di Mauro Vanetti *
(con una postilla di Wu Ming 1)
Vice è entrata in possesso dei verbali di una riunione di dirigenti Amazon che si è tenuta alla presenza di Sua Opulenza in persona, Jeff Bezos, per discutere di come diffamare per benino Chris Smalls, un lavoratore sindacalizzato del centro logistico JFK8 a Staten Island, New York.
In quella riunione si è espresso così l’alto dirigente David Zapolsky (che, tra l’altro, ha organizzato un’iniziativa di finanziamento per il candidato alle primarie democratiche Joe Biden):
«Non è intelligente, non sa esprimersi bene, e nella misura in cui la stampa vorrà focalizzarsi su noi contro lui, saremo in una posizione di public relations molto più forte piuttosto che se semplicemente spiegassimo per l’ennesima volta che stiamo cercando di proteggere i lavoratori.
Dovremmo investire la prima parte della nostra risposta nello spiegare con forza l’argomentazione che la condotta dell’organizzatore sindacale è stata immorale, inaccettabile e probabilmente illegale, scendendo nei dettagli, e solo a quel punto proseguire con i nostri soliti punti sulla sicurezza sul lavoro.
Rendiamo lui la parte più interessante della storia, e se possibile facciamolo diventare il volto dell’intero movimento di sindacalizzazione.»
La rivelazione di queste note riservate ha scatenato un putiferio, anche perché se andate ad ascoltare come parla Chris potete notare che in realtà è molto spigliato: il senso di quanto dice Zapolsky, e cioè che per la multinazionale sarebbe buona cosa farlo diventare «il volto» della sua controparte sindacale, è semplicemente che è nero e parla con un accento afroamericano.
Per capire come funziona il centro logistico JFK8, con la solita combinazione di alienazione operaia, robotizzazione, stachanovismo, totalitarismo aziendale e benefici elargiti dall’impresa a chi si disciplina, buona lettura. Evidenzio due chicche: l’orario di lavoro di 40 ore ma distribuite su soli 4 giorni e il lavoratore che mostra fieramente la medaglia aziendale con scritto «4,500» perché quattromilacinquecento è il suo record di colli movimentati in un giorno.
Del resto, stiamo parlando della macchina da profitti dell’uomo più ricco del mondo che ha messo tra i suoi valori aziendali… la frugalità. Se non ci credete, lo spiegano qui:
«Frugalità. Ottenere di più con meno. Risorse limitate alimentano intraprendenza, autosufficienza e creatività. Non si ricevono punti di merito nel far crescere gli organici, l’entità del budget o le spese fisse.»
In effetti i dirigenti di Staten Island non hanno fatto crescere l’organico: hanno licenziato Chris Smalls in tronco per essersi presentato con dei cartelli, assieme ad alcuni altri lavoratori combattivi, nel parcheggio del JFK8. Invitava i suoi colleghi a scioperare – a fare un «walkout», noi diremmo uno sciopero spontaneo senza preavviso – perché le condizioni di sicurezza nel magazzino non sono rispettate in seguito ai primi casi di COVID-19 tra i lavoratori.
E qui arriviamo al punto.
Chiaramente tutti, almeno qui su Giap, capiamo che siamo di fronte a uno scontro di classe: subdoli e avidi capitalisti da un lato, proletari sfruttati e mandati allo sbaraglio dall’altro. OK. Ma come si articola questo scontro all’interno della pandemia?
A prima vista sembrerebbe così: i padroni sono per sminuire i rischi e la necessità di misure di distanziamento e confinamento, mentre i lavoratori vogliono misure più rigide.
Ebbene, no.
Perché Zapolsky dice che bisogna vendere il caso alla stampa dicendo che il comportamento di Smalls è stato «immorale, inaccettabile e probabilmente illegale»? Con che motivazione ufficiale è stato licenziato? La risposta è che Chris Smalls è stato licenziato per… violazione della quarantena.
Nel JFK8 c’era stato un ammalato di COVID-19 (alcuni lavoratori dicono che i casi sarebbero di più, fino a 10, ma l’azienda non fa i tamponi: dove l’ho già sentita questa?); proprio per questo gli scioperanti chiedevano che si prendessero misure più vigorose, che si lasciassero a casa i lavoratori ecc. Subito dopo la diagnosi del contagiato, l’azienda ha reagito in modo molto blando; ma quando Chris ha iniziato a organizzare lo sciopero, gli è stato comunicato dall’azienda – non dalle autorità sanitarie! quarantena selettiva privatizzata – che doveva entrare in quarantena. La misura non è stata generale ma chiaramente mirata sia a provare a tenere buono il lavoratore “sobillatore” sia a impedirgli i contatti coi colleghi. Smalls osserva che il contagiato ha interagito con decine di altri colleghi che non sono stati messi in quarantena.
Siccome Smalls si è presentato comunque davanti all’azienda, in un parcheggio che, tra l’altro, come si può vedere dalle foto e da Street View, non è separato da cancelli o altro rispetto alla normale viabilità e quindi presumibilmente non è sottoposto a una giurisdizione speciale Amazon, l’azienda ora prova a sostenere che abbia messo a rischio la salute dei suoi colleghi.
La multinazionale ha usato la quarantena individuale e la colpevolizzazione dell’uscita da casa come arma contro i necessari stop o rallentamenti della produzione. Ancora una volta, dove l’ho già sentita questa?
Mi sembra un caso esemplare per mostrare gli intrecci tra la lotta di classe e la messa sotto critica della qualità delle misure di contenimento del nuovo coronavirus. Non della necessità in senso assoluto di prendere delle misure, un’ovvietà che solo i complottisti o gli ultraliberisti sfegatati possono ancora considerare tema di dibattito.
Verso dove si volge lo sguardo e si punta il dito, ovvero su chi si caricano i costi della crisi, è la questione politica centrale di questa fase. In diversi Paesi, in particolare in Italia, nello Stato spagnolo e proprio negli USA, cioè le nazioni che hanno finora registrato più vittime per questa epidemia, fabbriche, magazzini, cantieri e qualche ufficio sono entrati in subbuglio: i lavoratori non vogliono essere trattati come componenti sacrificabili consumati nella produzione! Ma del resto è proprio quello il loro ruolo nel capitalismo.
Come in altri casi – penso alla crisi climatica, con tutta la retorica sulla riduzione dell’impronta ecologica dei poveri cristi mentre una grande azienda emette in un giorno l’anidride carbonica che un proletario può emettere in tutta la vita – l’ossessione sui comportamenti individuali è un dispositivo che fa comodo a chi detiene il potere, non solo perché distrae dalle colpe della classe dominante e dei suoi terminali politici, ma anche perché inquadra tutta la situazione con un “teleobiettivo” distorcente, che mette a fuoco chi va al parco con un bambino e non chi va in fabbrica con centinaia di colleghi, che porta in primo piano gli assembramenti di scioperanti e lascia sullo sfondo gli ospedali fatiscenti.
* Mauro Vanetti scrive su marxist.com, Giap e Carmilla. È autore del libro La sinistra di destra. Dove si mostra che sovranisti, liberisti e populisti ci portano dall’altra parte (Alegre, 2019). Con altri attivisti ha pubblicato Vivere senza slot (Ediciclo, 2013) sull’opposizione al gioco d’azzardo di massa. Di mestiere è ingegnere del software; con questa scusa ultimamente si occupa anche di videogiochi.
Postilla
di Wu Ming 1
L’apologo raccontato da Mauro ha forti risonanze con quanto sta accadendo in Italia. E rafforza quella che è la nostra convinzione dall’inizio dell’emergenza coronavirus: se non si critica la gestione dell’emergenza da parte del governo; se non si critica la qualità dei provvedimenti di lockdown, cioè la loro sensatezza e coerenza rispetto al fine dichiarato di contenere l’epidemia; se non si smonta la retorica #stateacasa che sovraresponsabilizza il singolo individuo e porta ad additare capri espiatori; se non si dice nulla sul mix di paternalismo, autoritarismo e controllo sociale che sta pervadendo l’immaginario… Se non si fa tutto questo, non solo non si affronterà quest’epidemia nel modo giusto, ma non si avrà margine per lottare “dopo”, perché nel frattempo ci avranno tolto ogni spazio.
Ha poca efficacia attaccare il cinismo di Confindustria se non si inserisce quel discorso in una critica all’intera gestione dell’emergenza, smontando i trucchetti e diversivi messi in campo per distogliere l’attenzione dalle vere responsabilità di questo disastro (in parole povere, se si accetta come cornice quella imposta dal governo).
Ha poca efficacia fare rivendicazioni come il «reddito di quarantena», se nel mentre non si sviluppa una critica di cosa sia diventata e come funzioni questa «quarantena»: un dispositivo che demonizza tout court l’uscita di casa, rimanda alle calende greche la ricostruzione di spazi per l’agire collettivo, trasforma le persone in monadi e fa di noi produttori/consumatori di parodie di conflitto, come nell’episodio Fifteen Million Credits di Black Mirror (S1E2, 2011).
Nulla contro le assemblee virtuali, vanno pur fatte – magari evitando strumenti e piattaforme che ciucciano dati, per non rafforzare il capitalismo della sorveglianza. Vanno fatte, ma non bastano. L’assemblea a distanza è come la didattica a distanza: «deve essere vista come la toppa sui pantaloni, non come i pantaloni nuovi» (Sandro Ciarlariello, qui). Bisogna lavorare fin d’ora – subito – per tornare a fare lotte nello spazio pubblico, quello fisico. E farlo sarà ben difficile, se si continua ad accettare tutto quel che impone il governo.
In generale, va messo in crisi il frame dell’«unità nazionale contro il virus». Questa narrazione mostra già incrinature, e reggerà sempre meno. Bisogna cogliere l’occasione: rinunciare ad autoreferenzialità e astrattezze, e partecipare al moto di rabbia sociale che sta crescendo. La cosa peggiore da fare sarebbe ignorare questo moto o guardarlo con snobismo (o peggio). Si rimarrà in trappola se si continuerà a sembrare «l’estrema sinistra del governo Conte»… o della Protezione civile.
Dobbiamo sgomitare per aprirci spazi, nella prospettiva di tornare a ritrovarci insieme: magari a un metro di distanza e con la mascherina, ma se non ci ritroviamo insieme che confltto possiamo sperare di agire, e dove? Sui social? Spiace dirlo ma finora, con certe discussioni, si è fatto crescere soprattutto un «reddito di quarantena»: quello di Zuckerberg.
La settimana scorsa un compagno, Arturo «Sandokan» Lavorato, ci ha mandato un’email che conteneva alcune importanti riflessioni. Introducevano una sua proposta di articolo per Giap. Abbiamo convenuto insieme che questo blog non fosse la destinazione più adatta per un pezzo con quel “taglio”, ma la riflessione introduttiva offriva molti spunti. Riporto stralci dello scambio che abbiamo avuto:
ASL: «Salvo poche letture critiche, spesso brillanti, il mondo della militanza organizzata, quale che sia l’area di afferenza, sembra aver deciso che in questo momento non è possibile o forse nemmeno opportuno contestare i provvedimenti restrittivi in atto […] Si moltiplicano le rivendicazioni: reddito di quarantena, requisizione delle cliniche private e ripristino di un servizio sanitario pubblico degno di questo nome, fermo lavorativo a oltranza, sciopero degli affitti e blocco degli sfratti… Nessuno che però espliciti la questione di come queste rivendicazioni possano rendersi esigibili nel mentre si conviene che “restare a casa va bene”»
In una mia risposta, echeggiando antiche controversie del marxismo di inizio ‘900, ho chiamato «economicisti» i fautori di questa linea. Arturo, ammettendo di tagliare con l’accetta, contrapponeva a quest’approccio il nostro, definendolo «biodissidente». Io però lo chiamerei «olistico».
Un approccio puramente «biodissidente» esiste, ma non è il nostro. È un approccio speculare a quello «economicista»: consiste nel criticare i provvedimenti di lockdown, distanziamento fisico – a proposito: piantiamola di accettare il frame del «distanziamento sociale», usando in modo acritico o positivo un’espressione da distopia reazionaria – e controllo biopolitico, ma dicendo poco o niente sulle lotte di lavoratrici e lavoratori per avere più chiusure e più misure di distanziamento e protezione.
L’«economicista» parla di fabbriche e reddito, ma non della strategia del capro espiatorio e della repressione che avviene per strada; il «biodissidente» parla della strategia del capro espiatorio e della repressione che avviene per strada, ma non di fabbriche e reddito. L’«economicista» chiede maggiori restrizioni, il «biodissidente» vorrebbe un allentamento generale delle misure, ma, come faceva notare Mauro in un altro scambio,
«non è allentare/stringere il frame giusto. I due piani vanno insieme, anche solo per un motivo discorsivo: se si parla dei runner non si parla delle fabbriche, pochi cazzi. Controprova: chi parla dei runner e delle fabbriche?»
Poche persone. Tra le quali noi, fin dal nostro Diario virale del febbraio-marzo scorso.
Due parole su questo. Il Diario è stato molto attaccato e criticato, anche in ambienti “di movimento”. Qualcuno ancora ci accusa di «non aver preso le distanze» da «leggerezze» e affermazioni discutibili scritte soprattutto nella prima puntata.
La progressiva presa di distanze era insita nella formula scelta. Quella del diario, appunto. Un diario “fotografa” la situazione giorno per giorno, è scritto per essere superato, per invecchiare. Noi abbiamo fotografato, man mano che si svolgeva, la fase iniziale dell’emergenza coronavirus, con focus su Bologna, mettendo sempre le date. Il Diario virale lo abbiamo scritto tutto all’imperfetto e al trapassato prossimo – una tecnica già sperimentata in precedenza, ad esempio in Un viaggio che non promettiamo breve – proprio per rimarcare già una distanza: così vedevamo l’emergenza in quei giorni.
Le affermazioni discutibili le abbiamo discusse, come da significato dell’aggettivo; le distanze le abbiamo prese cercando di affinare l’analisi man mano che la situazione si faceva più complessa e drastica. La prima puntata (22-25 febbraio) era molto “impressionistica” e andava a tentoni, come andava a tentoni tutto quel che si stava scrivendo in quei giorni; la seconda (26-28 febbraio) approfondiva alcuni aspetti, precisando e correggendo le formulazioni della precedente; la terza (pubblicata il 10 marzo) è di gran lunga la migliore. Rileggendola oggi, ci sono ben poche distanze da prendere: dice cose che da allora abbiamo continuato a ribadire – naturalmente approfondendo e sviluppando i ragionamenti – e che hanno cominciato a dire molte altre persone.
Soprattutto, là dentro c’era già l’approccio «olistico». Quello che, al netto di inevitabili sbavature, a tutt’oggi rivendichiamo, e che auspichiamo venga adottato sempre di più.
Traggo spunto dall’ottima cronaca di Mauro Vanetti perché purtroppo conosco molto bene il modo della logistica e sebbene i fatti da lui riportati riguardino un hub di New York, la situazione non é molto dissimile in Italia. Mi è capitato spesso, affrontando il tema, di definire il settore in esame come una delle nuove frontiere della schiavitù, non molto dissimile nei meccanismi di stritolamento dei lavoratori ( se non proprio del reclutamento) dal fenomeno del caporalato. In Italia nessuno dei grandi committenti gestisce direttamente i CEDI. Vi è dietro una fitta rete di appalti e subappalti, i lavoratori fanno per lo più capo a cooperative spurie e sono trattati peggio dei topi che infestano i luoghi in cui lavorano al ritmo di formiche laboriose viste al fast motion. Sottopagati sulla base di CCNL chiamati contratti pirata, spesso addirittura con sistemi di retribuzione a cottimo calcolata sulla base dei colli movimentati. I sindacati non amano entrare in queste realtà, tranne poche eccezioni, ad ogni modo è spesso il datore di lavoro, in nome di un odioso patto collusivo, a scegliere la sigla cui il lavoratore dovrà aderire. Roba che Di Vittorio si starà rivoltando nella tombaLa premessa mi è parsa doverosa anche per mettere in luce quale sia in questo momento una delle responsabilità più grandi di chi governa. Con la esaltazione di quella che di fatto è per tutti una quarantena non si fa altro che accrescere il già smisurato potere dei grandi committenti che detengono queste piattaforme. Stare a casa si, ma consumare, riempire frighi e dispense compulsivamente piuttosto che prendere una boccata d’aria fresca. Magari sconfiggere la noia con lo shopping on -line. Per alimentare, come se ce ne fosse il bisogno, lo sfruttamento degli operai. Questo è solo uno dei risvolti del tanto acclamato modello italiano! Un modello privo di basi scientifiche o meglio che ha interpretato a modo proprio concetti scientifici per creare l’attuale soppressione dello stato di diritto. Abbiamo tutti il dovere di opporci. Se negli immensi magazzini è consentito continuare ad operare come nelle fabbriche a produrre così le persone devono potersi riappropriare dello spazio fisico che viene loro arbitrariamente negato.
Esiste un problema di controllo sociale, fisico, che ci impedira’ di fatto di riappropriarci non solo dello spazio ma, soprattutto delle idee, perche’ la grande orchestrazione in atto di fatto non vuole altro che indebolire maggiormante qualsiasi forma di libero pensiero, attraverso la confusione, il bombardamento di dati e immagini, la paura evocata, quasi invocata dai media, tutte cose che rendono improbabile una qualsiasi forma di resistenza.
Il progetto e’ quello di asservirci totalmente alle logiche del potere che il covid ha solo accelerato, il lavoro che era diventato un privilegio, diventera’ così un lusso, un lusso in virtu’ del quale chiunque sara’ disposto a subire qualsiasi vessazione e che fara’ proprio al caso di chi in questa situazione ha solo da speculare, cosa che succedera’ a qualsiasi livello e non solo dei giganti come Amazon e simili.
Tutte queste riflessioni si racchiudono in un unico cerchio: editoria/ emergenza sanitaria nei campi Rom/ proteste sindacali/ debunking delle notizie pubblicate dalla stampa mainstream/ emergenza sanitaria nel campo del lavoro sociale ecc… in ognuna di queste riflessioni si possono ravvisare elementi comuni per inquadrare ed inserire la critica dell’emergenza in un approccio ” olistico “, ” globale”, complessivo, totale. La stessa abissale differenza che passa tra un metodo che privilegia un punto di osservazione unico a scapito di un altro, determinandone gerarchicamente l’ importanza e le possibilità di risoluzione. Mentre l’ interconnessione di una istanza con l’altra sono la trama per sviluppare una nuova narrazione, per aggredire la narrazione dominante. Il pezzo di Mauro Vannetti ha dei protagonisti in carne ed ossa che si fronteggiano sul terreno di scontro dei diritti. Chris Smalls esiste fisicamente ( non è una proiezione onirica) ed insieme ad alcuni altri colleghi ha organizzato una reale protesta. Scendendo dal piedistallo retorico del sindacalismo burocratico.
Sembra però che nella pratica, anche alcune realtà di movimento, abbiano accettato come perimetro di azione quello prescritto dall’emergenza… ma questo, già da prima. Lo trovo non solo un grande limite di analisi ma di onestà e convenienza politica. Per superare questi ostacoli è necessario anche uscire dai paletti di alcune restrizioni, implicitamente e mentalmente introiettati ed accettati (come la differenza tra distanziamento sociale invece che distanziamento fisico) per proiettarsi nella pratica della riacquisizione di una dimensione fisica/ materiale. Quello che hanno fatto Chris Smalls e i suoi compagni. Quello che ha fatto Rosa Parker. Significa accettare una dose di rischio.
Sono riuscita a sbagliare tutti i nomi che potevo sbagliare. Chiedo scusa. Rosa Parks e non Parker,ovviamente, e Mauro Vanetti, con una ” n”. Ma io credo che, al di là dei singoli nomi,la questione centrale sia quella della quantità di rischio che siamo disposti ad accettare/ affrontare per cambiare la situazione. E non credo che possa bastare una spinta dal basso ,scatenata da una fisica necessità di assolvere i bisogni primari, senza una consapevole presa di posizione. Senza che questa critica si trasformi ” automaticamente ” in una definizione di sostanziale separazione tra sfruttati e sfruttatori. Senza che ci sia una comprensione profonda della propria appartenenza.
Io, per amor di logica, più che usare la parola “olistico”, per delineare l’approccio al problema, (termine inflazionato, bistrattato, che avrebbe bisogno di un secolo di riposo), direi piuttosto che si tratta di un approccio critico verso ogni forma di “riduzione” di una problematicità ad uno dei suoi aspetti, generalmente un aspetto tale per cui la sua assolutizzazione favorisce il potere dominante. Non si tratta solo di una prospettiva intellettuale, ma deve e può trasformarsi in prassi (come per es. rifiuto di adeguarsi a comportamenti irrazionali solo per reputazione), ma soprattutto deve e può trasformarsi in capacità di resistenza mentale agli stimoli crescenti che vanno nella direzione della riduzione. La prima possibilità per pensare al futuro è rimanere lucidi ora.
Sandokan, che è un hegelo-marxista di vecchio stampo, mi ha scritto via email che l’approccio di Giap si potrebbe definire «sintetico», nel senso della sintesi come aufhebung, superamento della contraddizione tra tesi e antitesi. La sintesi tra la posizione economicista e quella biodissidente.
Sono d’accordo. Ancor meglio quindi diciamo che Giap ha un approccio “dialettico”. Non intende giungere ad una sintesi determinata, non ha la volontà di dominare il fenomeno dicendo: si fa così. Intende invece problematizzare, porre in luce le difficoltà, confrontare le diverse sensibilità e soprattutto mettere in evidenza l’assurdità di certe decisioni, reazioni pubbliche, ecc. Insisto sul ruolo di “igiene critica” della mente che sta svolgendo Giap. Al di là di tutto, è possibile ad ognuno di noi farsi prendere dalla paura, e lasciar quindi che il proprio pensiero sia dominato dalle passioni, e quindi un “luogo” di confronto che spenga la paura e accenda il pensiero è importante per tutti, anche per i più scafati.Ora io avrei finito il mio intervento, ma il sistema vuole un discorso più lungo, e capisco bene il senso di questa richiesta, ma se insisto sul tema divento forse noioso, per cui vi saluto qui.
Credo che la parola abbia in sé un’accezione deviante e una fascinazione implicita essendo un -ismo.
Sto leggendo delle cose interessanti del filosofo newyorkese Boockchin e il suo liberal-municipalismo che OT, scusate, nel suo esperimento di Laboratorio democratico fu avversato in Vermont dal governatore Sanders.
La mia esperienza con la logistica mi ha fatto ricordare che forse la capitale del covidiota che l’ ha mangiata per bene dagli anni ’70 , sia stato un primo focolaio di ribellione della opinione pubblica contro i primi vagiti della Besoziazione della infrastruttura fisica del capitale internazionale, che ha lottato contro la sua cattedrale nella Grande Mela.
«Se non si fa tutto questo, non solo non si affronterà quest’epidemia nel modo giusto, ma non si avrà margine per lottare “dopo”, perché nel frattempo ci avranno tolto ogni spazio.»
Vorrei provare a dare un’immediata concretezza a questa nostra presa di posizione.
Quando tra qualche tempo alcune attività produttive verranno riaperte (alcune non hanno mai chiuso, tipo appunto Amazon, vedi sopra) avremo la misura precisa dell’impatto sociale della pandemia e dei provvedimenti con cui è stata affrontata. Il governo sta elargendo denari a destra e a manca, ovvero si sta indebitando, e questo debito verrà fatto gravare sulle spalle dei lavoratori, al loro rientro. Per favorire la ripresa, alle aziende verrà concesso di andare in deroga ai vincoli ambientali (dopo mesi di aria e acqua pulita, non vorremo mica abituarci così bene, eh?), a quelli sindacali, fiscali, anti-mafia, ecc.
Ci sarà bisogno quanto mai prima di lottare sui luoghi di lavoro… di organizzare una vera e propria resistenza. Solo che farlo sarà ben difficile sotto la minaccia costante del distanziamento. In quanti, a quale distanza, con quali protezioni sarà concesso manifestare e lottare? Quanto impiegheranno i padroni o le questure a trovare inadeguate le condizioni “sanitarie” di una protesta lavorativa, sindacale, per proibirla o inibirla, come nel caso raccontato da Mauro Vanetti in questo post? E tutti coloro che invece di assumere uno sguardo critico hanno sostenuto la svolta securitaria, e anzi, ne hanno chiesto di più, anche al di là di ogni logica e buon senso, avranno soltanto tre opzioni: approvare, tacere… o prendersi a schiaffi davanti allo specchio.
Un secondo esempio. In questi mesi viene sperimentata la didattica a distanza per i vari ordini scolastici. La ministra dell’istruzione ha già detto che potrebbe tornare utile anche a settembre, o più in là in autunno, nel caso il contagio dovesse avere delle recrudescenze. Insomma, per un bel pezzo la didattica a distanza potrebbe diventare una parte integrativa del sistema d’istruzione. E una volta rodata questa pratica, cosa impedirà ai nostri baldi governanti di sopperire nello stesso modo all’endemico problema della fatiscenza delle strutture scolastiche o delle cosiddette “classi pollaio”? Non sono emergenze anche quelle?
A tal proposito racconto un aneddoto di ordinaria didattica a distanza in tempi di lockdown duro, ovvero di effetti collaterali delle ordinanze. Per recuperare i libri di una prima elementare rimasti a scuola per tutto l’ultimo mese, una maestra ha raggiunto l’istituto, portato fuori i libri nascosti in un carrellino della spesa, e li ha affidati a due genitori che vivono rispettivamente nei pressi di un fornaio e di un minimarket, così che gli altri genitori potessero recarsi a prenderli con la “copertura” dell’acquisto di generi alimentari, scongiurando eventuali multe. I libri sono stati consegnati ai singoli genitori calandoli con una corda da un balconcino e ficcati nelle buste della spesa o tra i filoni di pane, come fossero bombe a mano per la Resistenza. Così quei bambini potranno almeno seguire il programma sul libro con la maestra in telelezione e i genitori potranno avere un supporto all’inevitabile homeschooling. Se me lo avessero raccontato non ci avrei creduto… Anzi, con i tempi che corrono, diciamo pure che me lo hanno raccontato.
Vivo in Germania da piú di 10 anni e in questo periodo sento spessissimo gli amici in Italia. L’ultimo teleparty l’ho fatto mentre facevo una passeggiata. La reazione collettiva è stata quella di chiedermi se non avessi paura della polizia, non del virus, della polizia. Quando ho fatto presente che anche in Italia si può uscire per una passeggiata o per andare a correre, tutti mi hanno risposto che l’unica cosa che sanno è che non ci si può fidare,che l’interpretazione dei decreti è talmente tanto lasciata alla discrezione delle forze dell’ordine che un motivo per farti una multa lo trovano di sicuro. Io penso che oltre alla gravissima deriva autoritaria ci sia un altro problema in Italia, l’infantilizzazione dei cittadini, figlio del peggiore paternalismo del “ti punisco per il tuo bene, perché da solo non sai regolarti”. Ecco, nonostante debba ammettere che i tedeschi siano dei cacacazzi micidiali sul rispetto delle regole, credo sia inconcepibile per un sbirro qui multare una vecchina perché è la seconda volta che esce a fare la spesa, soprattutto perché la vecchina in questione non ha bisogno di mettere in campo nessuna astuzia per esercitare il suo diritto alla passeggiata. Questa mentalità da guardia e ladri mi rendo conto di averla talmente tanto interiorizzata che quando sono dovuta tornare in ufficio per un giorno, e avevo dimenticato di stampare la certificazione, è subito scattato il panico. Panico immotivato come mi hanno ricordato i miei colleghi, perché la certificazione in ogni caso esiste e comunque questi non sarebbero strettamente affari degli sbirri, non è questo il loro lavoro. Adesso, non è che io sia una fan sfegata della Germania, secondo me tante cose qui non funzionano affatto e anche qui sono state prese delle misure raffazzonate, è evidente che l’interesse principale sia quello di non fermare l’economia anche a discapito della salute dei lavoratori, in questo periodo però mi sento fortunata a poter trascorrere la mia quarantena qui.
Faccio presente che vivo in uno dei Land che ha attuato le misure più restrittive di tutta la Germania, eppure in questi giorni non ho mai visto la polizia in giro a dare multe, l’unico certificato che serve è quello per andare a lavorare, fuori dai supermercati non ci sono code perché rispettando le distanze si può anche fare spesa in contemporanea con un discreto numero di persone. Certo si potrebbe controbattere che in città più densamente popolate come Milano o Roma questo non funzionerebbe. Eppure ho un amico friulano che abita a ridosso delle montagne, prima della quarantena, girando sulle montagne mi diceva di non incontrare nessuno anche per giorni interi, adesso questo amico non può lasciare casa sua perché non vuole rischiare una multa ogni volta che vuole farsi una passeggiata, ecco, questo mi pare troppo.
In tutto questo, pochi giorni fa, ci siamo scordati di celebrare il decennale di questo blog. Il primissimo post è del 3 aprile 2010.
Dobbiamo avere lo stesso fornitore di informazioni: anche a me l’hanno appena raccontato. Mi dicono appunto che i libri di una terza elementare verranno distribuiti dalla casa di una mamma che abita sopra ad un supermercato.
Devo aggiungere però che i libri di quella classe sono raggiungibili anche in formato digitale con una app della casa editrice (che per l’emergenza ha deciso di distribuire a tutti il codice altrimenti riservato alle sole insegnanti).
Dalla app si riescono anche a modificare, con un po’ di perizia, quindi il passaggio di libri non è fondamentale se non per i due bimbi di quella classe che non hanno un pc in casa.
E aggiungo che ci sono un paio di bimbi che abitano fuori comune e non si azzardano ad uscire dal loro comune per paura delle multe.
Sempre raccontato da quel mio amico.
Da un lato è grottesco che ci sia ridotti a questo, ma dall’altro è positivo che, dopo una fase di shock in cui prevalevano obbedienza incondizionata e colpevolizzazione reciproca, settori di società civile – e addirittura “interzone” tra istituzioni e società civile – si stiano riorganizzando «in clandestinità». In questo riorganizzarsi è implicito che certe restrizioni siano ritenute incongrue, irrazionali, indiscriminatamente punitive.
Aggiungo: all’inizio dell’emergenza le chat di genitori erano, in generale, tra i peggiori focolai di panico, cultura del sospetto, messaggi vocali tossici, inviti alla delazione. Il fatto che adesso alcune di esse siano usate per aggirare divieti assurdi (perché mai una maestra non dovrebbe poter recuperare i libri di testo rimasti in classe? perché per prelevare quei libri un papà o una mamma devono ricorrere a sotterfugi, taroccare l’autocertificazione ecc.?) è l’ennesima riprova che il “mood” è cambiato.
Infine, per ricollegarmi esplicitamente alla Postilla qui sopra: in questo momento i segnali di resistenza, riorganizzazione non più solo virtuale, esercizio delle proprie libertà e attraversamento conflittuale dello spazio pubblico arrivano – perdonatemi l’espressione orrenda, facciamo a capirci – più dalla «gente normale» che da certe realtà “di movimento”. Il che depone molto a sfavore di queste ultime, ma al contempo potrebbe essere un segnale doppiamente incoraggiante: vuol dire che l’insofferenza non è identificabile con alcuna “nicchia” o ideologia.
Certe “realtà di movimento” devo sparire dalla faccia della terra. Non sono morte solo perché evidentemente erano già morte. C’è molta più resistenza attiva nel vecchietto che ostinatamente ogni mattina, sfidando la egge marziale, si siede davanti all’uscio di casa a godersi il sole e la brezza primaverile (con la mascherina che gli ha portato la nipote), che in certi “compagni” passati in tre agili mosse da ACAB a “brigadiere la prego ci impedisca di uscire di casa”. L’unica cosa buona che è uscita fuori da sto casino è la chiarezza riguardo a certe persone e certe realtà.
Ammetto di aver avuto anch’io, in privato, reazioni esasperate come la tua, all’incirca tre settimane fa, dopo che mi hanno inoltrato certi attacchi a dir poco ingenerosi a noi e a Wolf circolati su FB. Però bisogna essere lucidi e laici, evitando di emettere sentenze sommarie. In una fase così difficile, a contatto con la paura e la morte, la trebisonda l’hanno persa in molte e molti, ma la trebisonda si può anche ritrovare. Non è corretto scambiare per intere aree tre o quattro persone in confusione incrociate su Twitter. Cerchiamo di guardare avanti.
Io sono d’accordo con Tuco. Ci sono spie lessicali, in alcuni ragionamenti, che diventano cornici virali di intere realtà di movimento. Con questo non tutti sono vittime di un contagio lessicale securitario/virale ma l’ ideologia del decoro si è infiltrata, profondamente, anche in alcune realtà che della battaglia pandemica contro il “degrado” avrebbero dovuto fare una bandiera di resistenza. E invece ci è sempre di più adeguati a giocare una partita truccata. L’ utilizzo della mascherina sta diventando un simbolo di questa infiltrazione a livello subconscio. Una adesione così passiva da essere pericolosissima. Avendo cani so di cosa parlo, perché l’ equazione cane/ degrado è stata alimentata con la violenza a mezzo stampa delle testate locali. Si era cominciato ad insinuare l’ idea di soggetto estraneo ed impuro come nelle peggiori espressioni di fondamentalismo religioso. Senza differenza. Poi anche io conto più sul fatto che la resistenza possa realizzarsi più facilmente in maniera trasversale. Dove la contaminazione del pensiero si combatte mantenendo saldamente i piedi a terra.
L’esempio portato da Wu Ming 4 e rilanciato da massimo_zanetti è super significativo.
Sono convinto che gli esempi di resistenza dal basso (e di infrazione dei divieti per “giusta causa”) siano molti più di quelli di cui veniamo a conoscenza. E soprattutto che in larga parte provengano in forma spontanea da “gente comune” (mi scuso anche io per la semplificazione), nel senso che non sono stati pensati, elaborati, pianificati e preparati, con una consapevolezza e una riflessione politica dietro, da parte di gruppi, organizzazioni o collettivi. Sarebbero da mappare e riprodurre il più possibile.
Ovviamente ci sono anche tante iniziative lodevoli organizzate da gruppi, collettivi, ecc., ma forse quelle più sorprendenti sono quelle nate “da sole”, che hanno sempre in comune l’esigenza di rispondere a bisogni concreti. Penso, per riflettere sul mio settore, a come molti librai si stanno ingegnando per consegnare i libri a lettrici e lettori, eludendo le restrizioni più insensate, per ovviare alla chiusura dei propri negozi fisici.
Perché probabilmente il punto è proprio questo: saranno risposte spontaneiste (e io non sono un alfiere aprioristico dello spontaneismo purchessia), che magari gioverebbero di una maggiore organizzazione e messa in rete, ma nascono da esigenze materiali cui far fronte. E a mio parere, specie nella situazione degli ultimi anni, le risposte politiche non possono prescindere dal partire da risposte a problemi materiali. Che non vuol dire che non debbano avere un’analisi alle spalle, ma che nel trasformarla in prassi si debba pensare a come fare per soddisfare – e autosoddisfare – i bisogni concreti, possibilmente in maniera solidale e mutualistica, creando reti autorganizzate.
Sì, i libri sono accessibili nei formati online, ma… come hanno detto anche a te, non tutti i bambini hanno la possibilità di questo accesso, e inoltre quei libri non sono in formato di stampa per una stampante domestica, quindi per fare gli esercizi i bambini devono ricopiare le pagine sul quaderno, a meno che i genitori non abbiano la “perizia” necessaria a modificarle, come dici. Non solo: se il PC in casa è uno solo, ed è strumento di lavoro di un genitore (o se sono due, ma c’è pure un altro figlio che usa il secondo per le lezioni online) tenerlo impegnato per i compiti impone un aut aut che va a ingrandire la balla dello “smart working”. Tutto questo per non avere consentito subito ai genitori di andare a recuperare i libri dei figli, o non averli distribuiti (con guanti e mascherina, per carità) senza tante paranoie. Non volevo, comunque, aprire un OT, ma semplicemente fare notare come le ordinanze creino grotteschi paradossi… “spazio-temporali”.
Da noi la scuola ha consentito di ritirare i libri tra le 11 e le 12 di un lunedì a metà marzo… Quindi decine di genitori si sono ritrovati davanti la scuola (assembramento!). In più, la mail che avvertiva di questa possibilità non è arrivata a tutti (molti, anche qui nel ricco Trentino non sono attrezzati) quindi molto bambini sono ancora, ad un mese ed oltre dalla chiusura, senza libri e quaderni… Qui siamo oltre il paradosso, bisogna necessariamente immaginare forme di resistenza, io oltre a discutere con chiunque riesca a sentire al telefono non so fare, le discussioni sulle chat di genitori purtroppo si risolvono in un travaso di bile
Il dato di chi ha zero computer in casa è significativo e preoccupante. Devo confessare che per una distorsione legata al mio vissuto non avrei mai pensato che la cifra fosse così alta: nelle tre case in cui è distribuita la mia famiglia i computer disponibili sono, se non sbaglio, dieci o undici.
Ma il problema è anche che nella maggioranza delle case un computer c’è, ma non ce ne sono due. Se una persona studia, l’altra non può lavorare, se una persona legge le ultime notizie, l’altra non può controllare le email ecc. Noto che molti appuntamenti che ci si dà online per questioni di lavoro o personali o di militanza saltano perché il computer è occupato, il telefonino va male o addirittura non è smartphone ecc. e di solito la persona che buca la call è un operaio, un figlio di operai o un genitore di operai.
Le chiacchiere sul popolo degli iperconnessi, delle autostrade digitali, della digitalizzazione di massa, dell’Italia 3.0, 4.0, 100.0… stanno veramente a zero.
Segnalo quest’intervista surreale https://www.tpi.it/economia/confindustria-lombardia-zone-rosse-in-regione-intervista-presidente-bonometti-20200407580914/ al presidente di confindustria lombardia, in cui si arriva ad affermare che se si fossero fermate le industrie i morti sarebbero stati molti di più, e che il virus in lombardia è stato diffuso dagli animali d’allevamento: “Se non sono stati ritenuti veicolo di contagio, non c’è spiegazione”.
Mi chiedo, se sarà possibile ricostruire, almeno in un secondo momento, quanti sono stati contagiati nelle fabbriche.
…non so quale sia la parte più repellente dell’intervista. A casaccio, per creare confusione, si spostano le colpe e l’ attenzione da un un argomento all’ altro. Si arriva perfino a dire che è ” colpa degli allevamenti intensivi ” ( da quale cazzo di pulpito!!!) e che se non è colpa loro allora proprio non si spiega… si dice che senza fabbriche aperte non ci sarebbero bombole di ossigeno, per giustificare l’ apertura di tutte le fabbriche possibili ed immaginabili… si dice che hanno procurato dispositivi di protezione individuale quando non ce li hanno neppure gli ospedali… si dice che il privato risolve i problemi mentre il pubblico li crea e con questo implicitamente si afferma che le istituzioni pubbliche devono scomparire. Tanto non servono a niente. Mi sembra che la tecnica di colpevolizzazione adottata sia la stessa raccontata da Mauro Vanetti nei confronti degli scioperi nella logistica. Agli interessi del profitto non ti devi opporre se non vuoi essere macinato nel suo tritacarne. La tecnica adottata è quella di rovesciarti addosso le colpe con lo stigma della malattia.
Utilizzato strumentalmente per chiuderti la bocca. Chris Smalls non è reo di aver organizzato uno sciopero ma di avere infranto la quarantena imposta dall’azienda. E qui si dice che con le fabbriche chiuse sarebbero morte più persone… È una sfida. Uno schiaffo in faccia alla miseria. Proprio come quello di Cairo.
I pixel di questo post non si erano ancora fissati sullo schermo che subito è venuta una conferma dalla politica nazionale: le blindature che piacciono ai padroni e le blindature che dispiacciono ai padroni sono in concorrenza diretta le une con le altre.
Si è infatti aperto il dibattito sulla “fase 2”, quando si inizierà a “riaprire”: ma riaprire cosa? Sembra che il governo stia lavorando a una fase 2 divisa in tappe: la prima tappa potrebbe addirittura essere subito dopo Pasquetta, la seconda tappa qualche giorno dopo il Primo Maggio. Ebbene, la proposta è di riaprire subito alcune fabbriche (in aggiunta a tutte quelle che sono state lasciate aperte perché dichiarate essenziali, più quelle che si autocertificano tali secondo il subdolo comma d), ma di lasciarci tutti barricati in casa per tutto aprile. Solo a maggio sarebbero di nuovo permessi gli “spostamenti personali”, ma non le attività sociali collettive: in pratica, si può andare a trovare i parenti, ricongiungersi ai partner non conviventi, forse vedere un amico, forse andare al parco da soli.
Ma cosa succederà se la riapertura delle aziende farà ripartire i contagi? Ci bruciamo tutto quello che abbiamo ottenuto in settimane di sacrifici. Si spera che questa proposta indecente venga respinta al mittente dai lavoratori stessi. Ci sono già dei segnali: per esempio, i sindacati degli infermieri di Piacenza hanno minacciato lo sciopero, ma lo stesso avverrà molto probabilmente nelle aziende che insisteranno a voler ripartire in situazione di pericolo.
Sarebbe difficile immaginare un conflitto tra le classi coi confini meglio delineati di questo.
La genesi e la gestione della quarantena è stato un qualcosa di molto italiano, un scaricare tutte le colpe verso il basso senza dare fastidio ai padroni, un ruggire verso chi deve stare a casa, fare la spesa, non fare sport, sperare di non finire in ospedale, consumare dati e dati, aiutare la prole a farsi mangiare viva da Google, etc. E sperare di non incappare in guardi troppo solerti ed affamate.Siamo in guerra, è questo il mantra, le parole d’ordine di una nazione che nata dai massacri dei Savoia ,si è rotolata nella tragedia del fascismo, dove mio nonno fu mandato in Grecia, Albania e Russia con una camicia e poco altro, per poi tornare dopo sei anni lontanto da casa, mezzo pazzo e con il diabete. I medici, gli infermieri e gli operatori sanitari sono come mio nonno : mandati al macello dalla politica che ha tagliato i posti negli ospedali ed in terapia intensiva, vittime del virus ma in primis dello Stato che non dà gli strumenti minimi ed indispensabili per combattere un’emergenza che è stata gestita malissimo.
D’altro canto cosa aspettarsi da una nazione che ha avuto uno dei suoi momenti più alti nella lotta al nazifascismo, dove ricordiamolo bene e sottolineiamolo trecento volte gli antifascisti combattevano i fascisti che lottavano a fianco dell’occupante nazista, sedicenti patrioti che combattevano con lo straniero.
Cosa aspettarsi da un paese che ha messo da parte la Resistenza e i partigiani e ha vissuto per decenni nel terrore di vedere il comunismo trionfare, e in nome dell’anticomunismo ha fatto di tutto, tentati golpi, bombe e morti.
Non poteva essere che una narrazione da pseudoguerra, mentre intorno il capitalismo mutava come e peggio di un virus, e dove noi compagni ( o come vogliamo chiamarci )evidenziavamo ancora una volta il nostro fiato corto, e anche in certi casi una spocchia davvero irritante.
Il coronavirus come un malware maligno ha hackerato tutti gli aspetti della nostra vita, e una vita comincia con l’uscita dal corpo della madre, fuori.
Dentro non si vive.
Ps Un pensiero particolare ai carcerati e a tutte le persone che muoiono sul posto di lavoro, o a chi semplicemente non accetta più un muro come limite del proprio essere.
Ciao.
Ho letto tutti i contributi di questa discussione.
Mi pare che si sopravvaluti la potenza dell’armi della critica e, a dispetto di un posizionamento ideologico in senso generale… comune, si sfugga la necessità della critica dell’armi.
Credo piuttosto urgente focalizzare un asse. Mi pare che giap lo abbia fatto tracciando una linea gotica tematica. Quella che separa, in un orizzonte di classe, accettazione e rifiuto dei dispositivi disciplinari messi in opera con l’occasione della crisi del covid 19. Quello che qui non trovo é un confronto reale sul che fare e come farlo. Personalmente – dopo vent’anni di militanza – avevo maturato la convinzione che il cosiddetto movimento antagonista fosse diventato almeno dai primi 2000 un non morto alimentato di vacue gestualità identitarie, farse di giochi delle parti, scontri di piazza inclusi, tante bandierine e slogan e nessun senso dei processi reali innescabili nel tessuto sociale. Mi trovo ora per paradosso e forse anche per nemesi a sentirmi orfano del movimento antagonista. Ascoltare dalle radio di movimento la linea quarantenista egemonica tra compagne e compagni mi lascia spaesato e atterrito. La verità è che mi trovo a pensare che ora servirebbe e avrebbe senso il movimento antagonista. Non condivido i possibilissimi che muovono da episodi puntuali di trasgressione spontanea fino ad implicitamente associarla, almeno in potenza, alla “resistenza diffusa”. La resistenza diffusa era possibile in quanto si articolava, direttamente o indirettamente, politicamente, anche d’istinto, con la resistenza organizzata. La rinazionalizzazione delle masse in combinato disposto coi dispositivi di controllo telematico elevati a sistema é in atto da prima di questa crisi e si sa. Gli episodi resteranno kafkianamente episodi finché non si produce una dissidenza organizzata. Come iniziare? Credo questo sia il tema. Perdonate la lunghezza. Wu Ming 1 mi ha invitato a partecipare allo scambio. Ora se ne sarà pentito.
Ma no, pentito perché? :-D
Ciao Arturo, io credo che tu abbia sottolineato i punti critici di questa situazione e che abbia fatto considerazioni importanti e domande dirimenti. È proprio su questi interrogativi che si gioca la partita. Ed in questo momento l’essere orfani di un movimento antagonista è ancora più determinante per il senso di spiazzante impotenza e solitudine che ci attanaglia, nessuno che raccolga il valore dei singoli episodi di resistenza per metterlo a frutto, per rivendicarlo. Da nessuna componente del movimento ” antagonista ” è partita la benché minima critica alla gestione dell’emergenza. Nessuno ha protestato e non si è levata una sola voce da quelle realtà di movimento che esistono e fanno professione di fede a se stessi solo per una questione di conveniente sopravvivenza. Ed anche in questa situazione emerge l’ unica malattia che mina la sopravvivenza del movimento politico di protesta: l’ individualismo, con tutte le sue mmanifestazioni di becero protagonismo da primi della classe. Rivalità interne in cui si disperdono le poche energie invece di canalizzarle contro un nemico esterno molto pericoloso. Sono anni che ci si rinfaccia, da Genova in maniera ancora più animosa, differenze “insormontabili” di posizionamento politico. E si è abbandonato a se stesso il discorso dell’appartenenza e della coscienza di classe che non può essere la prerogativa esclusiva ed elitaria di un drappello di militanti duri e puri. Sui singoli episodi di repressione è necessario esprimere una posizione. Non si può lasciare solo chi, in questo momento, rischia in prima persona affidando la sua ” salvezza ” alla possibilità di concordare una strategia legale comune. Non è questa la strada da battere.
“Non si può lasciare solo chi, in questo momento, rischia in prima persona affidando la sua ” salvezza ” alla possibilità di concordare una strategia legale comune. Non è questa la strada da battere”
Filo a piombo, in tutta franchezza credo che l’unica strategia possibile sia illegalista. E spero scriverlo non porti con sé suggestioni “nostalgiche” (si tratti di richiami alla resistenza o al più recente lottarmatismo…). Senza entrare nel merito di valutazioni politiche retrospettive, la temperie, le circostanze, la fase son così inedite da non lasciare spazio a continuismi che vogliano riallacciarsi a tali riferimenti della memoria di classe, quale che sia la valutazione storica che se ne dà. Resta il fatto, per come la vedo io, che il salto in atto, vece l’accelerazione cui la crisi covid ha dato occasione, sta gestando una forma di governamentalità dispotica che dovrà relativizzare nazifascismo e stalinismo nella storia della società borghese mondiale. In questo quadro, non vedo che possibilità marginali per un antagonismo legale. Al contrario scorgo la fatalità di un illegalismo di necessità, non quale opzione strategica deliberata. Al momento, andare in giro ad abbracciare la gente, anche fermandosi alle persone conosciute, ti rende un terrorista peggio che se mettessi bombette qua e là. E allora…. Come procedere in questo illegalsmo di necessità senza fare i kamikaze autistici (con tutto il rispetto per gli autistici con cui lavoro e da cui imparo molto…)? La vicenda dei gilet gialli ci dice che questo illegalismo di necessità precede l’avvitamento postpandemia. E ci dice anche molto delle possibilità di mobilitazione e radicalizzazione popolare insite in una onesta, non ideologica né identitaria ma piuttosto maieutica pratica illegalista. Ora però anche i gilet gialli stanno sui balconi. Ulteriore conferma che le condizioni dell’agire politico sono catacombali. Come fare non so. La fretta non aiuta anche quando l’urgenza pressa.
L’illegalismo di necessità è “solo” una modalità da kamikaze autistici al momento. Sia che tu abbia messo in conto le conseguenze, sia che tu non le abbia messe in conto. Perché ciò che manca è la ” rete di protezione ” che ti consente di sfidare lo stato attuale delle cose senza romperti tutte le ossa. L’ ” illegalismo di necessità ” può essere una opzione strategica deliberata eccome. Lo stesso detonatore innescato e perseguito, in maniera più o meno consapevole, da diverse componenti dei gilet gialli. Chi più, chi meno consapevole. Io non confido nel fatto che questa pratica possa diffondersi in maniera significativa. La maggior parte delle persone è, comprensibilmente, terrorizzata da ciò che sta succedendo ( quando riesce a rendersene conto). Anche una innocua passeggiata sotto casa può scatenare l’ arroganza autoritaria. Le condizioni dell’agire politico sono tombali e rimarranno tali se non si agisce.
Prima mi sono imbattuta in una scena di surreale carattere cinematografico, un ragazzo magrebino mi ha chiesto di chiamargli una ambulanza. Era stato ferito con una bottiglia rotta e il sangue sgorgava a fiotti dal suo braccio. Ero l’ unica persona presente. Si è immediatamente materializzata una automobile della polizia che mi ha intimato di andarmene, perché ci pensavano loro. Ho detto che avrei aspettato l’ autoambulanza. Il ragazzo, evidentemente sotto shock, dava in escandescenze. Il poliziotto mi ha chiesto ” perché non si fida di noi?”. Una domanda retorica a cui non si poteva rispondere. All’arrivo dell’ambulanza, l’ infermiera ha adottato lo stesso registro autoritario della polizia. Mi sono sentita catapultata, alla velocità della luce, in uno scenario cileno. Io non sono disposta a giustificare con nessuno il motivo per cui esco e la distanza da casa. Accettare questa logica significa di fatto accettare tutto.
La crisi ha creato questo spazio di concertazione. Un potenziale intervento sarebbe quello di abbinare un sistema di “passaporto dell’immunità” con una versione pilota del programma di garanzia dei posti di lavoro che economisti come Pavlina Tcherneva hanno richiesto a lungo. Per quanto a lungon le persone senza immunità non fossero in grado di lavorare in lavori di fronte al pubblico, il governo potrebbe garantire l’ accesso a lavori remoti, insieme alla formazione e alle attrezzature necessarie.
Oltre ad alleviare le conseguenze tossiche di una sfera economica esclusiva, un simile approccio potrebbe dimostrare a una utopica amministrazione neo- democratica l’utilità e la fattibilità di una garanzia di posti di lavoro permanenti, che garantirebbe che tutti possano contribuire al compito di ricostruire la società dalla coda della pandemia.
Tradotto liberamente dall’ ultimo paragrafo di Public Participation as a Privilege for the Immune?, https://lpeblog.org/2020/04/13/immunity-discrimination/#more-3452.
Kamikaze autistico: mi sento così, a volte, ad andare al lavoro in base ad una normativa che fà riferimento ad un codice ATECO(?) mentre i migranti del basso Lazio mandano avanti la raccolta alla base di logistica e grande distribuzioni, sotto Decreto Sicurezza, come il Ghanese che lo scorso 24 marzo ci ha lasciati.