. Anche nella loro configurazione come test.
Aggiungerei alla disamina di Davide un aspetto, che forse è implicito ma andrebbe sempre tenuto presente.
Sia in ambito torinese sia in Sardegna i soggetti colpiti da queste misure di polizia sono persone notoriamente attive anche in casa propria, non solo sul fronte della lotta all’ISIS e della rivoluzione del Rojava.
Luiseddu – oltre ad essere figlio di Angelo, compianto leader storico dell’indipendentismo sardo – è lui stesso un militante impegnato nell’isola a favore dell’emancipazione sociale e politica del suo popolo.
Nell’insieme, dunque, il segnale è chiaro.
Tutte le lotte sono la stessa lotta.
Mi sembra che chi deve temerle lo sappia bene. Forse più di chi vi prende parte.
Condivido l’appello a tenere alta l’attenzione su questi casi.
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