Lo specchio nero. A caccia di neofascisti sugli schermi d’Italia.

[WM2: Poco prima dell’estate, la casa editrice Dots ha pubblicato Lo specchio nero, un saggio del collettivo Dikotomiko* dedicato alla presenza/assenza dei neofascisti sugli schermi italiani e planetari. L’analisi dei due autori ha svariati punti in comune con articoli e riflessioni che abbiamo pubblicato su Giap, a proposito delle amnesie del cinema nostrano, della riluttanza a pronunciare «la parola con la F», dei format giornalistici e televisivi utilizzati per raccontare (e ignorare) la violenza fascista. Letto e apprezzato il libro, abbiamo contattato Massimiliano Martiradonna e Mirco Moretti per sviscerare con loro le questioni che più ci stavano a cuore. Ecco la chiacchierata telematica che ne è venuta fuori.]

Il vostro libro è un viaggio molto approfondito nella rappresentazione in video di neofascisti e neonazisti. Prima di discutere i risultati  della vostra ricerca, vorrei porre una domanda di metodo. Anzi due, che però riguardano la stessa questione, quella di come avete circoscritto il terreno da esplorare. E quindi: che periodo avete considerato? E perché, invece di limitarvi al cinema, avete deciso di spaziare dai videoclip musicali ai documentari, dalle serie TV ai lungometraggi?

Nell’accelerazione compulsiva impressa dalle nuove tecnologie, il cinema ha dovuto adeguarsi a nuove forme di fruizione. Altro che falso movimento, tutto il cinema di oggi è una corsa verso nuovi linguaggi, nuovi formati. Non ha più senso parlare, solo, di film in quanto lungometraggi: se si parla di rappresentazione, occorre parlare, anche, di documentari, videoclip musicali, video disponibili per lo streaming su piattaforme planetarie. Un insieme non omogeneo di schegge impazzite. Una cluster bomb.
Per ovvie ragioni di analisi e di sintesi, abbiamo dovuto circoscrivere il nostro periodo di interesse, individuando una fondamentale discontinuità storica, il nostro “da quel momento nulla è stato più come prima”. Parliamo dell’anno 2001, che ha deviato in modo traumatico e definitivo una traiettoria di futuro possibile – e plausibile.

Con amarezza, nelle presentazioni pubbliche del nostro saggio, ci siamo accorti che il 2001 è percepito dai più giovani in modo vago, un anno come i tanti di un presente liquido, male o non ancora storicizzato. Invece è tra le rovine del 2001 che nasce il verme di ogni sovranismo.

All’alba del nuovo millennio, il mondo pare pervaso di autentico fervore sociale, solidale, internazionale. Si protesta, si balla, si sfila. Genie di giovani non allineati, ribelli con una causa. I nemici del movimento “no global” sono i grandi della terra, quelli con la G maiuscola: i governi dei Paesi occidentali, le principali economie mondiali, che allora come oggi si riuniscono in assetto variabile: a sette, a otto, a enne. Quel che accadde nei giorni del G8 di Genova, a luglio 2001, è presente nel nostro saggio, direttamente con Diaz – Don’t Clean Up This Blood, di D. Vicari, e di rimando con ACAB, di S.Sollima.
Due mesi dopo Genova, ecco un altro colpo di Storia, il colpo di grazia: l’attentato alle Torri Gemelle. Un avvenimento che da allora non vuole smettere di finire, ripreso e scansionato e reso virale e tramandato in pixel nei secoli dei secoli. Altro che il tramonto della Camelot dei Kennedy, altro che il filmato Zapruder sull’attentato di Dallas a JFK.
Il nuovo ordine mondiale come ordine del terrore. Terrore è diverso da orrore, terrore è il tremore, orrore sono i peli che si arricciano. Il tremore è timore ancestrale, si cerca conforto dove non ce n’è, si ripone la speranza nella religione. Nell’ordine del terrore, vediamo infatti tornare la guerra di religione. Rozza, brutale, ubiqua, visibile e visionabile on demand.

Vecchi fanatismi, nuovi linguaggi, nuove platee da sedurre, e nuovi strumenti per diffondere menzogne, perché il nuovo millennio è l’era dei social network, dei passaparola contagiosi e incontrollabili. Occorre essere seducenti, arrivare anche all’ultimo degli analfabeti funzionali, indurlo, con le cattive o con le false notizie a sentirsi in pericolo. Si trasformano i frustrati e gli emarginati in tanti potenziali kamikaze, da tastiera e non solo.

Un’altra scelta di metodo è quella di mettere a confronto l’Italia con il resto del mondo. A livello planetario, il vostro scandaglio rileva l’emergere di un genere piuttosto definito, che chiamate neonazi drama. Di che si tratta?

La produzione mondiale di rappresentazioni a tema è copiosa. A cominciare dai fondamentali Chez Nous (A Casa Nostra) e Un Français (French Blood) dei cugini d’Oltralpe, per proseguire con il serbo Skinning, con i tedeschi L’Onda e Kriegerin (Combat Girls).Queste opere sembrano seguire un canone, apparentemente semplicistico, ma basato sull’osservazione e sull’analisi della realtà: la caratterizzazione del neonazista, il suo aspetto fisico, i suoi rapporti con la famiglia o col quartiere dove abita sono spesso gli stessi. Il neonazi è un giovane arrabbiato, frustrato, si sente incompreso. Trova complicità e accettazione nel branco di skinhead, o nella sezione di movimenti e partiti di estrema destra che frequenta. Odia e aggredisce gli immigrati, fa sua la difesa dell’identità nazionale. Vede la polizia come un nemico, anche se – con le dovute differenze tra Stato e Stato – spesso la polizia è corrotta e cerca di utilizzare gli estremisti di destra per il proprio tornaconto. La fasci-nazione per l’estrema destra, inoltre, non è esclusiva di classe o sesso: chiunque è vulnerabile, dal genio della matematica alla figlia di ricchi borghesi. Le parabole del male raccontate ad ogni latitudine sottolineano anche la facilità con la quale si può passare dalla partecipazione a un corteo di benpensanti, benvestiti, cattolici, nazionalisti alla militanza estremista e violenta. Le sirene della propaganda sono sempre in agguato, insomma, e suonano sempre le stesse note.

Ancora, un altro topos ricorrente è il rapporto tra il cattivo maestro (uomo di mezza età, cultura medio-alta, oratore carismatico, look borghese più o meno raffinato ma sempre distinto dalla truppa) e il giovane discepolo, un luogo comune potentissimo e immortale, che al cinema funziona sempre: è sicuramente una degenerazione del legame padre/figlio, anche se alla base c’è sempre la stessa volontà, ovvero lo sfruttamento della manovalanza da parte del dirigente di partito senza scrupoli, che appare in tv al mattino per uno spot elettorale dai toni rassicuranti e patriottici (i cui contenuti sono anch’essi sempre uguali) e a tarda sera interviene in una riunione clandestina, aizzando la gang di naziskin e incitandoli a “ripulire le strade”. Il passo successivo può essere l’utilizzo della stessa gang nel servizio d’ordine durante comizi e manifestazioni, ma questo è un percorso segnato, che sbocca sempre nell’allontanamento o nell’espulsione dal partito, accompagnato da commenti classisti molto interessanti e rivelatori. Sono teppisti. Non possono essere educati. Con questi ci vuole il guinzaglio. Il muro di classe è invalicabile, insomma, come si vede chiaramente in una scena del film Un Français: il giovane, proletario, protagonista neonazi, entra nella casa di un ricco sostenitore del Front National, piena di fascisti d’alto bordo, con i quali non ha proprio niente in comune. Dovrebbe essere lotta di classe, diventa invece un improbabile gemellaggio. Che come abbiamo detto non dura, non può durare. Un Français è anche il primo film francese a entrare nella galassia neonazista; è uscito nel 2015, scatenando fin dal trailer una campagna d’odio su internet che portò anche a minacce per i gestori delle sale cinematografiche. Era prevedibile, perché mette in scena in maniera chiarissima l’impatto del Front National sulle classi popolari, partendo dai primi anni Ottanta fino all’anno d’uscita del film, quando è ormai diventato il terzo partito francese.

C’è un altro punto fondamentale, in questo codice immaginario e condiviso: l’estremista di destra violento, esaltato, criminale, con la testa rasata e la svastica (o le parole White Power) tatuata sul corpo, viene etichettato indifferentemente come nazista o fascista. Fascista o nazista. Come del resto succede negli articoli di giornali o libri pubblicati fuori dal territorio italiano. Evidentemente la favola mistificatoria, tutta italiana, sulle presunte differenze tra le due “ideologie” (che nelle sue infinite varianti prosegue dal secondo dopoguerra), su un fascismo buono che viene corrotto da un nazismo cattivo, non convince autori e platee internazionali.

In Italia, invece, vi imbattete in una voragine nell’immaginario visivo, in qualche modo parallela alla reticenza dei media nel pronunciare o scrivere «la parola con la F». In maniera piuttosto netta scrivete che «ad oggi non esiste, in Italia, un film di fiction che abbia per protagonista un giovane neofascista. O anche uno vecchio». Al punto che gli stessi neofascisti, in cerca di autorappresentazione, si rivolgerebbero a un cinema di tutt’altro genere. Questo almeno per quanto riguarda il cinema, e si tratta già di un’assenza pesantissima. Ma visto che la vostra scorribanda riguarda anche i documentari, come siamo messi in quel campo? Penso a lavori come  Nazirock, di Claudio Lazzaro, o allo speciale della trasmissione Primo Piano, intitolato Nero è bello, a cura di Giampiero Mughini (!), mandato in onda nel dicembre 1980, quattro mesi dopo la strage del 2 agosto alla stazione di Bologna. 

Il caso di Nazirock è esemplare, ci ricorda il famoso giornalismo embedded, quello dei reporter in prima linea. Claudio Lazzaro viaggia nella galassia umana orbitante intorno a Forza Nuova. L’occasione è l’adunata del centrodestra del 2006, due milioni di persone convenute a Roma a tributare l’ennesimo saluto a Berlusconi, nell’ansia veemente della defenestrazione di Prodi. E tra loro, non pochi per «saluto» intendevano quello romano.  Nazirock coglie il momento di trasformazione, la transizione del pensiero e del linguaggio neofascista. Il documentario è del 2008: focalizzandoci sugli slogan utilizzati dai camerati musicanti, notiamo un florilegio di «Prima gli Italiani», «L’Italia agli Italiani», «Dio patria e famiglia». Non più, o non solo, i «Credere, obbedire, combattere», o i «Vincere, e vinceremo!». Una sloganistica chiaramente orientata a interpretare – manipolare – quel presente, scegliendo la leva su cui impostare il proselitismo del futuro.

Guardare Nazirock significa, a tutti gli effetti, guardare la nascita della Lega 4.0, quella che ha riproposto gli slogan di cui sopra, sdoganandoli presso l’opinione pubblica. Si potrebbe a proposito guardare Camicie Verdi – Bruciare il Tricolore, il documentario girato dallo stesso Lazzaro prima di Nazirock, che rappresentava la Lega secessionista nella campagna per il referendum sul federalismo amministrativo (la cosiddetta “Devolution”), del 2006. In quei tempi, i leghisti volevano marciare su Roma per marciare contro Roma, volevano, appunto, bruciare il tricolore o gettarlo nel cesso. Per i leghisti del 2006, Mussolini era stato «un grande statista padano»: queste le parole dell’onorevole Borghezio, il Caronte scelto da Lazzaro per guadare il fiume leghista. Borghezio, uno che si dichiara contiguo – “nel senso che mi stavano simpatici” – ai neofascisti di Ordine Nuovo, frequentatore dei comizi di Roberto Fiore di Forza Nuova, nel documentario dimostra di essere in piena transizione linguistica e politica, passando, senza soluzione di continuità, dal tradizionale odio verso i meridionali al furore razzista verso gli immigrati e verso l’Islam tutto.

Facciamo adesso un salto lungo dieci anni. E’ il 18 novembre 2018, Sky Atlantic manda in onda una puntata della serie «Il racconto del reale». La puntata si intitola: Crescere neofascisti – Viaggio all’interno dell’universo Lealtà Azione. Le telecamere, dirette dal regista Andrea Bettinetti, entrano per quattro mesi nella vita quotidiana di Lealtà Azione, sede di via Pareto, a Milano. Lealtà Azione è un’organizzazione della galassia neofascista italiana, nata proprio a Milano, nel 2010, con una mission tanto ambiziosa quanto pericolosa, quella di (de)formare le nuove generazioni.

Le immagini della sede di via Pareto – nude e crude, secondo la velleità di Sky –, mostrano busti e bustini del duce, aneddoti e massime vergate un po’ ovunque, profluvi di icone da repertorio dell’estrema destra mondiale, con prevalenza dei simboli naziskin, in ossequio alla provenienza dei fondatori del gruppo. Per circa 50 minuti le telecamere mostrano l’organizzazione e la vita di militanza al suo interno, dalle collette alimentari alle commemorazioni di vittime degli Anni di piombo, dal proselitismo alla pulizia del cimitero dei repubblichini. Il simbolo di Lealtà Azione è un lupo che ulula, e i suoi militanti sembrano, a prima vista, non aggressivi come lupi, ma altrettanto astuti e famelici. Intervistati, ripetono il mantra del mondo allo sfascio, del degrado dei valori e dei costumi, degli Italiani discriminati sul loro stesso suolo patrio. Intervistati più a fondo, si dichiarano sovranisti, perché il fascismo è roba antica, da ripetere nelle cose buone che ha fatto ma non negli errori. Ascoltati ai comizi, si dichiarano razzisti, antiabortisti, omofobi.

Ascoltati in adunanza e ai pubblici concerti, urlano che vedono «solo una bandiera nera, sventolare sull’Italia intera». La minaccia, il terrore sapientemente illustrato da Bettinetti non sta tanto nei contenuti, quanto nella logica: Lealtà Azione è una realtà che appare operativa, articolata, efficientissima. Ha pochezza d’argomenti ma chiarezza di intenti, spande fumo sulla propria natura vendendo il fumo della demagogia, delle nuove paure, cavalcando un disagio che tuttavia sembra rabbia e invidia sociale, più che indigenza. Quando i militanti di Lealtà Azione, divisione CooperAzione, consegnano i pacchi della raccolta alimentare, entrano in case ben arredate, comunque più che decorose, in stabili popolari ma non cadenti. Inquietante, allora, è anche la rappresentazione di un nascente legame tra una piccola borghesia arraffona, spiazzata dalla crisi economica, e una piccola orda di gente disposta a strumentalizzarne la cupidigia per fare politica, o «meta politica», come dice uno dei capataz leali e attivi.

A seguito della prima messa in onda sono esplose le polemiche. Parte della stampa ha accusato Bettinetti e Sky di essersi resi complici della divulgazione, di aver fatto propaganda. Polemiche che hanno avuto come ovvio effetto la rimozione. Dopo sette giorni dalla prima messa in onda, il documentario è sparito dai palinsesti Sky, neppure le repliche già programmate sono andate in onda. Sky non ha risposto alle nostre richieste di visionare il documentario per inserirne un’analisi ne Lo Specchio Nero. Una reticenza simile l’ha dimostrata Bettinetti, il quale ci ha detto di non essere idoneo a rilasciare interviste, in quanto non titolare dei diritti di fruizione dell’opera. Nessuna traccia del titolo nell’elenco di produzioni della Good Day Films, di Michele Bongiorno, su Vimeo. Crescere Neofascisti è stato così relegato nell’ombra, sul portale di Sky è un link che rimanda a una pagina di errore.

Il fatto preoccupante è che la stessa Lealtà Azione si fregi del documentario, con un link sul proprio sito ufficiale. Il link rimanda a un video su Youtube, dove, con sorpresa grandissima, si può guardare il prodotto Sky sic et simpliciter, per intero! A parte questo, Lealtà e Azione evidentemente lo propone perché in esso si rispecchia, si mira e si rimira, agevolata dalla mancanza di contraddittorio. La rappresentazione infatti lambisce, pur non volendo, il terreno della propaganda: mettere in primo piano, senza filtro, protagonisti giovanissimi, può indurre gli spettatori a sviluppare empatia e immedesimazione. Occorre, insomma, un sufficiente grado di consapevolezza per giudicare le immagini in modo corretto, e non è detto che il target cui si rivolge Sky Atlantic lo possegga.

Al di là di queste perplessità, Crescere Neofascisti ha comunque il merito di aver illuminato, pur se in maniera maldestra, un’altra zona d’ombra, quella dell’associazionismo neofascista al di fuori della comfort zone di Roma Capitale e delle sue Casa Pound.

Se lo sguardo dei cineasti italiani sui neofascisti è quantomeno riluttante, trovo molto interessante la vostra lettura del film “Piazza Vittorio”, dove lo statunitense Abel Ferrara mette davanti alla macchina da presa i fascisti di Casapound. L’occhio di un regista straniero riesce a cogliere dettagli “mai visti”?

Piazza Vittorio è uno strambo oggetto visuale non identificato, che parla di periferie nel pieno centro di una capitale, di multiculturalità ineluttabile e necessaria. Abel Ferrara, che è un migrante e un regista, non certo un giornalista, non deve spiegare o giustificare alcunché, non deve seguire regole dettate dagli altri. E così fa la cosa giusta, schiacciando la famigerata intervista tra i festeggiamenti con i quali gli ecuadoriani omaggiano il sole, e i canti senza tempo dei griots, i cantastorie africani. Scelte di montaggio che sono sufficienti a ridimensionare tutto il movimento di Casapound e la sua presunta modernità: Piazza Vittorio è il futuro, inevitabile e stimolante, una sfida continua ed eccitante; Casapound è il passato, tetro e fuori tempo massimo, che non ha spazio nell’avvenire.
Sono piovute addosso a Ferrara una marea di critiche e accuse e polemiche: hai fatto uno spot elettorale per i fascisti, con la tua ignoranza e incompetenza nel trattare la materia hai dipinto la sede di Casapound come unico presidio culturale del quartiere Esquilino. Nessuna obiezione, nessun contraddittorio. Al contrario, i dieci minuti “inside Casapound” sono illuminanti e rivelatori, e crediamo valga la pena riportarne un paio di estratti:

«In Italia non ci sono lavori che gli italiani non vogliono fare. Ci sono salari e tipologie di contratto che gli italiani non possono più accettare. Cioè, noi abbiamo fatto delle rivoluzioni qui per avere un certo salario minimo, per avere le vacanze, la maternità, la malattia, la pensione, per avere tutta una serie di benefit per i quali i nostri padri hanno lottato. Mentre invece questa manodopera a basso costo che l’Europa sta importando è una manodopera che abbassa le condizioni minime, sociali, sindacali e di stipendio poi di tutti i lavoratori. Come è stato teorizzato anche da Marx, tra l’altro.»

E ancora:

«Ci troviamo di fronte ad un fenomeno globale di flussi migratori, che noi chiamiamo grande sostituzione. E’ il nuovo capitalismo: si continua a colonizzare, anche se non con gli eserciti. […] In realtà, il popolo italiano e quelli europei hanno lo stesso nemico dei popoli africani e asiatici. Gli stessi che tengono sotto scacco i popoli italiani ed europei sono quelli che non permettono lo sviluppo in Africa. Quindi riappropriarsi della sovranità per noi europei e per gli africani in Africa garantirebbe uno sviluppo diverso. […] Se non c’è un cambiamento radicale, questo processo si accentuerà sempre di più. Le statistiche dicono che verremo completamente sostituiti nel giro di cinquant’anni: il popolo italiano non esisterà più.»

Come avete scritto più volte qui su Giap, la retorica e lo stile comunicativo delle neodestre si sono evoluti, si appropriano – almeno a parole – delle battaglie che sono alla base dello Statuto dei lavoratori. La ricerca del consenso popolare è l’unico obiettivo; e allora va bene citare Marx, Che Guevara, l’antimperialismo. Le case occupate, i manifesti nei quali Equitalia è rappresentata come un vampiro, il sostegno materiale alle famiglie in difficoltà – purché italianissime. Pescano dal menu del fascismo storico con attenta strategia, camuffando violenza e razzismo.

E quindi sì, ci voleva un regista statunitense e migrante per rappresentare l’identità più reale e profonda di Casapound. Forse è arrivato il momento di smettere di preoccuparci dell’impatto che possono avere determinate immagini o parole sulla “gente”: l’antifascismo è una cosa, il catechismo è un’altra.

Per un regista straniero che guarda ai neofascismi di casa nostra, c’è un cantante di casa nostra che inquadra – forse senza vederlo – il nostro fascismo a casa degli altri. Mi riferisco al videoclip della canzone Chiaro di Luna di Jovanotti, girato per le vie di Asmara. Voi lo definite un esempio di «neofascismo neomelodico». Il testo parla d’amore, senza riferimenti al luogo, ovvero la capitale della prima colonia italiana in Africa. In che senso anche questo lavoro ha a che fare con l’assenza di neofascisti sugli schermi italiani?

Abbiamo dibattuto a lungo se includere Chiaro di Luna nel nostro saggio, e alla fine ne abbiamo fatto una menzione piuttosto fugace. E’ successo poi che parlandone, nel corso di numerosi incontri con i lettori, guardandolo e riguardandolo, abbiamo capito che faceva al caso nostro, eccome!

E’ forse l’avanguardia delle rappresentazioni post-neofasciste, un’inaspettata piega del pensiero nazional popolare, che si rifugia – a sua insaputa? – in simboli e vestigia di un passato inglorioso.

Il videoclip: Jovanotti, improvvisato chansonnier bianco, canta e suona e dà a ballare ad una coppia di giovani belli, neri di pelle. Sono nel foyer di un cinema-teatro, Roma si chiama, Roma è scritto cubitale, in font littorio, sul frontone. Il luogo è l’Asmara di oggi, brulicante di vita, frenetica eppure placida. Nel fluire delle immagini, spicca la carrellata riservata ai luoghi più suggestivi. Fiat Tagliero, la stazione di benzina costruita nel 1938. Una sala da barba, risalente allo stesso periodo coloniale, come da insegna. E il cinema Roma, appunto. Guardiamo Asmara e sembra Roma, la Roma del Ventennio. Per contrasto, Chiaro di Luna è una canzone d’amore senza riferimenti al luogo, all’ideologia, all’architettura che è intrinsecamente politica, e che nella fattispecie è memento di schiavitù e morte. Jovanotti non fa accenni all’Eritrea reale. In Eritrea vige la dittatura di Afewerki, dal 1993. Nessun riferimento.

Il piano regolatore del 1908 divideva Asmara in 4 zone separate: europea, indigena, mista e industriale.

Nelle interviste rilasciate per il lancio del videoclip, Jovanotti ha enfatizzato la collaborazione con Yonas Tesfamichael, videomaker eritreo con un passato professionale a Milano, poi tornato in patria: “I ragazzi non scappano se trovano opportunità e maggiori spazi di lavoro, sono orgogliosi di starci o di tornarci. Proprio come Yonas, un giovane eritreo esperto di video che ci ha fatto il backstage e che ha deciso di recente di tornare dall’Italia ad Asmara con sua moglie e sua figlia”(virgolettato di Jovanotti pubblicato su diversi siti di musica e informazione nel novembre 2018).

Lo abbiamo cercato sui social: Yonas ha una produzione copiosa di post in cui parla dell’Eritrea come una sorta di best place to live in, gente che sorride, paesaggi, rinascita e varia amenità. Abbiamo provato a chiedergli, attraverso commenti ad alcuni post su Facebook, cosa ne pensa dell’assenza di democrazia, ma non ci ha risposto, o meglio, ci ha risposto insinuando che i rapporti di Amnesty International, sulla violazione dei diritti umani in Eritrea, siano, né più né meno, fake news. Al suo profilo personale era poi collegata una pagina, dal nome Yonas, in cui si insinuava che l’emigrazione di massa degli Africani in Italia avvenisse per colpa di Saviano e delle sinistre, ree di costruire un’immagine ingannevole dell’Occidente, a scapito del faticoso lavoro di ricostruzione posto in essere dai governi locali. Arrivava, Yonas, a definire “trafficanti” quelli delle ONG, e poi, spingendosi oltre l’estremo, attaccava John Lennon e la sua Imagine. “Chi sogna un mondo senza confini è sostanzialmente un colonialista in borghese, a volte consapevole, a volte inconsapevole!”.

Siamo palesemente davanti ad un linguaggio sovranista, nella fattispecie sovranista eritreo. E’ evidente il tentativo di propinare all’Occidente, all’Italia, l’immagine di un’Eritrea di cartapesta, dove i nostri sovranisti d’antan, i fascisti, hanno fatto anche cose buone, buone ancora oggi. Incalzato sul tema dai membri di Eritrea democratica, dissidenti del regime di Afewerki, Jovanotti non ha preso una posizione ufficiale. Risultano solo alcuni suoi virgolettati, riportati dal sito tpi.it, in risposta alle accuse che gli ha mosso Domenico Quirico su La Stampa. «Le ragioni che mi hanno spinto a girare in Eritrea sono di natura artistica, ma tengono conto anche del contesto sociale: non ci sono andato con leggerezza o peggio ancora con intenzioni negazioniste», si legge tra le altre cose. In occasione del lancio del videoclip, Jovanotti dichiarava, ripreso da numerosi media e siti web di voler ambientare ad Asmara «un racconto visivo in un luogo che evocasse suggestioni precise adatte alla mia canzone». Su Jova.tv, leggiamo ulteriormente la sua dichiarazione di intenti: «Asmara è un assurdo, stranissimo, bellissimo posto, che da noi è come un rimosso collettivo ma mi ha toccato il cuore. Come fece con mio nonno, che si chiamava come me, in un altro tempo, con altri desideri, in un mondo così diverso ma dal futuro altrettanto imprevedibile».

Nulla si crea, nulla si capisce, tutto si trasforma. Il fascismo e il colonialismo diventano parti integranti, accettate, benefiche di un presente che viene descritto come suggestivo, foriero di rosei futuri, anche grazie a nonni e bisnonni che volevano solo lavorare e vivere in pace, e pazienza se portavano pogrom e schiavitù e madamato. Revisionismo 4.0.

Se volessimo riassumere i vostri ritrovamenti in un concetto soltanto, potremmo dire che l’Italia sconta una mancata rappresentazione del neofascismo che invece non si ritrova negli altri paesi dove movimenti neofascisti e neonazisti sono presenti nella società. Più in generale, però, il cinema italiano è tutto sforacchiato da buchi simili, ogni volta che si toccano questioni del passato. Film sulla Resistenza? Mica tanti. Sul colonialismo? Pochini. Sul fascismo? Una manciata. D’accordo che il vostro soggetto d’indagine – il neofascismo – non appartiene per nulla al passato, anche se gli si lega fin dal nome. Tuttavia, non credete che l’assenza da voi rilevata sia parte di questo più generale silenzio su alcuni momenti controversi della storia patria? O invece avete scovato qualcosa di più peculiare, che la contraddistingue?

Certo, la censura e l’autocensura (ancora più odiosa) dei cineasti italiani sui conflitti interni – o sulle combustioni interne – non è solo scandalosa. E’ anche vecchia, datata, più antica dei primi tagli imposti per legge sulle pellicole (1913). Se i film sulla Resistenza sono pochi, ancora meno sono le opere come Achtung, Banditi!, nel quale è visibile, caso raro, l’unità tra i partigiani combattenti e gli operai delle fabbriche. Aggiungiamoci anche la stagione della lotta armata: i film che trattano l’argomento si dividono in due, o sono deprimenti e cimiteriali a prescindere, o raccontano storie parallele (lo splendido Arrivederci, Amore Ciao su tutti) e contigue, senza affondare il colpo. Sarebbe impensabile, da noi, un film come La Banda Baader Meinhof (basta pensare alle polemiche su La Prima Linea, cominciate prima ancora che Renato De Maria iniziasse le riprese). Perché?

Per la censura produttiva, sicuramente. Per le scorie del devastante ventennio berlusconiano, anche. Per le mosse allucinanti del PD, delle quali avete ampiamente parlato su Giap. Ma anche prima, prima addirittura del famigerato discorso di Violante del 1996, i film calati nelle pagine controverse della storia d’Italia sono stati pochissimi. Tornando agli ultimi vent’anni, la lacuna diventa ancora più evidente se consideriamo l’attenzione che è stata invece riservata alla periferia urbana, naturalmente culla dei neofascismi, ma che sullo schermo è stata rappresentata in chiave puramente criminale (con risultati splendidi e di genere) o attraverso storie di (de)formazione, di famiglie disfunzionali, di adolescenti disadattati. I fascisti non esistono. Sembra una fatwah autoimposta, e parecchio inquietante. Una limitazione al proprio e all’altrui sguardo.

Alcuni, quelli che hanno provato a buttare il neofascismo in farsa (Luca Miniero, Sono Tornato, 2018), o in commedia (Paolo Virzì, Caterina Va in Città, 2003), sono stati attaccati da una pletora di farisei, dileggiati nel metodo e nel merito. Altri, come pionieri, come cani sciolti, hanno provato a dare testimonianza in altre forme: Daniele Gaglianone (I nostri anni, 2000 ma anche Dove bisogna stare, 2019), Luca Guadagnino (Inconscio Italiano, 2011), Luna Gualano (Go Home, 2018). Guadagnino in particolare, come altri storici e documentaristi, ha cercato di far luce sulla radice del razzismo italiano: la colpa ereditaria incancellabile del colonialismo, e in particolare di quello fascista. Il colonialismo resta, ancora oggi, uno dei lati meno indagati del fascismo, i documenti sono pochi e mostrati con reticenza. È nelle piaghe suppuranti del colonialismo che si origina l’odio attuale, il razzismo trasversale verso gli immigrati. Spicca quindi ancora di più Go Home, di Luna Gualano: un oggetto filmico nato dal basso, nel quale ci sono i neofascisti protagonisti, e come se non bastasse ci sono gli zombi! Zombi latitanti nel cinema italiano da trent’anni. Il genere horror utilizzato in chiave politica, netta, dicotomica. Con tutti i suoi limiti, Go Home è un film pieno di senso, antifascista, di genere. Come piace a noi. Ma si tratta, purtroppo, di una splendida eccezione.

* Dikotomiko è un micro-collettivo composto da Massimiliano Martiradonna e Mirco Moretti, ultraquarantenni, non più giovani, anzi, reduci. Dikotomiko, uno e bino, nasce come blog antagonista web e social, tra i vibrioni e la polvere di uno scaffale, nello spazio angusto e umido di un’edicola di giornali, prossima allo sbaracco. Mirco Moretti, l’edicolante, e Massimiliano Martiradonna, il cliente. In comune una certa idea di cinema, fiumi di parole e fiumi di visioni.

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

14 commenti su “Lo specchio nero. A caccia di neofascisti sugli schermi d’Italia.

  1. Sul rapporto neofascisti-zombi mi permetto di segnalare la puntata “La fine del mondo” della serie di Coliandro (sesta stagione). L’ambientazione è a Goro (quella dei fattacci del 2016), c’è una ruspa (richiamo evidente al salvinismo); c’è un vecchio manovratore (della ‘ndrangheta) e i fascio-zombi. Non ho visto il film della Gualano e quindi non faccio parallelismi “ad minchiam”. Né ho visto il documentario di Ferrara: vivendo e militando in quel di Piazza Vittorio sono incuriosito e questa interpretazione “l’antifascismo è una cosa, il catechismo è un’altra” mi convince. Così pure il documentario di Mughini è ora un documento importante. Conoscere il nemico meglio del nemico stesso, diceva un tale.

  2. Grazie per la segnalazione, cercheremo subito di recuperare l’episodio di Coliandro (sarebbe finito certamente nel libro, a giudicare da come ne parli). Dopo la visione di Piazza Vittorio facci sapere cosa ne pensi, ovviamente.

  3. Liquidare in termini di «perplessità» il fatto che il documentario di Bettinetti sui fascisti venga utilizzato dagli stessi fascisti come spot sul loro sito ufficiale mi sembra un tantino limitativo. Se gli piace così tanto, evidentemente li presenta così come vogliono essere visti – e quindi è effettivamente propaganda, anche se involontaria.
    Non ho mai capito fino in fondo l’utilità di «Nazirock» (forse anche a causa di una frase di Lazzaro che dichiarò in un’intervista «Io con questi giovani ci voglio parlare»…), ma ricordo che quando uscì i fascisti in più occasioni minacciarono le sale che lo mettevano in cartellone: quindi evidentemente ciò che vedevano non gli piaceva.
    E tutto sommato, non credo che lavori di questo genere abbiano molta rilevanza o utilità in una prospettiva antifascista.

  4. Il commento qui sopra conferma,suo malgrado, la necessità di indagare questo difetto di rappresentazione dei neofascismi sugli schermi, e di come questo difetto sia in parte ascrivibile ad una malintesa e opinabile ortodossia antifascista. Guardare l’abisso significa esplorarlo per conoscerlo,per contrastarlo, non per perdercisi dentro. Nazirock, ad esempio: fosse stato difeso e diffuso su scala più larga, avrebbe sicuramente impedito, o ritardato, la normalizzazione di CP, FN e Lega. Lazzaro, sopra accusato a vanvera, è tuttora un invischiato in numerosi processi intentatigli contro dai neofascisti. Quanto al documentario di Bettinetti, è effettivamente un’opera sì controversa, ma unica nel suo genere, davanti alla quale il nostro atteggiamento resta laico, ma non agnostico. Non bisogna mai chiudere gli occhi per paura di vedere

    • Il «commento qui sopra» (cioè il mio) si limita a esporre delle opinioni.
      Dove esattamente manifesterebbe «una malintesa e opinabile ortodossia antifascista» rimane per me un mistero.
      Non ho «accusato» Lazzaro di niente: mi sono limitato a citare una frase da lui detta in un’intervista trasmessa all’epoca da Radio Popolare, frase che mi lasciò perplesso allora e che continuo a non condividere: una mia opinione, appunto.
      Siete liberi di non condividerla, ma per favore evitate di deformarla.

      • Allora, partiamo dalla fine. Quando tu scrivi:”E tutto sommato, non credo che lavori di questo genere abbiano molta rilevanza o utilità in una prospettiva antifascista.”, evidentemente ti fai assertore di una sedicente ortodossia antifascista; in questo caso esprimi un giudizio soggettivo, del quale resti liberissimo padrone, ma lo trasfiguri in funzione di una presunta utilità ad una non meglio codificata prospettiva.
        Quanto a Lazzaro, credo ti sia facile comprendere che una frasetta virgolettata, estrapolata a quanto dici da un audio, decontestualizzata, faccia sembrare quantomeno eccentrico l’urgente tentativo, proprio di Lazzaro ma anche de Lo Specchio Nero, di documentare, illuminare, rischiarare l’ombra, e quindi, alla fine, di stanare. Credo siamo concordi sul fatto che sarebbe meglio se i neofascisti non esistessero. Purtroppo esistono, sono proteiformi, e fanno proseliti.

        • Scusate, però: se io avessi scritto «questo non è antifascismo! l’antifascismo “vero” si fa così e cosà», allora potreste accusarmi di «ortodossia antifascista».
          Solo che non l’ho scritto (e questo è un fatto) e non lo penso (e a questo potete anche non credere).
          Io, senza farmi assertore di niente e senza trasfigurare nulla, mi sono limitato a esprimere la mia scarsa fiducia personale nell’utilità di questi documentari come strumento di contrasto al fascismo (spero che questo «codifichi» meglio la prospettiva antifascista a cui mi riferivo), e questo al di là delle intenzioni di chi li realizza.
          Intenzioni che peraltro mi appaiono chiare e per niente sospette nel caso di Lazzaro (di cui pure continuo a non condividere l’idea, da lui espressa in quell’intervista, che si debba dialogare con i fascisti; ed è ovvio che nell’intervista non ha detto soltanto quella frase, solo che non ritenevo necessario specificarlo), mentre nel caso di Bettinetti non ho idea di quali fossero, e quindi non ho un’opinione in merito. Ripeto: il suo documentario non l’ho visto, ma se ai fascisti è piaciuto tanto da indurli a usarlo come spot, è legittimo che mi sorga qualche dubbio sulla sua utilità nello «stanare» i fascisti stessi.

  5. Tra il documentario di Lazzaro e quello di Bettinetti sono passati 10 anni. In questa decade si è andata completando la normalizzazione dei neofascisti, cominciata da Berlusconi e proseguita da forze politiche bipartisan e, ovviamente, i media. Nel saggio analizziamo, in quest’ottica, il ruolo chiave della Mussolini nella videocrazia. La normalizzazione, unita al più bieco revisionismo, ha di fatto mutato la stessa percezione che i neofascisti sembrano avere di se stessi. Oggi sono temerari, sfacciati, si appellano alla democrazia affinché sia tutelata la loro libertà di pensiero ed espressione. Per paradosso, se Nazirock uscisse oggi, FN e CP se ne fregerebbero e se ne crogiuolerebbero. Abbiamo rivolto la tua legittima domanda, sull’utilità dei doc, a Lazzaro, condivideremo qui la sua risposta. Intanto grazie mille per l’attenzione e gli interrogativi maieutici!

  6. Allo scopo di estendere il dibattito, sui motivi e sull’utilità di indagare le rappresentazioni sovraniste, abbiamo interpellato Claudio Lazzaro, l’autore di Nazirock. Riportiamo integralmente la sua risposta. “Sono nato nel 1944, sotto le bombe. Mia madre correva con me dentro la pancia per raggiungere il rifugio, mentre i grappoli neri sganciati dagli aerei oscuravano il cielo. Quella guerra costò più di 50 milioni di morti, la maggior parte civili, e portò il genere umano oltre l’orlo dell’abisso, con lo sterminio di massa, organizzato come in fabbrica, di un popolo intero, sei milioni di ebrei.
    Per quelli come me, cresciuti nel dopoguerra, chi aveva dato inizio alle ostilità invadendo i paesi vicini e aveva la responsabilità di quel massacro, si era consegnato alla pattumiera della storia. Hitler e Mussolini, con la loro ricerca dello spazio vitale e i loro deliri sulla supremazia di una razza che deve dominare le altre, sono stati i responsabili, totalmente consapevoli, della più grande tragedia dell’umanità.
    Noi siamo cresciuti dando per scontato che tutti, o quasi tutti, avessero capito la lezione impartita dal 900.
    Invece eccoci, nel terzo millennio, a scoprire che esistono ragazzi affascinati dai simboli e dalle parole d’ordine del nazifascismo, che fanno raduni a braccio teso. Non reduci nostalgici o vecchie cariatidi, ma giovani che dovrebbero rappresentare il nostro futuro.
    A quel punto voglio capire. Com’è possibile? Chi li sta manipolando?
    Così inizia l’avventura di questo film. Non per puntare il dito contro questi giovani, ma per capire dall’interno il loro percorso, così pericolosamente sbagliato.
    Prima di iniziare le riprese mi sono chiesto: a chi voglio parlare? Chiaramente ai giovani, mi sono detto, perché quelli della mia generazione certe cose le sanno, le hanno sentite raccontare in famiglia. Quindi devo trovare un linguaggio che attiri le nuove generazioni.
    Non a caso i gruppi della destra estrema, come Forza Nuova, usano le band sgangherate del “rock identitario” per diffondere testi e contenuti funzionali al messaggio che vogliono diffondere. E i leader di quelle stesse band a volte vengono candidati alle regionali e alle politiche.
    Ho capito allora che avrei potuto fare il film solo se fossi riuscito a filmare quei concerti. Missione impossibile, ma portata a termine, grazie a trent’anni d’esperienza giornalistica.
    Poi attorno ai concerti, che mostrano una realtà mai vista e nello stesso tempo danno il giusto ritmo al racconto, ho montato tutto quello che serviva per raccontare non solo il fascismo del passato, ma quello possibile, in divenire, che facilitato dalle censure e dalle rimozioni può mettere a rischio il sistema democratico.
    Nel film c’è un intero arco di storia, da Hitler e Mussolini, ai protagonisti del terrorismo nero degli anni 60 e 70 in combutta con golpisti e servizi segreti, fino allo sdoganamento politico dei movimenti della destra estrema (perfino di quelli che negano la realtà storica delle camere a gas) operato da Silvio Berlusconi.
    Per questo Nazirock ha dato fastidio. Perché, anche se le minacce ne hanno impedito la distribuzione nei cinema, è stato visto e dibattuto in centinaia di eventi, nelle scuole, nei circoli Anpi e Arci, proiettato nei canali Sky, diffuso in rete, distribuito nelle librerie, dove si trova ancora.
    Naturalmente me l’hanno fatta pagare, portandomi otto volte in tribunale con accuse sfacciatamente pretestuose (per un procedimento devo ancora affrontare la Cassazione) e mandandomi al tappeto con le parcelle degli avvocati (anche quando vinci devi pagare le tue spese legali). Mi hanno minacciato, mi hanno distrutto il lavoro con attacchi hacker, in pratica mi hanno reso la vita impossibile. Insomma ho vissuto sulla mia pelle il paradosso che io chiamo “dell’inesistenza del fascismo in Italia”. Mi spiego. In Italia si dice che il fascismo non è un problema, si tende a minimizzare, come se parlarne fosse divisivo. Anche gli intellettuali si adeguano a questa linea. Vicari fa un film sulla Diaz senza raccontare che i poliziotti, in quella scuola, nel 2001 a Genova, obbligavano i ragazzi a cantare faccetta nera alzando il braccio nel saluto romano, altrimenti giù botte. Insomma erano poliziotti fascisti che si divertivano a torturare ragazzi di sinistra. Giordana fa un film sulla strage del 12 dicembre 1969 a Milano, inventandosi che le bombe erano due, una di destra e una di sinistra, così stiamo tranquilli e la smettiamo di litigare. Sky manda in onda il documentario di Bettinetti, che non ho visto, ma se devo credere a un giornalista esperto come Paolo Berizzi, racconta quelli di Lealtà e Azione, braccio giovanile dei fascisti di CasaPound, come fossero boy scouts.
    Insomma, basta polemiche sul passato, pensiamo al futuro.
    Ma allora, se il fascismo non esiste, se sono solo quattro ragazzi innocui, allora perché, quando uno fa un’inchiesta seria e approfondita sui quattro ragazzi, gli si scatena contro il pandemonio?”

  7. Chiarissima la risposta di Lazzaro; ringrazio lui per averla data, e voi per averla sollecitata.
    Approfitto per porvi un’altra domanda: come mai nel sottotitolo usate il termine «sovranismi», se il tema del libro è la «rappresentazione in video di neofascisti e neonazisti»? Considerate sinonimi questi tre termini?
    Il «sovranismo» non rischia di diventare una categoria-trappola tipo il «totalitarismo» (non a caso utilizzato di recente dal parlamento europeo per equiparare il comunismo e il nazismo)? Non rischia cioè di diventare una categoria utilizzata per bollare come nazifascismo qualsiasi opposizione all’UE, così come il totalitarismo viene utilizzato per bollare come nazifascismo tutte le forme di governo diverse dalla democrazia liberale capitalista?

    • Questa domanda, legittima, sembra però partire dalla premessa che il “sovranismo” sia nemico dell’ordoliberismo e della tecnocrazia UE, mentre tutti i partiti “sovranisti” che hanno avuto la chance di governare nei loro paesi hanno adottato o quantomeno proposto politiche pienamente compatibili con neoliberismo e ordoliberiamo – sovente con molto zelo, si veda la Lega, partito che ha sempre appoggiato ogni misura liberista – e con la tecnocrazia UE nemmeno uno come Orban è mai giunto a uno scontro reale. Il sovranismo non è altro che retorica, retorica sulla Patria, sulla Nazione, sui Confini e altri imbrogli e diversivi per incanalare il malcontento in direzioni innocue. Nel mercato delle idee che difendono il capitalismo, il sovranismo è solo un’altra gamma di prodotti “paghi uno, compri due”. Puoi acquistare un sovranismo e ti danno anche la sua versione “di sinistra”. Puoi addirittura indossarli insieme, uno sopra l’altro, la giacca rossa sulla camicia bruna, e fare la tua porca figura.

      • Al contrario! La mia premessa è proprio che il «sovranismo» sia tutt’altro che un nemico dell’ordoliberismo e della tecnocrazia UE.
        Non lo è affatto, come dimostrano gli esempi che citi.
        Però viene venduto come tale: sia dai «sovranisti» stessi, sia da alcuni opinionisti «europeisti» che, mi sembra, ne approfittano spesso per bollare di «sovranismo» chi, con posizioni, argomentazioni e obiettivi completamente diversi da quelli dei partiti in questione, ritiene realmente necessario lottare contro l’ordoliberismo e la tecnocrazia UE…

        • Ok, avevo capito male. Allora siamo d’accordo. Quel che dici è sistematicamente accaduto, soprattutto nell’informazione “liberal” italiana, quando l’anno scorso è iniziata la sollevazione dei Gilets Jaunes in Francia.

  8. Ha detto chiaro e forte WM1. Sovranismo è un guscio vuoto, una parola, un artificio retorico più attrattivo. Perfettamente scomponibile, sostituibile ad esempio con identitarismo. Quindi, neofascismo, o neonazismo. Ne Lo Specchio Nero illustriamo, attraverso le visioni, la trasformazione della propaganda e del linguaggio, lo sconfinamento linguistico e semantico operato dalle neodestre in territori nuovi e un tempo preclusi. I sovranismi sullo schermo, è la nostra provocazione.