Ecco a chi giova il Jova Beach Party. Nuovo greenwashing e «Grandi Eventi» nell’era della crisi climatica

Jova Beach Party a Pian de Corones.

Questo è il mondo dell’ombelico.

di Alpinismo Molotov*

INDICE
Introduzione. Il sacchetto dell’umido
1. La funzione Jovanotti
2. Il tour si è fatto perché «c’è il WWF»
3. Il nuovo greenwashing: da narrazione diversiva a condicio sine qua non dell’estrazione di valore
4. Il Grande Evento come Grande Opera “green”
5. Non c’è «scienza ambientale» che tenga senza il conflitto
Postilla. E non hai ancora visto niente


Introduzione. Il sacchetto dell’umido

«Questa storia è come il sacchetto dell’umido che hai lasciato pieno per dieci giorni: come lo muovi, colano liquami».

Così si è commentato, nella nostra mailing list, il Grande Sbrocco nel quale Jovanotti accusava genericamente il mondo dell’ambientalismo di essere «più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi.»

Chiariamo subito le ragioni che hanno spinto Alpinismo Molotov, un collettivo che si occupa di montagna, a scrivere di una pop star che organizza concerti sulle spiagge.

Il Jova Beach Party non è solo una tournée: è parte di un frame devastante che viene riproposto da anni, rappresenta in modo plastico il capitale nella sua forma più perniciosa e camaleontica, e non ha toccato solo le spiagge ma è arrivato ben più in alto, esacerbando questioni di cui ci siamo sempre occupati.

Veniamo a sapere del grande evento itinerante che si chiamerà Jova Beach Party ai primi di aprile, quando Reinhold Messner prende posizione contro l’annunciata data del concerto a Plan de Corones – Kronplatz, quota 2.275. Un giudizio, quello di Messner, che trova subito spazio nei media: «Non posso vietarlo, ma lo farei se potessi».

Si tratta dell’unica data in cui il mega-show si terrà non su qualche litorale, ma in vetta a una montagna… che per Jovanotti diventa subito «la spiaggia più alta d’Italia».

«Abbiamo ricevuto in dono le montagne», dichiara Messner, «e dobbiamo imparare a rispettarle per ciò che rappresentano: una riserva d’acqua e di quiete, un luogo libero dove dedicare tempo alla cura dello spirito.»

Di fronte a tali motivazioni Alpinismo Molotov si trova a disagio. In estrema sintesi, per un’impronta di essenzialismo nella rappresentazione della natura e della montagna, essenzialismo che riteniamo tossico. Tuttavia, è chiaro che un evento di tale portata – per le strutture da montare e smontare in quota e per il numero degli spettatori previsti – avrà un impatto sull’ecosistema che, obtorto collo, lo ospiterà. Non si tratta di valutarlo con un confronto tra il prima e il dopo, è il durante che produrrà effetti deleteri, in parte riscontrabili e in parte no, ma non per questo non presenti.

Il concerto si terrà, anticipato e snellito per via di pessime condizioni meteorologiche, che in quota espongono a rischi maggiori rispetto ad altri luoghi. In occasione dell’evento, a leggere i giornali e a giudicare dai profili social di Jovanotti, quest’ultimo e Messner sembrano essersi riappacificati: una stretta di mano, facce sorridenti…

Abundat!

Le cose stanno diversamente, a giudicare dalle dichiarazioni rese da Messner in questa intervista  (24 agosto, quindi dopo il concerto): «ribadisco che non ha senso organizzare un simile evento lassù».

L’anestetizzazione mediatica delle critiche è, come vedremo, uno degli aspetti ricorrenti di questa vicenda. Nel caso di Messner, l’anestetizzazione può essere utilmente inquadrata in una questione più generale che riguarda ogni battaglia. Come ha scritto Loredana Lipperini in un recente post sul suo blog,

«nessuna battaglia si conduce da personaggi: non una duratura, almeno. Nonostante le vittorie accumulate, si finisce col perdere la partita, nel momento in cui altri personaggi che funzionano meglio, e non importa quale sia il pensiero di cui sono portatori, si fanno avanti.»

Quando nei primi mesi del 2019 viene annunciato il Jova Beach Party, nonostante le scarse informazioni iniziali, ci sono fin da subito forti perplessità in merito alle location e all’organizzazione del grande evento, che a tutti gli effetti si presenta come grande opera. I costi, l’impatto sull’ambiente, la logistica, il messaggio veicolato, il ricorso a un certo ambientalismo usa-e-getta… Problematiche che con il crescere delle informazioni e con l’inizio del tour emergono in tutta la loro drammatica realtà.

Di fronte alle molte critiche, il Preso Bene la prende male.

Prima dichiara: «Non siamo hooligan che dove vanno distruggono tutto. Noi siamo diversi, dove andiamo costruiamo, rispettiamo l’ambiente, i luoghi e le persone. Lasciamo i luoghi più puliti di come li troviamo».

Dopo la cancellazione del concerto di Vasto su indicazione della Prefettura di Chieti, ricorrendo a una formula subdolamente negazionista e abusatissima negli attacchi ai movimenti che si battono contro le grandi opere inutili e devastanti, dichiara: «A Vasto ha vinto il fronte del NO, quello di cui l’Italia è pervasa».

Col proseguire delle polemiche, la prende malissimo e spara l’ormai celebre comunicato, quello delle fogne di Nuova Delhi, in cui aggiunge che:

«il Jova Beach Party ha portato gioia, messaggi seri sui comportamenti adottabili da subito per ridurre il proprio impatto ambientale, amore, cultura, economia, goduria, coraggio, spirito avventuroso e originalità […] senza puntare il dito e senza darsi delle arie».

Ecco, noi invece puntiamo il dito.

Ora riavvolgiamo il nastro e seguiamo la traccia del Jova Beach Party.

1. La funzione Jovanotti

È necessario zoomare all’indietro, per inquadrare non Jovanotti ma la funzione sistemica di un Jovanotti.

La querelle che ha accompagnato il Jova Beach Party è interessante perché vi si trova condensata una congerie di narrazioni tossiche che se analizzate e demistificate saranno, almeno parzialmente, depotenziate in futuro.

L’evento Jova Beach Party – «più di uno stadio, più di un palasport, più di un festival, molto più di un concerto», com’è presentato sul sito dell’agenzia Trident che lo produce e lo organizza – è la quintessenza del “presabenismo” à la Jovanotti. Ci riferiamo a quella banalizzazione della psicologia positiva che trova un corrispettivo nella versione popolarizzata e divulgativa tipica dei manuali di self-help che siamo soliti trovare sugli scaffali degli autogrill e che risponde all’imperativo della società contemporanea «se vuoi puoi». Una narrazione dove le classi scompaiono, che non contempla il ruolo dei privilegi, ma che trova ampia ricezione in tutti gli strati sociali e quindi viene recepita agevolmente nel discorso pubblico, senza che nessuno la trovi contraddittoria, persino quando la propinano pop-star milionarie.

Siamo convinti che solo Jovanotti potesse svolgere, in Italia, una funzione da apripista per mega-show che si svolgono in ambienti naturali dove, benché duramente stressati dall’azione antropica, resistono delicati ecosistemi.

Il punto della questione non è Jovanotti in sé, ma la funzione che Jovanotti svolge.

Di tutta l’operazione Jova Beach Party, a risultare più tossico è il fatto che Jovanotti non si accontenti di un mega-show allestito a scopi commerciali, di soddisfare in questo modo la propria ambizione e volontà di potenza, di mostrare al mondo – a chi può permettersi il costo del biglietto d’ingresso, ma poi c’è la copertura assicurata dai media – «una città temporanea, un villaggio sulla spiaggia, un nuovo format di concerto, un happening per il nuovo tempo» (sempre dalla presentazione offerta da Trident)… No, Jovanotti vuole anche dare a tutto ciò una veste pedagogica, imporre il mega-show come momento “alto” di aggregazione e divertimento per i messaggi che presuntamente veicola: «la tutela del mare e il contrasto all’abbandono dei rifiuti in materiali plastici», come sintetizza Donatella Bianchi, presidente di WWF Italia, in questa intervista.

Questo “di più” non stona, anzi, risuona perfettamente con l’immagine pubblica che Jovanotti si è costruito nella sua trentennale carriera: il Jova Beach Party è interamente a sua immagine e somiglianza. Dunque, dall’immagine e dal personaggio Jovanotti è necessario partire.

Nel 2000 su Rai Due andava in onda Convenscion, dove un poco più che trentenne Neri Marcorè imitava un Jovanotti predicatore, ingenuo, sprovveduto e piuttosto suonato, che tra una telefonata a Clinton e un’altra all’ONU tentava di «sconfiggere l’odio nel mondo».

Già allora l’immagine di Jovanotti corrispondeva alla sottotipologia «popstar impegnata e sensibile ai temi urgenti della contemporaneità».

Nel corso degli anni, ha lavorato ulteriormente sul proprio personaggio, sfoggiando un ecumenismo sempre più disinvolto, fino a fare il «preso bene» persino nei confronti di Salvini.

L’importante è che il razzismo danzi bene? Hop! Evviva! Siamo tutti presi bene, oplà! Gimme five!

Nell’agosto 2018, proprio Neri Marcorè invitava a Risorgi Marche lo stesso Jovanotti. L’evento – di cui parlammo nei giorni immediatamente successivi – portò all’interno della Riserva Naturale del Monte San Vicino e del Monte Canfaito circa 70.000 persone, scatenando polemiche e discussioni sul senso stesso della manifestazione.

Per le modalità e la carica emotiva che ha sfruttato, Risorgi Marche ha rappresentato un salto di qualità. Forse non avremo mai elementi concreti per dirlo, ma pensiamo che senza quell’evento zero a Jovanotti e al suo entourage non sarebbe mai venuto in mente di spiaggiarsi nell’estate 2019.

Preludio al Jova Beach Party: Risorgi Marche

6 agosto 2019, Risorgi Market.

Jovanotti lo ricordiamo a Genova nel 2001, durante le giornate del G8, in compagnia di Bono Vox e Bob Geldof. Stavano dentro la «zona rossa», a incontrare – stando a quanto raccontarono i giornali – «tutti i leader mondiali» in qualità di testimonial della campagna Cancella il debito.

«Lo ricordiamo» per modo di dire, perché in quei giorni noi eravamo fuori della zona rossa e avevamo altro a cui prestare attenzione.

Preistoria del Jova Beach Party: Lorenzo al G8, dalla parte sbagliata delle barriere

Preistoria del Jova Beach Party: Lorenzo al G8, dalla parte sbagliata delle barriere.

Oggi rintracciamo in rete una dichiarazione attribuita ai tre, riferita alle contestazioni in corso: «La rabbia va bene, la violenza no: picchiate i pugni sul tavolo e non in faccia agli altri». È del 20 luglio, giorno della morte di Carlo Giuliani, corollario perfetto alla mission che vedeva protagonista la delegazione di rockstar in quei giorni: chiedere a chi rappresenta gli interessi degli sfruttatori di essere magnanimo, di impoverire un po’ meno la gran parte delle persone che abitano il pianeta, per favore, se potete, grazie in anticipo.

E i «pugni sul tavolo»? Non pervenuti.

Per contenuti e modalità di trasmissione del messaggio, non siamo molto lontani dal Jova Beach Party.

Nel 1985 Bob Geldof mise in scena il Live Aid e insegnò al mondo del music biz un modo per rifulgere sollecitando carità e vendendo lavaggi di coscienza a buon mercato. Il tutto si riassumeva in questa scena: popstar miliardarie si atteggiano a «buone» chiedendoti di aiutare i poveri con le tue mille lire.

L’anno dopo, i Chumbawamba sbeffeggiarono il giochino con un album significativamente intitolato Pictures of Starving Children Sell Records.

[La ciliegina è atterrata sulla torta pochi mesi fa, grazie ai cosiddetti Mauritius Leaks, nei quali pare di vedere tutt’altro “attivismo” da parte di Geldof, che risulterebbe alquanto engagé nell’elusione fiscale internazionale.]

Ma è soprattutto Bono Vox il campione dello «spettacolo della filantropia», più precisamente del «filantrocapitalismo» come lo chiama Harry Browne nel suo importante saggio The frontman. Bono (Nel nome del potere).

All’uscita del libro in Italia, nel 2014, Browne venne intervistato da Alberto Prunetti e Wu Ming 1, ed è utile recuperare e proporre qui la sua risposta alla domanda:

«Cos’è che spinge questi ricchi bast… ehm, individui? La loro filantropia serve solo a lavarsi la coscienza? Oppure, difendendo questa o quella causa, diventano ancora più ricchi? Pensi che il capitalismo abbia un bisogno sistemico di filantropia?».

«È un’ottima e difficile domanda, alla quale sarei tentato di rispondere, semplicemente, “Sì”. Ma cercherò di dire qualcosa di più! […] Questo progetto ideologico, naturalmente, va oltre l’auto-giustificazione dei ricchi bast… ehm, individui. È un discorso egemonico, un insistere sul fatto che non c’è alternativa a questo mondo che è non-proprio-il-migliore-ma-è-in-rapido-miglioramento dei mondi possibili. Bono, quando proprio vuole sembrare radicale, al massimo dice qualcosa tipo: “A volte mi piacerebbe che ci fosse un’alternativa al capitalismo”. Il che equivale a negare ogni possibilità di vero cambiamento. E anche in quel caso, tornerà subito al suo argomento centrale: che non c’è motivo di attaccare, o anche solo ridimensionare, il potere dei ricchi autocrati, perché saranno proprio loro a salvare i poveri.»

Quello qui descritto da Browne è, per citare Mark Fisher, puro realismo capitalista, cioè quella condizione contemporanea in cui il capitalismo ha saturato «l’orizzonte del pensabile»; è ancora, in altre parole, una variazione del refrain thatcheriano TINA, There Is No Alternative. Al capitalismo – sistema di produzione predatorio fondato sull’ingiustizia sociale ed ecologica – non esisterebbe alternativa.

Torniamo a Jovanotti e all’ambientalismo interessato di cui è portatore, in partnership coi numerosi sponsor sempre in cerca di nuove strategie di greenwashing. Qui il messaggio è: there is no alternative, ma almeno lasciamo pulito, raccogliamo i rifiuti in plastica e alcuni li trasformiamo in memorabilia del Jova Beach Party stesso.

L’attivismo di Jovanotti – eminentemente politico nei suoi effetti, per gli interessi che rappresenta e per l’insistenza con cui viene presentato come filantropico e «apolitico» – agisce nel contesto di un’oramai ineludibile crisi climatica. Crisi che il capitalismo, primo responsabile della condizione attuale, cerca di mettere a valore, anche attraverso la «responsabilizzazione del consumatore», spingendo verso stili di consumo presentati come meno impattanti – ma non meno redditizi.

Jovanotti, in sintesi, è funzionale al modello sviluppista e ai tentativi di rigenerazione in chiave green e climate friendly di questo modello, mentre all’orizzonte si profila un’apocalisse ecologica che comporterà, dal punto di vista sociale, enormi sconvolgimenti e conflitti.

L’attivismo di Jovanotti funziona anche come parafulmine alle critiche che gli vengono mosse: data la grande visibilità di cui gode, e la compiacenza e la condiscendenza che lo avviluppano, è gioco facile per lui – e per il suo ufficio stampa – neutralizzare le critiche presentandole come reazioni rancorose nei suoi confronti, mosse da «invidia» per il suo successo.

[E forse ne sono davvero convinti: per gli apologeti dell’esistente e della forma di vita neoliberale, è inconcepibile che a qualcuno possa non fotter niente di «invidiare» il «successo» di uno come Jovanotti.]

Questa, in sintesi, la «funzione Jovanotti». Ma se vogliamo comprendere appieno le narrazioni tossiche di cui è portatore il Jova Beach Party, è sul dispositivo combinato «Jova™ + WWF» che dobbiamo focalizzare l’attenzione.

2. Il Tour si è fatto perché «c’è il WWF»

Nel suo sfogo contro l’associazionismo ambientalista, Jovanotti pone upfront che «la primissima cosa che abbiamo fatto» iniziando a progettare il Jova Beach Party «è stato contattare il WWF». Non ci dice di cosa abbia parlato con la grande organizzazione ambientalista: non ci fa vedere, per esempio, un vademecum di sostenibilità da rispettare nell’organizzazione del tour, né una valutazione caso per caso delle location scelte elaborata dagli esperti del comitato scientifico di WWF Italia. A dispetto della dichiarata «totale trasparenza», non vediamo niente di tutto questo: dobbiamo farci bastare il nome del WWF messo avanti come uno scudo che difende dalle critiche – soprattutto se arrivano da soggetti che denunciano o si mobilitano “dal basso” – e resetta l’intera discussione.

Jovanotti, in breve, ci dice: se c’è il WWF non serve agitarsi. Lui ci crede: ci pensano loro. E pertanto ci dovremmo credere anche noi.

A dire il vero, WWF Italia – stando a quanto riportato nella presentazione della suo partecipazione al Jova Beach Party e nelle FAQ approntate come strumento per «chiarire i dubbi [tradotto: le critiche] più frequentemente circolati in particolare sui social» – pare esprimere una posizione più defilata.

Il WWF, così si legge, ha deciso di «partecipare» al JBP perché, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone, sarebbe stato «una grande occasione unica […] per sensibilizzare quante persone possibile sul tema dell’inquinamento da plastica». Nella sezione del sito «Domande e risposte» troviamo scritto anche:

«Ci siamo quindi impegnati, attraverso la nostra competenza scientifica e l’esperienza maturata in tanti anni di lavoro sul campo, affinché il tour si svolga nel rispetto degli habitat e delle specie viventi.»

Dalla lettura dei paragrafi con le iniziative adottate tappa per tappa, emerge in modo chiaro che il WWF ha lavorato per garantire la riuscita del JBP. La giustificazione addotta – citiamo testualmente, con tanto di doppio avverbio – è: «Il tour si sarebbe comunque fatto ugualmente».

Noi non sappiamo con quanto anticipo rispetto alle proteste il WWF abbia «chiesto e ottenuto» che venissero spostate alcune date e location o venissero «messi in sicurezza» alcuni siti particolarmente delicati, ma è sicuro che se qualcosa è stato fatto lo si deve anche alle associazioni e alle singole persone che hanno alzato la voce. Lo stesso WWF scrive che «tutto questo lo abbiamo fatto anche confrontandoci con la LIPU (in particolare per quanto riguarda la nidificazione del Fratino) e raccogliendo le considerazioni di altre organizzazioni locali e nazionali».

Ma il punto dolente resta: per il WWF gli impatti del mega evento sono «possibili» e di volta in volta gestiti in modo da risultare «non significativi»: gli impatti ci sono stati ma è stato messo tutto a posto. Il WWF ha lavorato per «ridurre i possibili impatti sia relativamente alle localizzazioni che rispetto ai criteri generali di gestione dell’evento.» A essere ignorato qui è l’impatto che sicuramente c’è stato durante i concerti: possibile che la colonia di fratini di Rimini si sentisse tranquilla grazie alla presenza della rete e della sorveglianza di volontari e carabinieri forestali? «I possibili impatti» sono davvero stati ridotti? Oppure, come spesso accade, le raccomandazioni fornite non sono state sufficienti? Chi lo verificherà? In altre parole, chi validerà il successo o il disastro socio-ambientale della formula JBP?

Va anche fatto notare che nessun riferimento al WWF è presente nella presentazione del tour sul sito di Trident, che appunto il tour produce e organizza. Un’unica avvertenza per il pubblico pagante, sepolta tra le numerose informazioni per chi parteciperà all’evento (acquisto biglietti, indicazioni su cosa siano e come funzionino i «token», la “moneta” spendibile all’interno dell’area del concerto, o “cosa non portare”):

«Il Jova Beach Party è un evento che si inserisce in un contesto naturale unico: organizzatori e partecipanti sono consapevoli che l’ambiente deve essere preservato, rispettato e curato. Ci impegniamo per limitare al minimo il nostro impatto e lasciare i luoghi che ci ospiteranno puliti e integri. Così come li abbiamo trovati. Insieme.»

Prima di proseguire, è bene ribadire un concetto fondamentale: il «puliti e integri» non è una condizione sufficiente ad annullare le conseguenze sul «contesto naturale unico» di un evento di tale portata. Tutt’altro.

Non è una novità che le partnership con grandi organizzazioni ambientaliste vengano utilizzate dal business per ottenere una sorta di “licenza sociale”, un salvacondotto per portare avanti attività altamente impattanti per l’ambiente e il clima, realizzare grandi opere devastanti, e operare in ambienti naturali altrimenti off-limits.

In questo senso, davanti alle spiagge e montagne d’Italia la macchina organizzativa Trident e l’artista-socialmente-responsabile si sono probabilmente posti la stessa domanda di una multinazionale mineraria davanti a un giacimento di rame, di oro, di ilmenite. E se il giacimento si trova sotto la foresta amazzonica, o sotto una foresta tropicale tra le più ricche in biodiversità al mondo, la loro domanda sarà comunque: come faccio a metterci sopra le mani, nonostante l’inevitabile compromissione/distruzione?

Che si tratti di industria mineraria o di show business, i capitalisti sanno bene che le grandi organizzazioni ambientaliste rispondono perfettamente alla necessità di rendere giustificabili attività dal pesante impatto ambientale, permettendo al business di salvare capra e cavoli, procedendo nonostante tutte le criticità e i pericoli. I più navigati avranno già sentito ossimori come sustainable mining (estrazione mineraria sostenibile), riferiti a miniere a cielo aperto di rame o di ilmenite che di sostenibile non hanno e non possono avere proprio niente.

Per quanto riguarda la posizione del WWF Italia, in un’intervista rilasciata dopo il Grande Sbrocco di Jovanotti la presidente Donatella Bianchi ha ricondotto le ragioni delle critiche rivolte alla sua associazione a un fraintendimento e nulla più: «L’idea che il WWF rilasciasse le autorizzazioni, quelle spettano agli organi competenti.»

È una risposta che nulla spiega. È ovvio che le autorizzazioni del caso le rilascino le autorità competenti, nessuno poteva fraintendere questo punto. Invece crediamo sia più che sensato fare presente che il “metterci il logo” da parte di una grande associazione ambientalista sia un fattore non neutro nelle valutazioni delle autorità competenti, così come certamente pesa sull’opinione pubblica.

Ma occorre allargare il campo. Nel suo libro La buona educazione degli oppressi Wolf Bukowski, tra le altre cose, parla anche della funzione svolta in chiave di “turistificazione” dal marchio Unesco riconosciuto a città, borghi, siti archeologici, interi gruppi montuosi (le Dolomiti!).
Oltre all’incremento dei flussi turistici, conseguenza del valore attribuito al luogo dalla certificazione di “qualità”, spesso il marchio Unesco serve a giustificare, anche sul piano delle conseguenze sociali, tutte le attività di estrazione di valore legate al mercato turistico: “airbnbzzazione”, espulsione dei residenti dai centri storici tirati a lucido, “bonifica” del territorio da venditori ambulanti e/o negozietti di alimentari gestiti da immigrati, applicazione di Daspo urbani e ordinanze antidegrado ecc.

Il marchio Unesco, in virtù di quanto detto sinora, sta sostituendo il concetto, ritenuto antiquato, di «riserva naturale» o «parco naturale». Concetto che danneggia il mercato, o quantomeno non lo favorisce. Mentre un parco è lì per chiunque ed è esplicitamente pensato in quei termini, da una riserva finalizzata all’estrazione di valore i poveri verranno esclusi. Al massimo ci lavoreranno come inservienti di qualche tipo – e per questo “privilegio” dovranno pure ringraziare, un po’ come i volontari del Jova Beach Party.

Parlare degli effetti sociali devastanti di simili «certificazioni» è necessario anche per capire cosa sia oggi il greenwashing.

3. Il nuovo greenwashing: da narrazione diversiva a condicio sine qua non dell’estrazione di valore

C’è stato un tempo in cui il lemma «greenwashing» identificava le campagne con cui l’impresa privata comprava una nuova immagine, a fronte di una percezione pubblica negativa del suo business.

Oggi questa prassi è un ingrediente indispensabile della ricetta con cui soggetti pubblici e privati si ritagliano un preciso posizionamento valoriale. Greenwashing, una spolverata di CSR, un pizzico di marketing, abbondanti pubbliche relazioni… Il campo della crisi ecologica è uno dei terreni oggi meno divisivi – ovvero, sul fatto che sia in corso una crisi ecologica siamo d’accordo più o meno tutti – ed è quindi campo privilegiato per questo genere di operazioni.

Il greenwashing non è più una “pezza” messa in un secondo momento, una mano di vernice verde per abbellire l’immagine di un business già esistente, ma un condono preventivo indispensabile ad avviare un business di tipo nuovo, che parte già dipinto di verde, perché senza il “verde” non estrarrebbe valore.

«Pure Abominio è verde, se è per questo…»

Questo avviene in un contesto generale nel quale lo stesso cambiamento climatico diviene strumento di potere agito esplicitamente dal capitalismo. Come scrive Matteo De Giuli in un post intitolato Chi scommette sul disastro:

«[…] le crisi sono sempre momenti ambivalenti per il capitalismo – se da un lato rappresentano un rischio per la sopravvivenza del sistema, dall’altro sono anche occasioni per creare nuove opportunità di profitto. E così, davanti a una crisi potenzialmente letale come quella climatica, che potrebbe portare a ridiscutere le basi di un sistema non più sostenibile, il sistema stesso si sta riorganizzando per trovare nuovi modi di riassorbire l’emergenza senza doversi per questo mettere in discussione.»

Chicco Testa, del quale ci occuperemo tra poco, lo dice esplicitamente in questa intervista:

«Aumentano le aziende che abbracciano una strategia di crescita in cui la variabile ecologica ha un peso rilevante e non solo per adeguarsi alle norme ambientali sempre più stringenti, ma perché da un punto di vista del business sono i consumatori, il mercato in generale, che lo chiedono. E che premiano appunto quelle che fanno scelte sostenibili. Non si tratta più semplicemente di greenwashing, semplice cosmesi di comunicazione, ma di scelte consapevoli prese nei consigli di amministrazione.»

Per tornare alle certificazioni: il fatto che Jovanotti sbandieri di essere «WWF approved» non solo è pienamente coerente col discorso sul filantrocapitalismo, ma ci fa compiere un ulteriore passo giù per una china pericolosa. Oggi alcune entità, istituzioni e organismi si arrogano il diritto di fornire patenti di «sostenibilità ambientale», ricevute le quali si potrà avviare qualunque business.

Le agenzie che valutano l’impatto ambientale esistono da tempo, ma finora valutavano l’impatto di aziende, opere pubbliche, infrastrutture, attività produttive ecc. Qui siamo oltre: la retorica usata da Jovanotti col beneplacito di un’organizzazione come il WWF – che, per quanto grande e con migliaia di soci, può avere posizioni politiche controverse e non condivise da tutti – giustifica, pittandolo di verde, un grande evento privato e a scopo di lucro che danneggia un patrimonio ambientale collettivo.

Fatte le debite distinzioni, si tratta della medesima dinamica rilevabile con l’introduzione delle certificazioni biologiche nella filiera alimentare: patentini sempre più ambiti e nel contempo sempre più vuoti, con cui si è finito per perdere totalmente il percorso del «cibo sano ed etico» per arrivare a un mero «marketing biofriendly». Il mercato delle certificazioni e della «brand reputation» introduce meccanismi che sostituiscono, anzi, istituzionalizzano la fiducia. Non sono più capace di guardare un pomodoro al mercato e capire quanto sia sano, men che meno ho la possibilità di stabilire un rapporto umano con il contadino? Ecco, mi affido a un marchio.

Non sono capace – per quanto possa suonare incredibile! – di capire da me se un Grande Evento – ruspe ed escavatori a preparare il terreno, TIR carichi di materiali, montaggio di grandi strutture e impianti, affluenza di decine di migliaia di persone, decibel in libertà ecc. – abbia o meno un impatto grave su una zona umida, un ecosistema di dune o un ambiente d’alta montagna? Ecco, mi affido a un marchio. Mi affido, dunque compio un atto di fede. Il WWF condona preventivamente il mio peccato, e io vado al concerto in pace.

Nella narrazione di Jovanotti + Trident + WWF tutto è andato liscio finché qualcuno non ha iniziato a porre domande non sottomesse all’atto di fede. Domande che non rinunciavano a priori alla contestazione, a monte, del “modello” in cui può essere inquadrato il Jova Beach Party, tantomeno si accontentavano di rassicurazioni sulla raccolta dei rifiuti in materiale plastico.

4. Il Grande Evento come Grande Opera “green”

Ampio spazio ha ricevuto sui media quello che è stato definito lo «sfogo» di Jovanotti, pubblicato su Facebook il 2 settembre scorso. È il caso di riportarne qui il passaggio più citato:

«Non mi sarei mai aspettato, nonostante non sia un ingenuo rispetto a questo genere di cose, che il mondo dell’associazionismo ambientalista fosse così pieno di veleni, divisioni, inimicizie, improvvisazione, cialtroneria, sgambetti tra associazioni, protagonismo narcisista, tentativi di mettersi in evidenza gettando discredito su tutto e su tutti, diffondendo notizie false, approfittando della poca abitudine al “fact checking” di molte testate. Il mondo dell’ambientalismo è più inquinato dello scarico della fogna di Nuova Delhi!»

Nuova Delhi, manifestazione contro Jovanotti per l’uso stereotipato e irriguardoso del nome della città.
Photo courtesy by AF & DF (Alternative Facts & Deep Fakes), Edward Said Road, Buffalaz, NYC, USAlo.

Quest’invettiva è stata presentata dai media come uno sfogo giustificato. Per la presidente di WWF Italia, parte doppiamente in causa, le parole di Jovanotti sono «comprensibili» e «ci hanno messo davanti ad uno specchio, a domandarci chi siamo veramente e come vogliamo lottare per salvare il mondo.»

Ma, come abbiamo riportato sopra, questo sfogo era stato preceduto il 9 agosto da una prima esternazione di Jovanotti, sempre via Facebook, a seguito dalle mancate autorizzazioni per la data di Vasto del suo tour:

«A Vasto ha vinto il fronte del NO, quello di cui l’Italia è pervasa. Quello che rende il Paese immobile e fa in modo che il ‘sommerso’ resti sommerso nell’interesse di molti. JBP è un luogo sicuro, la sicurezza è sempre stata al primo posto, ma a Vasto non hanno voluto verificare. A Vasto la commissione ha detto NO, a prescindere. In Italia a volte le cose vanno così lo sapete, ma io non mi rassegno, molti di noi non ci rassegniamo.»

«L’Italia dei NO» è un leitmotiv che ben conosciamo, perché regolarmente brandito contro ogni istanza di salvaguardia dei territori, e soprattutto contro chi, persone o movimenti, lotta per queste istanze. Si tratta di un’immagine falsante, smentita dai dati sul consumo di suolo in Italia, che registrano una costante crescita, e dalle politiche «sviluppiste» e infrastrutturanti che rispondono alle richieste del core business del capitalismo italiano, tutto cemento e tondino. L’espressione «Italia dei NO» serve solo a delegittimare a monte ogni discorso critico e ogni forma di opposizione sociale e politica alla devastazione dei territori.

Un viaggio che non promettiamo breve - Wu Ming 1 & Zerocalcare

#WM1viaggioNoTav: la copertina realizzata da Zerocalcare. Clicca per ingrandire.

Nel suo Un viaggio che non promettiamo breve, a proposito della retorica sull’«Italia dei NO» Wu Ming 1 scrive con uno sguardo retrospettivo:

«In tutta Italia, come in altri paesi, lottavano comitati, coordinamenti, movimenti di lotta popolare, gruppi che si opponevano a grandi opere ritenute dannose, inutili e imposte dall’alto: autostrade messe lì a far nulla, trafori perché traforare è bello (il buco! il buco!), stazioni perché dànno lustro, megacentri commerciali senza commerci, ponti gettati tra Scilla e Cariddi, imprescindibili costruzioni che nel giro di pochi anni si rivelavano ecomostri e toccava demolire col tritolo… Opinionisti, politici e affaristi raccontavano un’”Italia dei No”, paese dove non si riusciva a costruire nulla, nazione da “sbloccare” perché accidiosa e nemica del fare, il fare, sempre il fare, non importava a quale scopo, viva il fare. Si sfornavano leggi per spingere, accelerare, rimuovere gli ostacoli, fare! […]
Se si badava ai fatti, l’Italia era l’opposto: un paese di sì detti con noncuranza e di “opposizioni postume”, lamentele tardive, indignazione a scempi ormai compiuti.»

La dichiarazione di Jovanotti «a Vasto ha vinto il fronte del NO» conferma che, se messi alle strette, i difensori del Jova Beach Party come di qualunque altro Grande Evento – ne vedremo delle “belle” con le Olimpiadi invernali che si terranno tra Lombardia e Veneto nel 2026 – adottano le medesime giustificazioni usate per far passare le Grandi Opere Dannose, Inutili e Imposte.

Come logica conseguenza, si additano gli stessi nemici. Non a caso Il Foglio – tribuna del peggiore sviluppismo e di un esplicito negazionismo climatico – ha coniato un neologismo per collegare tra loro No Tav, No Tap, No Triv e «No Beach». A dispetto dell’intento denigratorio, l’intuizione non era peregrina, solo che andrebbe applicata al campo avverso: è il Jova Beach Party ad avere molti aspetti in comune col traforo in Valsusa o le trivelle in Adriatico. A cominciare dalla retorica usata per difenderlo.

A riconferma di ciò, si consideri di nuovo la posizione del WWF nel dar conto della propria partecipazione al grande evento: «Il tour si sarebbe comunque fatto ugualmente». È la medesima logica che vale per tutte le grandi opere inutili e imposte: ciò che s’è deciso di fare dev’essere fatto, e lo si deve fare perché così s’è deciso. Questo è, testualmente, l’argomento univoco e passepartout delle cosiddette «madamine» sì Tav.

Insomma, prima si descrivono le grandi opere come “eco-friendly”; se questo non basta, si impone dall’alto l’idea che siano inevitabili.

5. Non c’è «scienza ambientale» che tenga senza il conflitto

Chicco Testa

Nei giorni seguenti al Grande Sbrocco di Jovanotti, tra i tanti articoli pubblicati e per la quasi totalità tesi a ricondurre quelle parole a ragionevole presa di posizione, va segnalato un corsivo a firma di Chicco Testa – l’indimenticato «ce tocca shit e pure radioattiva ma tanto il nucleare è di sinistra», attualmente presidente di FederAmbiente – pubblicato sull’edizione de Il Mattino del 4 settembre scorso.

Ben poco originali le argomentazioni, le stesse che si potevano leggere su quasi tutti i giornali in quei giorni: «[…] il combinato disposto fra la gelosia per il WWF e la voglia di farsi notare a tutti i costi ha prodotto una guerriglia mediatica che ha mandato fuori dalle grazie di Dio il solitamente mite Lorenzo nazionale».

Si tratta di un entusiastico endorsement a Jovanotti, o di un bacio della morte, a seconda di come vogliamo vederla. Qui è ancora più esplicito il piano di cui si diceva poc’anzi:

«Ce li ricordiamo i NoTriv, NoTap, NoNuke, NotTav, NoTube, NoWaste, NoHydro e via negando? Non gli è parso nemmeno vero di potere rompere il plauso e il consenso che la bella iniziativa di Jovanotti stava sollevando tra i giovani scagliandogli in faccia tutte le specie animali e vegetali che abitano le spiagge italiane.»

L’arroganza e la tracotanza di questo corsivo confermano la correttezza dell’equivalenza «Grandi Opere = Grandi Eventi»: la colpa è dei No Tav e «via negando». Quella di Chicco Testa è una forma di negazionismo radicale: non solo ricusa la validità delle ragioni di chi si oppone a tante opere inutili e dannose, ma nega tout court che possano esistere ragioni per essere contrari a grandi opere. Nella sua lettura – forse autoriflettente – tutto si riduce a vanità e gelosia, nonché a «oscurantismo di massa», per dirla col sottotitolo di un suo – e di Sergio Staino – libro pubblicato nel 2017.

Chicco e Chirico.

La ricetta di questo rappresentante degli interessi di grandi aziende energetiche è, ancora una volta, il presunto «pragmatismo» capitalista che maschera il realismo capitalista. L’invito ad affidarsi a «chi se ne intende», a chi sa risolvere un problema spassionatamente, col ricorso all’innovazione tecnologica e basandosi sulla realtà di fatto, è una mela avvelenata. Per farcela mangiare si rimuove il fatto che, nella cornice attuale, la «competenza» e la «lucidità» di chi andrebbe delegato a risolvere i problemi, l’«innovazione tecnologica» e la stessa «realtà di fatto» non sono affatto «neutre», ma sono inserite in – e plasmate da – rapporti di produzione, di classe, di potere.

Nel citato corsivo, Testa avalla esplicitamente l’affermazione di Jovanotti «l’ecologia è una scienza, se si trasforma in un terreno di scontro fra tifoserie è un danno per tutti». Quest’approccio scientifico-fideista propaganda scienza e tecnica come verità al di sopra della politica e delle contraddizioni sociali, quando invece sono socialmente, storicamente e politicamente connotate. Siccome il comitato scientifico del WWF si è espresso, allora si può star certi di essere nel giusto, senza perdere tempo a problematizzare criticamente il perché e il percome il WWF si sia espresso.

Un approccio deleterio, tossico, che confligge totalmente con una pratica di studio e condivisione del sapere «in basso» come quella, per esempio, del tanto odiato movimento No Tav della Valsusa, una delle punte d’avanguardia del movimento ecologista italiano. In quell’ambito, la ricerca e la condivisione orizzontale della conoscenza hanno fatto sì che una larga, molto larga, fetta di persone che non sono “scienziati di professione” riescano a padroneggiare complesse argomentazioni tecniche e scientifiche, senza mai verniciarle di presunta neutralità, anzi calandole in un contesto di critica politica.

Lo abbiamo sentito ripetere troppe volte il cliché tecnocratico «Non ci sono soluzioni di destra o di sinistra, ci sono solo soluzioni giuste», «le buone soluzioni sono apolitiche» ecc. È falso. Non sono possibili «buone» soluzioni se non si riconosce l’esistenza del conflitto. Ciò vale anche per la buona comunicazione scientifica.

Non c’è lotta al negazionismo climatico senza lotta alle «grandi opere». Questo il titolo, che Alpinismo Molotov sottoscrive, di un articolo di Wu Ming 1 recentemente pubblicato su Jacobin Italia. Nella parte conclusiva si legge:

«Le grandi opere sono negazionismo climatico applicato, investono ancora su questo modello di sviluppo, su un futuro visto come prolungamento lineare del presente».

Anche il Grande Evento Jova Beach Party, risultato del dispositivo combinato Jovanotti™+ WWF + partner commerciali (come lo sponsor E.on) è negazionismo climatico applicato, perché racconta e diffonde una narrazione rassicurante del futuro come prolungamento lineare del presente, un futuro “green” garantito dalle buone pratiche – ovviamente individuali, del singolo consumatore – e dal «pensare positivo».

Postilla. E non hai ancora visto niente

Giunti oramai alla fine di questo tour, il dato veramente positivo è che molti non hanno sposato il presobenismo/perbenismo jovanottiano e nemmeno le toppe «comunque ugualmente» messe dal WWF. Al contrario, hanno agito con la convinzione che il Grande Evento si sarebbe dovuto fermare, per la tutela collettiva di un ambiente naturale che è prima di tutto parte di una comunità. Ambiente messo a rischio e stravolto in nome del business, di un interesse privato spacciato per «grande festa» e nobilitato da un messaggio “eco-friendly”.

Che mille ostacoli si innalzino, che cento barricate blocchino le strade dei futuri Grandi Eventi. L’«Italia dei No» è una narrazione tossica, eppure eppure eppure… Se un’Italia che dice No cominciasse a unirsi davveroEppure eppure eppure… Se un’Italia che dice No cominciasse a unirsi davvero…

milioni di serrature

non riuscirebbero a tenerci chiuso

il cuore.

_

* Alpinismo Molotov è un collettivo sparso tra Alpi e Appennini, nato nel 2014 su Giap nel corso di intense discussioni intorno a due libri di Wu Ming: Point Lenana e Il sentiero degli dei. Questa «banda disparata» ragiona su – e cerca di mettere in pratica – modi di andare in montagna depurati da machismi, nazionalismi, esasperazioni sportive e degenerazioni commerciali. AM ha un blog tutto suo, una pagina Facebook e un profilo Twitter, un canale Telegram, e ogni tot anni organizza una festa galattica, «Diverso il suo rilievo».

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35 commenti su “Ecco a chi giova il Jova Beach Party. Nuovo greenwashing e «Grandi Eventi» nell’era della crisi climatica

  1. Se devo immaginare un alter ego politico del “Lorenzo nazionale”, quello che potrebbe rappresentare a pieno “L’Italia del SI”, uno dei fautori del presobenismo sfigante e di un certo triste giovanilismo eterno, l’amante delle grandi opere e delle grandi leopolde, penso sicuramente a Matteo Renzi.
    Neanche a farlo apposta proprio ieri sera l’ex sindaco di Firenze, ex segretario del PD, ex Presidente del Consiglio, ex invincibile della politica italiana annuncia il suo scisma dal Partito Democratico proprio con una canzone di Jovanotti. Non sceglie un pezzo a caso, sembra proprio volere introdurre questo post sul Jova Beach Party, perché posta “Sul lungomare del mondo”.
    Questo post di Alpinismo Molotov insegna a tutti che, a volte, sul lungomare del mondo, può capitarti di pestare una merda.

  2. «Le grandi opere sono negazionismo climatico applicato, investono ancora su questo modello di sviluppo, su un futuro visto come prolungamento lineare del presente».
    D’accordo sul fatto che il Jova Beach Party sia equivalso a una grande opera inutile: devastazione dell’ambiente di tutti per il divertimento di una minoranza e per il profitto di un gruppo ristretto, con la benedizione dell’ambientalismo di regime (il marchio giusto legittima ogni porcata, in cambio di visibilità = tessere = potere) e della “grande stampa”, organo di propaganda dell’Anonima Investimenti che specula sul cemento come sulla green economy.
    Tuttavia, perché definire le grandi opere “negazionismo climatico”? No, mi spiace ma non basta: su di un pianeta destinato a vedere scomparire quasi tutte le forme di vita entro i prossimi due secoli* – a meno che non si interrompa ovunque la produzione di CO2, l’inquinamento dell’aria dell’acqua dei cibi, la crescita demografica, la deforestazione per colture e allevamenti intensivi… e la vedo durissima – ogni piccola o grande opera inutile è una coltellata in più, una falla in più, un carro bestiame in più verso la soluzione finale.
    * http://nymag.com/intelligencer/2017/07/climate-change-earth-too-hot-for-humans.html?fbclid=IwAR3-FkKTj1d8–bG98GRypB8E93vmHeU4rWO02-n4d_BjYgx5nd9-YnvlR0

  3. Bel post. Tempo fa è capitato anche a me di partecipare a una lotta contro un grande evento che volevano tenere su una spiaggia. Si trattava di una “mini Parigi-Dakar” organizzata su una spiaggia vicino a un sito di nidificazione del fratino. Piccola parentesi: la presenza del fratino ci ha permesso di vincere la battaglia e l’evento non si è tenuto ma se non ci fosse stato il fratino non ce l’avremmo mai fatta a bloccare un evento comunque devastante per l’ecosistema dunale.
    Volevo porre l’attenzione su alcuni punti ricorrenti in tutte le battaglie contro lo sfruttamento dell’ambiente a cui ho partecipato e di cui ho sentito parlare.

    1- L’evento è organizzato “a fin di bene”. Nel caso del JovaBeachParty la sensibilizzazione delle masse all’inquinamento da plastica, nel caso della mini Parigi-Dakar una raccolta fondi per i terremotati di Amatrice, in altri casi più spudoratamente intervenire (dove non serve) per salvare la biodiversità (sortendo invece un effetto contrario).

    2- Le associazioni locali, i comitati e i singoli cittadini sono spesso quelli che portano avanti le battaglie con competenza e senza soldi (e spesso rimettendoci anche in salute!). Anche i gruppi locali delle grandi associazioni ambientaliste (WWF, Legambiente e LIPU) contribuiscono molto alle lotte sul territorio. Le stesse associazioni (in particolare WWF e Legambiente) però, a livello nazionale, se va bene non si occupano della questione, ma se decidono di occuparsene spesso hanno posizioni diverse da quelle gruppi locali.

    3- La comunità scientifica in queste situazioni non ha quasi mai una voce unanime (e già qui si dovrebbe intuire quanto le idee politiche e sociali di uno scienziato influenzino la sua ricerca). Solo che a leggere i giornali gli scienziati sono solo quelli che stanno dalla parte del grande evento, della grande opera, o del tipo di gestione dell’ecosistema che fa comodo a chi ci deve fare soldi; gli scienziati “contro” sono sempre definiti ambientalisti o animalisti.

    4- Quando la lotta paga e si vince la battaglia il nemico getta la maschera e si viene letteralmente inondati di insulti e attacchi personali (ma tanto chissenefrega, ormai abbiamo vinto)

    Io queste cose le vedo dal punto di vista di un naturalista, quindi vedo principalmente le colpe della mia categoria e vorrei sottolineare alcune cose relative al terzo punto. Non credo di poter aggiungere molto a quello che ha scritto Mariano Tomatis in “La «neutralità» che difende Golia. Scienza, feticismo dei “fatti” e rimozione del conflitto”, ma qualcosa la scrivo lo stesso, anche solo come esercizio terapeutico.
    Quello che mi rode di più è che la scienza un tempo era una forza liberatrice, ma dopo la sua istituzionalizzazione si ritrova sempre più spesso (ma non sempre, ci sono esempi bellissimi di scienza usata a dovere) dalla parte del potere. Spesso penso al motivo per cui la scienza si è trovata in questa situazione e credo di aver rintracciato almeno un paio di motivi (tra i mille possibili). 1- La scienza è un’istituzione e come tale segue le regole delle altre istituzioni con la tendenza a mantere potere e status quo; 2- l’educazione che viene impartita alla maggior parte dei futuri scienziati prima a scuola e poi soprattutto nelle facoltà scientifiche pone lo scienziato come detentore della verità, verità che è indipendente dal contesto sociale e politico (invece di insegnare una scienza che è prima di tutto incertezza).
    Un modo per intervenire contemporaneamente su entrambi i problemi potrebbe essere come prima cosa rompere quella visione secondo cui uno scienziato non può essere attivista. Su questo punto ho infinite discussioni con molti miei colleghi naturalisti che spesso tendono a considerarsi separati da ambientalisti/animalisti come se uno scienziato non potesse anche essere ambientalista/animalista. Adesso forse sono andato un po’ fuori tema e non so come concludere il commento. Comunque mi auguro di vedere sempre più scienziati/attivisti e meno scienziati/preti.

  4. Post interessante, specie sul presabenismo ma con tre grossi MA e sostanzialmente che presenta una narrazione facilmente smontabile.
    1-sul wwf: se si ha la possibilità di scrivere un cosi lungo post, sarebbe meglio chiedere al wwf la loro posizione invece di dedurla dalle FAQ
    2-in tutto il post non c’è un solo prova tangibile sul come sia uno svantaggio per l’ambiente: emissioni co2? inquinamento di falde acquifere? Sarebbero graditi le motivazioni del perchè che siano un po di piu del sillogismo concerto=grande evento= grande opera= male.
    3- legato al 2 l’assioma grandi opera = male è solo la speculare al grandi opere = progresso e bene delle narrazioni che avete ben descritto in questo post. il fatto che sia usi la stessa retorica per difenderla non dovrebbe significare lo stessa attitudine contraria, altrimenti si è supini sui discorsi dell’avversario.

    Mi preme molto dirlo perchè lavoro su temi di transizione energetica e sono conscio che dovremmo realizzare ciò che si chiamano grandi opere per avere una società a basso uso di energia fossile come enormi tralicci per l’elettricità o immensi impianti per l’immagazzinamento energetico. quando verranno proposti saranno ancora definiti grandi opere e quindi negazionismo climatico applicato?

    Infine che presentare una narrazione cosi monolitica sia inefficace come spesso accade del controproporre narrazioni speculari a narrazioni semplicistiche populiste e parafasciste (il migrante cattivo vs buono etc)

    • Precisazione: «dovremmo fare grandi opere per avere una società a basso uso di energia fossile» che sia uguale a quella di ora, con gli stessi stili di vita, di consumi e di espansione demografica. Secondo me, sì, a seconda dei casi specifici, potrebbero essere tacciabili di negazionismo climatico. Comunque si tratterebbe di un modo di portare avanti la società dei consumi senza incidere in profondità su di essa e mettendo delle toppe tecnologiche a problemi di origine sociale.

      Per il punto 2 qualsiasi grande evento sulle spiagge è impattante. Sono tra gli ecosistemi più fragili e in pericolo che abbiamo. Inquinamento acustico, inquinamento luminoso, compattamento del suolo, calpestio delle piante pionierie. Non credo che il punto del post fosse di spiegare in che modo sia possibile impattare sugli ecosistemi delle coste sabbiose, per quello ci sono diverse altre pubblicazioni.

      • Aggiungo al punto 2 che l’innalzarsi del livello dell’Adriatico minaccia – concretamente, ci sono ormai fior di studi su questo e anche mappe interattive – non solo le spiagge e gli ultimi ecosistemi scampati alla cementificazione, ma tutto ciò che esiste lungo la costa e persino nell’immediato entroterra. L’Adriatico si alza e si scalda più degli altri mari, e già adesso l’area adriatica subisce un aumento di fenomeni meteorologici estremi: trombe d’aria sempre più forti e frequenti, venti a 150 kmh, nubifragi violentissimi, grandinate.

        Su questo processo già in corso c’è un negazionismo che si taglia col coltello: nessuno ne parla e così si va avanti come se nulla fosse. Sul litorale, le volte in cui – come accade sempre più spesso – l’acqua arriva fin dentro gli stabilimenti balneari si sminuisce parlando di «mareggiata» e si usano ossimori come «fenomeni eccezionali sempre più ricorrenti».

        Invece di pensare al futuro, a come prevenire almeno parte della distruzione riprogettando il territorio, attrezzarsi per le conseguenze anche sociali del disastro, impedire che il disastro generi nuove esclusioni ed esasperi le disuguaglianze… Invece di porsi questi problemi, nelle stesse zone – litorale veneto, lidi ferraresi, riviera romagnola – si organizza il Jova Beach Party, parlando di ambiente in modo non solo fru fru e inutile ma anche terribilmente negazionista, cioè senza mai, mai, mai nominare tutto questo. La band di Jovanotti è praticamente l’orchestra che suona sul Titanic.

    • Riguardo al punto 3: attenzione, quando Alpinismo Molotov parla di «Grandi Opere inutili» non si riferisce a qualunque opera pubblica né a qualunque grande investimento, e nemmeno parla in astratto, ma fa riferimento a una concreta casistica e mappatura, e a una precisa logica “estrattivista”, cementizia, impattante sull’ambiente e generatrice di debito pubblico (e, di conseguenza, distruzione del welfare), portata avanti con precise forzature legislative e retoriche.

      In Italia ma non solo, il fulcro di tale dispositivo è il sistema degli appalti basato sul “General Contractor”, che Ivan Cicconi ha smontato e denunciato nel modo più chiaro possibile.

      Quello di «grandi opere inutili e imposte» è un concetto preciso, messo a punto in decenni di lotte territoriali. È stato coniato in Francia – «Grands travaux inutiles», poi diventato «Grands Projects inutiles et Imposés» – e poi tradotto in varie lingue.

      In Italiano si usa spesso l’acronimo (non bellissimo) GOII, che a volte diventa ironicamente GODII mediante l’aggiunta dell’aggettivo «Dannose» e, credo, citando quello che per Lacan era l’imperativo del Discorso del Capitalista: «Godi!»

      – Godi, il MOSE ci salverà dall’alta marea!

      – Godi, la BreBeMi ti porterà a Expo2015 insieme a milioni di altri gaudenti!

      – Godi, la Pedemontana ti permetterà di sfrecciare attraverso la pianura veneta ridotta a distesa di capannoni!

      – Godi, il Ponte sullo Stretto di Messina dimostrerà la potenza di Berlusconi!

      Non a caso ho citato quattro grandi opere che sono riconosciute dai più come flop conclamati, costosissimi esempi di vaporware e/o mangiatoie per mafiosi. Sperperi demenziali, megaprogetti la cui necessità è stata strombazzata silenziando le voci critiche, che avevano predetto per tempo cosa sarebbe accaduto.

      Esiste un Forum Europeo contro le Grandi Opere Inutili, al quale partecipano anche diversi movimenti territoriali italiani.

      Sul legame tra estrattivismo e GOII consiglio di seguire il collettivo Re:Common, autore di inchieste secondo me imprescindibili.

      Insomma, le grandi opere denunciate in questo post non c’entrano niente con opere pubbliche sensate che saranno certamente necessarie per affrontare la crisi climatica. Ma attenzione, anche quelle opere pubbliche potrebbero diventare GOII, se pensate, progettate, appaltate e imposte in continuità col sistema attuale.

    • Sul punto 1: In che modo la «possibilità di scrivere un così lungo post» implichi l’obbligo di contattare direttamente il WWF non è chiaro. WWF Italia ha prodotto documenti, fatto dichiarazioni ufficiali, la sua presidente ha rilasciato svariate interviste senza smentire alcun virgolettato, e infine l’associazione ha dovuto scrivere delle FAQ per chiarire ulteriormente.

      C’è materiale in abbondanza e sovrabbondanza, insomma. La campana del WWF, dopo quella di Jova, è quella che si è sentita di più, tanto da sovrastarne moltissime altre. Ed è anche questo che Alpinismo Molotov ha criticato, mentre usava tutto quel materiale e criticava argomentazioni e retoriche.

      Se la logica ha un senso, dire che AM avrebbe dovuto «chiedere direttamente al WWF» implica che in quel caso il WWF avrebbe detto qualcosa di diverso da quanto scrive nelle FAQ e nei comunicati, cioè che quelle FAQ, quei comunicati, quelle interviste non hanno valore. Curiosa l’idea che esistano una posizione di serie A, che si rilascia se chiedi direttamente, e una posizione di serie B che si scrive nei documenti.

      E le interviste fatte da altri che AM cita, valgono come espressione diretta o per il solo fatto di essere già state pubblicate diventano espressione indiretta? Su, cerchiamo di fare obiezioni *sensate* al post qui sopra, c’è gente che per scriverlo ha lavorato seriamente.

      • Grazie per le vostre risposte, scusate il mio ritardo.
        Un ulteriore precisazione, sono consapevole degli elementi di greenwashing del Jova Beach party.

        I litorali veneti, emiliani e romagnoli ai quali aggiungo quelli marchigiani, per vicinanza ai luoghi in cui sono nato e vissuto. In particolare il litorale pesarese in città è praticamente scomparso.

        Che ci siano evidenti prove, anche in Italia e e Europa del cambio climatico (dove grazie a diverse condizioni geografiche le prove alla portata, eg: ghiacciai sciolti e aumento di eventi metereologici estremi) è fuor di dubbio, incluso l’adriatico. Che il Jova Beach Party faccia greenwashing e sia paraculo è un conto, che ne sia responsabile è un altro. Si mi trovo d’accordo nel paragone con l’orchestra del Titanic.

        Citare gli studi sulla scomparsa del litorale, sebbene interessanti, non mi dice che ci siano rischi per un concerto, ma sono anche conscio e condivido il dubbio: qual è l’impatto di 40.000/50.000 persone in una spiaggia come quella di Rimini o Lignano per l’ecosistema? Sfortunatamente non conosco nè vengono riportati quali danni (qui o dall’altre parti, mentre è facilissimo trovare i danni della tav fra bo e fi o in val di susa).
        Sulle emissioni:
        In generale dovremmo limitare o proibire tutti grandi concerti causa emissione di Co2? (questo ed altri quindi)
        Fosse per me bandirei tutti i grandi eventi tipo Olimpiadi o Campionati del mondo nell’attuale forma, ma questo vale anche per i concerti? Vale solo per quelli nelle spiaggie dell’Adriatico? non so

        La mia critica era nell’ usare l’immagine di “grandi opere” di per se perchè sostengo che ci dovranno essere grandi opere per elettrificazione e immagazzinamento energetico se si vuole una società equa ed eliminare l’ingiustizia e povertà energetica anche modificando i nostri stili di vita e riducendo i consumi, e massimizzando l’efficienza energetica di servizi residenziali, trasporti e industria.
        Grazie @wu ming1 di aver risposto a tale dubbio e fatto riferimento alla storia della costruzione teorica che non conoscevo e del collettivo re:commons.

        Mentre conoscevo i progetti od opere che citi e ai quali mi sono opposto quando ho potuto.

        Non sono tuttavia convinto che l’espressione “grandi opere” non abbia preso una vita propria.

        Cerco di spiegarmi: sinceramente è proprio il termine “grandi opere” che penso che venga usato in maniera superficiale ormai troppo spesso, compreso qui il parallelismo fra un concerto anche grande e una opera gigante come il MOSE o la TAV. MI pare che da costrutto teorico, legato alla velocità e al godimento sia diventato una social representation.
        Non so se mi riesco a spiegare ed é probabilmente solo una mia percezione mentale. Quando sento o leggo un progetto criticato perchè è una “grandi opere” senza piu argomenti a sostegno nella mia mente penso che chi parla o scrive critica l’opera perchè grande non perchè estrattivista e iniqua, anche se i due argomenti possono essere ovviamente legate a un principio di causalità-

        ps.: Preciso che l’efficienza energetica, riduzione degli sprechi e dei consumi sono il primo punto essenziale per la transizione e non necessita grandi opere ma la transizione energetica si.
        consiglio ancora Smil per avere un’idea della complessità e dei problemi fisici della sfida che stiamo affrontando in termini fisici, probabilmente molti di voi ne sono a conoscenza ma alcuni no (power density, dispatchable energy etc)
        https://www.youtube.com/watch?v=NxO3s0U5WdY

  5. Pezzo davvero interessante, molto articolato e che fornisce tantissimi spunti.
    Ne riporto uno che mi sta facendo riflettere relativo al greenwashing e al pensiero di Testa:
    Esattamente cosa critichiamo agli imprenditori PRIVATI che adoperano questa tecnica? Ovvio che suscita un fastidioso prurito quando è evidente l’ipocrisia che c’è dietro.
    Mettendo però da parte le (pur abbondanti) situazioni in cui l’attività sia obiettivamente inconciliabile con l’ecosostenibilità (come, appunto, il sustainable mining) gli si critica il non essere correttamente e pacificamente inquadrati e visti come “cattivi” e “inquinatori”?
    Non diventa paradossale però essere più tranquilli e a proprio agio con chi invece fa impresa fottendosene, in maniera lineare, dell’ambiente?

    • Non c’è niente di paradossale e non si tratta di “essere più tranquilli” o “più a proprio agio”, anzi.
      A mio avviso la questione potrebbe essere spiegata così: hai presente il finale di Bastardi senza gloria? Il tenente Raine si appresta a rilasciare il colonnello Landa, che dopo una vita passata a cacciare e sterminare gli ebrei strappa un accordo per avere salva la vita quando si rende conto che il regime sta per crollare. Aldo l’Apache chiede al colonnello se, una volta ottenuta la libertà, intenderà togliersi la sua “elegante divisa da SS”. Al silenzio assenso dell’ufficiale nazista il tenente risponde che questo proprio non lo sopporta, che se fosse per lui quella divisa avrebbe dovuto indossarla per sempre. Ma capisce che non è possibile e quindi, a scanso di equivoci, gli incide una svastica sulla fronte.
      Questa scena, che chiaramente rispetto al tema in questione rappresenta un’iperbole, ci dice perché occorre smascherare chi prova ad indossare un vestito (verde) che non è il suo. Fare debunking non significa solo svelare il falso ma anche portare alla luce ciò che viene coperto con una patina funzionale solo alla reiterazione del modello originale.

    • Sarò tranchant, ma per rispondere alla domanda «Esattamente cosa critichiamo agli imprenditori PRIVATI che adoperano questa tecnica?» non mi sembra ci sia da girare troppo attorno al punto.

      Li si critica per essere «“cattivi” e “inquinatori”» – come risulta chiaro una volta che si solleva il velo steso dal marketing e dal greenwashing su quel che è e che fa l’azienda – al pari di chi «fa impresa fottendosene, in maniera lineare, dell’ambiente». Gli imprenditori privati sono capitalisti e quindi fanno impresa col fine di estrarre profitto, il massimo del valore economico dalla loro attività. E questo sia che cerchino di dare una veste pulita alle loro attività, sia che non se ne preoccupino.

      Ricordo che le strategie di comunicazione indicate col nome di “greenwashing” sono, da definizione, tese a costruire un’immagine aziendale *ingannevolmente positiva* rispetto alle tematiche ambientali, al fine di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle responsabilità derivanti dall’inquinamento causato dalle attività produttive dell’azienda. Quindi «“cattivi” e “inquinatori”» al pari di chi non investe sulla comunicazione per edulcorare all’opinione pubblica l’immagine aziendale.

      In questo post si segnala poi che questa definizione di “greenwashing” risulta oggi stretta, dato che, come nel caso del Jova Beach Party e dei partner commerciali coinvolti, si è passati da tecniche comunicative di maquillage (quindi utilizzate ex post, dopo danni già causati e che è necessario mascherare) all’utilizzo di una comunicazione promozionale studiata a tavolino perché l’immagine – di Jova™, Trident e tutti gli sponsor, per stare al caso qui analizzato – risulti “eco friendly”.

      A monte di tutto bisogna tener conto di cosa sia il capitalismo: un «sistema di produzione predatorio fondato sull’ingiustizia sociale ed ecologica», come è ricordato nel post.

  6. Ciao, vorrei chiedere, e la domanda nasce fondamentalmente da una mia ignoranza, se la critica mossa al jbp non andrebbe anche rigirata al festival dell’alta felicità.
    O meglio, in che modo, l’alta felicità riesce a sottrarsi alla critica dell’impatto antropico sul territorio?
    Per quanto manifestazioni molto diverse, con logiche diverse, poi negli effetti mi sembrano fare la stessa cosa. Concerti l’uno e gli altri, inquinamento acustico, eccetera.

    • Ciao, provo a risponderti. Il festival Alta Felicità ha un legame reale e concreto con il territorio valsusino e specificamente con il luogo – la borgata 8 dicembre – in cui prende vita, angolo della piccola Val Cenischia in cui l’8 dicembre 2005 il movimento notav vinse una delle sue più importanti battaglie, scacciando i presidi militari che avrebbero dovuto accogliere il cantiere e di fatto interrompendo – per anni – il procedere del progetto, oltre a costringere a farlo ridimensionare in maniera rilevante. Senza il movimento notav quella borgata non esisterebbe, sarebbe un cantiere di servizio.
      Inoltre quel festival – che è soprattutto convivialitá, incontri culturali, escursioni, gioco, letture, e poi anche concerti e spettacoli, il tutto ad ingresso gratuito, con campeggio gratuito, utilizzo dei servizi e delle navette gratuito – é la festa di gente che quella valle la vive, la conosce e la difende. Una comunità alle proprie feste invita chi vuole, ma le fa solitamente dove vive, e noi notav siamo nati in Valsusa, dove avremmo dovuto farla?

      C’è poi una modalità diversa dell’evento, che caratterizza da sempre il movimento notav: non ci sono “volontari” a controllare che si faccia la differenziata, la si fa; in molti le posate, i bicchieri, i piatti se li portano da casa, perché così sono abituati; c’è una reale attenzione alla riduzione dell’impatto dell’evento, attenzione che non serve a far venire più gente – ne viene già tanta, forse fin troppa – serve *davvero* a preservare il territorio.

      Ovviamente non posso dire che il festival Alta Felicità non abbia nessun un impatto ambientale: ce l’ha persino il mio picnic al limitar del bosco o una salita in cordata su una qualsiasi cima, o la gita delle scuole ad un rifugio… Non si parla qui di impatto zero, si parla di perché fare una determinata cosa in un determinato luogo se ciò ha un impatto. Non si parla nemmeno di demonizzare opere o eventi di grande portata, ma di farlo per eventi e opere di grandi portata pensati così, come Grandi Opere (Dannose) Imposte e Inutili, come scrive poco sopra Wu Ming 1.

      • La risposta mi sembra sensata, soprattutto sulla questione che non esiste impatto zero, mentre invece nell’articolo, mi sembra ci sia un’insistenza sulla questione dell’impatto del jbp che alla fine, credo, finisce per minare le basi del discorso.
        Cerco di spiegarmi: è chiaro che la sorte dei fratini di Rimini preoccupa tutti, ma forse non è quello il problema principale dietro al jbp.
        Provo a rigirare il problema: se per assurdo, il jbp, davvero dimostrasse di non aver avuto alcun impatto su flora e fauna, basterebbe questo a renderlo un evento più accettabile?
        Mi pare di capire di no, perché, e questa è un’argomentazione che sento di accogliere, quello che rende inaccettabile il jbp sono le logiche di profitto che ci sono dietro, mascherate con un po’ di pedagogismo verde.
        Se è vero, come dici, che un qualsiasi picnic sul ciglio della strada produce un qualche tipo di impatto (è ovvio che poi va misurata la scala di questo impatto), non sarebbe il caso di insistere più su altri versanti argomentativi? (Anche perché, se è vero che l’assenza di impatto ambientale, che il jbp sostiene di aver ottenuto, è tutta da dimostrare, ugualmente sono da dimostrare gli eventuali effetti deleteri prodotti, o no?)

        • Il paragone tra il JBP e «un qualsiasi picnic» non può reggere: un qualsiasi picnic non sbanca dune con le ruspe, per dire, e nemmeno abbatte alberi ed estirpa siepi, e non arriva coi tir.

          «Le sorti dei fratini di Rimini» suona come una caricatura volta a sminuire la questione, a fronte di tutto quello che è successo, esattamente come le iperboli usate da Jovanotti – «hanno detto che abbiamo gettato napalm sulle piantagioni» – sono servite a buttarla in caciara.

          Il JBP ha scelto pressoché sistematicamente location adiacenti a zone umide preziose, aree protette, e in generale zone non ancora del tutto rovinate dal consumo di suolo, spiagge che il cantiere dell’evento e poi l’evento stesso hanno sottratto alla collettività ecc. Il tutto con una dimostrazione di hybris e uno spalleggiamento da parte dei media mainstream che ha giustamente indignato molti.

          Per fortuna in alcune tappe il tour ha incontrato un’opposizione forte, che ha costretto le autorità a negare l’autorizzazione, o l’organizzazione stessa – stando a quanto dice il WWF – a cercare di ridurre il proprio impatto, per non fare troppo schifo sotto i riflettori. E anche così, appunto, di robe brutte da vedere ne sono successe, ed è plausibile che di molte ancora non sappiamo, perché le conseguenze peggiori di certe manomissioni ambientali si vedono col tempo.

          Un conto è dire che «non esiste impatto zero», altro conto è dire «dato che non esiste impatto zero, facciamo pure impatto mille!»

          • Si è preso il JBP come esempio da manuale di un nuovo greenwashing, come esplicitato sin dal sottotitolo: l’aspetto para-ecologista è secondo me fondamentale al di là del danno fattuale creato dall’evento, sul quale non ci si è soffermati per svariati motivi, da un lato ci va del tempo per valutare esiti floro-faunistici di uno shock ambientale, dall’altro non era questo il focus dell’intervento.

            A latere permettimi di dire, pure senza dati puntuali alla mano e tenendo presente quanto ti ha risposto qui sopra WM1: non credo che un carico antropico improvviso ed enorme (che comporta il mangiare, il bere, l’orinare e defecare di migliaia e migliaia di persone), decibel altissimi, strutture pesanti da spostare montare e smontare… non lascino in luoghi di pregio per habitat faunistico alcuna conseguenza.

            Il focus, dicevo, è un altro. Se semplicemente Jovanotti avesse promosso la cosa come una “bella storia di presi bene” e avesse tirato fuori l’ambientalismo solo ex-post, a difesa, forse ti darei ragione, ci sarebbero state altre importanti criticità da sottolineare in un carrozzone come quello; ma non è andata così, il messaggio del tour suona più come “vieni a salvare i delfini ballando in spiaggia!” (perdona la piccola iperbole), l’ecologia è spacciata promozionalmente come valore aggiunto, senza uno straccio di appoggio dimostrato se non il “timbro” wwf. Perdipiù in un’operazione commerciale.

            • Sono d’accordo nel dire che alcuni argomenti sono di per sè un boomerang, ad esempio l’inquinamento acustico perchè poi vale anche il festival dell’alta velocità, festa sherwood e radio onda d’urto, campeggio antirazzismo, rave in mezzo alle campagne etc.

              Ma sono d’accordo che il JBP sia un manuale da greenwashing e di un mindset (presabene) acritico che sfrutta narrazioni preesistenti (l’Italia del no) etc e oggettive problematiche in alcuni movimenti, e associazionismi e partiti verdi che facilmente fanno presa sul pubblico, in maniera del tutto ruffiana. Questa è solo una delle tesi dell’articolo che difatti usa molti argomenti diversi a sostegno di diverse tesi.

  7. Un breve appunto sul WWF, usato dagli organizzatori del JBP in qualita’ di “marchio di garanzia”. Per chi non ne fosse al corrente, e’ di qualche anno fa’, ma ancora attuale, la notizia che il World Wildilfe Fund, insieme ad alcune altre istituzioni che si schierano a protettrici dell’ambiente, possiede ad oggi investimenti offshore per almeno $800.000 in compagnie che trattano in combustibili fossili. Ci sarebbe poi da considerare inoltre il supporto, se non addirittura il patrocinio, che offre ormai da anni, ad ogni occasione, alle varie norme in favore del mantenimento dello status quo, vedi i vari accordi sui Carbon Trading o l’accettare il metano come fonte di energia “ponte” verso il futuro. Qui l’articolo d qualche anno fa di Naomi Klein (UK).

  8. Nel suo commento Davide scrive che tutte le pratiche che il movimento NoTav utilizza per la riuscita del festival Alta felicità servono a preservare il territorio. Ancor di più: scrive che non servono affinché al festival arrivi più gente e che – anzi – “ne arriva già tanta, forse fin troppa”.
    È su quest’ultima considerazione che vorrei ragionare perché è ciò che manca totalmente dal discorso fatto intorno al JBP da parte dei media main stream e da parte del WWF. Non lo cerco di sicuro nel sito della società che produce il festival di Jovanotti. Per esperienza personale non ho mai visto un padrone di ristorante lamentarsi che i clienti fossero “fin troppi”, piuttosto li ho visti correre in cantina a prendere altri tavoli, sedie e qualunque altra cosa potesse servire per far sistemare altri clienti, li ho visti chiedere maggiore sforzo e velocità in cucina e in sala. Per il padrone non esiste il “fin troppo”. Ed è questo che distingue, credo, i discorsi. Per noi è fin troppo grande l’impatto che le “grandi opere inutili e imposte” sulla vita degli esseri viventi e dell’ambiente. Per noi non si tratta più di trovare i modi affinché qualcosa di enormi possa essere “sostenibile”, uno dei punto del post è che non c’è più tempo per mitigare ma è tempo di riconoscere che questo modello (intendo quello capitalista) è “fin troppo” e non solo lo è sempre stato ma adesso è palese che è dannoso in modo criminale. Da qui a puntare il dito nei confronti di un evento come il JBP il passo è brevissimo e la posizione del WWF da il fianco a questo tipo di analisi: il JBP è troppo e il massimo che s’è pensato di fare è stato “mitigare”. Chissà se qualcuno di loro ha pensato che fosse troppo e quindi da bocciare, senza se e senza ma.

    • Il punto centrale della vicenda Jova Beach Party è, a mio parere, l’assetto di interessi racchiusi in questa operazione. Cito Luca Casarotti – da una sua recensione del saggio “The Frontman” di Browne: «Se lanci una campagna filantropica e vuoi che tra i tuoi alleati ci sia la fondazione Bill & Melinda Gates, devi accettare (e pare che Bono lo faccia di buon grado) che il “punto di vista del capitale” entri di prepotenza e influenzi la distribuzione degli aiuti. Di qui la definizione di “filantro-capitalismo” che ricorre più volte nel libro: essa descrive esattamente questo assetto di interessi.»

      Se metti su un mega-show e lo presenti come Grande Operazione Ecologica e tra gli sponsor hai E.on, TIM, ecc.; se il tuo salvacondotto è la partecipazione del WWF Italia, che è anche le partnership corporate della “casa madre” WWF International (tra cui: Apple Inc., Banco do Brasil, Bank of America, Cisco Systems Inc., Coop, H&M Group, HSBC, IKEA, McDonald’s, Michelin Group, Sodexo, The Coca-Cola Company, Toyota Motor Corporation, Volvo), beh, «il punto di vista del capitale» si mangia tutto.

      Seguendo il filo di questo ragionamento si comprenderà come il Jova Beach Party e il festival Alta Felicità non siano nemmeno paragonabili, perché sono di grandezze non omogenee: è come voler fare un confronto tra il peso di un sacchetto di patate e la lunghezza di una corda.

      Il JBP è presentato come un evento, qui l’uso del termine va ricondotto al “marketing esperienziale”, cioè a quell’approccio di promozione di un prodotto – che in questo caso è il concerto di Jovanotti, ma anche, a traino, i prodotti degli sponsor del mega-show – incentrato sulla valorizzazione dell’esperienza di consumo del cliente, al fine di trasmettere un valore aggiunto connesso all’acquisto del prodotto.

      Ed è un caso da manuale se badiamo a come è stato pubblicizzato/venduto: il valore aggiunto è rappresentato anche dalla parvenza d’esclusività («un esperienza collettiva e reale dove il pubblico sarà coinvolto, si meraviglierà, si stupirà e avrà la sensazione di partecipare a qualcosa di veramente nuovo e autentico», da questa pagina del sito di Trident), in questo caso rafforzata dall’unicità dei singoli concerti della tournée – ospiti diversi tra data e data, altri ospiti “a sorpresa” – e dalle location individuate per il mega-show. Spiagge, sì, ma ognuna diversa dall’altra («OGNI SPIAGGIA È DIVERSA e OGNI PARTY SARÀ DIVERSO E UNICO», proprio così, sottolineato e in modalità Caps Lock urlata, sempre dal link riportato sopra). E ancora: «Non quelle più note, non quelle da cartolina alla portata di tutti, ma quelle che vanno cercate bene, che per arrivarci si cammina un po’» (ancora dal sito di Trident).

      Il Festival Alta Felicità è una festa, non un evento; è dimostrazione di allegria e gioia da parte di una comunità – non strettamente definita su base territoriale, quanto valoriale – in lotta. È aperta, inclusiva. È tempo di condivisione.

      Se al Jova Beach Party «C’è il mare, la musica, la gente, la vita», Alta Felicità è lotta, è condivisione, è musica, è vita.

  9. Segnaliamo l’intervista di Radio Onda d’Urto a Simonetta, del collettivo #AlpinismoMolotov, sulle tematiche affrontate in questo post:

    http://www.radiondadurto.org/2019/09/18/jova-beach-party-a-chi-giova-il-commento-di-alpinismo-molotov/

  10. Da una parte siamo tutti d’accordo che il punto di non ritorno sia già stato superato e quindi ogni molecola di CO2 in più – o di altri gas climalteranti emessi in atmosfera, o di ambienti naturali distrutti – non farà che peggiorare la situazione globale. C’è però una domanda a cui spesso si evita di rispondere, ovvero chi paga il prezzo più alto? E qual è il margine – e quali le responsabilità – per evitare che i più poveri paghino *tutto* e i più ricchi se la cavino con qualche donazione, continuando a sguazzare nel business as usual (pittato di “green”)?

    È una domanda con profonde implicazioni di giustizia sociale, e se possiamo dirlo, di classe. Perché il sistema che muove le grandi opere (e i grandi eventi alla JBP) è lo stesso, e i costi che genera (le “esternalità” ambientali e sociali, non solo gli impatti ambientali diretti) vanno ben oltre ciò che è visibile sulla spiaggia del concerto, e sugli ambienti fragili annessi. L’estrazione di ricchezza ha una ricaduta distribuita e se vogliamo più sottile, o meno visibile, in tutti gli ambiti della società. E il costo guarda caso ricade sui più poveri e sui gruppi più vulnerabili, quelli che già sono ai margini della società, in qualsiasi angolo del pianeta.

    Ciò che abbiamo fatto finora, e ciò che faremo dal minuto successivo a questo, ha una valenza profonda non solo per gli “impatti” – ambientali, sociali, climatici – ma anche rispetto a come contribuisce (o no) a costruire la società che vogliamo, e che stiamo già costruendo, mentre il sistema estrattivista si riproduce poggiando sugli eterni pilastri delle grandi opere. Grandi opere, comprese quelle green: perché un mega impianto eolico o fotovoltaico, che consuma centinaia di migliaia di ettari di suolo, che viene imposto dall’alto, che risponde a un modello energetico centralizzato, che produce energia per il mercato ma non risponde a una valutazione dei bisogni reale, che viene finanziato attraverso i mercati finanziari, rimane estrattivista come il mega-gasdotto o la centrale a carbone, nucleare o turbogas.

    Quindi per tornare a un punto che era stato sollevato, ovvero “ogni piccola o grande opera inutile è una coltellata in più, una falla in più, un carro bestiame in più verso la soluzione finale” – crediamo che vadano fatti dei distinguo, non solo in merito al progetto in quanto tale, ma anche in merito a chi lo propone, a che bisogni risponde, a quanto faccia parte di un percorso di trasformazione e costruzione collettivo e dal basso.

    In questo la critica sistemica al JBP e alle GODII sono azzeccate, come anche lo sguardo allargato ai diversi elementi del sistema che sostengono il loro modello. Quando nel 2014 e poi nel 2017 scrivemmo questo (https://www.recommon.org/dieci-ragioni-per-dire-no-al-tap/) e questo (https://www.recommon.org/perche-no-tap-ne-qui-ne-altrove/), lo facemmo anche in risposta a un sistema mainstream che voleva tacciare la resistenza al TAP di essere “locale” e contro “l’interesse nazionale e europeo”. Per altro, una critica copia-e-incolla a quelle già fatte al movimento No TAV. E una critica che decade a fronte di una lettura della *grande opera TAP* come sistemica, e di una resistenza dal basso che difende un interesse collettivo ben più ampio del territorio, che soffre impatti che vanno oltre le terre espropriate, e che ha una valenza sistemica più ampia di quello che a prima vista si possa cogliere.

    • Si abbiamo già raggiunto un punto di non ritorno per il CO2 ma da ricercatore in energy poverty e justice è giusto precisare altri punti sotto. (senza entrare nel merito piu approfondito e dei link postati sul TAP, anche se mi permetto di dire che ci sia molta approssimazione nel mettere sullo stesso piano gas e petrolio e sulla diminuzione dei consumi, anche se giustamente ricordate di gas ce n’è in abbondanza già e ce ne sarà in futuro)

      1- Per ora la transizione energetica (nei paesi dove si sta facendo) è tutto a spese dei ceti piu bassi a favore di quelli piu alti. Questo è un dato di fatto come il cambiamento climatico.

      2-In generale poi molte problematiche provengono dalla privatizzazione dei comparti energetici sia in termini di inquinamento che di equità
      Solo poche energy communities e cooperative hanno un approccio diverso e piu inclusivo. Molti di queste poi sono comunque composte da medium-upper class quindi per nulla inclusive.
      3- esiste il cosiddetto energy colonialism nei paesi occidentali,per molte persone senza distinzione per chi promuove nucleare, energie fossili che per chi vorrebbe piu velocemente le rinnovabili e tutti gli strati sociali nei paesi occidentali sono riluttanti a prendere la proprio share di rischi e costi, per il quale un nuovo internazionalismo sarebbe necessario, e anche prendersi un po di rischi.

      per i costi iniqui della transizione energetica
      si veda per UK https://www.jrf.org.uk/report/climate-change-and-social-justice-evidence-review
      per Germania, gli articoli della geografa Katrin Grossman

      e in generale per la EU https://www.eesc.europa.eu/en/our-work/opinions-information-reports/opinions/energy-poverty-impact-liberalisation-and-economic-crisis

      Tutto questo pippotto anche per dire che il fatto sinceramente inserire una paraculata del JBP con tutto una pletora di altre tematiche sono secondo me fuori luogo per mancanza di precisione negli argomenti (inclusi i miei descritti qui sopra), nonostante ci siano relazioni fra i diversi temi.

      Il Jova Beach Party merita di essere criticato duramente per i vari storytelling che trasmette ma non per causa del cambiamento climatico e ingiustizia energetica o climatica, è un salto logico piuttosto arduo e ignora le mille contraddizioni del sistema economico o di un sistema piu alto e insondabile a cui fate riferimento.

      Altrimenti qualsiasi regista che si fa produrre un film è responsabile (su questo c’è una bellissima intervista di Pasolini che dichiarava di non sapere se era lui che sfruttava l’industria culturale o viceversa)

  11. articolo in eccepibile. però la foto della manifestazione a nuova Delhi si vede lontano un km che è un foto montaggio e fatto pure male. rimuovetela perchè mina solo la credibilità della discussione. grazie intanto

  12. Ho letto i commenti di @elle un po’ di volte. Sostanzialmente mi pare di capire che difenda il JBP dal fatto di far parte dello stesso sistema economico di cui fanno parte le Grandi Opere Dannose e Imposte. Cosa vuol dire altrimenti che «Il Jova Beach Party merita di essere criticato duramente per i vari storytelling che trasmette ma non per causa del cambiamento climatico e ingiustizia energetica o climatica, è un salto logico piuttosto arduo e ignora le mille contraddizioni del sistema economico o di un sistema piu alto e insondabile a cui fate riferimento»? @elle ammette, da studioso come dice di essere, che le spese del cambiamento climatico sono a carico delle classi disagiate e a favore delle classi alte, parla di «costi iniqui della transizione energetica». Continua a chiedere le prove dell’impatto del tour del JBP, pur ammettendo che eventi di così grandi dimensioni sono altamente impattanti. Dice che se fosse per lui vieterebbe i concerti e gli eventi come Olimpiadi e Mondiali «per come sono fatti adesso», ma dice anche che se il JBP s’è macchiato della colpa di greenwasching non è responsabile del cambiamento climatico. Nel post di AM e poi nei commenti s’è scritto che il JBP fa parte di un determinato sistema (quello capitalistico) che è decisamente causa del Cambiamento Climatico. Il resto sono interpretazioni di @elle.
    A oggi non è arrivata nessun tentativo di autocritica, né da parte di Jovanotti né della società produttrice dell’evento JBP. Nei commenti di @elle invece si tira in ballo Pasolini per parare, qui sì, il culo a Jovanotti. Come se ci fossero punti di contatto tra due. Da qualche parte esiste una dichiarazione di Jovanotti lontanamente avvicinabile alla frase attribuita a Pasolini? Nel post c’è un’intero paragrafo in cui si dice che il problema NON è Jovanotti in se, ma la funzione che svolge.
    Fermo restando che in quanto esponente della sua classe sociale una sua personale responsabilità ce l’avrà anche. In rete esistono diversi articoli sulla responsabilità diretta dei ricchi nei confronti dei danni all’ambiente. Certo che anche chi produce un film o uno spettacolo teatrale o chissà che altro può viversi delle contraddizioni. In un commento poco sopra nel thread, Wu Ming 1 ha chiarito perché non è da equiparare l’impatto che ha un picnic con quello che ha un evento come il JBP. Non è la stessa cosa che andare a rompere gli equilibri già molto fragili di un litorale facendolo passare come una cosa “fichissima”.

    In un altro punto, sempre @elle, torna sulla necessità di grandi opere per la transizione energetica ma che – forse “nella sua testa” – ora è tutto un parlare di grandi opere come cosa negativa e quindi anche quelle che sono o sarebbero necessarie rischiano di essere viste come un male.
    Se partisse la grande opera di messa in sicurezza del territorio italiano io ne sarei felice, ma non sono così ingenuo da pensare che i grandi contrator non tenterebbero di mangiare la fetta più grossa anche di questa grande opera. Se non cambia la cornice di riferimento, se tutto resta all’interno del discorso e della prassi del capitalismo (che è la causa prima del cambiamento climatico), il rischio che anche questa venga incanalata lungo gli stessi identici binari di una TAV o di un Ponte sullo stretto è – e resta – alto. Non la vedo, ad esempio, come una opera che non possa risultare ghiotta per la sistema mafioso che è infiltrato nel mondo delle costruzioni e del movimento terra (per capirci). Al momento ci sono le Grandi Opere Imposte sul tavolo e sono tutti lì, ma se ciò che c’è adesso dovesse sparire e arrivare qualcos’altro il rischio che questi signori arrivino a banchettare è concreto, mica scompare. Vorrei tanto vedere la prova concreta che il JBP non sia stato un danno (ora e per il futuro) sia per l’ambiente che per l’economia delle zone in chi s’è tenuto. Dico prova concreta e non fuffa, che già s’è detto e scritto che è stato fichissimo e “bello”. Per loro.

  13. Nell’ultimo numero della rivista Jacobin – Apocalypse No – è presente un articolo di Wolf Bukowski, intitolato Tre mosse per farla finita con le bottiglie di plastica. Leggendolo non si può non pensare alla campagna “plastic free” spinta come messaggio salvacondotto dal Jova Beach Party. Wolf Bukowski nel secondo paragrafo del suo articolo (sono complessivamente tre: Prima mossa: usare la borracciaSeconda mossa: usare la borraccia, costringere la politica a cambiareTerza mossa: usare la borraccia, cambiare la politica, combattere il capitalismo) a proposito della «soluzione gridata ai quattro venti» del riciclaggio scrive:

    «Questa del riciclaggio è una storia interessante, ma è anche un po’ una bufala. Lo spiega nel dettaglio un lungo articolo online, ancora del Guardian («The plastic backlash: what’s behind our sudden rage – and will it make a difference?», 13 novembre 2018), ma provo qui a indicare i punti centrali. Nei primi anni Settanta, finita l’infatuazione iniziale per i polimeri, negli Stati uniti i media più accorti cominciarono a interrogarsi sull’eccesso di plastica, che aveva sostituito ormai integralmente materiali più durevoli e sostenibili. Iniziarono a comparire progetti di legge, ipotesi di tassazione, di divieti e regolamentazioni, volti a contenere l’avanzata della plastica. Dapprima i produttori – che in gran parte coincidevano con le compagnie petrolifere – contrastarono direttamente questi progetti ostili, facendo lobbying e arruolando politici dalla loro parte. Poi trovarono una strada più efficace: promuovere il riciclaggio, che venne investito di proprietà quasi magiche.
    Riciclare però non significa far sparire i rifiuti, e dare loro nuova vita non è a costo zero. Questo vale per tutti i materiali, anche gli ottimi vetro e alluminio. Ma la plastica in particolare si ricicla malissimo, e si degrada facilmente; il materiale ottenuto dal riciclaggio ha pochi usi, e la diffusione della plastica nell’ambiente e nei mari, frantumata in piccolissime particelle, è di fatto solo rimandata. Per questo alcuni studiosi, a proposito del riciclaggio della plastica, parlano di «wish-cycling», di riciclaggio basato sulla speranza.
    Insistendo sul riciclaggio, le aziende promotrici della campagna, e i politici via via a essa conquistati, ottengono anche un secondo, ma non secondario, effetto. La responsabilità dell’inquinamento viene tolta dalle spalle delle aziende e gettata come una croce sul singolo, sul quel consumatore che deve impegnarsi a riciclare, che deve dimostrare di essere «virtuoso». Il colpevole non è più insomma chi ha scelto la plastica per aumentare i propri profitti, ma di chi si trova montagne di plastica in casa perché i produttori hanno voluto così. Questi due aspetti, cioè l’istanza «magica» del riciclaggio e la colpevolizzazione del consumatore, sono ancora oggi alla base del discorso pubblico sui rifiuti.»

    Ora, tenuto conto di questo, va fatto notare come il Jova Beach Party – ribadiamo: un mega-show con imponenti strutture, migliaia di spettatori, messo in scena in ambienti naturali dove resistono delicati ecosistemi – ha rappresentato “la carota” di contro “al bastone” della medesima retorica, cioè quella che focalizza la questione della gestione dei rifiuti sui comportamenti individuali. Solitamente questa pressione è agita attraverso misure punitive e stigmatizzanti, nel caso del Jova Beach Party invece con un’incentivazione “positiva” delle buone pratiche individuali (e non poteva essere diversamente, se pensiamo al “presabenismo”). Il punto è che, come scrive Wolf, «Parlare insistentemente, anzi esclusivamente, del riciclaggio dei rifiuti e dei comportamenti individuali (compreso il prendersi una borraccia) finisce così per occultare il grande tema, quello della produzione di oggetti che ben presto diventeranno rifiuti. Bisogna quindi sì usare la borraccia e riciclare i rifiuti, ma anche costringere la politica (il discorso pubblico in senso lato) ad affrontare la produzione, e non solo lo smaltimento dei rifiuti.»

    Il fatto che il messaggio “ambientalista” del Jova Beach Party sia stato tutto centrato sul riciclaggio, è indicativo. Non può certo essere considerata d’avanguardia una campagna di comunicazione che spinge – tenete sempre presente da che pulpito – alla raccolta differenziata dei rifiuti in materiali plastici (e nemmeno, per dire, a un uso di materiali alternativi biocompostabili, anche se chiaramente questo apre altre questioni di criticità). Anche volando più basso, la funzione di distogliere l’attenzione dalla produzione – consapevolmente o meno, nulla cambia – è già evidente se consideriamo che la pratica del riciclaggio da anni (certamente più di un decennio) viene presentata, nella cosiddetta “Regola delle tre erre”, come terza opzione tra le “buone pratiche” individuali: Riduci – Riutilizza – Ricicla.

    Va poi considerato che la maggior parte della gente pensa, o è indotta a pensare, di risolvere il problema dei rifiuti, e per estensione quello della crisi climatica, attraverso corretti comportamenti individuali: «se tutti facessimo… allora» (che se ci pensiamo è in risonanza con il «se vuoi puoi»). E invece un corno. Ovviamente la diffusione di buone pratiche individuali è importante, ma trascurare la portata politica del problema è cadere esattamente nella trappola del sistema.

    Lo stesso, cambiando campo, si potrebbe dire di molte questioni legate alle condizioni contemporanee del lavoro, che abbiamo subito e che ci hanno portato dritti dallo psicoterapeuta invece che in manifestazione. Nel post si richiama Realismo capitalista, è importante quindi ricordare l’invito di Fisher a politicizzare la sofferenza psichica (strettamente legata alle condizioni materiali di vita e, appunto, in particolar modo al lavoro), oggi ridotta a una questione strettamente individuale e personale.
    Il “presabenismo” à la Jovanotti è l’essenza dell’imperativo a essere felici, al se vuoi puoi, a tutte quei cliché che nel post abbiamo scritto trovano «un corrispettivo nella versione popolarizzata e divulgativa tipica dei manuali di self-help che siamo soliti trovare sugli scaffali degli autogrill».

    Se non si ritrova la dimensione collettiva è finita. Siamo sempre a quella: «O ci si salva tuttx, o non si salva nessunx». E questa opzione possiamo immaginarla solo come processo politico e collettivo.

  14. Rage Against The Greenwashing Machine

    Gran bel pezzo uscito su Gli Stati Generali.

    • Sei anni fa iniziai a segnalare che le operazioni in alta quota di Messner e le Dolomiti Patrimonio dell’Umanita’ erano passi decisi verso la commercializzazione della montagna in alta quota. Ho voluto farlo in un contesto frequentato da persone esperte dell’alta montagna e ne conoscono valore e senso. Vogliamo trasfromare in non-luoghi anche l’alta montagna? Sostanzialmente, era evidente la volonta’ politica e affaristica di sfruttare le qualita’ dell’alta montagna per trasformarle in fenomeno da baraccone e diseducativo, come la trasformazione di rifugi in alberghi (fenomeno in atto).
      Tra le attivita’ della Fondazione UNESCO-Dolomiti troviamo la formazione di tecnici e manager per attivita’ turistiche, la creazione di “balconi” fisici, come se il paesaggio d’alta montagna non sia di per se’ un balcone naturale continuo. Sembra impossibile ma sono riusciti pure in questo!! Il tutto con partecipazione di ambientalisti e non solo, commissioni tecniche di prestigio, ben finanziate da fondi ministeriali ed europei. Insomma, si vuol passare da una fruizione “naturale” di spazi pregiati ad una artificiale-istituzionale gestita dal business.
      A questa direttrice storica che si profilava all’orizzonte (sicuramente anche prima del 2013) si sono adeguati volentieri Messner, vari ambientalisti,….Messner dichiaro’ al momento dell’istituzione del Patrimonio UNESCO-Dolomiti che si dovevano portare le masse dei turisti in arrivo a Venezia sulle Dolomiti: figuriamoci. Nella mia esperienza, le masse (cioe’ la stragrande maggioranza delle persone), spontaneamente, non hanno alcun interesse spontaneo per l’alta montagna e ad un rapporto “naturale” con essa. Penso che la natura li annoi molto presto. La volonta’ di spingerle a fare cio’ che non desiderano ha come unico scopo lo sfruttamento commerciale e il soddisfare capitali assetati di sangue. Saluti.
      https://forum.planetmountain.com//phpBB2/viewtopic.php?f=2&t=51354

  15. Sul #JovaBeachParty si esprime retrospettivamente il National Geographic Italia pubblicando un articolo firmato da Lisa Signorile: Il Jova Beach Party e la protezione delle aree naturali.
    Un articolo da leggere, una pietra tombale su questo mega-show (ed eventi simili futuri), una risposta definitiva a tutte le reazioni scomposte che indicavano le voci critiche di essere pretestuose e/o meri rosicamenti.

  16. ciao. a parte che siete riusciti a darmi una spiegazione al perchè la mia pagina facebook dall’estate scorsa venisse tempestata di messaggi a pagamento, mai aperti, che volevano farmi capire quanto erano cattivi quelli che si opponevano al jbt e perchè jovanotti fosse diventato uno “scomodo”, mi interessa molto la definizione di realismo capitalista. altri lo chiamano capitalismo maturo, turbo capitalismo etc, a prescindere dal nome, rende netta la sensazione del superamento di quella che prima era la società cristiano-capitalistico-borghese. si perde l’aggettivo borghese: da un lato, pratico, per l’attacco (ormai quasi portato al termine) al potere d’acquisto della classe media rispetto alla classe dominante, il cosiddetto aumento della forbice della sperequazione del reddito; dall’altro, filosofico, c’è la fine del significato dell’aggettivo “borghese” nella definizione “cristiano-capitalistico-borghese”, ossia la promessa dell’eterno superamento, della crescita senza fine, del sogno, che per la generazione dei miei genitori, ad es., aveva avuto il capitalismo negli anni ’60-’70-’80. La frase di Alpinismo Molotov “su un futuro visto come prolungamento lineare del presente” si inserisce in questo contesto di perdita del sogno, perchè toglie qualsiasi speranza alla mobilità sociale fra classi, alla pantomima del passaggio dal proletariato alla piccola-media borghesia, e rende quantomai attuale lo scontro di classe come delineato fra elite e tutti gli altri.

    • «Realismo capitalista», espressione non proprio coniata ma certamente ridefinita da Mark Fisher nel decennio scorso, non è un sinonimo di «turbocapitalismo», «tardo capitalismo» [Mandel, Jameson ecc.], «capitalismo maturo» et similia.

      Quella sequela di espressioni, inaugurata, credo, da «neocapitalismo» negli anni Sessanta del XX secolo, cerca di rispondere all’esigenza di definire il modo di produzione / sistema socioeconomico affermatosi su scala planetaria, pur tra crisi e sussulti, a partire dal boom seguito alla seconda guerra mondiale. Ciascuna di quelle espressioni deriva da un’analisi o valutazione che mette l’accento su un aspetto diverso del sistema.

      «Realismo capitalista» invece indica la mentalità che questo modo di produzione ha imposto. L’ha imposta anche a chi si oppone al sistema. Il «non c’è alternativa» ha progressivamente contaminato anche le culture d’opposizione, producendo sconfittismo, cinismo, pessimismo, incapacità di immaginare rotture sistemiche e futuri possibili. Il pensiero critico si è rifugiato nella distopia, cioè è passato dal tentativo di coniugare «azione e sogno» – per usare la felice espressione di André Breton – a un atteggiamento che coniuga inazione e incubo.

      La sfida è uscire da questa stanza di cui il capitalismo satura ogni centimetro cubo, e forse proprio la nuova, gigantesca ondata di mobilitazioni sul disastro climatico, se sfuggirà agli apparati di cattura del greenwashing politico e commerciale, può aiutarci quantomeno a immaginare un avvenire post-capitalistico. E da quest’immaginazione si riparte.