Durante l’estate La macchina del vento ha continuato il suo viaggio, mentre il flusso di reazioni, commenti, recensioni non accennava a rallentare. Il romanzo ha avuto quattro edizioni in quattro mesi, e in certi ambienti ha suscitato un dibattito acceso.
Soprattutto, ha provocato forti reazioni in ambiente europeista/federalista. Ce ne occuperemo coi nostri tempi in un prossimo speciale dedicato al libro, a flusso almeno un poco rallentato. Due cose, però, vale la pena anticiparle, prima di dedicare questo post all’incontro tra parole e musica.
Alcune critiche “spinelliane” al romanzo sono rispettose e argomentate e meritano attenzione e risposte. Sono pubblicate o comunque segnalate sul sito Eurobull. Le riprenderemo una ad una, «con tutti i crismi», e le commenteremo. La nostra impressione, tuttavia, è che siano basate su un equivoco di fondo, purtroppo non infrequente: si affronta il romanzo, genere non solo di fiction ma prettamente polifonico, come se fosse un saggio, genere non solo di non-fiction ma monodico e monologante.
In parole povere: un romanzo parla con le voci di diversi personaggi, ciascuno dei quali lo fa in situazione, dal posto che occupa nella vicenda, e ogni romanziere che si rispetti cerca di lavorare sul contraddirsi dei personaggi, sull’attrito tra le voci; un saggio, invece, parla con la voce del proprio autore, che al massimo, tramite citazioni, prende in prestito voci altrui al fine di sviluppare la propria tesi.
Per fare un esempio, quando uscì L’Armata dei Sonnambuli, qualcuno ci manifestò il proprio sconcerto «per il giudizio che date su Olympe de Gouges!». Col che intendeva dire che secondo noi era una stronza e fecero bene a ghigliottinarla. Quel giudizio, però, noi non l’abbiamo mai dato. Nel romanzo, sulla rivoluzionaria Olympe de Gouges e sul suo operato vengono dati più giudizi, in stridente contrasto tra loro, da parte di personaggi che occupano diverse posizioni in diverse fasi del processo rivoluzionario.
Il primo giudizio è non solo denigratorio ma sessista e pure razzista, e lo esprime un personaggio collettivo, la plebe parigina (che nel romanzo non è per forza “buona”);
il secondo è fieramente apologetico e lo esprime la girondina Théroigne de Méricourt;
il terzo è di nuovo denigratorio e sessista, ed è attribuito al polemista Pierre-Gaspard Chaumette aka «Anassagora»;
il quarto (e ultimo) risulta più equanime man mano che viene articolato, ed emerge da una discussione tra Marie Noziére e Claire Lacombe.
Insomma, quel filo – uno dei tantissimi della tessitura del libro – vorrebbe far seguire a chi legge un processo a suo modo dialettico: mediante il conflitto tra punti di vista e interpretazioni, si forma un’immagine di Olympe de Gouges composita e contrastata, diremmo quasi «cubista».
Qualcosa di simile era accaduto ai tempi di New Thing, con il presunto «giudizio troppo settario dato da Wu Ming 1 sul cool jazz» 😏. Era il giudizio di uno dei numerosi personaggi “intervistati” nel libro. Di contro, altre voci davano giudizi durissimi sullo stesso free jazz, la scena musicale celebrata nel romanzo fin dal titolo.
Ancora: quando è uscito Proletkult qualcuno ha criticato il «giudizio» – sempre così, al singolare – che avremmo dato di Lenin e dei primi dieci anni della Rivoluzione Russa. Pure in quel caso, però, sull’uno e sugli altri vengono dati diversi giudizi da parte di diversi personaggi, tutti in situazione.
Nei romanzi del nostro «nuovo corso», va aggiunto, questo procedimento è ulteriormente “incidentato” dal crescente ricorso al fantastico, al fantascientifico, al mitologico, al sovrannaturale, al perturbante.
Altre critiche al romanzo da parte di federalisti si sono manifestate più “di pancia” sui social, anche in modo – quantomeno inizialmente – scomposto. Wu Ming 1 è stato accusato di lesa maestà nei confronti di Altiero Spinelli e del «Manifesto di Ventotene». Si è vista persino la polemica diretta con il personaggio di finzione che nel romanzo critica il manifesto: «Eh no, caro Squarzanti…»
È accaduto spesso che la nostra resa letteraria di personaggi storicamente esistiti sollevasse obiezioni risentite, soprattutto quando si trattava di figure di culto. «Culto» nel senso lato del termine, ma anche in quello stretto. Ricordiamo come reagì a Q lo storico, biblista e pastore valdese Giorgio Tourn. Sul settimanale Riforma del 24 settembre 1999 scrisse:
«non si può tollerare che giovani studiosi come pare siano gli artefici di questo congegno letterario, aggiornati e intelligenti, si lascino irretire dagli stereotipi di una cultura del più gretto pregiudizio clerico-marxista. Del Lutero “lecca…. dei principi” e del Calvino arrostitore di Serveto trabocca ormai la nostra letteratura accademica e popolare e sarebbe gran tempo che questi giovani universitari leggessero altro e scrivessero altro! Reazione infastidita di un chierico calvinista? i vieux jeus, risponderanno; forse, ma se disponessimo di spazio maggiore potremmo divertirci a smontare la loro macchina poliziesca dimostrandone la vacuità […] Il protagonista della vicenda dovrebbe essere un anabattista: in realtà una sorta di spadaccino che ama le donne, il vino e il turpiloquio passando dalla scuola di Muentzer alla tragedia di Muenster ai cenacoli radicali delle correnti fiamminghe per finire predicatore in Italia senza credere a nulla. E questi sarebbero gli uomini che morivano sul rogo e rischiavano la vita per la fede in Gesù Cristo? […] i libri hanno messaggi e questo gioco raffinato ne ha molti, alcuni segreti, allusivi; uno però resterà: gli anabattisti furono in Europa una banda di fanatici, deliranti, nel migliore dei casi fautori del libero amore, che l’Inquisizione spazzò a ragione, e mentre l’intellettuale moderno si riposa a Costantinopoli l’ombra di Carafa si materializza nel papato di Paolo IV. Un libro da leggere, o sfogliare, non per capire gli anabattisti […] ma la cultura italiana dell’età berlusconiana.»
Vent’anni dopo, dicano altri quanto abbia “retto” una simile descrizione del nostro romanzo, e quanto sia diffusa tra gli stessi protestanti. Già allora, del resto, e sulle pagine della stessa rivista, di Q si scrisse tutt’altro. Antonio Di Grado, ad esempio, concluse la sua recensione con queste parole:
«È assai probabile che alla fede riformata, se non altro sull’onda d’una curiosità storico-culturale o d’un sacrosanto impulso esistenziale all’eresia, possano avvicinare più e meglio queste pagine prive di fede che la catacombale ortodossia di certe chiese che di fede sono fin troppo sazie.»
Orbene, a quanti sono sbottati contro La macchina del vento in quanto «operazione ideologica» e «diffamatoria» nei confronti dei padri dello «spirito europeo», consigliamo di alterare l’oscillazione della propria polemica, allontanandola progressivamente dalla polarità-Tourn e tendendo di più alla polarità-Di Grado. Ne trarremmo giovamento tutti quanti.
⁂
Com’è noto, da molti anni facciamo esperimenti con la forma del reading/concerto. Le parole di pressoché ogni nostro libro hanno incontrato diverse musiche, e La macchina del vento non fa eccezione. Tanto che sta conoscendo varie “sonorizzazioni”.
Wu Ming 1 ha già proposto tre volte – a Napoli, Roma e Trieste – il reading/concerto che lo vede accanto a due sommi esponenti della nostrana electronica: Marco Messina – membro storico dei 99 Posse e autore di colonne sonore, proprio in questi giorni acclamato a Venezia per le musiche del film Martin Eden di Pietro Marcello – e Fabrizio Elvetico – membro dell’Illachime Quartet, compositore di musiche per cinema e teatro –, cioè due terzi del collettivo «elettrovisual» Elem.
La prossima data vedrà in azione l’intero collettivo, con gli interventi dell’artista visiva Loredana Antonelli, e sarà il 26 ottobre all’Ex-Asilo Filangieri di Napoli.
A Ventotene, durante l’ultima edizione del festival «Gita al faro», il pianista romano Valerio Vigliar ha accompagnato WM1 sonorizzando il racconto Polykenos, spin-off de La macchina del vento… e probabile nucleo del suo sequel.
Il connubio WM1-Vigliar si riproporrà la sera del 12 settembre, al centro sociale Acrobax di Roma. Qui l’evento Facebook.
È in preparazione un altro reading/concerto, che vedrà WM1 accanto al Bhutan Clan, la resident band del progetto Resistenze in Cirenaica, che ha già sonorizzato più volte il libro precedente, Un viaggio che non promettiamo breve.
In questo post, però, vi proponiamo l’ascolto di un quarto esperimento: una session di improvvisazione radicale che si è svolta a Catania il 31 agosto scorso, nell’ambito della rassegna «Stralunata».
La rassegna è curata dal musicista Francesco Cusa – uno dei più inventivi batteristi d’Europa – insieme all’associazione Gammazita e a Lunaria Edizioni.
Quella sera, in piazza Federico di Svevia, Wu Ming 1 ha letto brani de La macchina del vento accompagnato da due storici ed eccelsi sodali: lo stesso Cusa e il pianista e polistrumentista Fabrizio Puglisi, per l’occasione impegnato a tastiere e synth analogico.
La collaborazione tra WM1 e Cusa dura da ben quindici anni, essendo iniziata ai tempi di New Thing. Nella nostra audioteca Radio Giap Rebelde si trova molto materiale, ecco i link:
Archivio 2002 – 2010 (vecchio sito, html statico)
Archivio 2011 – 2016
Podcast dal 2017 a oggi.
Per quanto riguarda la collaborazione con Puglisi, invece, ricordiamo la performance We Insist! (For Emmanuel Chidi Namdi) all’edizione 2016 del Festivaletteratura di Mantova. Anche in quell’occasione la lettura fu da New Thing.
La serata catanese è stata registrata dal fonico Luca Recupero, ve la proponiamo qui in streaming (mp3 a 320k):
La macchina del vento – Live in Catania
La macchina del vento – Live in Catania
–..oppure ➝ in download
(cartella zippata, file ad alta resa sonora, wav qualità cd).
Come spesso accade, molte persone si sono stupite venendo a sapere che, prima dell’esibizione, non c’era stato un solo minuto di prove.
Durata: 55 minuti. Buon ascolto.
Poscritto: una recensione-saggio
➝ Memoria e letteratura: La macchina del vento di Wu Ming 1
di Gerardo Iandoli, apparsa su Argo on line
«L’operazione di Wu Ming 1, quindi, è al “futuro anteriore”: osserva una certa idea di futuro così come è sorta nel passato. Il collegamento che si innesca è piuttosto ovvio: quella che allora era una semplice Idea si rispecchia nell’Unione Europea, realtà ben concreta del nostro presente. E le parole che Erminio usa per criticare l’idea di allora, diventano un monito per riflettere sull’istituzione di adesso […] Ritornare all’origine significa ritornare a un momento in cui il reale di adesso era ancora sotto forma di possibile: qualcosa che avrebbe potuto realizzarsi oppure no. Al di là delle varie posizioni sul tema rappresentato e analizzato, tale processo ci mostra una cosa ben più profonda: è esistito un tempo in cui si è pensato un altrimenti rispetto all’esistente, tempo che può realizzarsi ancora.»
Quando ce n’è l’occasione, credo sia d’un qualche interesse che improvvisatrici e improvvisatori si scambino in pubblico, vale a dire al di fuori degl’incontri tra specialisti, idee sulle rispettive prassi, poetiche, concezioni dell’arte d’improvvisare: “arte” nel senso latino di ars, ossia insieme organizzato di saperi e tecniche. Credo sia utile anche a dissipare un po’ l’allure di mistero, di pratica vagamente esoterica, che circonda l’improvvisazione ex nihilo, cioè senza alcun tipo di materiale preesistente al momento della performance. WM ha ricordato su twitter che nel 2016 avevo commentato We Insist! For Emmanuel chidi Namdi.
«Ricordiamo la tua recensione di «We Insist! (For Emmanuel Chidi Namdi)», colonna sonora del tuo esame di avvocato!https://t.co/9vGmS9wSPC— Wu Ming Foundation (@Wu_Ming_Foundt) September 4, 2019»
Per commentare questo reading catanese, parto dalla constatazione che fa WM1 nel post qui sopra: «Come spesso accade, molte persone si sono stupite venendo a sapere che, prima dell’esibizione, non c’era stato un solo minuto di prove.» A proposito dell’allure di pratica misterica. Spesso, direi sempre, quando WM1 progetta una lettura scenica con un accompagnamento improvvisato, non fa alcuna prova prima del reading: ad esempio, per Cinque volte Turi Vaccaro, il reading tratto da Un viaggio che non promettiamo breve che lui e io abbiamo portato in giro per nord e centro Italia tra il 2016 e il 2018, le prove hanno coinciso con la prima esecuzione pubblica dello spettacolo, al Barrio Campagnola di Bergamo. Non sempre è così: ci sono gruppi d’improvvisatori che provano moltissimo. Il che può sembrare paradossale, dato che la musica suonata nelle prove sarà diversa da quella suonata in concerto. Ma anche per gli improvvisatori, come per chi suona musica scritta in tutto o in parte, le prove hanno sempre la stessa funzione: oliare l’interazione tra i musicisti, amalgamare le diverse voci strumentali nel suono complessivo del gruppo etc. Non provare, per contro, ha il vantaggio di valorizzare al massimo l’ecceità, la spontaneità della creazione nel momento presente. La cosa non crea particolari problemi quando si tratta di una performance solista, ma si complica quando sul palco c’è un ensemble. Anche la più estemporanea delle improvvisazioni, però, non nasce mai davvero ex nihilo; e non nasce solo nel momento presente. Nella creazione spontanea, ogni improvvisatore porta la sua vita, vale a dire il suo lessico musicale, le sue tecniche, il suo suono, in generale i suoi stilemi. Se chi è coinvolto nella performance conosce bene i suoi partner (è il caso del trio convenuto sul palco di “Stralunata”), le prove possono essere tranquillamente omesse, a tutto vantaggio della freschezza dell’esecuzione / composizione istantanea.
Un aspetto che varia molto nei reading di WM1 è la forma, in rapporto ai testi scelti per la lettura: a lunghi brani (es. un intero capitolo, o più capitoli consecutivi, anche se non per forza tematicamente unitari: cfr. qui i tre prologhi), tende a corrispondere una forma che echeggia la suite. A testi trascelti da parti diverse del libro corrispondono forme più brevi, ciascuna ritagliata sul singolo brano. Esempi di reading che consistono di un’unica forma estesa: i già menzionati We Insist! (unità testuale: tutto il secondo capitolo di New Thing) e Cinque volte Turi Vaccaro (unità tematica: tutti i brani di Un viaggio che non promettiamo breve in cui compare Turi). Esempio di reading basato su forme più concise: La macchina del vento con Fabrizio Elvetico e Marco Messina al Mezzocannone di Napoli.
Qui invece abbiamo in sostanza due suite: in realtà, stando all’intro di WM1, le ultime due improvvisazioni dovevano forse rimanere ciascuna a sé stante, ma di fatto sono legate insieme dalla transizione di batteria che Francesco esegue mentre WM1 presenta l’ultimo brano.
Ciò che di questa performance più balza all’orecchio è che si svolge per la maggior parte fuori dal sistema temperato (cioè la suddivisione dell’ottava musicale in dodici note discrete, ciascuna con altezza determinata e posta a distanza di semitono dalla precedente e dalla successiva): pensiamo ai tasti di un pianoforte o di una chitarra che, quando premuti, generano note via via più alte d’un semitono man mano che si procede da sinistra verso destra (l’opposto nelle chitarre mancine). Qui Fabrizio Puglisi, che pure suona uno strumento a tastiera, esce spesso dal temperamento. Risultato a cui su un pianoforte acustico si può giungere con diversi tipi di preparazione, e che qui Fabrizio ottiene agendo sui dispositivi che modellano il suono del sintetizzatore: oscillatore, filtri ed effetti. Di conseguenza, nelle improvvisazioni dominano ritmo e ricerca timbrica. Quando si sottrae al temperamento, Fabrizio può suonare ritmicamente e timbricamente senza che si creino, come “effetto collaterale”, armonie o melodie non volute: può cioè suonare in maniera più simile a un percussionista. Ed è per questo che l’interazione con Francesco funziona molto bene: a tratti, è come se sul palco ci fossero due percussionisti. Dopotutto, il pianoforte a rigore è uno strumento a percussione (vedi alla voce Cecil Taylor per magniloquenti dimostrazioni).
Il ritmo è per lo più su una pulsazione metronomica, e le scansioni eseguite da Francesco evocano generi riconoscibili: ora il breakbeat della drum’n’bass, ora un tiro più funk, ora un basilare groove rock, ora la cassa in 4. Ci sono però anche episodi svincolati dal metronomo: rarefatti, come all’inizio della prima suite e per quasi tutto l’ultimo movimento della seconda (prima del crescendo finale), oppure molto densi, come nella transizione tra primo e secondo prologo.
Ho detto che ritmo e timbro dominano: non vuol dire che melodia e armonia siano assenti. L’armonia compare nell’episodio più stratificato di tutto il reading, sia per la drammaturgia molto cangiante sia per il materiale eterogeneo da cui Fabrizio e Francesco hanno attinto: in particolare, Fabrizio improvvisa, e opportunamente riprende più volte, un tema rinascimental-baroccheggiante, (à la Orlando Gibbons, che saldandosi al testo crea un singolare groviglio di piani temporali: : a far da sottofondo alla riunione del dodecatheon convocata per discutere sul da farsi nella seconda guerra mondiale, c’è un tema in stile secentesco, con corredo di trilli, mordenti e acciaccature. Ancora, l’armonia torna di prepotenza nel finale: questa volta si tratta di un tipo di armonia che alcuni definiscono “pantonale”, altri “modalità complessa”. La sostanza è che la progressione degli accordi non è regolata da una serie di funzioni predeterminate (armonia tonale), ma dall’effetto acustico, dall’atmosfera, dal color (per rubare il termine ai retori antichi), che l’accostamento di un accordo all’altro provoca.
Della melodia, intesa non come un tema cantabile, ma proprio tecnicamente (come l’intendevano Arnold Schoenberg e Alban Berg) come successione di intervalli, è fatto un uso molto scarno: qui una serie di terze minori (due note poste a distanza di un tono e mezzo), lì un frammento di scala esatonale (scala composta da sei note, poste tutte a distanza d’un tono l’una dall’altra), da ultimo uno scheletro di blues che prelude al finale.
In tutto questo, non è affatto secondario il ruolo della voce recitante, sulla quale dico due cose. La prima: prassi già in atto da qualche tempo, WM1 tende molto meno di prima a leggere stando appoggiato metricamente al beat. Come fosse uno strumento solista, che articola le note staccandosi dal tempo metronomico, con l’effetto di aggiungere un ulteriore strato ritmico alla musica. Le inserzioni di lettura metrica, essendo più sporadiche, diventano anche più sorprendenti. La seconda: mercé l’incontro con gli studi del grandissimo Franco Fussi, la gamma timbrica, e con essa l’espressività, della voce di WM1 si sono notevolmente allargate.
Grazie mille, Luca. È d’uopo aggiungere che gli studi sulla voce di Franco Fussi mi arrivano “mediati” dall’esempio pratico di Matteo Belli. Qualche anno fa io e WM2 abbiamo partecipato a un laboratorio sulla risonanza vocale tenuto da Belli, «Le qualità timbriche della voce parlata». In tutti i reading successivi ho tratto ispirazione, sempre improvvisando, dal campionario di possibili voci passate in rassegna durante quel laboratorio, le stesse di cui Matteo fornisce esempi in questo video. In Cinque volte Turi Vaccaro, ad esempio, a parte quella volta a Rho in cui ero afono, ho fatto parlare H.P. Lovecraft con voce occipitale.
…Questo per rendere, anche nella lettura scenica, il brulicare polifonico (multivocale!) del romanzo, o di quella forma cangiante di «romanzamento del saggio» che è l’oggetto narrativo non-identificato.
[…] in un determinato contesto spazio-temporale e culturale. Come ha scritto lo stesso Wu Ming 1 in un commento generale e di ordine metodologico alle critiche che gli sono state […]