Sei anni fa pubblicammo un articolo di Marco Barone intitolato Da Ronchi «dei Legionari» a Ronchi dei partigiani. Di cos’è il nome un nome? Il tema era tipico di Giap e delle nostre esplorazioni: il rapporto tra toponomastica e (sovente cattiva) memoria pubblica. Nello specifico, si parlava di un complemento di specificazione aggiunto in epoca fascista al nome di una città del Friuli-Venezia Giulia, Ronchi. Città da cui, per puro caso, nel 1919 era partita la spedizione di D’Annunzio verso Fiume.
Quel complemento è rimasto come un fardello, a falsare la storia di Ronchi, città meticcia, proletaria, antifascista e partigiana. Città che rimase estranea alla cosiddetta «Impresa di Fiume» (non vi prese parte nessun ronchese), al razzismo antislavo che la permeava, all’imperialismo italiano del quale i «legionari» furono pattuglia d’avanscoperta.
Nel 2014 è partita una campagna per togliere l’imbarazzante suffisso e ribattezzare la città «Ronchi dei Partigiani». Wu Ming 1 ha raccontato questa storia nel suo Cent’anni a Nordest (Rizzoli, 2015). Ebbene, non solo la campagna è proseguita, ma negli ultimi tempi ha ripreso vigore. Il 2020 sarà un anno-chiave, come lo è stato il 2019. Il biennio, infatti, è segnato dall’imbarazzante centenario dell’occupazione di Fiume.
Non possiamo dire che nei mesi scorsi «se ne sono sentite di tutti i colori», perché è prevalso il solito miscuglio di due colori: rosso e bruno. Rossobrune, infatti, sono le rivalutazioni forzose di quell’exploit, sempre raccontato da un punto di vista italocentrico, con le consuete pezze d’appoggio di citazioni estrapolate e falsi storici: Gramsci che appoggiò l’impresa, gli anarchici che vi aderirono ecc.
Aspetti laterali di quell’episodio, o addirittura marginalissimi – yoga, nudismo, qualche foglio “underground” ante litteram – vengono ingigantiti e posti al centro delle ricostruzioni; ogni disclaimer iniziale è messo da parte e subito dimenticato; imperialismo e antislavismo scompaiono dal quadro e la continuità tra impresa fiumana e fascismo viene dispersa in un’aneddotica pseudo-rivoluzionaria al limite del controfattuale.
Il risultato? Fiume 1919 diventa «un’anticipazione del ’68 e del ’77». E per giustificare il collegamento forzato, quelle due stagioni di conflitto sociale vengono ancora una volta ridotte al loro cliché giornalistico, a meri fenomeni culturali e di costume, scoppi di vitalismo e giovanilismo, contestazioni “antiborghesi” in seno alla borghesia.
Per farla corta: viene eliminato ogni riferimento alla lotta di classe.
In Francia il ’68 si espresse in uno dei più grandi scioperi generali del Novecento. In Italia è inscindibile dal ’69, anno dell’«Autunno caldo» e della grande sollevazione operaia. Durante la «reggenza» di Fiume, invece, lo sciopero generale fu proclamato da un proletariato multietnico contro l’occupazione, la dittatura di D’Annunzio e l’italianizzazione forzata. Basterebbe questo, a rimarcare l’assurdità di certi parallelismi.
Ma il raziocinio, da solo, non può contrastare il mito. L’impresa di Fiume si impone come mito “ucronico” di un “sovversivismo” né fascista né antifascista. È il vagheggiamento di un sentiero interrotto, di una “terza via” che non ci fu ma potrebbe esserci.
Ronchi dei Partigiani è il necessario controcanto a questi deliri. E adesso è uscito un libro: un volume collettaneo a cura di Luca Meneghesso, edito da KappaVu e intitolato Ronchi dei Partigiani. Toponomastica, odonomastica e onomastica a Ronchi e nella “Venezia Giulia”.
Lo ha recensito per noi il gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki.