[Da alcuni mesi la nostra complice di lungo corso Filomena «Filo» Sottile – romanziera e cantautora, militante No Tav e stand-up comedian transfemminista, nonché alpinista molotov e storica pilastra della Wu Ming Foundation – sta portando in giro per l’Italia Il decoro illustrato, monologo ispirato a La buona educazione degli oppressi, dirompente libro dell’altro nostro complice Wolf Bukowski.
Il decoro illustrato è stato il primissimo spettacolo messo in scena – seppure in forma ridotta e very low-fi – all’ex-caserma Sani di Bologna. Era il 16 novembre 2019, la sera dopo l’occupazione. Al Vag61 si svolgeva il festival Contrattacco, e per solidarietà si spostarono alcuni eventi, tra i quali IDI, nel gigantesco eppure affollatissimo nuovo spazio.
Proprio ieri, 16 gennaio 2020, la Sani è stata sgomberata. Per i poteri cittadini e non solo, questi due mesi di autogestione sono stati un affronto intollerabile. Un approfondimento sullo sgombero lo ha già fornito Wolf in questo commento che vale un post.
Avevamo già deciso di presentare su Giap lo spettacolo. Il testo di Filo inizia proprio da quella serata di novembre, e a leggerlo oggi è ancora più ricco di significati. Buona lettura. WM ]
di Filo Sottile *
Entro e ci sono centinaia di persone. Meno di un’ora dopo Wolf mi dirà:
– È bellissimo! Socialità pura, autogestita, spontanea, il solo gusto di condividere il tempo insieme.
Verissimo. Ma non è quello che ho pensato alle undici di sera di sabato 16 novembre, quando sono entrata alla ex caserma Sani, occupata il giorno precedente dalle persone di XM24.
Cerco di farmi largo nello stanzone enorme che si apre a sinistra. C’è un tizio che rappa laggiù in fondo, lo so perché le sue rime escono ovattate dall’impianto – insufficiente per l’ampiezza del locale – e perché ogni tanto, piccolissimo, appare, quando la folla che gli salta intorno prende il tempo giusto e si abbassa tutta insieme.
Stefano di Vag61 è un poco più avanti, regge il mio leggio e mi fa cenno di seguirlo.
Nella mia testa esplode la sfiducia: Cazzo, questa è la mia Waterloo.
Tanta sfiducia spesso è il contraltare della megalomania.
Ho la tentazione del dietrofront. Come posso fare uno spettacolo di un’ora e mezza in un tale casino? Qua la gente è in botta. Come li convinco ad ascoltarmi, a seguirmi, in un ragionamento, anzi nella prova aperta di un ragionamento? Come posso sopravvivere, io che sono abituata a fare tutto in acustico, a questa stanza gigante?
Arrivo dietro la consolle, poggio lo zaino a terra e comincio a tirare fuori il testo dello spettacolo. Nella testa mi ripeto la formula che mi serve a placare l’ansia che sempre mi piglia un minuto prima di andare in scena: Sono qui per divertirmi.
Ma stavolta non basta. Mi giro a guardare e ora sembra che le persone si siano decuplicate: saltano, cantano, si abbracciano. Come faccio?
Tiro fuori l’ukulele. SOL, DO, MI, LA. Sarà accordato? Boh. Chi lo sente?
Stefano mi aiuta a portare le cose davanti alla consolle. E mi indica al ragazzo che sta dietro al mixer.
– Di cosa hai bisogno?
– Una presa di corrente per la luce del leggio, un microfono per la voce e uno per l’ukulele.
Il semipanoramico fischia, anche lo Shure 57 fischia.
– Forse se proviamo a spostare le casse…
– No, aspetta, faccio senza.
– In che senso?
Nei due minuti che sono passati nel tentativo di far suonare l’ukulele, ho realizzato che devo fare un’altra cosa.
– Faccio senza ukulele.
Stefano mi si fa vicino:
– Ma sei sicura?
– Sicura.
E parto.
Apro con un’invocazione. Non alle muse, ma alle persone. E funziona. Quelle assiepate nei primi cinque metri si siedono. Annuncio che sto per fare una sintesi dello spettacolo in diretta, che mi sostengano. Parte un applauso. E poi mi lancio.
Un’ora dopo incontrerò la mia amica Leni che mi racconta che poco prima di entrare nello stanza dove mi esibisco chiede a una tipa che cosa stia accadendo lì.
– C’è un comizio.
E in effetti ho un po’ il piglio della sindacalista in piazza.
Di Il decoro illustrato viene fuori una sintesi futurista di circa mezz’ora, in cui alterno declamazione e canto da stadio. La versione di quella sera di Videosòpunk rimarrà a lungo, credo, nella mia memoria: a un certo punto, quando grido…
«Giorgia Meloni è grande, Giovanni Lindo Ferretti è il suo profeta!»
…mi devo fermare perché mi scendono le lacrime.
Chi se ne fotte di Waterloo. Non sono Napoleone, né una generalessa: faccio la punkastorie. Raccanto le mie storie laddove ne ho la possibilità (ovvero all’incrocio fra eventualità e desiderio), con i mezzi a mia disposizione in quel momento, nella maniera la più ecologica possibile– cioè in un tentativo di accordo con l’ambiente e gli esseri che lo occupano.
Il decoro illustrato in versione punk-Oi! mi pare abbia avuto la sua ragione d’essere. Io di sicuro mi sono divertita – e mi pare anche la gente intorno. Fortunatamente, tante volte, la vita scombina le nostre certezze.
Da allora lo spettacolo è andato in scena altre tre volte. Non è più una prova aperta, il testo è strutturato, anche se tutt’altro che definitivo. Per ora, è organizzato come una tragedia in cinque atti, introdotto da un prologo, punteggiato da quattro cori e chiuso da un epilogo. Più avanti, potrebbe assumere tutt’altra forma.
Da una parte il tema è rovente e ogni giorno la cronaca offre spunti per modifiche e integrazioni. Venerdì scorso mi sono esibita a Casa delle culture a Trieste, prima del mio spettacolo è andata in scena un’intensa performance di Wissal Houbabi. A fine serata Wissal e io ci siamo a lungo confrontate sui nostri lavori. Domenica, poche ore prima che iniziasse la mia esibizione al Magazzino 47 di Brescia, mi ha scritto per segnalarmi questa notizia. Non anticipo come, ma è il coronamento di uno dei ragionamenti che muovono il quarto atto. L’ho subito inserita, letta direttamente dallo smartphone.
Accadrà ancora e ancora. Come spiega molto bene Wolf Bukowski, il dispositivo del decoro è la forma assunta oggi dall’offensiva neoliberale e fascista, lo spettacolo parla di come questa offensiva trasformi le nostre città, i nostri territori, i nostri corpi, le nostre vite, quindi regge solo se continuamente integra nei suoi gangli il racconto di tali trasformazioni.
Dall’altra parte il tema è pervasivo e pieno di derive e di agganci. Per ora lo spettacolo dura un’ora e mezza, ma nel cassetto ne ho almeno altri tre quarti d’ora, non è tutto scarto, ci sono tre suite che mi stanno particolarmente a cuore: una sull’indecorosità dei corpi, una sulla gentrification e un approfondimento sull’architettura ostile. È tutto materiale ancora in cantiere. Nei prossimi mesi, quindi, è assai probabile che proprio nell’impianto e nei contenuti lo spettacolo muti parecchio, ed per questa ragione che nella copertina del libretto che ne raccoglie il copione ho scritto «Volume 0».
Perché uno spettacolo sul decoro?
Negli ultimi sedici mesi ho portato in giro La punk spiegata alla nonna, uno spettacolo in cui l’io narrante, il personaggio che occupa la scena, racconta all’ectoplasma di sua nonna – per necessità, per pareggiare i conti con il passato e immaginarsi un futuro – della sua devozione a una dea, la Punk, la cui nemesi si chiama invece la Decorosa. Quest’ultimo non è un nome estemporaneo: alla questione del decoro è completamente dedicato uno dei monologhi che struttura lo spettacolo – guarda caso la sezione che in questi mesi si è maggiormente prestata a mutare, ispirata dagli accidenti del luogo in cui mi esibivo e i capricci della cronaca.
La scorsa primavera è uscito La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro (Alegre, 2019) di Wolf Bukowski. Appena annunciato, ho scritto a Pietro De Vivo, un amico che lavora per Alegre, che quel titolo mi sembrava geniale. Il libro l’ho poi letto e riletto, sottolineato e appuntato, perché in poco più di centocinquanta pagine, con un scrittura dritta ed elegante, in maniera radicale e inappuntabile, traccia la genealogia di una delle parole d’ordine – un’idea senza parole, mutuando la categoria proposta nel 1979 da Furio Jesi in Cultura di destra – che maggiormente permea l’operato di governi e amministrazioni locali negli ultimi anni. La descrizione del dispositivo-decoro proposta da Wolf è la mappa che mi ha permesso di organizzare il materiale. Quindi, il ragionamento e alcuni passaggi del testo sono suoi e io li ho degradati a modo mio.
E ora basta. Si spalanchino i cancelli. Mi sono autonominata guida nella città decorosa. Seguitemi e vediamo poi se potete pagarvi il diritto di restarci.
* Filomena «Filo» Sottile vive in provincia di Torino.
È autrice di romanzi, saggi, canzoni, monologhi e di uno dei testi più belli nella storia di Giap: SI TRAV. Come la militanza #NoTav mi ha dato il coraggio di diventare me stessa (2018).
Filo collabora con noi dal 2011 e il suo aiuto è stato fondamentale nella stesura di almeno due libri: Point Lenana e Un viaggio che non promettiamo breve. È anche una delle voci di Alpinismo Molotov: per il blog di AM ha scritto un articolo sull’ailanto divenuto un piccolo “classico”, ed è stata sua la prima spinta a organizzare Diverso il suo rilievo, la festa di AM divenuta appuntamento annuale biennale [a proposito, il 2020 è l’anno buono, restate sintonizzat*].
Il blog di Filo è uno scrigno di gioiellini, ogni tanto dateci un’occhiata. I blog stanno rinascendo, disintossichiamoci da ‘sti cazzo di asocial. E se Filo passa per la vostra città, non perdete l’occasione.
Il decoro illustrato – le prossime date
24 gennaio 2020, Pianoterra, Milano
25 gennaio 2020, Laboratorio Autogestito Miccia, Asti
31 gennaio 2020, Molo di Lilith, Torino
21 febbraio 2020, Federazione anarchica Torinese, Torino
Il calendario prosegue qui.
N.B. Filo continua a portare in giro anche La punk spiegata alla nonna, ecco le date:
11 gennaio 2020, Affinità libertarie, Udine
20 marzo 2020, CSOA Spartaco, Roma
4 aprile 2020, Associazione Jaqulè, Volvera (TO)
La buona educazione degli oppressi – le prossime presentazioni
17 gennaio Roma, Spin Time Labs
18 gennaio Perugia, Vok presso ex-Balù
24 gennaio Alba, Cultura in Movimento
25 gennaio Milano, Piano Terra
Il calendario prosegue qui.
vedere citato Furio Jesi è sempre un bene, però sarebbe meglio evitare un equivoco che con Jesi accade spesso: il copyright dell’espressione “idee senza parole” non è di Jesi ma di Oswald Spengler. Jesi molto spesso non è una fonte primaria.
Sul finire degli anni ’70, mentre era a Palermo, Jesi curò insieme a Margherita Cottone e Rita Calabrese la traduzione de Il Tramonto dell’Occidente di Spengler, e in altre opere il mitologo torinese fornì degli esempi che chiarivano il concetto spengleriano di idee senza parole, che nella sua formulazione originaria recitava così:
«L’unica cosa che promette la saldezza dell’avvenire è quel retaggio
dei nostri padri che abbiamo nel sangue; idee senza parole».
(O. Spengler, Anni decisivi. La Germania e lo sviluppo storico mondiale, Bompiani, Milano 1934, p. 4).
Per Spengler le idee senza parole erano qualcosa di positivo, Jesi ne dimostra la pericolosità.
Inoltre mi permetto di fare notare che proprio nel brano citato di Cultura di Destra si sottolinea che l’accumulazione di simboli (come nel covo delle Br o nell’immagine che accompagna questo articolo) sia di per sè un retaggio della cultura di destra, cultura esoterica per iniziati che si nutre di simboli ben definiti. “è inutile e irragionevole scandalizzarsi della presenza di questi residui, ma è anche necessario interrogarsi da dove provengano”.
L’espressione «idee senza parole» non è il concetto di «idee senza parole». Per dirla alla Deleuze, prendendo l’espressione di Spengler Jesi produce un concetto che prima non c’era. Trasforma le «idee senza parole» in architrave della cultura di destra, e come dici, ne sviscera la tossicità. Per questo quando si usa l’espressione in quest’accezione, lo si fa citando la rilettura e – soprattutto – l’applicazione che ne fece Jesi, e gli sviluppi di quell’applicazione, anziché il mero apparire (acritico) dell’espressione in Spengler. È perfettamente legittimo, secondo me, e anche corretto, perché su questo piano Jesi non è affatto «fonte secondaria». Non si sta facendo della filologia sull’espressione «idee senza parole» ma della critica dell’ideologia sulle orme di Jesi. Non si sta sfoggiando erudizione su Jesi ma si usa ciò che è vitale nel suo lavoro e utile nella temperie odierna. Citando Jesi, poi, si permette a chiunque di leggerlo e ricostruire a ritroso il percorso che lo portò a scrivere Cultura di destra (e non solo, ovviamente).