Da alcune settimane, come annunciato nella seconda puntata de L’amore è fortissimo, il corpo no, stiamo lavorando a “depurare” Giap – per quanto ci sarà possibile – da link, bottoni, plugin, widget, “librerie” e pezzi di codice invasivi e lesivi della privacy di chi visita il blog.
Sono scelte politiche, e a tutta prima controintuitive se non “autolesioniste”, perché – così dice chi ci mette in guardia – potrebbero ridurre la circolazione dei nostri scritti e rendere più difficile la promozione delle nostre uscite editoriali e iniziative pubbliche.
Si tratta, in parole povere, di rinunciare a strumenti e servizi forniti da megacorporation della Silicon Valley.
Sono strumenti e servizi in apparenza gratuiti, ma che noi tutti paghiamo con il tracking, anzi, con il fracking delle nostre vite, col risucchio violento di dati al fine di estrarre valore dalle nostre interazioni.
Non è solo un problema di «privacy», anzi: metterla giù così è riduttivo e non fa capire cosa stia succedendo. Lo smercio di quei dati e il loro uso industriale non solo rafforzano quello che è già uno strapotere (lo strapotere di Google, Amazon, Facebook ecc.), ma fanno fare continui balzi da gigante al capitalismo della sorveglianza. Espressione che non indica solo l’industria high-tech della telesorveglianza, ma un sistema capitalistico il cui funzionamento dipende dal sorvegliare e mercificare aspetti sempre più intimi e minuti del vivere delle persone.
Quando si parla di estrazione, vendita e uso politico/economico dei big data, si tende a dare per scontate alcune premesse, che invece scontate non sono. Alla maggior parte di noi sfugge la dimensione di questo mercato, moltissimi ignorano del tutto quali utilizzi e applicazioni abbiano i big data e quale sia la loro importanza strategica per il capitale globale. Ergo, non possono che sfuggire nessi fondamentali.
Ad esempio, quello tra i dati che produciamo ogni giorno usando lo smartphone e/o ciacolando sui social e attacchi coi droni come quello che ha ucciso Qassem Soleimani a Baghdad.
All’inizio degli anni Dieci sia il Dipartimento della Difesa USA sia la CIA, e chissà quanti altri enti e istituzioni del genere, hanno avviato programmi per utilizzare a scopi “preventivi” – usiamo apposta il termine nell’accezione che le diede a suo tempo George W. Bush – le masse di dati prodotti anche dalle interazioni sui social media.
Lo scopo del programma IV2, nelle parole della Difesa, è (corsivo nostro) «fornire uno strumento per la consapevolezza situazionale. Lo strumento estrarrà dati da tutte le fonti sul web, compresi tweet e blog, riconoscendo pattern e identificando tendenze in un mare di dati non strutturati»
Il programma OSI della CIA analizza dati presi da «tendenze sui motori di ricerca, blog, microblog, traffico internet, webcam, mercati finanziari e molte altre fonti […] al fine di anticipare o riconoscere perturbazioni sociali.»
Da queste circonlocuzioni eufemistiche agli attacchi coi droni il passo è breve, si è più volte verificato e se ne è già scritto. Per dirla con Jon Schwartz,
«il modo in cui il programma droni del Pentagono analizza i dati è quasi identico a quello che l’IBM consiglia alle grandi aziende per tracciare i clienti. L’unica differenza significativa è a fine procedura, quando, nel programma droni, il cliente viene ucciso.» (Drones, IBM, And The Big Data Of Death, 2015).
E questo è solo l’esempio più icastico ed eclatante. Uno appena meno eclatante ce lo fornisce l’uso dei selfie che mettiamo sui social al fine di perfezionare tecnologie di riconoscimento facciale… che poi vengono usate, tra le altre cose, per identificare manifestanti e reprimere sollevazioni popolari.
I big data che forniamo ai colossi della Silicon Valley vengono venduti al complesso militare-industriale e a vari centri di ricerca applicata posseduti o finanziati da grandi corporation. Quei dati vengono usati per sorvegliarci meglio, prenderci meglio di mira (anche letteralmente), perfezionare dispositivi di sfruttamento e oppressione.
Oltre al nostro doppio post e alla discussione che ferve in calce alla seconda puntata, consigliamo un articolo scritto per Doppiozero da Oliviero Ponte Di Pino, Sorvegliati di tutto il mondo, unitevi! È un ottimo compendio per farsi un’idea del problema.
Ancora: per quanto riguarda i dati che produciamo usando lo smartphone e cosa possa significare oggi «sorveglianza», poche letture rendono l’idea della situazione meglio dell’inchiesta pubblicata dal New York Times tre settimane fa: One Nation, Tracked: An Investigation into the Smartphone Tracking Industry.
Quella ricavata dai big data è tutta conoscenza che forniamo gratis e con autentico zelo, anche mentre scriviamo di anticapitalismo, nell’ambito della più grande autoschedatura di massa di tutti i tempi.
È uno dei paradossi che troviamo più stridenti, e che abbiamo cercato di far notare tanto nel doppio post quando nella discussione, per ora senza grande successo: l’informazione veicolata su Facebook da molti soggetti anticapitalisti e “di movimento” sembra diretta contro ogni manifestazione del capitalismo… Facebook escluso.
Nell’economia politica attuale, è una rimozione enorme. Praticamente, mentre si attacca il manifestarsi più “consueto” del capitalismo (il che, intendiamoci, va fatto), se ne accettano di default le forme più avanzate e contemporanee.
Le storiche e gli storici del futuro si chiederanno come fu che, negli anni Dieci del XXI secolo, anche persone e movimenti che in tutti gli altri ambiti erano contrari alle privatizzazioni e parlavano continuamente di «comune» o «beni comuni» accettarono di privatizzare la loro comunicazione, regalandola a una mega-azienda privata americana, che in pochi anni accumulò un potere colossale e instaurò un quasi-monopolio in mezzo pianeta. E si chiederanno come mai soggetti che avevano sempre valorizzato il «pensiero critico», imparato dalla «teoria critica», prediletto la «critica radicale», fecero tale scelta in modo così platealmente acritico, volando col pilota automatico, senza farsi una domanda, trovando tutto questo normale.
E il problema va oltre: gli incentivi algoritmici, le tecniche messe in atto dalle piattaforme perché tale autoschedatura continui ad avvenire – anzi, avvenga con sempre maggiore intensità – hanno effetti devastanti sul nostro modo di comunicare, lo rendono sempre più tossico, omologato, prevedibile e asservito.
Uno degli effetti collaterali dell’uso prevalente dei social è il continuo farsi imporre l’agenda e i frame discorsivi, finendo per discutere le (spesso presunte) «questioni del giorno» come le pone – attraverso la selezione di notizie e le logiche dell’algoritmo – l’ideologia dominante. Per dirla con Laurence Cox:
«Ho visto gran parte dell’attivismo radicale su Twitter ridursi al semplice retweet dei media mainstream e impegnarsi in polemiche condotte in quei termini (commentando quel che viene detto in TV ecc.) Abbiamo fatto svariati passi indietro rispetto a dov’eravamo [con Indymedia e altri progetti, N.d.R.]»
Un altro effetto è stato il cedimento culturale nei confronti del narcisismo più bisunto, come testimoniato dal proliferare di starlettes «di movimento», di mostriciattoli simili a piccoli Sgarbi o D’Annunzio, di wannabe mini-guru o #guerrieri dell’antimperialismo, sempre intenti a promuoversi in un’orgia di selfie.
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Torniamo a Giap.
Per ogni servizio o strumento a cui rinunciamo, se svolgeva una funzione importante, siamo in cerca di alternative “etiche”, indipendenti e libere. Libere non necessariamente nel senso di gratuite, più probabilmente nel senso di non-proprietarie.
Se invece si trattava solo di link “rischiosi”, beh, il general intellect della rete offre molti intelligenti escamotages.
Stiamo introducendo redirect e copie-archivio per i link a Facebook, Twitter e YouTube, e invitando chi ci legge a dotarsi di strumenti per navigare che blocchino certe “intrusioni”.
Ad esempio, se qualcuno scrive su Facebook una “nota” interessante che vale la pena segnalare o alla quale tocca rispondere, non la linkiamo direttamente ma passiamo da NoFB.PW o archive.is aut similia. Da Giap, mai più nessun link diretto a Facebook. Perché? Perché «Facebook tracks you even when you’re not on Facebook, because of their extensive surveillance network on sites that link to them.» (Bruce Schneier, citato in You Probably Don’t Know All The Ways Facebook Tracks You, 2017).
Uno dei modi in cui Facebook traccia la nostra navigazione è attraverso i bottoni «Like» o «Condividi» ospitati su blog e siti. In genere quei bottoni sono molto apprezzati da chi produce contenuti, perché permettono la condivisione rapida sui social. Qui su Giap li abbiamo tolti del tutto, bona lé. Al momento, per condividere un post bisogna copiare e incollare l’URL.
Potremmo sostituire i bottoni con una loro versione inattiva di default: per usarli bisognerebbe attivarli con un doppio click, e trasmetterebbero dati ai rispettivi social solo in quel momento e solo da quella pagina. Ma potremmo anche non sostituirli proprio.
Analogamente a quanto detto per Facebook, se dobbiamo linkare un video di YouTube, passiamo da Invidio.us aut similia, e se dobbiamo linkare un tweet, passiamo da Nitter.
Lo scopo è – non abbiamo timore di usare il termine – educativo. Per noi sarebbe già un risultato se chi usa e linka certi siti in automatico “disautomatizzasse” il proprio comportamento e si ponesse delle domande.
Il consiglio-base che diamo a tutte e tutti è di usare browser come Firefox o Waterfox, installando add-on – niente di esoterico, sono app per il browser – come uBlock Origin, Decentraleyes, Invidition e, soprattutto, Facebook Container, che impedisce a Facebook di pedinarti in giro per la rete usando i bottoni social o in altri modi.
E ora una nota più o meno dolente, perché uno strumento che fornivamo non siamo riusciti a sostituirlo.
Alcuni giorni fa abbiamo chiuso l’account su Feedburner (servizio che, per quanto ormai “fossile”, è comunque di Google e manda ancora dati a Google) tramite il quale spedivamo via email notifiche dei nuovi post su Giap. L’indirizzario contava 6331 iscritt*, anche se è probabile che molti indirizzi fossero ormai dismessi: c’era gente che si era iscritta nel lontano 2011, c’erano un sacco di account hotmail, yahoo, email.com ecc.
Abbiamo cercato un’alternativa valida, ma per vari motivi – economici, tecnici e a volte etici – nessuna di quelle che abbiamo vagliato (alcune decine) faceva al caso nostro. Purtroppo, quello della posta elettronica è sempre più un campo minato, tra spam, server messi in «lista nera» e quant’altro. Soluzioni che appaiono comode, in realtà, finisce che «cavano la fatica e mettono lo spasmo».
Troppo sbattimento. Abbiamo deciso di lasciar perdere. Per la seconda volta in dieci anni, rinunciamo a un fior fior di indirizzario per ripartire da capo. Call us crazy. Nel 2010 cancellammo una lista di 12.000 e passa persone che ricevevano la nostra newsletter, ora cancelliamo una lista lunga la metà ma comunque rilevante.
Come detto più volte, il modo più rapido e affidabile per ricevere avvisi di nuove pubblicazioni su Giap è il nostro canale Telegram.
Un altro modo è il bot di Giap sull’istanza Bida di Mastodon.
Siamo convinti che, lungi dall’arrecarci danno come può sembrare di primo acchito, alla lunga queste scelte ci rafforzeranno.
Intanto continuiamo a lavorare. Ci vogliono tempo e pazienza, per ripulire il proprio sito da schifezze accumulatesi nel corso degli anni, anche solo per automatismo, disattenzione, inconsapevolezza. Ci vogliono tempo e pazienza, ma la direzione è quella.
N.B. Poiché questo post è un addendo alla miniserie di dicembre, per favore, lasciate eventuali commenti → di là, dove il dibattito è già in corso e intenso. Grazie dell’attenzione.
[…] andiamo alle segnalazioni: a parte una *postilla* al doppio post dei Wu Ming che è stata pubblicata come post per comodità data la lunghezza e […]
[…] avvenuto di tanto incongruo, nella società plasmata dal capitalismo della sorveglianza, dove tutti ci autoschediamo con zelo e coi nostri dati miglioriamo le prestazioni dei dispositivi di controllo, e coi nostri selfie […]