Ronchi senza i legionari. Memorie di una città e di un nome che non la rappresenta

Ronchi dei Partigiani

Nicoletta Bourbaki parla del libro Ronchi dei Partigiani (KappaVu, Udine 2019). Clicca sulla foto per leggere la recensione.

Sei anni fa pubblicammo un articolo di Marco Barone intitolato Da Ronchi «dei Legionari» a Ronchi dei partigiani. Di cos’è il nome un nome? Il tema era tipico di Giap e delle nostre esplorazioni: il rapporto tra toponomastica e (sovente cattiva) memoria pubblica. Nello specifico, si parlava di un complemento di specificazione aggiunto in epoca fascista al nome di una città del Friuli-Venezia Giulia, Ronchi. Città da cui, per puro caso, nel 1919 era partita la spedizione di D’Annunzio verso Fiume.

Quel complemento  è rimasto come un fardello, a falsare la storia di Ronchi, città meticcia, proletaria, antifascista e partigiana. Città che rimase estranea alla cosiddetta «Impresa di Fiume» (non vi prese parte nessun ronchese), al razzismo antislavo che la permeava, all’imperialismo italiano del quale i «legionari» furono pattuglia d’avanscoperta.

Nel 2014 è partita una campagna per togliere l’imbarazzante suffisso e ribattezzare la città «Ronchi dei Partigiani». Wu Ming 1 ha raccontato questa storia nel suo Cent’anni a Nordest (Rizzoli, 2015). Ebbene, non solo la campagna è proseguita, ma negli ultimi tempi ha ripreso vigore. Il 2020 sarà un anno-chiave, come lo è stato il 2019. Il biennio, infatti, è segnato dall’imbarazzante centenario dell’occupazione di Fiume.

Non possiamo dire che nei mesi scorsi «se ne sono sentite di tutti i colori», perché è prevalso il solito miscuglio di due colori: rosso e bruno. Rossobrune, infatti, sono le rivalutazioni forzose di quell’exploit, sempre raccontato da un punto di vista italocentrico, con le consuete pezze d’appoggio di citazioni estrapolate e falsi storici: Gramsci che appoggiò l’impresa, gli anarchici che vi aderirono ecc.

Aspetti laterali di quell’episodio, o addirittura marginalissimi – yoga, nudismo, qualche foglio “underground” ante litteram – vengono ingigantiti e posti al centro delle ricostruzioni; ogni disclaimer iniziale è messo da parte e subito dimenticato; imperialismo e antislavismo scompaiono dal quadro e la continuità tra impresa fiumana e fascismo viene dispersa in un’aneddotica pseudo-rivoluzionaria al limite del controfattuale.

Il risultato? Fiume 1919 diventa «un’anticipazione del ’68 e del ’77». E per giustificare il collegamento forzato, quelle due stagioni di conflitto sociale vengono ancora una volta ridotte al loro cliché giornalistico, a meri fenomeni culturali e di costume, scoppi di vitalismo e giovanilismo, contestazioni “antiborghesi” in seno alla borghesia.

Per farla corta: viene eliminato ogni riferimento alla lotta di classe.

In Francia il ’68 si espresse in uno dei più grandi scioperi generali del Novecento. In Italia è inscindibile dal ’69, anno dell’«Autunno caldo» e della grande sollevazione operaia. Durante la «reggenza» di Fiume, invece, lo sciopero generale fu proclamato da un proletariato multietnico contro l’occupazione, la dittatura di D’Annunzio e l’italianizzazione forzata. Basterebbe questo, a rimarcare l’assurdità di certi parallelismi.

Ma il raziocinio, da solo, non può contrastare il mito. L’impresa di Fiume si impone come mito “ucronico” di un “sovversivismo” né fascista né antifascista. È il vagheggiamento di un sentiero interrotto, di una “terza via” che non ci fu ma potrebbe esserci.

Ronchi dei Partigiani è il necessario controcanto a questi deliri. E adesso è uscito un libro: un volume collettaneo a cura di Luca Meneghesso, edito da KappaVu e intitolato Ronchi dei Partigiani. Toponomastica, odonomastica e onomastica a Ronchi e nella “Venezia Giulia”.

Lo ha recensito per noi il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki.

Buona lettura.

 

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