Autopsia di una radio libera (tragicommedia in 7 atti). Com’è davvero morta Radio Città del Capo

[Radio Città del Capo è stata parte di noi, e viceversa. L’avventura del Luther Blissett Project a Bologna non sarebbe stata la stessa senza RCdC. Dai suoi studi, che allora erano in Mura di Porta San Felice, andava in onda Radio Blissett. Alcuni di noi restavano al microfono, altri uscivano e si sparpagliavano per esplorare la città. Andavamo alla deriva, per raccontare la prima ondata di ristrutturazioni urbane d’impronta neoliberista: grandi opere, alta velocità… C’era la giunta Vitali. Era la metà degli anni Novanta, ma alcuni di noi trasmettevano alla radio da prima, conducevano programmi musicali da quand’erano sbarbi e la radio stessa era ancora cinna, aveva solo tre anni.
Wu Ming 2 ha trasmesso su RCdC per un quarto di secolo: dal 1990 Giungla d’asfalto accanto a Paolo Simoni, poi per anni e anni Station To Station insieme a Giovanni Gandolfi, poi Thermos, fino alla rassegna stampa mattutina insieme a Wu Ming 3, e stiamo già parlando degli anni Dieci, era direttrice Lucia Manassi.
Wu Ming 1, dal canto suo, ricorda le tante puntate di Skinhead Time e poi di Birretta Rossa, vissute e blaterate accanto alla Giusy e al Papero. Il Papero, l’indimenticabile Andrea Palmieri, che se n’è andato prima di vedere la sua radio fare la fine che ha fatto.
E le centinaia di ospitate, le interviste e le telefonate. E quella sera del 1991, quella dei Nirvana al Kryptonight, alcuni di noi c’erano e non se la scorderanno mai. “Sfondammo” in venti-trenta per non pagare – del resto, non avevamo un baiocco – ma nessuno della radio ce l’ha mai menata, nemmeno Giro che quella sera era all’ingresso.
RCdC è stata parte di noi, abbiamo il diritto di essere incazzati con chi l’ha trascinata dov’è ora, cioè nowhere. Abbiamo sostenuto la mobilitazione di RCdCViva, è andata com’è andata, poi siamo stati zitti a lungo, ma nei mesi scorsi la storia ha preso una piega piagnucolona e grottesca. E così abbiamo chiesto ai compagni di Global Tavor di scrivere un pezzo per Giap e oggi lo pubblichiamo, anche perché non si può parlare sempre di coronavirus.
Dedicato a Massi, colonna di Radio Blissett e di tanti altri momenti radiofonici e non solo, nel decennale della morte.
Buona lettura. WM]

di Global Tavor*

«Vogliono zittire Radio Città del Capo».

«Nessuno vuole zittire Radio Città del Capo!».

«Non spegnete Radio Città del Capo!».

Botte e risposte, comunicati di fuoco e fiamme per un epilogo fin troppo scontato. Anzi, un epilogo più volte annunciato, che però oggi viene presentato come inatteso: l’arrivo al capolinea di una radio indipendente.

O perlomeno, una radio che è stata indipendente e persino importante, in anni in cui non ambiva certo ad essere definita un affare redditizio, ed è rimasta tale fino a quando qualcuno non ha deciso di (s)venderne il patrimonio culturale, politico, storico, umano e partecipativo a soggetti imprenditoriali cooperativi la cui poderosa crescita – di fusione in fusione, di fiore in fiore – è stata tanto spettacolare quanto lo è stato lo svilimento e lo svuotamento della radio di cui sono stati editori.

A parte l’automatismo pavloviano della condivisione repentina, aprioristica e pelosa, della retorica del «non far venir meno una voce indipendente dell’informazione cittadina», qualcuno si è domandato come si è arrivati al pubblico lancio di stracci a cui assistiamo e che accompagna il colpo alla nuca a Radio Città del Capo? È per questione di stile, per non infierire che oggi tacciono i molti che definivano la radio già morta e defunta da almeno un paio d’anni?

In definitiva: chi ha spento da tempo Radio Città del Capo riducendola all’emissione di un gemito privo di idee e di ascolti? E cosa possiamo capire da questa storia?

La storia di RCdC è parte della storia delle radio libere e indipendenti che raccontano e accompagnano i processi di cambiamento e conflitto sociale. Non c’è nulla di ineluttabile nella sua parabola verso un esito fatale che fino a pochi anni fa nessuno avrebbe nemmeno potuto immaginare, e che per certi versi appare come un clamoroso suicidio: comprendere perché la si è voluta estinguere significa interrogarsi su cosa sia e come possa esistere oggi, nel 2020, una radio libera e indipendente.

Ma andiamo con ordine.

La Repubblica – Bologna, 4 gennaio 2020. Con almeno due anni di ritardo.

Atto I. Radio libere crescono

La proliferazione, repentina e massiva, delle «radio libere» in FM, con tanto di relativa proiezione mitologica, inizia in Italia nella seconda metà degli anni ’70, accelerando la diffusione di musiche, idee, riferimenti ideologici, metodologie di lotta negli immaginari giovanili. La radio diventa spesso non solo uno strumento di circolazione di idee ed informazione unofficial e/o antisistema, ma anche laboratorio di creatività e di stimoli collettivi finalizzati alla produzione di contesti, zone, ambienti alternativi alla cultura considerata dominante.

Radio Alice, 1976

Febbraio 1976. Iniziano le trasmissioni di Radio Alice dalla sede di via del Pratello.
Una rara fotografia di Franco “Bifo” Berardi in diretta radio.
Archivio Studio Camera Chiara.

A Bologna, la proliferazione di radio libere, in modalità più o meno legali o pirata, è stata senza dubbio particolarmente vivace: alcune di loro hanno avuto vita breve ma intensa, come ad esempio Radio Alice, nata nel 1976 e chiusa manu militari l’anno seguente nel pieno degli avvenimenti del marzo ’77. Espressione della cosiddetta ala creativa del movimento, Radio Alice fa della liberazione della comunicazione una vera missione, adottando metodologie inedite di trasmissione di eventi e accadimenti quotidiani, come ad esempio l’avvalersi della figura del «redattore di strada» in linea telefonica con la radio. Il tutto in un ambiente agit-prop, di apertura ampia alla partecipazione, con tinte espressive spesso dadaiste, ma soprattutto in un contesto di estremismo libertario e pulsioni di sovversione del reale.

Stesso anno di entrata in onda, ma ben diverso lo stile e il destino, per Radio Città, gestita dalla cooperativa L’Informazione Nuova e che, dopo un decennio di trasmissione come «radio di cani sciolti» (come fu definita ai suoi primordi da uno dei suoi fondatori, Stefano Benni) è sottoposta nel 1987 a un trattamento di «cammellaggio» finalizzato a sancire una sorta di egemonia da parte di Democrazia Proletaria sulla direzione della radio.

Tale operazione causa quella diaspora di redattori e collaboratori che si adopererà subito dopo per la creazione di Radio Città del Capo: la nuova emittente inizia a trasmettere sulla frequenza dei 96.300 MhZ nella sua prima sede, in Via Cartolerie. Nessuna censura, nessun limite, nessuna condizione. Anzi, una sì: quello di essere libera e di non appartenere a nessuno che non fosse editore puro, la cooperativa Not Available. Nomen omen: i soci della coop sono proprio coloro che la radio la fanno o la gestiscono nelle sue diverse dimensioni operative quotidiane.

Nel 1992 Radio Città del Capo si trasferisce nella nuova sede di Via Mura di Porta San Felice, negli spazi di una vecchia officina che avevano già ospitato la Bold Machine, cooperativa tipografica creata da una costola del Movimento bolognese. Ed è proprio in questo periodo che la radio affronta la prima forte crisi economica, superata anche grazie all’idea, a prima vista un po’ bizzarra, di chiedere i soldi a chi la radio l’ascoltava gratuitamente, attraverso un abbonamento annuale. Il successo di quella iniziativa, non solo raggiunge il suo obiettivo economico, ma ha un altro importante risultato: quello di creare una vera e propria comunità a garanzia dell’indipendenza editoriale dell’emittente. L’idea dell’abbonamento a dir la verità era già venuta a Radio Popolare di Milano, di cui Radio Città del Capo era poco prima diventata partner nella formazione di Popolare Network, il cui radiogiornale, introdotto dalle note di Black Market dei Weather Report, era nel frattempo diventato riferimento informativo importante a sinistra.

Radio Città del Capo trova quindi un suo equilibrio, con un andamento economico che, quantunque abbia spesso una sua dimensione funambolica, può però contare su entrate commerciali significative, ma soprattutto sul sostegno di una base de apoyo di affezionati ascoltatori che ogni anno rinnovano l’abbonamento alla loro radiolina preferita, come affettuosamente ripetono i microfoni del mattino. Radio Città del Capo organizza e promuove anche attività ed eventi musicali nella città: storico è il concerto dei Nirvana al Kryptonight di Baricella nel novembre del 1991, proprio nel periodo in cui esplodono internazionalmente con l’uscita dell’album Nevermind. Al tempo stesso, Radio Città del Capo si dota di una redazione giornalistica che porta notevoli innovazioni sul fronte della cronaca locale attraverso una syndication con il nucleo di giornalisti cresciuti attorno alla radio comunitaria dell’Arci, Oasi Radio, parte dei quali poi confluiti nell’agenzia DIRE.

È proprio in questo periodo – e poi anche quando la sede si sposta in Via Berretta Rossa – che RCdC riesce a conquistare ampi spazi di ascolto, un certo peso negli ambiti politici e culturali della città, nonché la stima del settore della comunicazione, anche in una dimensione regionale e nazionale. Giornalisti e speaker che hanno avuto vari incarichi nella sua redazione giornalistica hanno poi fatto carriera in testate nazionali. Altri sono invece diventati firme di rilievo di giornali locali.

Di fatto RCdC ha accompagnato la vita culturale e politica di Bologna per un lungo periodo, interpretando fatti, eventi, storie e dando direttamente voce ai protagonisti da una posizione di indipendenza, da una prospettiva di libertà di opinione e di metodo che poggiava tanto sull’avere a monte un editore puro, quanto un consenso partecipato da parte del proprio bacino di ascolto.

Atto II. Da not available a very much available

Radio Città del Capo - Radio metropolitanaTra il 2003 e il 2004 Città del Capo avrebbe dovuto aggiungere accanto al nome la specifica «Radio Metropolitana». Le motivazioni di tale cambiamento non sembrano però colpire nel segno dell’immaginario collettivo: in pochi capiscono.

Nel 2004, in una vicenda non scevra da risvolti polemici, con un’operazione repentina e in buona parte tenuta segreta fino all’annuncio definitivo, la frequenza 94.700 MhZ di proprietà dell’ARCI provinciale ­ la ex-Radio Oasi su cui trasmette, in forte crisi economica, Radio Fujiko – passa sotto il controllo della Not Available, dopo conveniente acquisto e previo ingresso dell’ARCI nella società cooperativa.

Se questa operazione tende a potenziare la struttura radiofonica, è tuttavia difficile, col senno del poi, non discernere le prime pulsioni aziendaliste. Il clima talvolta caotico e conflittuale di assemblearismo fraterno e di complicità intensa inizia a rarefarsi, e si producono le prime scollature rispetto alle scelte di direzione della radio, inclusa quella di chi scrive.

Gli effetti di questo progressivo irrigidimento dirigenziale, profilato su piccole ambizioni professionali, diventano visibili qualche anno più tardi, con l’uscita di Paolo Soglia dal Consiglio di Amministrazione della cooperativa che aveva diretto per una decina d’anni. Soglia torna alla redazione informativa. Parte importante della dirigenza considera ormai il comparto radiofonico come non redditizio e da superare. La deriva aziendalista è ormai in moto, e si associa alla promessa di lauti dividendi a chi presta consenso: nel 2011 viene comunicato il progetto di fusione con la Cooperativa Voli: più che una fusione si tratta dell’incorporazione della piccola Not Available in una grande coop multi-servizi.

Questa circostanza non trascurabile avrebbe comportato prevedibilmente non solo una messa in discussione del settore editoriale e radiofonico, che nel nuovo contesto sarebbe risultato troppo debole rispetto ad altre attività produttive, ma anche il ridimensionamento dell’autonomia che, scritta nel DNA della radio, dà forma ai suoi contenuti più distintivi. D’altra parte, i presidenti delle due cooperative, Giovanni Dognini per la Not Available e Roberto Lippi per Voli, si affrettano a spendere appassionate parole per rassicurare lavoratori, soci e abbonati su come la fusione sarà per Radio Città del Capo un’opportunità di investimento e valorizzazione.

Nel novembre del 2011 viene firmata la nascita del nuovo soggetto cooperativo, Voli Group Soc. Coop, con sede in Via di Mura di Porta Galliera. Il tutto con l’approvazione di tutti i soci: unica eccezione il summenzionato Paolo Soglia, che a questo punto presenta le proprie dimissioni da direttore della radio. Nuovo direttore è Lucia Manassi, scelta dal nuovo editore senza mantenere la promessa di far votare ai soci lavoratori la nomina proposta dal CdA.

È cominciata una nuova era: nessuno dei direttori che si succederanno dopo la «fusione» sarà sottoposto al voto di gradimento dei lavoratori del settore editoriale, il tutto allegramente lavato nell’idea di un consenso di fondo, di un’imprenditoria sociale benevola che non necessita di fastidiose quanto divisive verifiche formali. Anche le altre promesse di autonomia sono puntualmente disattese: fra queste, la possibilità di una put option, ovverosia la possibilità, con il voto dei soci lavoratori, di tornare indietro staccandosi da Voli e ricostituendo un editore puro.

Viene però mantenuta la promessa di inserire un articolo nello Statuto del nuovo soggetto cooperativo che stabilisce la formazione di un Comitato Editoriale a garanzia di indipendenza e autonomia del settore editoriale. Quello del Comitato Editoriale è un punto nodale di tutta la vicenda, su cui dovremo tornare: per ora ci limitiamo a citare la parte dello Statuto di Voli Group (art.5) in cui veniva esplicitato in maniera difficilmente equivocabile.

«La cooperativa è editrice di testate giornalistiche registrate. L’insieme di queste testate giornalistiche, distribuite su più piattaforme tecnologiche, compone il «settore editoriale» della cooperativa. La cooperativa assicura l’indipendenza e l’autonomia del settore editoriale, lasciando ai lavoratori delle singole testate libertà di programmazione e redazione dei contenuti e attraverso l’istituzione di un «comitato editoriale».
La regolamentazione del «settore editoriale», così come la costituzione ed il funzionamento «del comitato editoriale», sono demandate al «Regolamento del settore editoriale»

La disposizione del comma dell’art. 5 dello Statuto che prevedeva il Comitato Editoriale non solo non è mai stata attuata ma, in quella che a molti è parsa una sostanziale presa per i fondelli, non si è mai arrivati nemmeno a scrivere un regolamento di tale comitato. In altre parole, per più di due anni il CdA non rispettò quanto scritto nello Statuto riguardo all’argomento.

Il fastidioso problema andava sanato alla radice: nel maggio 2014, con l’ulteriore fusione di cooperative che porta alla nascita di Open Group, il nuovo Statuto già non riporta più il comma in questione.

Qui comincia la parte più triste della vicenda. Il presidio di autonomia radiofonica è avvertito come un problema non tanto dai dirigenti che provengono da Voli, ma soprattutto da quelli giunti da Not Available, larga parte dei quali non vedono l’ora di abbandonare la barca, cambiare attività con altri incarichi in altri settori della mega-cooperativa, lasciando la radio praticamente senza management, senza curarsi di un ricambio editoriale, amministrativo ed economico all’altezza delle aspettative della comunità radiofonica e della città.

La fuga dal settore radiofonico da parte di chi aveva «svalicato» l’ambita vetta della fusione con la mega-coop è talmente precipitosa da lasciarsi dietro una piccola dimenticanza: gli abbonati, ovvero le centinaia di ascoltatori che avevano sempre pagato tramite accredito bancario permanente, sistema che prevede il rinnovo annuale automatico del contributo. Con il cambiamento della ragione sociale della «società emittente», questi vengono completamente trascurati e di fatto persi per strada. Il entativo tardivo di recuperarli viene affidato ai redattori, visto che il precedente responsabile del settore è stato riassorbito da altri incarichi e mansioni. Tentativo fallimentare: più della metà degli abbonati viene a mancare, con un sostanzioso danno economico.

Insomma, nonostante tutte le rassicurazioni, le promesse di valorizzazione e rilancio di una «risorsa preziosa della città», Radio Città del Capo molto presto diventa un fardello per una nuova proprietà, che tuttavia ama raccontarsi come la salvatrice di una radio economicamente in difficoltà. Le possibilità di investimento ed espansione del settore vengono puntualmente disattese, soprattutto a per opera di ex-radiofonici neo-dirigenti di cooperativa che, dichiarando di non credere nello sviluppo del settore radiofonico «in etere», bocciano proposte di investimento, anche quando manifestamente convenienti, quali ad esempio l’acquisizione di una frequenza-ponte verso la Romagna.

A questo punto, lo stato di abbandono di fatto in cui versa il settore radiofonico e il conseguente vuoto nella sua dimensione amministrativa ed editoriale, causano una serie di disastri anche per quanto riguarda i contributi pubblici, tra dimenticanze, pateracchi, navigazioni a vista e conseguenti danni economici. E così, fra la perdita di buona parte degli abbonamenti, inceppi sulla questione dei contributi pubblici, il settore pubblicitario abbandonato a se stesso e così via, tra l’entrata della radio nell’era Voli e l’ultima bulimica trasformazione con la creazione di Netlit (ci arriveremo) il peso di Radio Città del Capo sul fatturato complessivo del gruppo arriva a toccare la risibile quota dell’1-2%.

Ma questo pesante ridimensionamento, unito al tradimento delle garanzie di autonomia, non basta per capire come sia stata soffocata la radio. Occorre fare un passo indietro, e tornare all’annus horribilis di Radio Città del Capo.

Piero Santi

Come si ricordava poco sopra, intorno alla metà del 2014 ha luogo l’ulteriore mutazione della società cooperativa che dovrebbe fungere anche da editore di Radio Città del Capo: attraverso una fusione per incorporazione Voligroup diventa Open Group, leviatanica mega-cooperativa di servizi, che si occupa dei settori più disparati e che dimostra in un breve lasso di tempo di essere – se possibile – ancor meno interessata all’editoria radiofonica di quanto lo fosse Voligroup. Lucia Manassi, già direttrice della radio nell’interregno del periodo Voligroup, lascia l’incarico a Giusi Marcante, la quale dopo due anni in sella si defila per accettare l’allettante offerta di entrare nello staff della comunicazione del neo-rieletto sindaco Virginio Merola.

La comunità radiofonica attraversa una fase delicata, profondamente segnata dalla perdita di Piero Santi, architrave culturale di Radio Città del Capo e voce storica delle trasmissioni Humus e Santi Time. A questo punto, l’ «editore» di Radio Città del Capo fa calare dall’alto il nome di Riccardo Tagliati, il quale, nel mezzo delle caldane agostane, è nominato nuovo direttore.

Atto III. I guardiani del niente e l’appello pubblico

Spinto in scena dall’editore, Tagliati sa di dover pattinare sul ghiaccio sottile: la radio è in seria difficoltà, il malcontento di collaboratori e ascoltatori è palpabile, è necessario agire in anticipo, cercare legittimità e accelerare prima che il disfacimento possa innescarsi. Un’assemblea generale di redattori, conduttori e collaboratori della radio è convocata per il 20 settembre 2016 a Casalecchio di Reno, in un locale gestito da Open Group e per l’occasione allestito di un tutt’altro che sobrio buffet per una sessantina di presenti.

Il neo-direttore sciorina una melassa affabulatoria che risulta poco persuasiva: parte riconoscendo il bisogno di un cambiamento, di «aprirsi a un mondo ch’è cambiato», tanto quanto «la funzione e la fruizione della radio». Essendo cambiato il pubblico, oggi più «variegato», la radio deve essere più «pop»: più «indipendente, sostenibile e popolare».

Il termine «indipendente», lasciato senza qualifica ed infilato a forza nel contesto deprimente, appare svuotato di significato, per non dire dei due che lo seguono. In un contesto di fittizia armonia tra i messi di Open Group e l’ampia platea di conduttori volontari sempre più a disagio emergono a questo punto varie proposte per recuperare il legame tra Radio Città del Capo e la sua storica comunità. Fra queste passa, praticamente all’unanimità, la proposta di istituire il famoso Comitato Editoriale, originalmente previsto ma mai creato, quale opportunità di partecipazione, rappresentanza e condivisione di proposte per superare la difficile fase del momento. Il neo-direttore, pur perplesso da una richiesta che non condivide, si assume la responsabilità di portare tali istanze alla dirigenza di Open Group.

Passano due mesi e regna il silenzio, per cui un folto gruppo di collaboratori e conduttori della radio decide di rinnovare la richiesta appellandosi alla comunità radiofonica stessa: il frutto è un documento con raccolta di firme annessa, che partendo da principi e valori che hanno sempre contraddistinto Radio Città del Capo, chiede al Presidente e al CdA della cooperativa l’apertura di un confronto serio sulla questione del suo futuro.

«Libera e Indipendente»: un biglietto da visita che si dà per assodato, un mantra per ogni pubblica occasione. Tuttavia da qualche tempo ci poniamo sempre più interrogativi, e ci chiediamo se a questa definizione corrispondano atti e fatti conseguenti.

Così comincia l’appello dei conduttori e abbonati della radio che poi daranno vita a RCdCViva. Nella lettera-appello si critica duramente la mancanza di un esplicito invito alla partecipazione per reagire al momento difficile di una radio sempre più in balia della regia automatica, e proprio in un momento in cui a migliaia di ascoltatori e a decine di volontari si fa sentire il vuoto lasciato da Piero Santi e Giusi Marcante, nonché l’incertezza sul futuro amplificata dall’assenza totale dell’editore.

La linea d’attacco di RCdCViva è esplicita: una radio libera non è solo fornitura di un servizio ma anche comunità plurale «che riflette aspettative e livelli di partecipazione diffusi e differenziati, che non possono essere ridotti a meri rapporti organizzativi verticali e aziendalistici, in cui c’è chi decide, chi esegue, chi ascolta e chi eventualmente poi sostiene».

L’appello pone interrogativi su investimenti, valorizzazione delle risorse interne, formazione di voci giovani, a fronte della drastica riduzione del monte di ore dedicate alla cultura nel palinsesto appena varato. RcdcViva rivendica una radio «schierata sulla prima linea dell’immaginario meno conformista, capace di informazione e musica di qualità, in cui l’identità, le competenze e le scelte artistiche devono rimanere indipendenti», evitando la tentazione di aderire alla «trita melassa mainstream dei grandi network», e quindi a scelte commerciali e omologanti antitetiche alla storia e allo stile di Radio Città del Capo.

Insomma, viene chiesto di aprire un tavolo di confronto su istanze diffuse e radicate, superando la sindrome del «bene, vi abbiamo ascoltato, grazie», ma soprattutto indicando l’istituzione del Comitato Editoriale come garanzia di autonomia e indipendenza del settore editoriale del gruppo cooperativo in raccordo con la comunità viva della radio. L’appello viene firmato da una ventina di conduttori di RCdC e da altre 150 persone in città, tra cui scrittori, giornalisti, intellettuali: Stefano Benni, Pino Cacucci, Valerio Evangelisti, Wu Ming, Sandro Mezzadra, Roy Menarini, Franco Berardi, Luca Alessandrini, e molti altri.

La risposta della controparte non si fa attendere ma, come alcuni avevano previsto, si dipana nella dimensione della relazione personale, con il chiaro intento di lavorare ai fianchi, o se vogliamo di minare il terreno in cui si muove l’istanza collettiva, ovviamente sgradita all’ «editore».

Il neo-direttore Riccardo Tagliati e il neo-caporedattore della radio, Giovanni Stinco – che firma le cronache de il Manifesto da Bologna – contattano telefonicamente i firmatari per verificare che non ci siano state «forzature», nonché per manifestare il proprio stupore e meraviglia per l’«essersi prestati» ecc. A quanto pare l’ordine di prima istanza è arginare, contenere, sanare, prima che l’iniziativa – ritenuta il frutto di una regia ostile – si allarghi in città.

Il neo-direttore, dopo aver immediatamente definito «irricevibile» la lettera, valuta che l’atteggiamento più opportuno da tenere non sia prendere atto delle critiche e aprire un dialogo, bensì quello di indossare i goffi panni del guerriero che si erge contro non si sa quale «attacco politico esterno», finalizzato a chissà quale «commissariamento» del lavoro suo e della redazione. Rimane storica, a tal proposito, la denuncia di una «OPA ostile» su Radio Città del Capo, ordita da non si sa quale componente politica della sinistra cittadina.

Nel mentre vengono convocati alcuni lavoratori del settore editoriale a riunioni la cui finalità è unicamente ottenere la firma di una sorta di «contro-documento».

Atto IV. Tutto il potere al Comitato Editoriale!

In realtà dietro la lettera, firmata tanto da chi scrive quanto da chi ospita su Giap questo testo, c’era una banale constatazione: se la radio è comunicazione, una radio indipendente deve essere comunicazione condivisa e trasparente anche sulle scelte editoriali, culturali e organizzative. Il Comitato Editoriale è uno strumento previsto dallo Statuto e può far sì che programmisti, sostenitori e ascoltatori siano ascoltati e partecipi di un piano di rilancio. L’editore di Radio Città del Capo, la cooperativa Open Group, ma soprattutto il direttore e (parte della) redazione, leggono invece nella sollecitazione a costituirlo un crimine di lesa maestà.

Nel mentre, in radio, l’atmosfera si fa tesa e cominciano a saltare gli schemi e le presenze: pagate prima con voucher e poi con un bel tirocinio, due redattrici a cui era stato promesso un rinnovo d’incarico per un certo monte ore, vengono convocate per un rinnovo che riguarda una sola delle due. Ma i nuovi capi non hanno previsto il fattore – a loro sconosciuto – della solidarietà orizzontale: solidarizzando con la collega esclusa, anche la redattrice confermata decide di andarsene.

Anche un’altra collaboratrice della radio (incensata dallo stesso Tagliati durante l’assemblea di Casalecchio come colei che avrebbe preso il testimone di Piero Santi per la pagina culturale della radio) si trova poi a ricevere una proposta economica umiliante: 200 euro al mese, 10 ore a settimana, per una persona che lavorava in radio da 3 anni ma aveva «un profilo troppo specifico» [sic] non impiegabile in nessun altro campo della cooperativa, per arrotondare il compenso.

In questa fase, direzione ed editore della radio pongono al centro di ogni discorso «i lavoratori», ma le dichiarazioni d’intenti non sono mai seguite da atteggiamenti conseguenti. Per quanto riguarda le risorse umane, in un lasso di tempo di circa 5 anni si è ridotto di due terzi il monte-ore del personale impiegato nel settore editoriale: nel dicembre 2011, data della fusione delle cooperative, Radio Città del Capo aveva 11 dipendenti a tempo indeterminato e 10 collaboratori fissi, per un totale di 613 ore/lavoro settimanali. A gennaio del 2017 le ore/lavoro settimanali sono scese a 247. Ovviamente tutto ciò impatta sia sulla quantità che sulla qualità della programmazione radiofonica.

Ma se da una parte il risicato budget aziendale non permette di pagare decentemente colei che avrebbe dovuto curare la pagina culturale della radio, dall’altra il direttore si permette il lusso di ingaggiare l’ex assessore comunale Alberto Ronchi per un programma settimanale di cultura, presentando tale mossa come geniale, oltreché un successo clamoroso, quando invece evidenzia lo scollamento totale dalla comunità di ascoltatori, in questo periodo già in fuga verso altre frequenze.

In questo frangente, l’organizzazione e presentazione del piano editoriale da parte della nuova direzione si rivela un parto così lungo da diventare irresistibile oggetto di barzellette. Molto più celere è invece la scarna comunicazione a firma dei «lavoratori del settore editoriale di Open Group» – anche se non al gran completo – diretta al presidente e ai membri del CdA di Open Group, in cui viene respinta nettamente la richiesta dell’istituzione del Comitato Editoriale, in quanto – «organo che limiterebbe la libertà e l’indipendenza del settore e della Redazione stessa» (!).

Nella stessa comunicazione al CdA, direttore e redattori dichiarano sdegnati di non sentire

«la necessità di essere orientati né garantiti da nessuno […] ritenendo che l’indipendenza della radio sia garantita dal nostro stesso lavoro, all’interno della Cooperativa Open Group che è il nostro editore».

A questo punto del racconto possiamo anticiparlo: alla luce di quello che accadrà alla radio nei due anni successivi, si tratta di una frase da incorniciare.

L’appello dei 150, promosso dai «ribelli» di RCdCViva, riesce comunque a incrinare il muro innalzato dal direttore di RCdC e i suoi sodali: nonostante le telefonate ai colleghi giornalisti con preghiera di non diffondere l’appello, e nonostante la trasmutazione della redazione della radio in una sorta di call center all’inseguimento frenetico di consensi ormai perduti, i contenuti della lettera raggiungono prima la comunità radiofonica e in seguito la città.

Dopo una settimana lo stesso direttore decide frettolosamente di scrivere una lettera per «chiarire a tutti cosa sta realmente succedendo a Radio Città del Capo»: Tagliati si scaglia contro l’idea del Comitato Editoriale come strumento di garanzia, argomentando che da giornalista

«non vorrei mai che il mio direttore, il cui ruolo è quello di trattare con l’editore la linea editoriale, fosse soggetto ad un altro organo di controllo. Perché è bene chiarirlo: un comitato di «orientamento e garanzia» (ma Di che? Di cosa? Da chi? Da cosa? non sono domande retoriche) è un organo che avrebbe come compito quello di limitare la libertà di una direzione e della sua redazione.»

A sollevare tali domande «non retoriche» mentre si allontanano o vengono allontanati decine di collaboratori volontari e non, è il medesimo direttore che due anni dopo solleverà con sdegno il caso dell’editore che «spegne Radio Città del Capo». E rimane negli annali del surrealismo involontario l’aver descritto come un tentativo di controllare le scelte del direttore quello che invece fu l’ultimo tentativo, ormai in extremis, di riscattare Radio Città del Capo facendola vivere.

Incalzato dalla lettera-appello, il CdA di Open Group decide di incontrare RCdCViva, che delega un gruppo di contatto. Durante gli incontri che si susseguono, la dirigenza Open Group assume un atteggiamento inaspettatamente autocritico, riconoscendo una «assenza di direzione strategica del CdA nei confronti della radio», ammettendo la sottovalutazione delle criticità ed errori amministrativi alla base anche della perdita di risorse. Considerando inoltre l’uscita di persone che erano state centrali per la storia e lo sviluppo della radio, lo stesso presidente di Open Group fa poi un’apertura sulla riprogettazione complessiva della radio, con tanto di ripensamento del progetto editoriale radiofonico all’interno di Open Group, e si impegna a inviare a stretto giro una risposta scritta formale.

Che non arriverà mai. Arriva invece una stringata nota in cui si propone un non meglio precisato «confronto» invitando alcuni ed escludendo altri:

«il consiglio di amministrazione ritiene utile aprire un tavolo che abbia al centro il proposito di articolare una nuova progettualità per la nostra Radio.
Riteniamo che al tavolo possano portare importanti contributi persone con consolidate esperienze nel campo della comunicazione e del giornalismo a prescindere dal legame più o meno formalizzato con la Radio stessa.
Proponiamo quindi che proprietà e redazione (lavoratori) siano affiancate dagli amici abbonati e volontari, e da Beppe Ramina, Silvestro Ramunno e Giusi Marcante. Avere allo stesso tavolo la proprietà, i giovani lavoratori, i vecchi abbonati/ascoltatori/volontari e profili di ampia esperienza e riconosciuto attaccamento alla Radio, ci rassicura sulla qualità e l’efficacia del percorso»

La proposta di un incontro in cui le parole “Comitato Editoriale” non compaiono nemmeno, mentre si invita al confronto l’addetta stampa del sindaco (ex direttrice che aveva abbandonato la direzione della radio), viene respinta da RCdCViva, che però rilancia, accettando la presenza di Beppe Ramina e Silvestro Ramunno, ex-collaboratori e amici storici della radio, per discutere di come costruire un organismo vero, formale, di democrazia partecipata e rilancio progettuale.

Atto V. Riprogettiamo insieme, ma nemmeno per sogno

Michele Pompei

Nel frattempo continua l’emorragia delle voci storiche: lasciano anche Michele Pompei (che di lì a poco metterà in piedi un progetto radiofonico «in solitaria» che chiamerà Nino Web Radio) e dopo qualche mese Francesco Locane, caporedattore della redazione musicale. Se Locane si chiama fuori dalla vertenza in atto, Pompei lascia con una lettera aperta in cui racconta aspetti della vicenda che ritiene necessari per identificare cause e responsabili del baratro in cui la radio sprofonda.

«Ciò che ho potuto constatare è stato un progressivo processo di involuzione e peggioramento nella qualità del nostro servizio, quella qualità che fin dalla nostra nascita, facendo anche grossi sacrifici, ci eravamo impegnati ad offrire […] Radio Città del Capo sembra ormai rappresentare per la proprietà solo un fastidioso problema economico da risolvere attraverso continui e sistematici tagli e riduzioni del suo organico e non una risorsa fondamentale (e unica) per questa città, da valorizzare e rilanciare. […] La responsabilità del destino della radio è ovviamente affidata alla sua proprietà, la cooperativa Opengroup, al suo presidente Roberto Lippi e al consiglio d’amministrazione in cui siede anche Giovanni Dognini, ultimo presidente della Not Available prima della sua fusione in Voli. Questa responsabilità è naturalmente affidata al nuovo direttore della testata, Riccardo Tagliati, nominato dal cda, l’agosto dello scorso anno».

Che Radio Città del Capo sia soltanto un problema per la proprietà sarà confermato dai fatti. Al di là di ogni buona intenzione, il «tavolo di confronto» per dare soluzione ai problemi sollevati da RCdCViva presto si rivela un esercizio doroteo di allungamento del brodo, finalizzato a guadagnare tempo nel tentativo di sfaldare la compattezza del gruppo degli interlocutori.

Il tanto atteso piano editoriale viene tenuto riservato dalla nuova direzione della radio, sempre più arroccata e impaurita: RCdCViva deve presentare formale richiesta per conoscerne i contenuti. La tattica della direzione di Tagliati, spalleggiato da Giovanni Stinco, è palesemente dilatoria, volta a fare il minimo necessario per consolidare la propria posizione, cercando di carpire dalle riunioni qualche idea su cui mettere il cappello. Nel mentre, ai delegati di RCdC presenti ai tavoli è evidente che le scelte di fondo vengono fatte altrove, dalla dirigenza di Open Group, e imposte come fatto compiuto. Così naufraga la tanto auspicata ri-progettazione strategica della radio.

RCdCViva nel frattempo ci si organizza: divisi i propri componenti in gruppi di lavoro su “mission della radio”, “tecnologie/comunicazione”, “sostenibilità economica”, ed “eventi/comunità”, si prendono in esame la situazione e le prospettive sulla base di dati e idee che vedono oltre i bilanci ufficiali. Si arriva così alla proposta di passare a una forma di condivisione collegiale delle scelte, a una formula di co-gestione transitoria. Open Group sta infatti per rieleggere il proprio CdA. Come la burocrazia brezneviana, il gruppo continua ad espandersi, per cui non c’è nessuna garanzia riguardo agli assetti futuri e al ruolo della radio in tali assetti.

Viene così collegialmente decisa la costituzione in radio di un gruppo misto denominato «programmazione», finalizzato alla progettazione di un palinsesto per l’anno seguente, e un altro gruppo misto di lavoro su «regole, governance e sostenibilità». Per il gruppo programmazione, il direttore Tagliati tira fuori dal cappello un percorso di design-thinking: una sedicente innovativa metodologia per ripensare strategie aziendali, viene riadattata da una consulting firm esterna, ingaggiata alla bisogna in vista della riprogrammazione del palinsesto radiofonico. Il tutto in 5 incontri di 3 ore l’uno.

E qui accade il patatrac: messi alle strette da chi vuole arrivare a risultati tangibili, i campioni del rigiramento di frittate si trovano a dover giustificare le proprie macroscopiche contraddizioni in un’assemblea di redattori, conduttori e collaboratori, che RCdCViva chiede e ottiene quale prova di buona fede nel confronto.

È il 30 maggio 2017: l’assemblea si conclude con una patente rottura che pregiudica tutto il paziente percorso di mediazione intrapreso fino a quel momento: il direttore Riccardo Tagliati e il caporedattore Giovanni Stinco difendono con pervicacia l’opaca modalità di gestione dei mesi precedenti, fatta di comunicazioni selettive, riunioni ad excludendum, licenziamento di collaboratori e cooptazione di altri seguendo un unico criterio: la lealtà a prescindere.

Moreno Mari aka Morra MC.

Pietra d’inciampo è la richiesta da parte di RCdCViva di partecipare alle scelte di fondo quantomeno nell’ambito che più rappresenta, ovvero i conduttori musicali: il nome proposto è Moreno Mari per ricoprire il ruolo di responsabile della redazione musicale, lasciato vacante dall’uscita di scena di Francesco Locane. Tagliati oppone un veto ad personam sul nome di Moreno Mari, su cui – parole sue – sussiste «un problema politico», in quanto «non politicamente spendibile». Ora, un direttore che in una fase delicata come questa pone un veto su un interlocutore che da mesi gli siede a fronte a parlare di riprogettazione, che da un giorno all’altro viene trattato come “nemico politico”, evidentemente non è più degno di alcuna credibilità.

Ormai costretto a dismettere la maschera del democratico direttore all’ascolto di tutte le istanze, Tagliati galoppa a briglia sciolta, non lesinando commenti offensivi a chiunque prenda la parola per porgli domande e chiarimenti. Il rappresentante di RcdCViva, che fino a quel momento aveva co-presieduto l’assemblea,si alza e lascia il direttore in balia di se stesso.

Nel mentre, Beppe Ramina abbandona il tavolo di lavoro a cui era stato chiamato come garante con una stringata ma sommamente esplicita nota (sottolineatura nostra):

Beppe Ramina

«Care amiche e cari amici,
non parteciperò al tavolo delle regole che si riunirà domani né ad altri incontri legati ai temi che si stanno trattando in riferimento a Radio Città del Capo.[…] Sono diverse le ragioni che mi spingono a questa scelta, a partire dal dilatarsi dei tempi di elaborazione e di decisione. Sono inoltre convinto che senza affrontare il nodo di fondo, ovvero quale potrebbe essere il futuro assetto societario della radio, le nostre discussioni, pur interessanti, siano destinate a essere poco utili.»

In sintesi, l’unica risposta alla pressante richiesta di coinvolgimento, partecipazione e riconoscimento è stata il design thinking, giochino programmato ad hoc per far scorrere tempo e sbollire gli animi, partecipato esclusivamente da persone di ossequiosa lealtà e coordinato (a pagamento) da una società di consulenza esterna.

Stiamo parlando, è bene ricordarlo, di un editore che – a sua detta – non si sente un editore e non intende fare l’editore. Peccato però che in tale fase si ritrovi la proprietà di una radio da cinque anni ormai lasciata a se stessa. La parola usata, a tal proposito, è «esternalizzazione»: l’unico motivo per cui non c’è ancora stata è che nessuno ha intenzione di prendersi la radio, considerando i costi economici e politici esageratamente alti.

Atto V. Tu quoque? Chi di servilismo perisce

Infine, timidamente, parte il nuovo palinsesto di una Radio Città del Capo ormai completamente svuotata di ogni energia, di ogni entusiasmo, della anche pur minima empatia con l’ascolto, ormai ridotto – a ragione – ai minimi storici. Non senza odiosi colpi di coda, come il mancato rinnovo del contratto del menzionato Moreno Mari, aka Morra MC, collaboratore storico nonché portavoce del gruppo RcdCViva «con problema politico».

Così anche altri conduttori storici, non riconoscendola più, scelgono di abbandonare la radio: noi stessi ce ne andiamo, dopo 20 anni di pirotecnici e irriguardosi contenuti satirici, non prima di aver disegnato un pulsante di autodistruzione accanto alla cabina di regia.

Il 12 ottobre 2017 Radio Città del Capo dovrebbe celebrare i 30 anni dalla sua nascita. Il direttore Tagliati sceglie di farlo lanciando lo slogan «Da trent’anni contro ogni razzismo» e proponendo una «campagna di sostegno allo Ius soli temperato» [A noi venne subito in mente il libro di Jaroslav Hašek Storia del partito del progresso moderato nei limiti della legge, N.d.R.]

Il collettivo di RcdCViva, ispirato da Alice nel Paese delle Meraviglie, decide invece di celebrare il «NON-compleanno» di Radio Città del Capo, con una partecipatissima iniziativa pubblica, tenutasi proprio il 12 ottobre negli spazi della Libreria Trame e sulla strada antistante, sotto il titolo «Un buon NON compleanno! 1987-2017 la radio non compie 30 anni», durante la quale viene recitato da Donatella Allegro il monologo «Requiem per Laradio».

1987 – 2017: Radio Città del Capo non compie 30 anni, perchè quella radio non esiste più. RCdCViva presenta: «Requiem per Laradio», la storia di quello che è stato e la speranza di quello verrà.


Ridotta a un guscio vuoto, RCdC continua stancamente le emissioni, con spaventosi vuoti di copertura nonostante l’esistenza di una redazione. Fra gli episodi che illustrano la vivacità della radio, il tentativo da parte di attivisti anarchici di presentarsi in redazione e far trasmettere un comunicato, tentativo che deve fare i conti con l’assenza di chiunque in radio, e che termina con la decisione di alzare i cursori e andare in onda. [Memorabile il comunicato prodotto dalla radio in quell’occasione, sopra le righe e intitolato «Non si fa così», N.d.R.]

Con il nuovo anno, un radioso comunicato del direttore Riccardo Tagliati annuncia «un’interessante novità»:

«Radio Città del Capo sta dando vita, insieme ad altre emittenti, ad un network radiofonico nazionale: NetLit – Media Literacy Network. Il centro di produzione è proprio a Bologna, nella nostra redazione. […] Per quanto riguarda il nostro palinsesto, nessuno stravolgimento: continueremo ad essere una radio locale, con i piedi a Bologna e lo sguardo ancora più sul mondo. Continueremo a proporvi notizie e approfondimenti su welfare, diritti, digitale, ambiente, cultura, vi faremo ascoltare buona musica e vi terremo compagnia. Continueremo ad essere parte di Popolare Network e a trasmetterne i giornali radio e i programmi più interessanti. Esattamente come ora. Solo con l’ambizione di fare di più, pensando al futuro. L’avventura che stiamo iniziando è affascinante, spero vogliate continuare ad essere dei nostri.»

Finalmente Open Group riesce ad “esternalizzare” Radio Città del Capo, cedendo il 60% delle quote societarie – 40% a Coop Mandragola e 20% alla Fondazione Sotto i Venti – liberandosi di ciò che da sempre ritiene una sorta di zavorra e salvando anche la faccia per il futuro: quando il nuovo editore «puro» farà valere la sua maggioranza nella proprietà, volendo disporre della radio a proprio piacimento e arbitrio, il vecchio editore, il benefattore dal cuore buono di Radio Città del Capo, esibirà pubblicamente in città il candore della propria coscienza.

Netlit è un network formato da più soggetti non solo radiofonici, che hanno sede tra Val D’Aosta, Piemonte e Liguria e che hanno come mission di occuparsi di educazione ai media per le nuove generazioni e la conoscenza di nuove tecniche e linguaggi della comunicazione. L’obiettivo progettuale comporta ovviamente immediati cambiamenti nella programmazione di Radio Città del Capo, così come nella gestione delle sue frequenze in FM: la frequenza che era appartenuta a Radio Fujiko e che per una decade è stata la seconda frequenza di Radio Città del Capo, viene così ceduta ad un’altra emittente. ma In compenso viene annunciata la disponibilità di una frequenza su Firenze, su cui però non andrà in onda Radio Città del Capo, ormai ridotta al lumicino.

Arriviamo così a Gennaio 2020, quando la redazione di Radio Città del Capo, con la solennità di un invito alla resistenza contro l’invasore, lancia il proprio appello. Nel comunicato sindacale – che ha il titolo emblematico «Vogliono zittire Radio Città del Capo» – si sostiene che

«entro il 10 gennaio 2020 l’editore di Radio Città del Capo, la NetLit srl, ha deciso di eliminare dalla programmazione i programmi locali di cronaca, politica e cultura e di smantellare la redazione di Bologna. I giornalisti potrebbero anche perdere il lavoro».

Renato Truce.

Una versione smentita dalla proprietà, che interviene attraverso il suo presidente, Renato Truce, il quale sostiene addirittura l’opposto, cioè che «intende incrementare l’autoproduzione quotidiana di notizie relative alla propria linea editoriale passando dalle attuali 6 ore al giorno alle future 15 ore di informazione/intrattenimento».

In pratica, i lavoratori e le lavoratrici dell’emittente bolognese denunciano un possibile smantellamento che la proprietà non solo nega, ma addirittura afferma essere un incremento della produzione.

Per capire il perché di due narrazioni opposte occorre risalire allo scontro in atto a livello societario. Ad esplicitarlo è la stessa Open Group, che afferma testualmente:

«Open Group, socio di minoranza di NetLit, segue con preoccupazione quello che sta accadendo. La nostra cooperativa ha visto nella nascita di Netlit la possibilità di dare vita a una nuova realtà del panorama editoriale nazionale rivolto alla Media Literacy, alla produzione e alla distribuzione di trasmissioni radiofoniche.»

Sarebbe stato così bello. E tuttavia, il fato avverso ha voluto che

«a causa di una visione strategica divergente rispetto alla maggioranza di Netlit, alla mancanza di condivisione di metodi e di modalità, il rappresentante di Open Group ha di recente presentato le dimissioni dal consiglio di amministrazione di Netlit. Di fronte ai conflitti emersi che vedono contrapposti la maggioranza della società editrice e i lavoratori, rispetto alla cui tutela l’impegno di Open Group sarà massimo, ribadiamo, pur non avendo la possibilità di intervenire, l’opportunità di riaprire il confronto per trovare soluzioni costruttive che possano rilanciare il progetto con tutte le sue potenzialità

Apriti cielo! Qualcuno attenta a Radio Città del Capo, baluardo di libero pensiero. Peraltro, il nuovo capo ha pure la ventura di chiamarsi Truce, non è nemmeno bolognese, scrive che la radio è in crisi totale di ascolti e per risolvere il problema non propone nemmeno la supposta del design thinking. Ha persino mandato a casa Tagliati, sostituendolo. Non si fa così. Si alzino gli scudi, si preparino le alabarde, si convochi un tavolo in Comune, si coinvolga la Regione e, perché no, le Nazioni Unite.

Atto 7. Cosa rimane e cosa può nascere

La storia che abbiamo raccontato vende certamente peggio di quanto non faccia la favola del padrone feroce che vuole chiudere un bene comune spegnendo liberi microfoni.

Gli ultimi anni di Radio Città del Capo sono stati segnati da individui che, credendosi di gran lunga più scaltri e meritevoli di quanto il mondo circostante fosse disposto a riconoscere, hanno deciso che fare bene una radio – nutrirla e farla crescere – non sarebbe stato sufficiente per la propria personale affermazione. Questi maestri del discernimento tattico d’impresa, dissimulando le proprie piccole ambizioni, intendevano dimostrare di saper cavalcare l’onda dei tempi nuovi e il successo. Muovendo le loro pedine di fusione in fusione, hanno finito per credere alla propria immagine di “imprenditori buoni”, e non sia mai che mentre posano per il ritratto, imbracciando oggi la causa della «radio di tutti che non può essere spenta», venga presentato loro il conto dell’esser stati pessimi editori. Eppure non capita tutti i giorni di vedere una radio che ha professionisti, volontari, ascolti, reputazione e impatto, finire smembrata in modo così scriteriato.

Il racconto della fine, però, non è l’unica storia che affiora dal relitto fumante di Radio Città del Capo. Il gruppo RCdCViva, una volta bruciati i ponti con quello che rimaneva di Radio Città del Capo, si è organizzato per la costruzione di una nuova radio – la Nuova Emittente Urbana o NeuRadio – inizialmente con la messa in onda di programmi audiozines, oggi una vera e propria webradio, con contenuti e approfondimenti capaci di segnare ascolti ragguardevoli e di distinguersi in città. La nuova radio poggia sull’associazione culturale Humus e trasmette dai locali del Baumhaus, contando anche su uno studio di registrazione esterno, oltre che sull’appoggio – via crowdfunding – di tantissimi sostenitori e di locali in città.

Alla radice di questo esperimento c’è una domanda tanto semplice quanto fondamentale: cosa significa fare una radio indipendente nel 2020, nel pieno di processi avanzati di digitalizzazione, disintermediazione e moltiplicazione degli accessi alla sfera comunicativa in apparenza gratuiti? Cos’è una radio libera nel momento in cui in qualunque momento posso lanciare da dove sono gratuitamente la diretta Facebook, lo stesso Facebook che veicola e aggrega i miei dati per far vincere le elezioni a Trump?

NeuRadio ha ingaggiato il panorama radiofonico indipendente cittadino, saltando steccati, condividendo programmi con Radio Città Fujiko (103.300 MhZ) così come dialogando con le nuove esperienze di webradio come Radio Solipsia e Radio Leila. Partecipando al Festival della Letteratura Sociale «Contrattacco!», ha interrogato il rapporto fra radio libere e cambiamento sociale, esplorando l’idea di radio totale e metaradio, ovvero sul doppio movimento rappresentato da moltiplicazione delle focali e dalla convergenza delle emittenti libere su determinate eventi, situazioni, narrazioni resistenti.

Lacerato dalle proprie beghe interne, il circuito Popolare Network, propugnatore un tempo di un federalismo radiofonico indipendente, si è fino ad oggi mostrato incapace di prendere posizione davanti allo sfacelo di una sua importante consorziata, restando impigliato fra silenzi e dichiarazioni vacue, fino a ritrovarsi con il giornale radio trasmessi su una radio dimezzata, che sbandiera il nome di Radio Città del Capo ma che da tempo non c’entra più con quella storia.

C’è davvero da chiedersi quale sia il punto di caduta ultimo, oltre il quale anche nella sede di Radio Popolare di Milano ci si renderà conto che il laboratorio della comunicazione indipendente a Bologna oggi è decisamente altrove.

Ci fu un tempo Radio Città del Capo, oggi non c’è più ed è bene che lo si accetti: nomina nuda tenemus. Nel frattempo, a Bologna le cose continuano a muoversi, non tutte e non sempre sotto i riflettori. La piattaforma radiofonica indipendente che lentamente prende corpo, è una fra queste cose, e necessita dello sforzo di tutti, ciascuno per quello che sa fare.

Il mondo delle radio libere bolognesi ha una propria esistenza dai tratti carsici, affiora per poi sparire e riaffiorare ancora. Superare aziendalismo d’accatto e configurazioni settarie, per continuare a tessere la tela di una sperimentazione, dando voce alle città e alla regione, una voce amica del vissuto quotidiano: è l’obiettivo di chi – senza abbeverarsi a comode narrazioni vittimiste – vive e pratica radio in una comunità diffusa, libera e indipendente che guarda avanti.

* Global Tavor è un collettivo trasmutante che racconta il mondo impazzito con i mezzi più svariati. Quello che predilige è la radio: per 20 anni ha firmato su Radio Città del Capo trasmissioni come Global Tavor, Glocal Valium, Calma Piatta, Paracetamolotov. Dopo aver condiviso e partecipato a tutta la vicenda di RcdCViva, Global Tavor contribuisce a fondare NeuRadio, su cui va in onda in diretta la domenica sera dalle 19:00 (dalle 23:00 in differita su Radio Città Fujiko).

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11 commenti su “Autopsia di una radio libera (tragicommedia in 7 atti). Com’è davvero morta Radio Città del Capo

  1. grazie a Giap e grazie a Global Tavor per il testo. Sono Michele Pompei e mi permetto solo di aggiungere una nota personale (che cmq non inficia e non mette in discussione la ricostruzione). La mia decisione di lasciare RCdC si è maturata appena saputo (leggendolo sul sito di repubblica Bologna e non da parte dell’interessata che mi lavorava a fianco), della decisione di Giusi Marcante di andare a lavorare per Merola e del suo passaggio di consegne a Riccardo Tagliati. Quella fu per me la goccia che fece traboccare un vaso giunto ormai al suo colmo, un vero e proprio tradimento da parte della Mercante (nei miei confronti, ma soprattutto nei confronti della storia di indipendenza di rCdC), aggravato dal fatto che mi sarei dovuto trovare come direttore una persona che per me faticava anche a ricoprire il semplice ruolo di redattore.
    Le mia uscita ufficiale è avvenuta a inizio febbraio del 2017 solo per questioni puramente tecniche, ma ho smesso di andare in radio e dunque in voce , già alla fine di luglio del 2016. Sono stato il primo ad andarmene volontariamente, cercando di prendere una posizione chiara e netta nei confronti della proprietà. E vi assicuro che non è stata una decisione facile, per i motivi che forse potete immaginare.
    Nel testo si ricorda l’esperienza di Nino Web Radio, un’esperienza che non voleva essere e che non è stata ”in solitaria”, ma che per due anni ha coinvolto decine di voci, comprese quelle poi attive su Neu Radio, che ho avuto il piacere di portare sulle frequenze di Radiocittafujiko, creando una collaborazione che continua ad esistere anche dopo la chiusura della mia (non felicissima) esperienza con l’emittente di via Zanardi. Certo NWR è nata sotto mio impulso, ma ha potuto contare sul contributo economico di centinaia di persone che hanno dato fiducia e denaro a questo progetto.
    Oggi mi dedico ad altro e credo che la mia esperienza radiofonica sia definitivamente chiusa, ma questo è semplicemente un dettaglio di scarso interesse. Sarebbe bello, un giorno, ragionare sul futuro di questo mezzo e su come sia più sensato investire sforzi e risorse. Grazie dell’ospitalità

    • Ciao Michael,
      grazie per le precisazioni: il testo era già parecchio lungo, per cui siamo andati agili su alcune cose che avrebbero avuto bisogno di più spazio, ma tant’è. Mi fa piacere più che altro che tu abbia fatto riferimento alla comunità che ha sostenuto la tua iniziativa: è cosa che riteniamo importante per una emittente di una certa natura. Per il “ragionamento sul futuro”, già sai che puoi contare su di noi. abrx

  2. Qualche piccola puntualizzazione. Il trasferimento da via Cartolerie alle Mura di Porta San Felice avvenne nella primavera del 1991, non nel ’92. Nel 1991-92 il Kryptonight era gestito da un piccolo gruppo (quasi un collettivo) di amici in parte autonomo dalla radio. Però, pur nella forzata stringatezza della biografia, sarebbe ingiusto ricordare Radio Città del Capo solo per il Kryptonight (che pure in 2 anni organizzò quasi 50 concerti): la radio organizzava grandi feste di autofinanziamento (a mia memoria sempre andate bene), concerti piccoli e grandi (dai Legendary Pink Dots ai Residents, dai Tuxedo Moon a Yuossu N’Dour e Salif Keita, al Fabrizio De André di Nuvole. Insomma, quella comunità che poi contribuì anche economicamente si era formata già sul finire degli anni Ottanta.
    Due parole sul nome: Città del Capo, per ricordare la prigionia di Nelson Mandela (il Carlino, sempre ben informato, annunciò la nascita di “Radio Città Apartheid); non per caso l’agenzia pubblicitaria si chiamava “Nelson & Winnie” (anche se non lo spiegammo, e quasi nessuno capiva questo nome).
    Un ricordo personale: una domenica arrivo in radio, e mi dicono che Nelson Mandela sta per uscire di galera, c’è la diretta televisiva mondiale, e io devo mettere “Free Nelson Mandela” degli Special AKA quando si aprono le porte. Ma quando succede, penso che dopo decenni di clausura Mandela meritava qualcosa di diverso da un pezzo che parlava di galera, e l’ho festeggiato mettendo su “Enjoy Yourself” (sempre degli Specials).
    E due parole per ricordare, oltre a Piero Santi, Antonio, Valerio, Pierantonio, che non ci sono più: la sorte è stata crudele, chissà che dischi passano lassù…
    Poi ci sarebbero tante altre cose da dire, ma la mia storia con RCdC finisce nel 1992, e a distanza di anni le ragioni di amicizie, talvolta militanti (penso a Mirco Pieralisi, antico presidente, che ho ritrovato nelle lotte per la scuola) si sono dimostrate più forti degli scazzi del momento, ed è bene che sia stato così.

    • Girolamo, il gruppo Kryptonight non era autonomo dalla radio, visto che i conti li pagava tutti lei ;-)

      • Non è così, spiace che tu, chiunque sia, abbia questa informazione: il gruppo aveva una retribuzione (una percentuale sugli utili se il bilancio mensile era in attivo, altrimenti no), il resto delle entrate era versato alla radio, che avrebbe dovuto ammortizzare le spese successive alla fine della stagione (l’affitto estivo, e tutto quanto non poteva essere pagato con le entrate correnti). Purtroppo la radio usò quei soldi per tappare altri buchi, una scelta contabile sua propria che determinò la permanenza di conti scoperti: ma noi i soldi li abbiamo versati tutti, e i conti del KN erano in attivo (fino a marzo ’92, quando la radio scelse di sganciarsi dal locale e di lasciarlo a noi, regalalndoci gli ultimi due mesi ma pregiudicando la possibilità di riaprire per il terzo anno). So quel che dico, visto che ero io che consegnavo i soldi alla radio e andavo a pagare l’affitto, la SIAE, i fornitori del bar, e saldavo i lavoratori e i gruppi a fine serata (è un piccolo vanto, ed era un punto d’onore per noi: mai fatto un gancio a un gruppo o a un lavoratore, come che sia andata la serata). E avevo anticipato di mio il necessario per l’apertura. Questa è la storia, fine delle tresmissioni.

        • Giro, credo ti sia sfuggito che Micdemic ha svelato la sua identità fin dal primo commento qui sopra: è Michele Pompei, un pezzo di storia di RCdC, non proprio un “chiunque tu sia”. Suggerisco comunque di non usare lo spazio dei commenti a questo post per precisare ogni episodio della vita della radio, che è lunga, multiforme e sfaccettata. Direi che quel che più ci sta a cuore è il ragionamento su come quel patrimonio è stato dismesso, senza voler dire che fino a un certo anno era tutto rose e fiori e poi d’improvviso s’è spalancato il baratro, ma di sicuro ci sono state scelte più determinanti di altre nel distruggere un edificio già delicato. E soprattutto, credo sia interessante domandarsi cosa può esserci adesso e come non buttar via un’eredità che comunque esiste e ha significato molto per questa città.

        • Girolamo, sono Michele Pompei. Nessuna polemica, per carità. Io ho ricordi diversi e sicuramente Mirco Pieralisi, dotato di migliore memoria della mia potrebbe aiutare. Ricordo solo che il KN cominciò ad andare in sofferenza, forse anche per la decisione di investire sul mercoledì. Dalla tua versione, l’impressione è che i conti del KN fossero sempre in attivo e che il cda usasse quegli utili per altro, mentre io ricordo che così non fosse. Cmq, acqua passata e non è certo questo il punto dirimente di tutta la storia della radio. Un caro saluto.

  3. Ringrazio per questo lungo e dettagliato resoconto. Il racconto di un’agonia.
    Sembra di vedere all’azione, in questa sceneggiatura sulla fine di RCdC, un piccolo dimenticato tentacolo del mostro liberista che, quasi fuori tempo massimo, acceca un’intera redazione (” Il tutto con l’approvazione di tutti i soci: unica eccezione il summenzionato Paolo Soglia,”), avvilisce un’intera comunità di ascoltatori affezionati (“la perdita di buona parte degli abbonamenti “) e riduce il lavoro di giornalismo a mera compilazione e lettura di comunicati stampa.
    E’un piccolo tentacolo che agisce per quattro soldi di guadagno e uccide una comunità con noncuranza spietata. Ora siamo costretti a parlare di metaradio e nuove strategie ma l’etere, la sua casualità, le infinite possibilità offerte dalla sua eccezionalità, è perso. Ringrazio chi ha combattuto fino all’ultimo e chi impegna tempo e fantasia in NEURadio e nelle altre esperienze centrifughe.

  4. Scusatemi, non vorrei abbattere un mito, ma una precisazione mi sembra utile. Non entro nella discussione di/su RCDC, non perchè non abbia da dire qualcosa, visto che ci sono stato dentro dai tempi di via Masi, ma perchè non sono riuscito ancora ad elaborare la rabbia (ed a questo punto penso che me la porterò nella tomba). La precisazione riguarda il concerto dei Nirvana: la Radio ha senza alcun dubbio segnato profondamente la vita culturale di Bologna con gli incredibli eventi che ha organizzato a Bologna, ma il concerto dei Nirvana fu organizzato non dalla Radio ma dai ragazzi dello Slego di Rimini che affittarono il Kriptonight per quella sera (e per un’altro concerto – i Firehose di Mike Watt), se qualcuno lo chiede a George (Liguori è M.I.A., credo) che si occupava del booking, ve lo potrà confermare. Abbracci a tutti.

    • Ciao Amedeo. Niente da dire: hai perfettamente ragione. La radio era in cogestione del locale, ma il concerto dei Nirvana non partì da una sua iniziativa. Certo, furono organizzati un sacco di concerti, in quella stagione: ho voluto citare quello perché è l’evento che si ricorda di più, epocale quasi come il concerto dei Clash in Piazza Maggiore, considerando che era a tiro di uscita di Nevermind. Ma hai fatto bene a fare la precisazione: quello che è giusto…
      Tra l’altro io avevo a che fare con lo Slego (poi Velvet-Perestroika), ma lavoravo nella security e non nell’organizzazione :-)
      Al concerto dei Nirvana andai, ma sapevo poco dell’organizzazione: al tempo trasmettevo su Radio Città 103.
      Grazie, un abbraccio.
      PS: ma una reunion dei Rivolta dell’Odio? B-]’