di Totò Cavaleri *
1. «Casa», o quel che ne fa le veci
Scorrendo la lista delle attività che il Dpcm dello scorso 22 marzo definisce come «essenziali», arrivando al codice Ateco 87 si trovano i «servizi di assistenza sociale residenziale». Non c’erano molti dubbi, del resto, sul fatto che la comunità in cui lavoro non avrebbe chiuso, anche perché per i cinque ragazzi italiani e i cinque ragazzi stranieri che ci abitano, quella è l’unica cosa che si avvicina al concetto di «casa».
Anzi, per tutti loro #RestoaCasa vuol dire proprio restare tutto il giorno in comunità. Per carità, di questi tempi, per alcuni versi, è anche meglio. Almeno si sta in compagnia di altri ragazzi e qualche adulto, e di sicuro ci si annoia di meno.
Ma come se già il decreto #RestoaCasa non fosse abbastanza esplicito in merito alle limitazioni individuali per tutti i cittadini, le varie istituzioni con cui abbiamo a che fare si sono preoccupate di scriverci cosa fosse necessario sospendere in modo specifico per i ragazzi della comunità.■ La Procura della Repubblica ci ha invitati a «impedire gli allontanamenti arbitrari in ogni modo, anche chiudendo a chiave le strutture», invitandoci a segnalare alla Polizia qualsiasi abuso.
■ Il Tribunale per i Minori ha sospeso l’ingresso di persone esterne in struttura e negato gli eventuali rientri in famiglia del fine settimana.
■ La Questura ha rinviato a data da destinarsi la consegna dei Permessi di soggiorno.
■ L’ospedale ha rimandato a tempi migliori la risonanza magnetica prenotata tre mesi prima.
■ I Servizi sociali hanno annullato l’appuntamento per farci incontrare una nuova possibile famiglia affidataria. Gli incontri con psicoterapeuti, tutori e assistenti sociali, va da sé, tutti sospesi.
In poche parole tutti hanno comunicato a perfezione cosa questi ragazzi non debbano fare, ma nessuno si è preoccupato di dire come possano passare le giornate.
Ovviamente anche le loro scuole sono chiuse. I più grandi, inseriti in progetti di inserimento lavorativo, hanno visto sospendere il tirocinio proprio la settimana prima della possibile assunzione.
Anche le partitelle di calcio al prato della Favorita sono saltate, così come gli allenamenti di basket di un ragazzo che gioca in serie B o il corso di nuoto frequentato dai più piccoli.
Chi ha la fidanzata la incontra soltanto in chilometriche videochiamate, effettuate con scarsissima privacy.
Così, tra la didattica online da seguire nei due computer a disposizione di tutti, lunghi tornei di playstation, serie tv, palestra casalinga e musica a palla mandata in contemporanea da tre casse bluetooth diverse, ogni giorno ci si inventa qualcosa di nuovo per passare la giornata. Al fondo del barile hanno trovato anche l’entusiasmo per appendere al balcone lo striscione arcobaleno con la scritta «Vinceremo tutti insieme». L’alternativa, «Tutti coltiviamo sogni, ma nessuno è disposto a zappare», ha perso al ballottaggio.
Le giornate per il resto sono scandite dall’aggiornamento delle 12.00 della Regione Siciliana e da quello delle 18.00 della Protezione Civile, ai quali si aggiunge la ricerca di notizie sull’evoluzione dei contagi in Gambia, Costa D’Avorio, Tunisia, Guinea e Guinea Bissau.
Come per ogni adolescente abituato ad avere una vita frenetica, anche per loro questa nuova dimensione ha qualcosa di irreale. Sono passati dal vivere le giornate in modalità costantemente accelerata ad un rallentamento pressoché assoluto.
Ci continuiamo a chiedere che senso abbia avuto vietare anche la corsetta, o una passeggiata in solitaria, a ragazzi abituati in alcuni casi a fare ogni giorno allenamenti agonistici o attività fisica di vario tipo?
Fino ad oggi hanno reagito bene al coprifuoco, con buono spirito di adattamento. C’è stato un grande livello di comprensione della situazione e di condivisione delle responsabilità. Si sono messi da parte i conflitti precedenti e si provano a tenere a bada anche i propri drammi personali.
Ma quanto può durare questa situazione?
La dimensione di sospensione generale ha per tutti una forte componente straniante, ma quando da mesi si è in attesa di un Permesso di soggiorno o, ancora di più, quando si aspetta costantemente una convocazione di un Giudice che deve presentare una nuova possibile famiglia, questa improvvisa dimensione fuori dal tempo diventa insopportabile.
2. Io esco di casa per andare in un’altra casa
Una volta sospeso l’ingresso in comunità di amici, volontari e tirocinanti, a condividere le giornate con i ragazzi siamo rimasti soltanto il gruppo di operatori e operatrici che lavoriamo in struttura, alternandoci, come sempre, in turni che garantiscono una presenza 24 ore su 24.
Già, perché mentre si fa terrorismo con #IoNonEsco, c’è chi quotidianamente deve uscire di casa.
E non solo deve farlo, ma deve anche passare tre checkpoint di carabinieri, polizia ed esercito, produrre un’autocertificazione diversa ogni settimana e sottoporsi agli sguardi inquisitori di chi, vedendolo per strada, lo considera alla stregua di un untore.
Le reazioni dei colleghi al coronavirus e alle relative disposizioni, sono state varie: da chi è stato assalito dal panico a chi ha mantenuto all’apparenza i nervi saldi. In un caso o nell’altro, del resto, a fine turno ognuno deve tornare regolarmente a casa propria, con le legittime preoccupazioni per i propri familiari.
Ma nessuno dei colleghi ha fatto venire meno la solidarietà reciproca e l’attenzione verso i ragazzi. Nessuno, cioè, ha provato a trovare soluzioni individuali per assentarsi dal lavoro. Anche per quelli che sono stati avvolti dalla paura all’idea di uscire di casa, era chiaro che mettersi in ferie o in congedo parentale, in questo momento avrebbe messo in difficoltà i colleghi e avrebbe lasciato più soli i ragazzi.
Già nei primi giorni sono state effettuate tutte le operazioni necessarie a sanificare la struttura, e si sono predisposte le procedure per i possibili scenari a venire.
Tutto quello che si è fatto, comunque lo si è realizzato grazie all’attenzione e alla buona volontà dell’ente per cui lavoriamo. Non tutte le comunità hanno seguito gli stessi protocolli. Molti colleghi di altri servizi non hanno ricevuto le nostre stesse tutele. Da parte di tutte le istituzioni di cui sopra – Questura, Procura, Tribunale, Comune, ecc. – sono arrivati mille dépliants in cui viene spiegato cosa fare e cosa non fare. Ma non è arrivato nessun supporto di altro tipo per aiutarci a rispettare i protocolli.
C’è da dire che si fa anche di necessità virtù. Ormai il turno di lavoro è diventato l’unica occasione per uscire di casa, un vero e proprio tuffo nella mondanità. A chi capita di questi tempi di uscire ed incontrare altre dieci persone? Onestamente, una boccata d’aria fresca. Anche perché, in queste ultime settimane, ho preso l’abitudine di andare a lavoro a piedi e concedermi quei tre chilometri di camminata, evitando così di prendere la vespa. Fino a quando Musumeci non decreterà anche sul mezzo con cui andare a lavoro, conto di continuare a farlo.
In ogni caso, per forza di cose, la fisicità interna alla struttura è sostanzialmente cambiata. Si prova a conformare i comportamenti di tutti alle avvertenze che arrivano. Ma, con tutte le attenzioni che è possibile avere, ci sono comunque una dozzina di persone che condividono lo stesso appartamento e stiamo parlando pur sempre di lavoro di cura, fatto anche di intimità relazionale e contatto umano.
3. Gli «Eroi»
Confrontandomi con colleghi e colleghe che lavorano in servizi di altro tipo, mi rendo conto di non essere poi messo così male. La maggior parte degli altri progetti sono stati bloccati fino a nuove disposizioni: da un giorno all’altro hanno sospeso la propria attività gli sportelli sociali, i doposcuola, i laboratori di quartiere, gli oratori, i camper che si occupano di dipendenze, i centri antiviolenza, i progetti di educativa di strada…
Anzi, sono state chiuse proprio le strade. Tutti sono ritornati nelle proprie case, chiudendo tra quattro mura anche la drammaticità delle singole condizioni individuali.
Chi lavora in questi servizi, alla preoccupazione per il destino delle persone che si seguivano, oggi deve aggiungere quella per la propria situazione.
In tantissimi si sono accorti che il decreto «Cura Italia» non si cura di chi cura in Italia. Specialmente chi lavora per piccole associazioni, legate a finanziamenti di progetti, spesso per committenza di fondazioni private, si ritrova oggi senza alcun tipo di tutela.
Lungi dall’essere il regno de «I buoni», il mondo dell’associazionismo è stato negli anni terreno di sperimentazione di tecniche di precarizzazione del lavoro. Per una dolorosa eterogenesi dei fini, la spinta all’eguaglianza invece di ampliare la quota di diritti dei destinatari, ha finito per spogliare dei propri diritti gli stessi operatori.
L’intervento sociale si è spesso ricoperto di presuntuosi presupposti salvifici. L’epica della «Prima linea» e la retorica della «Trincea» hanno prodotto sequele di Esperti su ogni aspetto della marginalità. Capaci solo di alimentare uno sguardo pulp, in bilico tra paternalismo pietistico e fascinazione per il degrado.
Tanto più si diventava Eroi della condizione altrui, tanto più si diventava Martiri della condizione propria.
Il cosiddetto «lavoro sociale» (come se esistesse un lavoro non sociale), anche e soprattutto in un momento come questo, ci racconta di come la crescita delle disuguaglianza non sia un effetto collaterale di decenni di politiche liberiste, una sorta di disfunzione del sistema, ma la diretta conseguenza di una società organizzata a partire dalla competizione individuale.
La condizione di chi lavora nel mondo dell’associazionismo rimane incastrata tra una spinta salvifica onnipotente ed una scorata rassegnazione all’impotenza, tra il dovere di offrire soluzioni a tutti i mali del mondo e il ritrovarsi all’improvviso immersi fino al collo in quei mali.
L’ambigua formula dell’«Impresa sociale» ha finito, anche questa volta, per prestare il fianco al mantra «meno Stato più Mercato».
Eppure, con tutti i limiti, il lavoro sociale in alcuni contesti rappresenta l’unica presenza rimasta a contrastare il dilagare della diseguaglianza. In molti quartieri di periferia la presenza delle associazioni rappresenta l’unica possibilità per accedere a spazi di socialità. Senza l’impegno capillare e plurale del terzo settore intere categorie sociali vedrebbero profondamente negati i loro diritti.
In questi giorni di reclusione forzata in tanti ci si confronta su quali spazi di intervento siano ancora possibili.
Ci si chiede: che fine fa il lavoro sociale, nel momento in cui viene sospesa la socialità?
Ma anche: che fine fa la società, nel momento in cui viene meno anche il lavoro sociale?
Si naviga a vista e si prova a inventare delle risposte estemporanee. In queste settimane a Palermo sono nate improvvisamente tre radio comunitarie, si leggono fiabe a telefono e si sfogliano libri registrando video, si organizza l’animazione a distanza e si proseguono i colloqui in videochiamata.
4. Se non esprimiamo critica e conflitto oggi, come potremo farlo domani?
Ma soprattutto, ci si incomincia ad interrogare su come sarà dopo.
Come sarà possibile recuperare la fisicità su cui si basavano le nostre vite?
Come faremo a ricostruire spazi di socialità e a riappropriarci di spazi pubblici?
Come faremo a porre un argine alla crescente diseguaglianza che deriverà da questo periodo?
E come sarà possibile organizzare reti sociali per proteggerci collettivamente dall’infelicità e dalla solitudine?
Infine, come sarà possibile riuscire a porci queste domande domani, se oggi sospendiamo ogni possibilità di critica e di conflitto?
Come scrive lo psicoterapeuta Calogero Lo Piccolo in un suo recente articolo dal titolo «La gestione dell’attuale e gli ambasciatori», nel quale parla dei costi, al tempo stesso psicopatologici e sociopolitici, dell’attuale sospensione della sfera sociale:
«Non è solo un problema di salvarsi la vita, non è solo un problema di salvaguardare la propria salute mentale, è anche un problema, soprattutto per certi versi, di salvaguardare lo spazio sociale della politica, e del nostro essere soggetti che abitano criticamente lo spazio della polis come bisogno fondamentale.»
5. Tra disperazione e autorganizzazione
Negli ultimi giorni ha destato molta attenzione una notizia proveniente da Palermo: in un hard discount a metà strada tra il Cep e Cruillas, una quindicina di persone ha riempito i carrelli della spesa provando ad andare via senza passare dalle casse, motivando, molto limpidamente: «Non abbiamo soldi e non vogliamo pagare».
Mentre si moltiplicavano sui vari social network le reazioni di apprezzamento e le promesse di emulazione, è arrivata la netta condanna del Sindaco Leoluca Orlando, che ha subito definito «sciacalli del sottobosco mafioso» tanto i protagonisti della vicenda quanto i loro tifosi.
Va sottolineato come la matrice mafiosa sia stata decretata in base all’analisi semantica dell’immaginario caratterizzante le pagine Facebook dei sostenitori. L’invito del Sindaco, in ogni caso, è stato quello alla denuncia capillare: «Chiedo a tutti i cittadini di segnalarli alle autorità di Polizia, di segnalare i loro account come promotori di violenza agli amministratori di social network perché siano immediatamente bloccati.»
Nel frattempo sono stati organizzati presidi di carabinieri, finanzieri e poliziotti davanti ai grossi ipermercati della città.
Che si sia trattato di «espropri proletari» o di azioni di «sciacallaggio», questa vicenda testimonia in ogni caso la drammaticità delle conseguenze di questo periodo in contesti già molto poveri come Palermo. C’è da scommetterci che manifestazioni del genere saranno sempre più frequenti nei tempi a venire. E criminalizzarle non contribuirà a migliorare la situazione.
Sono state 1800 le famiglie che nei primi tre giorni si sono registrate al portale del Comune per richiedere gli aiuti alimentari. Sulle pagine locali di Repubblica di oggi, in un articolo su La povertà da coronavirus, viene indicata la cifra di 50mila palermitani rimasti senza reddito. Ma sembra una stima al ribasso, considerato che già prima del coronavirus il tasso di disoccupazione in città era al 17,7% e i cittadini inattivi erano il 49,6%.
Segnalo, infine, un’iniziativa nata dal basso a Ballarò per iniziativa dell’associazione Sbaratto, costituita dagli ambulanti del mercato abusivo dell’usato, da anni protagonisti di una vertenza per vedere riconosciuta lo propria attività e spesso stigmatizzati come principale minaccia per il decoro urbano. Negli ultimi giorni, chiuso il mercato e messe da parte le bancarelle, si sono mobilitati in prima persona per distribuire in modo capillare cibo e beni di prima necessità a tutto il quartiere Albergheria.
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* Totò Cavaleri vive a Palermo, dove alterna alle vesti di attivista dei movimenti quelle dell’operatore sociale. In entrambi i ruoli si è occupato di adolescenti, rifugiati e interventi nelle periferie. Attualmente lavora in una comunità alloggio per minori. Su alcuni dei temi trattati nell’articolo ha curato i volumi Luoghi d’artificio. Narrazioni della metropoli al tempo della crisi (Navarra, 2011) e L’inutile fatica. Soggettività e disagio psichico nell’ethos capitalistico contemporaneo (Mimesis, 2016).
Ieri sul sito Repubblica.it nazionale si interrogano su questioni eugenetiche inspiegabili, a sfondo etnico-razziale e sulla mancanza di dati per avvalorare o meno l’ipotesi per cui i migranti africani (60 paesi) siano poco colpiti dal Covid-19…
https://www.repubblica.it/cronaca/2020/03/27/news/migranti_africani_poco_colpiti_improbabile_ma_non_ci_sono_dati-252427582/?ref=RHPPTP-BH-I252331136-C8-P8-S5.4-T1&fbclid=IwAR0Q6hV_Kz8tITaJTsgbZx3wODEU15OpQwIdC1fOfpoYUyRz9m5ng1FtoHA
Imbarazzante a dir poco.
Grazie per la tetimonianza preziosa!
Purtroppo si può immaginare come è stata accolta mediamente la notizia dell’assato al supermercato di palermo qui al nord…
I soliti stereotipi e invocazioni di intervento dell’esecito, anche da parte di persone che stanno mostrando insoffernza per le misure restrittive imposte.
In realtà un mio amico nordico ieri mi ha detto: «Forse saranno le rivolte al Sud a far respirare anche noi».
Forse ho esagerato nel generalizzare, ma ti assicuro che dalle mie parti l’empatia nei confronti dei meridionali è piuttosto bassa in generale, e questa situazione non fa eccezione, anzi, la mia impressione è che nelle ultime settimane si siano rafforzate un po tutte le tendenze iper-localiste e gli egoismi regionali che già esistevano.
«Sciacallaggio» o «esproprio proletario» che sia stato, l’episodio di Palermo, unitamente ad altre manifestazioni di forte tensione e a un cambio di mood generale (dai balconi nessuno canta più, i tricolori si sono ammosciati, i flash-mob alla finestra sono già dimenticati), ha messo una strizza enorme al governo. L’espressione «rivolta sociale» è usata – e il suo contenuto temuto – come mai negli ultimi anni, Provenzano ha detto che il Sud (ma mica solo il Sud) potrebbe esplodere, e così nel giro di 48 ore il governo decide e annuncia lo stanziamento di 4,2 miliardi per i Comuni destinati ad «aiutare chi è in difficoltà» e 400 milioni di buoni spesa.
Questi fondi daranno parziale sollievo a qualcuno, e va bene, non risolvendo però nessuno dei problemi strutturali che l’emergenza sta esacerbando e facendo pagare ai più deboli. È più interessante il loro significato politico. Dietro la retorica di facciata sul nostro Paese che sta gestendo le cose al meglio e dà lezioni al mondo, c’è la paura – ormai dichiarata – che il consenso accumulato si esaurisca in fretta e ci sia una sollevazione.
Fino a ieri non si parlava d’altro che di modello coreano, e di profilazione totale degli spostamenti, poi 15 persone provano a non pagare la spesa al supermercato, e all’improvviso cambia totalmente l’ordine del giorno.
Se non altro l’episodio di Palermo ha il merito di aver fatto emergere l’esplosività della situazione.
Da notare come Conte oggi in conferenza stampa abbia fatto più volte richiamo al terzo settore, come la forza in grado di tenere sotto controllo la situazione che rischia di esplodere. L’evocazione dell’associazionismo nel suo discorso aveva proprio la funzione di autoposizionarsi dalla parte dei Buoni, e azzerare ogni possibile obiezione.
In questi giorni, ” a causa dei decreti” e delle costrizioni imposte sotto forma di martirio, ho reagito al coprifuoco continuando ad uscire e intensificando le attività di monitoraggio urbano di alcune situazioni, preesistenti, che sono a piu elevato rischio di totale rimozione/ cancellazione. Tra queste, normalmente, ci sono i servizi sociali di cui parla Totò Cavaleri, ci sono i servizi che si occupano di tutela delle donne e poi i canili e le strutture per anziani. Spazi fisici delimitati e ben definiti in cui si possono confinare e nascondere situazioni “scomode”. Case di riposo per anziani e canili hanno da sempre, salvo rare eccezioni, le caratteristiche di centri di detenzione e, di norma,
vengono vissute/interpretate come luoghi in cui un eterno presente si ripete all’ infinito, all’ insegna della contingente emergenza quotidiana da affrontare ( per quanto riguarda i canili). Servizi a cui non deve essere dato risalto o visibilità. In modo che la loro attività possa anche, eventualmente, risultare superflua. Luoghi, in cui l’ isolamento coatto, può anche trasformarsi in abuso e prevaricazione. Poi ci sono situazioni, non delimitate da spazi fisici, ma che rappresentano perfettamente il buco nero e il punto di collasso di tutto ciò che riguarda le politiche di assistenza. Parlo con molti senzatetto che non sanno cosa sta succedendo. Non sono “connessi” e non leggono il giornale. Che spesso si interrogano e mi interrogano su come siano pensati i servizi a loro destinati. Ed effettivamente senza alcuna apparente logica. Se hai un cane, per esempio, non hai ” diritto ” ad un ricovero. Ti viene chiesto di scegliere tra la necessità di dormire al caldo e la necessità di stare col tuo cane. Per esempio. La maggior parte dei senzatetto sceglie il cane. Tutti gli portano da mangiare ma a nessuno gli chiede ” come stai?” Se dal racconto di Cavaleri emerge la preoccupazione concreta per la sospensione di una dimensione vissuta con la progettualità politica, almeno, di una pianificazione futura, il riscontro che si ottiene osservando alcuni luoghi mentali (come quello dei senza fissa dimora, quello dei canili e quello delle strutture per anziani) conduce a concludere che le politiche di welfare siano antitetiche a quelle di well being e che ovunque si propugni l’ idea di un bisogno fisico/ fisiologico da soddisfare si ignori e nasconda tutto ciò che riguarda i bisogni umani, i desideri e le speranze. Considerando i fruitori dei servizi come oggetti e non ” soggetti che abitano criticamente lo spazio della polis”. Forse per questo è stato tanto facile cancellare i bambini.
Totalmente d’accordo con quello che scrivi. Infatti ho provato ad evitare i toni romantici dell'”intervento verso gli ultimi”. Anzi, ho provato a dare conto di una realtà complessa, che negli anni ha sempre più spogliato l’intervento sociale dai suoi presupposti politici. L’impresa sociale è diventata sempre più impresa e sempre meno sociale. E come settore è in assoluto tra quelli più flessibili e precari.
Anche in situazioni guidate da presupposti onesti, è molto frequente il rischio di cadere nell’assistenzialismo e finire ad avere un ruolo di controllo sociale.
Detto questo negli ultimi anni, almeno a Palermo, è nata una nuova generazione di associazioni, operatori e servizi che nascono proprio da contesti di movimento. Provando anche a dare forma a molte idee nate in contesti molto politicizzati.
Ci si muove sempre sul filo di contraddizioni. Ma avere consapevolezza delle contraddizioni dentro cui ci si muove permette anche di agire dei conflitti.
Si. Ma è ovviamente chiaro che la prospettiva da cui guardi questa sospensione temporale,nel vuoto cosmico della ” quarantena, è quella di chi si preoccupa dei bisogni essenziali in termini di sopravvivenza mentale. Quando dici: ci hanno detto cosa non dobbiamo fare ma non ci hanno detto cosa possiamo fare. Una domanda che ancora non si pongono in molti.
Oppure quando ti chiedi “quanto può durare questa situazione”, forse è già una espressione di “critica e conflitto”. Forse quando queste domande inizieranno a porsi in maniera più diffusa sarà possibile individuare un orrizzonte di movimento più esteso. Per il momento, ad ognuno di noi, non rimane che fare la sua parte per non farsi cogliere di sorpresa, come continuano a ripeterci quelli che ci hanno imposto queste misure, per giustificare la loro totale inadeguatezza.
Anche nelle “tranquille” città del centro come la mia Terni si comincia a sentire che quello #statetuttiacasa funziona più poco.
Sarà forse perché i 5mila lavoratori Ast + indotto se non fosse stato per una disobbedienza di massa fra scioperi e certificati di malattia (fino ad aver trovato un’accordo sulla cig ieri) sarebbero dovuti ad andare ancora a lavorare in condizioni di insicurezza. Ma ora il problema si sposta su cosa succederà dopo la cig.
Per ora la cosa si percepisce nei post sui sociale che dal #andràtuttobene si sono trasformati in bestemmioni continui, #oggièunamerda e roba varia.
Sarà anche che le famiglie costrette in 100 metri quadri sono arrivate a livello di saturazione, da notare questa provocazione di un ‘associazione non esattamente sinistrorsa che chiede di pareggiare i diritti dei bambini a quelli dei cani: https://www.ternitoday.it/cronaca/divieti-coronavirus-provocazione-codici-terni-equiparare-bambini-cani.html
Ad ogni modo, lo sapete che mettere gli scrittori in quarantena è pericoloso no? Infatti ecco che mi stanno uscendo un po’ di racconti “con i denti” come li definirebbe King, tematici sulla situazione che stiamo vivendo.
Se a qualcuno possono interessare (magari anche per una cosa tipo Tifiamo Covid19) ogni tanto li metterò qui (se qualcuno vuole subito il malloppo lo dica): http://www.scrittorisopravvissuti.it/index.php/citta-in-cattivita-centro.html?fbclid=IwAR0tR-NgA6R9VHJSJjIP35I2Vvm0AHGMeMuRab_Yi5PcMwo2XhhiJ7xnSnw
400.000 milioni di buoni spesa stanziati. L’ equazione matematica è: vediamo se, a pancia piena, rompi ancora i coglioni o se ti viene in mente di romperli. Questo è uno Stato, che se volessimo usare l’ odiosa metafora del genitore con tutto il suo paternalismo, da sempre pensa di rispondere ai bisogni, intimi e profondi delle persone, drogandole con un po’ di Nutella…pensando di compensare la carenza d’aria, di ossigeno e di libertà, con un panino…
Segnalo questo video motivazionale di Urbano Cairo, che secondo me chiude (e per altri versi, speriamo, apre) la discussione sulla capacità e volontà del capitalismo di mettere a valore le pandemie.
https://invidio.us/watch?v=1O2aZb5tEC8
Sta dicendo che questa è una grande ” opportunità “. Sta parlando di noi come spettatori passivi di questa situazione e come consumatori da soddisfare, facendo coincidere i nostri bisogni con qualunque cosa sia monetizzabile. Da tutto questo rimane escluso chi non abbia capacità economiche e produttive per consumare, stare seduto davanti alla TV e ingozzarsi.
Nella sua vergognosa e demenziale euforia non si rende neppure conto di essere assolutamente caricaturale. Di aderire ad un cliché imprenditoriale come una fotocopia. Ma a parte la percezione che lui può non avere di sé, è interessante sapere quale è la percezione di lui che può avere chi lo guarda. In ogni caso mi sembra che il suo sfrontato discorso sia la legge “condivisa”, anchea livello governativo, della sopraffazione del più debole. Lo sta solo dicendo con un quintale di arroganza. Tutti gli altri poteri però traducono questa legge in fatti concreti. In modo da trovarsi perfettamente allineati. Nella sua euforia sorvola sul fatto che per consumare servono i soldi. Magari questo potrebbe mandare in cortocircuito il suo ” ragionamento “.
Beh si, alla fine è un po la solita retorica del “fare”, dell’Italia che deve “ripartire”, si deve “sbloccare”, non importa come e con quali consegenze, ed è anche la retorica della “crisi come opportunità”, che di per se potrebbe avere anche declinazioni positive, ma qui è intesa puramante come opportunità per fare soldi.
Al di là dell’ estetica,forse ha ragione a voler incentivare l energia e l attivita di alcuni imprenditori.. magari il quadro che fa questo signore fosse vero!
No comment.
Ma proprio letteralmente.
la parola che trovo piu’ adatta per descrivere quel video è “inquietante”.
A parte l’aspetto demenziale e da televendita (rivolta ai capi delle maggiori industrie italiane), che fa tanto ‘berluscone’ (sì, pare una caricatura di berlusconi) ..
Trovo inquetante il fatto che, sottotraccia, il messaggio pare proprio essere del tipo
(traduzione dal Cairese all’Italiano)
“qua va tutto a putt… ! approfittatene! una marea di aziende medie e piccole fallirà! Comprate spazi pubblicitari ora che la gente è obbligata a stare in casa! Si prospetta un nuovo inizio: potreste ottenere nei vostri settori il ruolo di ‘oligarchi’ o addirittura monopolisti! Accorrete! “
Giustissimo prendere in esame l’orripilante ed emblematica esibizione di Cairo. Cerchiamo però, per rispetto di Totò che si è sbattuto a scrivere il pezzo qui sopra, di discutere soprattutto i temi da lui sollevati.
Anche il fatto che ormai una buona parte degli spot pubblicitari sia incentrato sull’epidemia, con annesso linguaggio bellico e retorica patriottica la dice lunga…
E comunque a pate ciò che è andato male alla fine #andràtuttobene
https://www.abruzzolive.it/coronavirus-vicini-rimproverano-il-runner-a-montesilvano-lui-distrugge-lauto-a-martellate-video/
(giusto una nota, sull’uso della candeggina diluita (ipoclorito di sodio) che ultimamente è arrivata anche nel mio disgraziato paese di campagna in provincia di Brescia ..)
Per affrontare la crisi economica che verrà, ho pensato bene di affidarmi all’autoproduzione di cibo (orto).
Non avevo fatto i conti con l’ottusità della lista civica che governa il mio comune.
Sebbene siano “centristi” o di “centrosinistra”, non hanno saputo resistere alle pressioni (via social) da parte di politicanti locali leghisti in merito alla gestione covid19.
Per tranquillizzare i leghisti del paese riguardo al covid19 (che obiettavano “altri comuni disinfettano strade, perchè qua no?”), il comune acconsente alla contaminazione chimica permanente delle coltivazioni e di fatto si assicura una futura quota di morti per tumore …
L’ipoclorito di sodio (candeggina diluita), a contatto con sostanze organiche (animali, piante, frutta, verdura) innesca reazioni che portano alla formazione di sostanze cancerogene che rimangono *permanentemente* negli organismi e inquinano la filiera alimentare.
In pratica: orti contaminati (molta gente qui ha piante da frutto e/o orti in giardino, vicino alla strada), quando si prospetta la peggior crisi economica che si sia mai vista.
Dal comune ho avuto rassicurazioni del tipo “spruzzano in basso” .. “la soluzione di ipoclorito di sodio è diluita, è solo lo 0,5%” ma quando poi son passati sparavano ad altezza d’uomo e creavano una vera e propria nube.
Sono sono uscito dalla porta sul giardino (circa 20 metri dalla strada) sembrava di stare in un corridoio appena lavato con candeggina. Sembrava molto piu’ concentrata della stessa candeggina usata nei pavimenti.
Ecco un’esempio di “cura” che è ben peggio del male che si vuol curare.
Disinfettare strade non serve a nulla e il comune lo sa (sui social pubblico’ il famoso documento del ISS) e ha ammesso di farlo per “tranquillizzare” la popolazione.
Ecco che la psicosi, da disagio mentale, crea ripercussioni sulla salute fisica (futuri tumori).
Il discorso su Cairo è venuto fuori dalle considerazioni sugli episodi dei supermercati a Palermo, per spegnere qualunque ipotesi di ” rivolta” sono stati stanziati 400.000 di euro di buoni spesa, per riportare la questione nell’ alveo di un paradigma neoliberista:siamo consumatori e non esseri umani. Così come si vorrebbe fare con i fruitori dei servizi sociali in cui lavora Totò. La differenza la fa la qualità del progetto politico che ribalta la visione del fruitore del servizio da consumatore passivo a ” soggetto che abita criticamente lo spazio della polis”. Cioè l’ inversione totale del pensiero capitalista espresso da Cairo. Il lavoro che cercano di fare le persone come Totò.
A tutte e tutti: abbiamo già dovuto modificare, in un caso, e cancellare, in un altro, due commenti su Cairo che fornivano appigli per azioni legali. Dato che già prima di quest’emergenza un sacco di gente smaniava per querelarci, e che nell’ultimo mese quel novero è plausibilmente aumentato, raccomandiamo radicalità di contenuti coniugata a impeccabilità nella forma espressiva. Nello specifico, per favore, basta coi commenti su Cairo, cosa noi tutte e tutti pensiamo di lui è stato espresso ed è chiarissimo. Grazie in anticipo.
400 milioni di euro e non 400.000
Grazie per il “persone come Totò”, che mi sembra di capire fosse un complimento. Ma appunto, proviamo a svuotare di eroismo gli interventi che portiamo avanti.
Il succo di quello che scrivevo, anzi, è proprio che l’emergenza che stiamo vivendo sta facendo emergere alcune questioni che “in tempi di pace”, erano comunque presenti ma sopite.
Una delle questioni, ad esempio, è la scomparsa (grazie al cielo o per disgrazia) dei corpi intermedi.
Liquefatti partiti e sindacati, chi si trova a lavorare in determinati contesti finisce per rendersi conto di essere dalla stessa parte di chi è chiamato ad aiutare. Non in termini solidaristici. Ma proprio di condividere medesime forme contrattuali e di stare nello stesso paradigma di flessibilità.
Ora, quando diciamo che questa crisi arriva dopo decenni di smantellamento del welfare, vuol dire anche che in questi trent’anni sono state smantellate anche le reti dei servizi sociali. Affidare il contenimento dei disastri sociali al sistema del privato sociale, molto più fragile e destrutturato del pubblico, ha voluto dire cronicizzare definitivamente le emergenze.
Vi ricordo che scrivo da una città in cui il tasso di occupazione è intorno al 40%.
La scomparsa dei corpi intermedi vuol dire che quando si sta in determinati contesti (penso al lavoro con i migranti o nelle periferie), non si è più anello di congiunzione tra lo Stato e le persone. Semplicemente perché ci si rende conto che lo Stato ti ha lasciato solo. In questo senso la politicizzazione di chi fa intervento sociale è necessario. Sennò si finisce per agire il controllo.
Ma la scomparsa dei corpi intermedi produce espressioni del disagio (anche qui, grazie al cielo o per disgrazia) come quelle del supermercato di Palermo (a dire il vero anche abbastanza composte dato il momento che viviamo).
Questo vuol dire come dice Orlando che questi vuoti vengono riempiti dalla mafia? Si fa presto a dirlo. E il modo in cui l’ha fatto (ma è un suo classico) serviva solo a liquidare velocemente la questione.
Poi, come abbiamo visto con #chiudiItalia, i proclami di Conte sono una roba (anche perché pronunciati in preda al paranoia da saccheggio), i decrete ed i provvedimenti vanno scritti. Detto questo c’è un problema urgente di fare arrivare soldi alle persone in primo luogo. In secondo luogo anche quello di farle sentire meno sole nella loro disperazione.
“Liquefatti partiti e sindacati, chi si trova a lavorare in determinati contesti finisce per rendersi conto di essere dalla stessa parte di chi è chiamato ad aiutare. Non in termini solidaristici. Ma proprio di condividere medesime forme contrattuali e di stare nello stesso paradigma di flessibilità. Ora, quando diciamo che questa crisi arriva dopo decenni di smantellamento del welfare, vuol dire anche che in questi trent’anni sono state smantellate anche le reti dei servizi sociali. Affidare il contenimento dei disastri sociali al sistema del privato sociale, molto più fragile e destrutturato del pubblico, ha voluto dire cronicizzare definitivamente le emergenze.”
Mi ha ricordato le riflessioni di un compagno che per anni ha lavorato al Servizio di assistenza all’handicap e nel Servizio per le dipendenze di un comune del nord Italia. Da anni con contratti a tempo determinato che vengono rinnovati qualche giorno prima della scadenza o qualche settimana dopo. Senza alcuna certezza che non sia legata alla previsione della maternità di qualche collega in organici già ridotti all’osso. E mi raccontava dei tre giorni con cui gli passano le consegne e pretendono che affini la sua preparazione prima di entrare in servizio. Mi raccontava dei colloqui che teneva con assistiti e nel mentre si rendeva tragicamente conto che la sua situazione non era affatto migliore della loro. Mi spiegava che da anni è prevalsa la logica del “privato assistenziale” con una pletora di attori pronti a contendersi le grame rimesse statali. Il pubblico relegato ormai a ruolo residuale. I servizi più importanti ceduti largamente al mercato, e tutto ciò fatto ingollare alle persone con l’ormai trita retorica del privato più efficiente. Tutto questo oggi appare ancor più scopertamente evidente perché la sanità pubblica non ha fatto eccezione. Ed è un disastro. Ospedali che non hanno sufficienti posti in terapia intensiva e i cui organici hanno dovuto essere rimpinguati con enorme ritardo attraverso le call dell’ultimo minuto (immaginiamo poi il deficit formativo), operatori sanitari, infermieri e medici in difficoltà a reperire le mascherine, assistenza sanitaria domiciliare azzerata, medici di famiglia in grande difficoltà. E anche in questo settore sempre più operatori si rendono conto, contratta l’infezione, di essere nella stessa condizione di chi dovevano assistere e curare. Ripeto un disastro.
Inizialmente nelle conferenze stampa delle 18.00 sentivo pochi giornalisti avere toni polemici. Ma da qualche giorno la situazione è sempre più evidente. E i giornalisti iniziano a porre domande critiche. I relatori sono in difficoltà a dare il numero delle persone che muoiono a casa, a spiegare il motivo di un tasso di mortalità così alto in Italia, si appellano ad argomenti opinabili come quello della differenza tra morti “con” e morti “di” coronavirus, o quello della mancata rilevazione dei contagiati che determinerebbe una percentuale inferiore nel tasso di letalità (argomento pretestuoso in quanto l’Italia ha un numero assoluto di decessi che è impressionante in tutta Europa e fuori dell’Europa e a cui oggi si avvicina solo la Spagna, altro paese che si trova in condizioni simili per quanto concerne i posti letto disponibili per tot abitanti negli ospedali). Anche il “cagotto” ha un tasso di letalità alto in paesi che non dispongono delle cure che noi siamo abituati a considerare ordinarie. Le vittime in Italia da covid-19 sono legate inscindibilmente alle cure prestate dal sistema sanitario. Il nostro è per ora il paese che mostra il più grave fallimento in questi termini. Perché? Sono sempre più convinto che le ragioni che si ricavano dalle osservazioni di Totò Cavaleri siano estremamente pertinenti a comprenderne le cause.
“Lungi dall’essere il regno de «I buoni», il mondo dell’associazionismo è stato negli anni terreno di sperimentazione di tecniche di precarizzazione del lavoro. Per una dolorosa eterogenesi dei fini, la spinta all’eguaglianza invece di ampliare la quota di diritti dei destinatari, ha finito per spogliare dei propri diritti gli stessi operatori. L’intervento sociale si è spesso ricoperto di presuntuosi presupposti salvifici. L’epica della «Prima linea» e la retorica della «Trincea» hanno prodotto sequele di Esperti su ogni aspetto della marginalità. Capaci solo di alimentare uno sguardo pulp, in bilico tra paternalismo pietistico e fascinazione per il degrado.”
Grazie per l’attenzione e la puntualità del commento.
Leggendolo dopo aver letto l’articolo di oggi di Pietro De Vivo, pensavo come i punti di contatto tra i due discorsi siano molti. Quello che davo per scontato è che molti dei discorsi che facevo sul lavoro sociale, potrebbe benissimo tradursi nell’ambito del lavoro culturale.
Ad esempio, la differenza tra lavorare in una piccola associazione a gestione amicale o in un grande ente, è molto simile alla differenza che c’è tra lavorare in una piccola casa editrice o in una big dell’editoria. Resta in ogni caso il forte problema di trovare contesti in cui praticare solidarietà tra chi facendo lo stesso lavoro, vive contesti e contraddizioni diverse. Insomma, il Lavoro autonomo di seconda generazione ormai è alla sua terza generazione e sono ancora più le domande che le certezze.
Noi ci continuiamo a domandare se questa crisi apre anche delle possibilità. Mentre ce lo chiediamo, però, la Shock economy va a gonfie vele.
Così come nel mondo dell’editoria c’è chi si chiede come sopravvivere e chi manda video motivazionali, anche nel terzo settore mentre in molti piangono, i Giganti della solidarietà sanno bene che “quando il sangue corre nelle strade, quello è il momento buono per fare affari”.
Chiaramente in molti sanno che questo disastro e la “ricostruzione”, rappresentano un’occasione di business straordinaria.
Ciao Totò, devo ancora recuperare il tuo articolo ma lo farò a breve. Intanto grazie per il riferimento alla mia analisi.
I punti di contatto sono molti, è vero. La verità è che andrebbe ripensato il lavoro tout court. Perché i settori cambiano, ma le dinamiche son quelle: c’è chi si arricchisce sempre più approfittando di qualsiasi cosa e chi rischia di restare col culo per terra. Il modello produttivo (intendendo con produzione tutto, anche i servizi) andrebbe ripensato da zero: decentralizzato, diffuso sui territori, gestito dal basso in maniera orizzontale e autogestita, interconnesso tra vari settori che andrebbero messi in rete, e coinvolgendo sempre chi ne fruisce.
Leggo il tuo pezzo e provo a commentare più nel dettaglio.
Si, era un complimento che non ti voleva santificare, ma sottolineare che il modo in cui si svolge un lavoro può produrre effetti differenti (seppure inquadrati in un contenitore che ha la pretesa e lo scopo di determinare ed uniformare il contenuto). Si può lavorare al servizio del mantenimento dell’equilibrio esistente ( incarnando il ruolo dei ” burocrati”) oppure seminare domande per rendere meno stabile l’ equilibrio del ” sistema “.
La scomparsa dei corpi intermedi non può però, da sola, produrre “coscienza di classe”. Motivo per cui il ” saccheggio ” del supermercato può essere strumentalmente derubricato ad atto vandalico, nella migliore delle ipotesi. Il nostro “nemico di classe” è l’ individualismo, col suo bagaglio di frammentazione, solitudine, sofferenza. Su questo tassello fondamentale poggia una intera organizzazione.
Prima di tutto: grazie Totò, gran pezzo. Mi hai dato conferma di un sospetto che ho avuto appena ho letto le parole del sindaco di Palermo: pur di non ammettere che siamo di fronte a persone che fanno la fame e che sono andate a prendersi ciò di cui vivere (troppo scandaloso ammetterlo, implicherebbe l’ammissione del fallimento della strategia sanitaria-sociale-politica delle istituzioni nei confronti del contenimento del covid19), ha chiamato in causa la mafia, e dunque un agente del crimine per antonomasia, e dunque ne invoca la repressione manu militari.
Sul Manifesto di oggi c’è un’intervista a Leoluca Orlando, per molti versi interessante. Segnalo soltanto l’ultima risposta, nella quale ritorna sulle famiglie che a caldo aveva etichettato come “Sciacalli del sottobosco mafioso”.
Oggi dice:”Erano tre famiglie, note al comune perché le seguiamo da tempo, non sono criminali”.
Nel frattempo tutti i telegiornali e tutti gli opinionisti da tre giorni discutono della regia della mafia dietro “gli assalti ai supermercati”.
Poi Orlando conclude: “Sul web ci sono dei gruppi che incitano alla violenza, sono sotto monitoraggio: in questo momento chi invoca la violenza non ha avuto risposte. Qualcuno sui social dà appuntamenti in piazza ma poi non si presenta nessuno. È successo proprio ieri, davanti al municipio erano due o tre persone. Comunque dobbiamo bloccare qualsiasi tentativo di richiamo alla rivolta, bisogna stoppare l’arrivo degli stregoni”.
Leoluca Orlando: «Sui soldi Conte faccia presto, qui la povertà può esplodere»
https://ilmanifesto.it/leoluca-orlando-conte-faccia-presto-i-soldi-bastano-per-tre-settimane/
Grazie Totò per queste segnalazioni. Io, oramai, come fonte di informazione principale ho adottato questo spazio. La selezione delle notizie viene fatta da chi frequenta questo blog, in uno scambio continuo di informazioni.
Tra i dati impressionanti riportati nell’ articolo del manifesto, ovviamente, non può sfuggire il fatto che da 650 pasti si è passati a più di 9.000 pasti, per chi è in difficoltà. È una situazione gravissima che emerge chiaramente solo ora, che le cose precipitano. Anche questa però era una situazione preesistente di cui nessuno si è fatto carico nel corso degli anni e il sindaco Orlando si preoccupa che possa esplodere. Ma, fino al giorno prima, il lavoro sommerso, non garantito e sfruttato, era un dato acquisito di funzionalità del sistema. Molti sono gli psicologi che tentano di normalizzare la situazione, svolgendo un ruolo repressivo, ed invitando a contenere o trasformare la rabbia in sentimento gentile, o bon ton. E la propaganda di regime diffonde questa indicazione. E tutta questa voglia di normalizzare una situazione, che normale non è, li porterà a sbattere contro un muro.
Questa è la risposta che un sindacato di base invia a Marco Travaglio, che li ha accusati di gettare benzina sul fuoco. Il sindacato cita i dati ISTAT sulla povertà e conclude con una domanda, spero, retorica a Travaglio. Visto che di sicuro Travaglio ha scelto da che parte stare, da sempre.
https://www.usb.it/leggi-notizia/caro-direttore-del-il-fatto-quotidiano-marco-travaglio-la-benzina-e-gia-sul-fuoco-ed-e-ora-di-decidere-da-che-parte-stare-1511.html
[…] Sembrano già accadimenti remoti, tocca rovistare nel dimenticatoio per far notare che nelle prime due settimane nessun amministratore si è mosso per attivare alcun ammortizzatore, niente di niente. Hanno fatto la serrata e basta, passando pure per «responsabili». Ed è passato un mese buono, prima che il governo attivasse, oltre al frame paternalistico/poliziesco, un frame partenalistico/solidale/assistenziale. Perché accadesse, c’è voluta la minaccia di una rivolta sociale. C’è voluto lo spettro degli espropri proletari nei supermercati. […]