L’annuncio di una nuova serata di Resistenze in Cirenaica è l’occasione migliore per proporre su Giap un articolo di Wu Ming 1 apparso su Linus nel marzo scorso col titolo «Via Libia, luogo di crimini del colonialismo italiano», qui in versione “aumentata”, con link e materiali vari. Un modo per fare il punto su cosa ha fatto RIC, e aprire una nuova fase.
Prima, però, alcuni dettagli sull’importante serata del 28 giugno.
L’evento sarà incentrato sulla presentazione di Cronache dalla polvere, nuovissimo mosaic novel – romanzo a racconti intrecciati – sugli orrori del colonialismo italiano in Africa, scritto dal collettivo Zoya Barontini.
Come ha fatto notare WM1 in una recente conferenza, il fantasma che infesta l’edificio-Italia è una donna etiope, e Zoya – «alba», «aurora» – è un tipico nome femminile etiope. Quanto al cognome Barontini, è un esplicito omaggio a uno dei nostri «eroi di più mondi».
Chi fa parte del collettivo Zoya Barontini? La risposta è qui. Qui invece c’è il booktrailer del libro.
La serata del 28 giugno è una tappa di avvicinamento al festival Su la testa! Percorsi di antifascismo. A parlare di Cronache dalla polvere sarà l’ideatore e coordinatore del progetto, Jadel Andreetto aka Kai Zen J, affiancato da Wu Ming 1.
Prima ancora, verrà presentato il libro, Qualcosa di meglio, biografia del partigiano Otello Palmieri, con gli autori Alfredo Mignini ed Enrico Pontieri e il centro di documentazione «Francesco Lorusso / Carlo Giuliani».
La serata terminerà con un reading/concerto del Bhutan Clan, tratto da Cronache dalla polvere.
E ora, buona lettura. WM]
Via Libia, luogo di crimini del colonialismo italiano
L’Italia detiene molti primati.
Una frase che può avere diverse interpretazioni: in effetti, lo stato italiano tiene in carcere molti esseri umani, che con scimmie e proscimmie fanno parte dell’ordine dei primati. Ma qui per primati intendiamo le primazìe: le volte che un italiano è stato il primo a compiere un’impresa o scoprire qualcosa, o gli ambiti e settori dove l’Italia «primeggia».
Molti primati italiani sono veri, ma alcuni, anche se fanno parte della mitologia nazionale, sono falsi. Ad esempio, è falso che il nostro paese abbia «il 70% del patrimonio artistico mondiale»: è una percentuale inventata di sana pianta, e prima ancora un’idea sballata, pensateci un momento.
A noi, qui, interessa una terza categoria: quella dei primati veri ma mai ricordati, e perciò sconosciuti alla grande maggioranza degli italiani.
L’Italia ha compiuto il primo bombardamento aereo della storia. Lo ha fatto nei pressi di Tripoli, durante la guerra di Libia, l’1 novembre del 1911. Nel 2011 abbiamo festeggiato il centenario con un remake, partecipando ai bombardamenti Nato contro la Libia.
L’Italia è stata la prima potenza coloniale a innalzare un “muro della vergogna” nel mondo arabo. Ben prima del muro israeliano, o delle barriere di Ceuta. Anche quest’impresa l’abbiamo fatta in Libia, per la precisione nella sua regione orientale, la Cirenaica. Ne parleremo tra poco.
L’Italia è stata la prima nazione a violare il Protocollo di Ginevra che proibiva l’uso di armi chimiche. Lo aveva firmato nel 1925, ma già nel ’30 rovesciava sulla Cirenaica iprite, fosgene e arsine. Un preludio a quel che sarebbe avvenuto in Etiopia pochi anni dopo.
L’Italia è stata il primo paese a bombardare ospedali della Croce rossa. Coi gas, per giunta. Lo ha fatto durante la guerra d’Etiopia.
Per ora, fermiamoci in Libia.
Nel 1930, a quasi vent’anni dall’invasione, l’Italia occupa quasi solo le città costiere, mentre nell’entroterra, soprattutto in Cirenaica, si scontra con durissime resistenze. I partigiani senussiti, guidati dall’anziano insegnante ʿOmar al-Mukhtār, sono l’incubo del governatore Pietro Badoglio e del vicegovernatore Rodolfo Graziani. ʿOmar ha più di settant’anni e combatte l’Italia fin dalla prima invasione della Libia. La sua abilità strategica, la conoscenza del territorio e l’appoggio della popolazione consentono alle bande armate beduine, i duar, di ridicolizzare il nemico con tattiche mordi-e-fuggi.
In cerca della soluzione finale al problema della resistenza, Badoglio e Graziani danno l’ordine di deportare quasi tutta la popolazione civile a centinaia di chilometri di distanza, in sedici campi di concentramento allestiti in fretta e furia. Il fine è isolare i partigiani.
Migliaia di persone – donne, vecchi, bambini – muoiono già durante le marce forzate nel deserto. Ancora di più creperanno nei campi, di malattie, di fame, di botte. Gli storici – quelli veri – concorderanno nel definirlo un genocidio. Del resto, in un dispaccio a Graziani, Badoglio lo ha scritto chiaro e tondo (corsivo nostro): «Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma ormai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguirla fino alla fine, anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica.»
Ieri e oggi, i campi di concentramento in Libia sono una vera fissazione italiana.
Ma nemmeno i campi bastano: per non farsi accerchiare, e per rifornirsi di viveri e armi, i partigiani sconfinano più volte in Egitto. Graziani ordina di chiudere il confine: da lì non deve passare più niente. Si innalzerà una barriera di reticolati, alta un metro e sessanta, larga dieci metri e lunga 270 chilometri. Ecco un’altra fissazione italiana: le “grandi opere”.
I lavori partono nell’aprile 1931. Alcune cifre, per capire la scala dell’operazione: 50 milioni di metri di filo spinato; 2000 tonnellate di cemento; 270 milioni di paletti di ferro; 2500 libici presi dai campi e messi ai lavori forzati nel deserto, sorvegliati da oltre mille soldati.
Alla fine d’agosto, il confine con l’Egitto è sigillato. Graziani si avventura in paragoni con il Vallo di Adriano e la Grande muraglia cinese. L’uomo è già lanciato nella sua carriera di criminale di guerra e propagandista di se stesso. I giornali italiani parlano di lui come di un «nuovo Scipione l’Africano». Fortificare un confine impressiona sempre i gonzi, e garantisce ottima propaganda.
Gli ultimi ribelli sono ormai in trappola. L’11 settembre, ʿOmar al-Mukhtār viene ferito e fatto prigioniero nei dintorni di Slonta. Lo portano a Bengasi in catene. Una celebre foto lo mostra circondato da pezzi grossi italiani, militari e civili, tronfi e panzuti secondo il dettame «omo de panza, omo de sostanza».
Il processo si tiene pochi giorni dopo, nel Palazzo littorio della città, ed è una farsa. Dura appena tre ore, perché il verdetto è già deciso.
Per dare l’esempio, il vecchio comandante viene impiccato nel campo di concentramento di Soluch, di fronte a trentamila internati.
La sera del 27 settembre 2015, nel giardino pubblico Lorenzo Giusti di Bologna, gli attori della Compagnia Fantasma mettono in scena la cattura e il processo di ʿOmar, mentre il volto del vecchio guerrigliero campeggia su spille e T-shirt vendute per finanziare la serata. È il primo grande evento targato RIC, Resistenze in Cirenaica. Il giardino è gremito e il ricordo di un grande comandante partigiano – perché questo fu ʿOmar – culmina in una lunga ovazione. Si era mai sentito un applauso di italiani omaggiare il «leone del deserto», terrore delle nostre truppe in Libia?
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Per giunta, in un rione della prima periferia bolognese chiamato «Cirenaica».
Come altro definirla, se non giustizia poetica?
Lo spettacolo conclude una lunga giornata di mobilitazione nel rione. Un serpente di centinaia di persone ne ha affollato le strade, ascoltando dieci ore di musica, canti e storie. Storie che mettevano insieme due resistenze: quella al colonialismo italiano in Africa e quella al nazifascismo in Europa. Ma anche storie del rione, della sua classe operaia, dei suoi partigiani. L’invito parlava di «trekking urbano», e si è presentata una moltitudine.
Nella tappa più significativa si è ribattezzata “dal basso” via Libia, una delle arterie della periferia orientale di Bologna, coprendo le targhe ufficiali con altre fatte stampare ad hoc: «via Vinka Kitarovic, combattente per la Liberazione – già via Libia».
Vinka, nome di battaglia «Lina», morta a ottantasei anni nel 2012. La sua storia di ragazza croata deportata a Bologna, evasa e divenuta partigiana, entusiasma i presenti. Quando cantano i bambini del Coro R’esistente del Pratello, gli occhi sono umidi. Molti si accorgono solo in quel momento che «via Libia» non è un nome neutro né innocente.
Le nuove targhe vengono rimosse il giorno dopo, ma il nome di via Libia non è più dato per scontato, e presto segue un nuovo intervento, stavolta nottetempo. Non si copre il nome ufficiale ma, grazie a un adesivo, si aggiunge l’informazione «Luogo di crimini del colonialismo italiano».
Il rione Cirenaica fu costruito nel 1913, poco dopo la prima guerra di Libia. Fu chiamato così per celebrare la conquista, e le vie ricevettero nomi in tema: via Tripoli, via Cirene, via Derna…
Durante l’occupazione nazista, il rione fu uno dei più importanti focolai della Resistenza: ospitava il comando unificato partigiano e una tipografia clandestina.
Nel 1949 il consiglio comunale di Bologna reintitolò quasi tutte le vie a partigiani caduti per liberare Bologna. Solo via Libia mantenne il vecchio nome.
Molte targhe del rione indicano due denominazioni: «Via Sante Vincenzi – già via Derna»; «Via Giuseppe Bentivogli – già via Bengasi»… Quei doppi nomi sono formidabili spunti narrativi. Il progetto RIC è partito da lì.
Resistenze in Cirenaica è un «collettivo di collettivi» e un «cantiere culturale permanente» che lavora sulla memoria del colonialismo italiano e del razzismo fascista, sui segni che hanno lasciato nelle nostre città, e sulla storia della guerra partigiana a Bologna.
L’idea di fondo di RIC è considerare tutte le resistenze al fascismo – in Italia, in Africa, nei Balcani, ovunque – una sola grande resistenza intercontinentale e meticcia. Alcune vite lo illustrano molto bene: vite di italiani che presero parte alle resistenze africane, come Carmine Iorio, Ilio Barontini, Anton Ukmar e Domenico Rolla; di africani che presero parte alla resistenza italiana, come Carlo Abbamagal, Aden Scire Giama e Abbagiru Abbauagi; e di partigiani italiani afrodiscendenti, come Giorgio Marincola e Alessandro Sinigaglia. Storie che RIC ha raccontato e continuerà a raccontare.
RIC ha cominciato ad aggregarsi nel 2014 intorno a due poli: il centro sociale autogestito Vag61 e il giardino Lorenzo Giusti. Quest’ultimo è una conquista dei cittadini, un lotto strappato alla cementificazione e intitolato a un ferroviere anarchico e combattente nella guerra civile spagnola.
L’ingresso al giardino Lorenzo Giusti, spazio verde conquistato 10 anni fa dai cittadini del rione e intitolato a un ferroviere anarchico, grande organizzatore di scioperi negli anni prima del fascismo, poi combattente nella guerra civile spagnola. pic.twitter.com/uD5DwVzgGO
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) 21 aprile 2018
Di RIC fanno parte Vag61, l’associazione Spazi aperti (che si occupa del giardino), due collettivi di scrittori (Wu Ming e Kai Zen), l’ensemble musicale Bhutan Clan, gli attori e musicisti della Compagnia Fantasma, il collettivo di videomaker SMK Videofactory, e vari altri artisti e attivisti.
A quella prima giornata ne sono seguite molte altre. Trekking urbani nel rione e non solo, serate di narrazioni e musica al giardino Giusti e al Vag61, presentazioni di libri e documentari, inaugurazioni di murales.
Nel novembre 2016, con il plauso del proprietario del muro (cosa rara in tempi di campagna terroristica sul «degrado»), appare in via Barontini un murale dedicato all’eroe eponimo: Ilio Barontini (1890-1951).
Barontini non fu “solo” uno dei più importanti comandanti partigiani, ma anche un grande combattente internazionalista. Diede filo da torcere ai fascisti e ai nazisti in Etiopia, Spagna, Francia e Italia. Fu comandante nella Battaglia di Guadalajara (marzo 1937) e, a Bologna, nella Battaglia di Porta Lame (7 novembre 1944). Il murale è ispirato a una foto dove è in posa con alcuni guerriglieri etiopi, quegli Arbegnoch che dal 1936 al 1941 impedirono al fascismo di prendersi due terzi dell’Etiopia.
A Bologna e in Emilia, negli anni si è sviluppata una peculiare forma di reading-concerto, di declamazione narrativa su musica. L’esperienza dei CCCP ha influenzato le sperimentazioni di band come Massimo Volume, Starfuckers, Offlaga Disco Pax; sperimentazioni che a loro volta si sono ibridate con l’approccio alla lettura scenica di vari scrittori (su tutti Stefano Tassinari), teatranti, di musicisti provenienti dal jazz e dal punk.
RIC ha ripreso questa tradizione, fondando una vera e propria officina di reading. Il Bhutan Clan, resident band del progetto, ha composto musiche per molti testi, alcuni mai proposti prima in Italia. Grazie all’arabista Federico Pozzoli, RIC ha fatto conoscere poesie e racconti della resistenza libica, come il Canto del campo di al-‘Aqila di Rajab Bu-Huwayish e Un chiodo per Mussolini di Ali Mustafa al-Misrati.
Serata Resistenze in Cirenaica, Vag61, Bologna 22 gennaio 2016.
Federico Pozzoli, arabista, studia il modo in cui la letteratura libica ha raccontato il colonialismo italiano. Al Vag61 ha parlato del suo lavoro e spiegato perché nei racconti che ha tradotto i termini jihad – letteralmente «sforzo», ma in occidente diventa sempre «guerra santa» – e mujahiddin vadano resi con «resistenza» e «partigiani»… e viceversa, perché in traduzione araba i nostri partigiani possono tranquillamente essere chiamati mujahiddin.
Al termine della chiacchierata, Wu Ming 1 ha letto, nella traduzione di Federico, la prima parte del racconto «Un chiodo per Mussolini» di Ali Mustafa al-Misrati, accompagnato dai suoni elettronici e acustici di Guglielmo Pagnozzi.
RIC pubblica anche una collana di libri autoprodotti, I quaderni di Cirene. Il più recente, il terzo della serie, si intitola Relitti fascisti e parla di come risemantizzare architetture e monumenti del ventennio, con esempi sul lavoro fatto (o non fatto) a Predappio, Bologna e Bolzano. I numeri si possono ordinare sul sito Distribuzioni dal basso, openddb.it.
Che la storia dello stato-nazione italiano sia anche e soprattutto una storia di imperialismo è ignorato dalla maggior parte dei cittadini. Lo abbiamo visto di recente, con la celebrazione della “vittoria” nella Grande guerra. Guerra che la retorica patriottarda continua a presentare come di difesa, omettendo che fu l’Italia ad attaccare l’Austria, per conquistare terre e risorse.
Quando si parla del nostro passato coloniale, le nebbie si fanno ancora più fitte. La mancata elaborazione di quella storia e l’ignoranza sui crimini italiani in Africa condizionano da decenni la nostra cultura, alimentando il mito degli «italiani brava gente» e riproducendo una società con pochi anticorpi nei confronti di razzismo e nazionalismo.
Per questo “officine” come RIC dovrebbero sorgere in ogni città. E in effetti l’influenza di quel lavoro comincia a farsi sentire. In giro per l’Italia si moltiplicano le azioni di «guerriglia odonomastica», gli interventi sui nomi fascisti e coloniali delle vie.
L’iniziativa più grossa, dichiaratamente ispirata a RIC e coordinata da Wu Ming 2, è stata a Palermo nell’ottobre scorso. Durante la 12esima edizione di Manifesta, la biennale nomade europea di arte contemporanea, una brigata di scrittori, artisti e attivisti ho dato vita a Viva Menilicchi!, mobilitazione a tutto campo sui retaggi coloniali della città. Tra le varie azioni, si sono aggiunte diciture alle targhe di via Vincenzo Magliocco – «Organizzò e diresse i bombardamenti con armi chimiche durante l’invasione fascista dell’Etiopia» – e Piazza Vittorio Bottego – «esploratore e pluriomicida». I giardini di Piazza Bottego sono stati reintitolati a Lorenzo Taezaz (1900-1947), protagonista della resistenza contro il fascismo in Etiopia.
A #Ragusa la Rete Iblea Antifascista reintitola dal basso via Almirante e la ribattezza via Anna Frank. Si estende la «guerriglia odonomastica» cominciata a #Bologna nel rione Cirenaica. https://t.co/oqmXf12GIx pic.twitter.com/Ucsy4u346a
— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) 30 settembre 2018
La Sicilia sembra particolarmente incline a questi interventi. A Ragusa, un mese prima di Viva Menilicchi!, via Giorgio Almirante – propagandista del razzismo fascista, dal 1938 al 1943 redattore capo della rivista La difesa della razza – è stata ribattezzata dal basso «via Anna Frank».
Lunga vita alla guerriglia odonomastica! Che mille commandos entrino in azione.
Sarebbe un gran bell’esito, per un lavoro cominciato in un piccolo rione di Bologna est.
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