di Wu Ming
[Deutsche Übersetzung hier.]
Ormai più di due mesi fa, nella terza puntata del nostro Diario virale, cercammo di chiarire cosa intendessimo per «emergenza». Parlammo di «un equivoco di fondo, un malinteso concettuale che ci vedeva reciprocamente lost in translation», e spiegammo:
«C’era chi per “emergenza” intendeva il pericolo da cui l’emergenza prendeva le mosse, cioè l’epidemia.
Invece, noi e pochi altri – in nettissima minoranza ma in continuità con un dibattito almeno quarantennale – chiamavamo “emergenza” quel che veniva costruito sul pericolo: il clima che si instaurava, la legislazione speciale, le deroghe a diritti altrimenti ritenuti intoccabili, la riconfigurazione dei poteri…
Chi, ogni volta che si parlava di tutto ciò, voleva subito tornare a parlare sempre e solo del virus in sé, della sua eziologia, della sua letalità, delle sue differenze con l’influenza ecc., a nostro parere sottovalutava la situazione.»
Ogni emergenza is here to stay
Quella dell’«emergenza» – volta per volta l’emergenza-terrorismo, l’emergenza-conti pubblici e tutte le cornici emergenziali che abbiamo conosciuto – non è mai una narrazione qualsiasi. È una Grande Narrazione a lunga gittata, che una volta imposta nell’immaginario ha una spinta inerziale fortissima, e non può essere fermata a piacimento.
Quando l’«emergenza» comincia ad avere effetti disfunzionali, si lavora per attenuarne la presa, smussando gli spigoli, si rallenta e si lascia sedimentare, ma ci vuole tempo. E in ogni caso gli effetti saranno permanenti: tutte le emergenze che abbiamo conosciuto si sono accumulate, potremmo quasi farne una “stratigrafia”.
Quasi vent’anni dopo, noi stiamo ancora vivendo – anche se non più in fase acuta – dentro l’emergenza post-11 settembre. Ce ne accorgiamo, ad esempio, ogni volta che ci controllano i bagagli all’aeroporto. Le attuali procedure, la cui logica non è molto chiara e sembra più “teatrale” che altro, furono introdotte allora.
Stiamo ancora vivendo le emergenze-conti pubblici di inizio anni ’90 e del 2011, perché i tagli, le controriforme e l’austerity che grazie a quelle emergenze si imposero ci hanno condotti sin qui, alla situazione attuale.
È ancora con noi buona parte della legislazione speciale anti-terrorismo di fine anni ’70 – inizio ’80.
Sulle continuità retoriche e “prossemiche” tra la capillare «emergenza degrado» degli anni Dieci e l’emergenza coronavirus della primavera 2020 ha scritto per noi Wolf Bukowski.
Nessuna emergenza è alle nostre spalle, tutte quante sono sulle nostre spalle.
Il capitalismo ha colto la palla al balzo
Figurarsi, dunque, se si potrà uscire con facilità dalla narrazione emergenziale imposta per affrontare questa pandemia. Stiamo parlando dell’emergenza più impattante e pervasiva a nostra memoria, e a livello planetario. Molto di ciò che si è sperimentato in questi tre mesi – pensiamo solo alla DAD – è qui per restare, seppure in forme meno vistose (ma proprio per questo più pervasive). Pensiamo anche alle deroghe sul diritto del lavoro, o alle deroghe ambientali, che verranno chieste e ottenute grazie all’emergenza, in nome della «ripresa».
Tutto questo nella difficoltà di mettere in campo un’opposizione concreta, perché permarranno a lungo condizioni di «distanziamento sociale» che, se non rendono impossibili le lotte, comunque danno ancor più pretesti e strumenti di quanti ce ne fossero prima per reprimerle. Sempre Wolf Bukowski ha scritto un fondamentale articolo su come potrebbe incancrenirsi nel nostro quotidiano l’idea del «distanziamento sociale».
Poter dare alla pandemia la colpa di una crisi e di una recessione che stavano comunque arrivando è molto comodo per il capitale: per i suoi settori che da questa fase stanno traendo o cercano di trarre vantaggio, e per quelli che vogliono recuperare il terreno perso.
Grazie al virus Sars-Cov-2, il capitale ha avuto l’occasione di accelerare certe dinamiche per poterle gestire meglio. Stante l’inevitabilità di una recessione, di gran lunga meglio gestirla potendo scaricare le colpe su un evento presentato come “naturale”, sulla sfiga, su un disastro, su condizioni “esterne” al sistema (noi sappiamo che non è così, che la colpa della pandemia è del sistema, ma ogni volta dobbiamo spiegarlo).
Tutto questo, lo ribadiamo sempre, non è l’esito di un Piano, di un complotto del capitale. Il capitale risponde a quel che accade, com’è ovvio, in modo capitalistico. Il potere politico gestisce quel che succede nel quadro delle compatibilità capitalistiche. Una singola emergenza non è mai pianificata con grande anticipo: consiste nel prendere la palla al balzo.
Non si può parlare di «fase 2», «fase 3» e quant’altro soltanto guardando al pericolo in senso stretto, cioè solo in termini virologici ed epidemiologici. Bisogna parlare di cosa ci lascerà quest’emergenza, e di come agire, come riconquistare spazi di dissenso e conflitto in quella realtà multi-strato.
Intermezzo: «Lancia/scudo»
Tutta questa storia è cominciata in Cina, giusto?
In cinese, il termine «contraddizione» è reso coi due ideogrammi 矛盾, rispettivamente «lancia» e «scudo». Se si guardano attentamente i due caratteri, si riconoscerà la stilizzazione dei due oggetti.
Si tramanda che l’accostamento, e il relativo concetto, derivino da una storia risalente al III secolo d.C. (dinastia Jìn).
Un istrionico mercante girava per villaggi nello stato di Chu e, tra i vari articoli, vendeva anche lance e scudi. In una piazza, un tizio gli chiese come fossero le sue lance, e lui, sboroneggiando, disse che erano le migliori al mondo e che potevano perforare qualunque scudo.
Poco dopo, un altro tizio gli chiese come fossero i suoi scudi, e lui, sempre sopra le righe, disse che erano i migliori al mondo, e che nessuna lancia avrebbe potuto perforarli.
Al che un terzo astante, che aveva udito entrambe le réclames, gli chiese: «Ma quindi cosa succederebbe se una delle tue lance colpisse uno dei tuoi scudi?»
Incapace di rispondere, il mercante lasciò il villaggio.
«O sottovaluti il virus o sottovaluti l’emergenza»
C’è una contraddizione di fondo in tutte le discussioni sull’emergenza coronavirus, una contraddizione che si presenta in forma di falso dilemma ed è conseguenza dell’esser incorsi – tutte e tutti noi, chi più chi meno – in dicotomie fallaci, dell’essere caduti in trappole retoriche come quella in cui si cacciò l’antico mercante cinese. Questa contraddizione va tematizzata e superata, per adottare quello che in un altro post abbiamo chiamato «approccio olistico» – o sintetico, se si preferisce una terminologia più dialettica, nel senso del trovare una sintesi che superi in avanti gli opposti.
Negante ha trovato un modo bello ed efficace di rappresentare questa contraddizione. Lo ha fatto in un commento al post precedente, di cui riportiamo un estratto:
«All’inizio lo esprimevo quasi come una battuta, ma poi mi è apparso serio: si tratta di una sorta di principio di indeterminazione in senso heisenberghiano, fra il virus e l’emergenza. Non puoi guardare e tenere fermo lo sguardo su entrambi, ma o sottovaluti uno o l’altro. Sottovaluti agli occhi dell’altro. Cioè: per colui che vede bene il virus (o crede di vederlo bene) l’emergenza è solo una contingenza che passerà se passerà il virus; per colui che vede bene l’emergenza (o crede di vederla bene) il virus, per quanto serio e pericoloso, sarà sempre meno letale delle conseguenze che le politiche emergenziali stanno provocando. Ogni discussione ha questa instabilità al suo interno e farla venire a galla non può che essere un bene.»
Questo è anche un ottimo caveat con il quale vagliare le proprie reazioni di fronte a una qualsiasi affermazione sul virus e/o sull’emergenza. Quanti cartellini sulla pericolosità del virus pretendiamo che timbri chi vuol parlare dei pericoli dell’emergenza? E quanti cartellini sull’insensatezza dell’emergenza vogliamo che timbri chi desidera discutere della sensatezza del virus?
E vale per esempi più specifici: se penso che debbano riaprire le librerie, quante volte devo specificare che ero per chiudere le fabbriche? E se ero per chiudere le fabbriche, quante volte devo spiegare che questo non implicava chiudere tutti in casa?
In giro c’è troppo pensiero binario, troppo manicheismo, troppo facile e tranciante tertium non datur. Invece non solo esistono tertia: esiste il molteplice, con la sua complessità. Negarlo ci porta dritti nella braccia del “doppio legame”, quello su cui si è imperniata gran parte della gestione dell’emergenza e la cui logica è stata presa per buona da chi si concentrava solo sul virus.
Doppio legame: «Che vorresti fare? Vuoi uscire di casa?» Se rispondi di sì, allora vuol dire che ti va bene anche riaprire le fabbriche (e ti faccio ammalare sul posto di lavoro). Se rispondi no, allora ti tolgo libertà di movimento (e ti faccio ammalare di depressione e varie patologie). Come fai, sbagli.
Da qui in avanti
Non ci libereremo né delle pandemie né delle emergenze, entrambe continueranno a colpirci. Solo ragionando in questi termini si potranno superare in avanti le incomprensioni e gli scazzi di questi mesi. Almeno, quelli portati avanti in buonafede. Per gli altri, c’è poco da fare.
L’emergenza ci lascia in eredità anche le macerie di relazioni personali e politiche. Del resto, è accaduto durante e dopo tutte le precedenti emergenze. Le emergenze, imponendo nuove dicotomie, scombinano gli schieramenti, le allenze, le amicizie. Questa emergenza lo ha fatto con una potenza di fuoco immane e con impeto quasi irresistibile. Purtroppo, non ritroveremo tutte le collaborazioni né tutti gli affetti di prima.
Dovremo farcene una ragione.
(solo una considerazione sulla datazione della storia tratta dal Hanfeizi 韓非子):
“The issue of whether or not the entire book had been penned by Han Fei is debatable: considerable differences among the chapters in terms of style and mode of argumentation lead not a few scholars to suspect that they come from different authors. On the other hand, the differences may be explained as reflecting the process of Han Fei’s intellectual maturation, or the need to adapt argumentation to different audiences; and since most of the chapters present a coherent outlook, it increases the likelihood that most of them were indeed written by Han Fei (Goldin 2013)” https://plato.stanford.edu/archives/win2014/entries/chinese-legalism/#MajLegTex
Hanfeizi muore su istigazione di 李斯 Li Si nel 233 BCE. Ammesso che la storia, ambientata esplicitamente nel regno di Chu, quindi durante il periodo dei Regni Combattenti, non sia di sua mano ma aggiunta in seguito, da cosa si ricava che sia del III secolo CE?
Chiedo perché non so se sia un errore non voluto o ci sia un@ studios@ che abbia ricavato per quel brano una datazione effettivamente così tarda.
Ho recuperato io la storia da un appunto sul taccuino di quando studiavo cinese più di vent’anni fa, compreso il riferimento temporale, non c’è indicata la fonte, vattelapesca risalire… Sicuramente hai ragione tu e la datazione non regge. Non che questo cambi nulla riguardo alla storia e al suo significato, ma hai fatto bene a far notare la cosa.
Mannaggia è tornato il limite ai commenti brevi! Uno ci mette una vita ad adeguarsi a tuitter e poi si ritrova alla coincisione introiettata. Forse sarebbe di una certa utilità un contatore di battute, qui a fianco del box, che indichi quando si supera il minimo :) [volendo, su biblioteca hiposter ru si trova la versione pdf a fumetti “Han Feizi Speaks: The Power of Pragmatism (English-Chinese) by Tsai Chih Chung” cioè Cai Zhizhong 蔡志忠, pluripremiato e acclamato disegnatore specializzato nella resa a fumetti dei testi filosofici in cinese classico. Lo dico nel caso ci fosse voglia di rimettere mano al cinese ;-) con un po’ di divertimento]
Eh, magari! Avendo il tempo… Mi piaceva pure, il cinese…
Riguardo al contatore di battute, sarebbe utilissimo, però il plugin che abbiamo installato non lo prevede, ci vorrebbe un programmatore.
Eccomi. Nello specifico non sono un esperto customizzatore di wordpress anche se a lavoro realizziamo anche siti con questo cms.
Se posso dare una mano, ben volentieri.
Intanto, non sapendo quale plugin state usando, ho fatto una prima ricerca di plugin che hanno questa funzione e questo potrebbe fare al caso vostro se sostituire quello attualmente in uso non vi da problemi:
https://wordpress.org/plugins/limit-comments-and-word-count/
per cercare di arrivare al numero minimo di battute, aggiungo che nel caso questo plugin non vada bene, dovrebbe essere mettere qualche personalizzazione ad hoc tramite javascript che mostri il numero di caratteri inseriti o qualcosa di simile.
Ciao, grazie mille! Ho dato un’occhiata al plugin, il problema è che permette di stabilire solo il limite massimo di battute (anzi, di parole, all’anglosassone), non quello minimo.
Scusa, dimenticavo: quello che usiamo noi è Control Comment Length.
Ok. Se avete bisogno di personalizzazioni ad hoc sono disponibile come detto. Se avete bisogno di “referenze”, Vanni Santoni e Michele Lapini mi conoscono bene visto che siamo tutti e tre delle solite parti e abbiamo un passato che spesso ci ha portato ad incrociarci sebbene non ci frequentassimo tutti i giorni.
Poi abitando loro uno a Firenze e uno a Bologna le occasioni in cui capita di vedersi sono ormai ridotte al lumicino. Con Vanni ci siamo visti l’ultima volta in occasione del suo tour di presentazione dell’ultimo libro a Montevarchi….mi scuso per questa proposopea inutile ma sto cercando di arrivare al numero minimo di battute.
Ok, grazie, proseguiamo via email.
In una pandemia i dati statistici sono strategici. In base alle modalità con cui sono presentati si può convincere l’opinione pubblica che “tutto va bene” o “tutto va male”. La statistica è una scienza complessa per i non esperti e fare divulgazione non è facilissimo. Basta sbagliare terminologia e si rischiano madornali errori di interpretazione. Bisognerebbe prima di tutto avere chiaro l’uso degli indici. Due sono quelli di base relativi ai decessi causati da un epidemia, mortalità e letalità. All’interno di quest’ultimo esistono due ulteriori indici, l’IFR che studia la “letalità plausibile” ed il CFR che studia la “letalità apparente”. La enorme diversità di percentuali di letalità presentate sulla stampa è legata al fatto che i dati statistici che esprimono valori alti sono relativi all’indice CFR mentre quelli che esprimono valori bassi sono quelli relativi all’IFR.
Per comprendere le differenze tra indici vi consiglio due articoli divulgativi molto chiari
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/coronavirus-la-letalita-italia-tra-apparenza-e-realta-25563
https://www.scienzainrete.it/articolo/covid-19-letalit%C3%A0-mortalit%C3%A0-guarigione%E2%80%A6-maneggiare-con-cura/fabrizio-bianchi/2020-02-25
Questa riflessione arriva in un momento di estremo bisogno. Le discussioni, anche con amic* e compagn*, diventano sempre più difficile su questi temi, soprattutto per quanto segnalato lucidamente da Negante e approfondito in questa analisi (utilissima da linkare anche per sedare gli animi nelle discussioni online e riportare tutti alla calma e al ragionamento).
Le discussioni, specie online, tendono a diventare sempre più polarizzate, estreme, o semplicemente facebookizzate. Vedo che la fanno da padrone le fallacie dell’uomo di paglia e la reductio ad hitlerum(-renzium-salvinium). Non appena vengono espresse posizioni nell’ampia zona grigia tra stare-in-casa e riaprire-tutto, si viene accusati di uno dei due estremi, o similmente di esprimersi come confindustria.
Volevo anche notare che questo effetto “di indeterminazione” non è una realtà solo italiana; parlo ovviamente per la mia sola esperienza diretta, ma tutti i miei conoscenti che stanno all’estero hanno una visione ugualmente polarizzata, e non riescono a vedere la sintesi di emergenza e pandemia. Anche per questo giap, con anche le discussioni che lo caratterizzano, assume un valore peculiare per la messa a fuoco della situazione. Questo breve articolo è un ennesimo strumento, che prevedo non smetterà di essere utile anche a distanza di anni, quando questa emergenza sarà finita, proprio perché lo stato di emergenza durerà ancora a lungo.
Bene, penso che così si metta un punto per poter andare avanti nella discussione. Piuttosto che additare le tesi che ritengono che il lockdown nazionale è una follia di renzismo o filo-confindustrismo, a mio avviso ci si dovrebbe porre il problema che è proprio Confindustria che ci sta liberando dal lockdown e non una coscienza e un elaborazione di quello che ci sta succedendo, né nessun tipo di lotta o conflitto in questa direzione, anche perché come articolarlo in questo contesto? Mi inizierei a porre questi problemi. Come organizzare forme di resistenza e lotta ai tempi del Covid, come si è un pò fatto in occasione di 25 aprile e 1 maggio, levando così anche campo ai vari fascistoidi che su questa crisi ci stanno campando, partendo dalle analisi elaborate in questi mesi e concretandole in azioni dirette?
Capisco che si debba mantenere la forma e un discorso che tende a giustificare il distanziamento fisico e la protezione anche per non dare fianco ad attacchi come quelli che si sono subiti dopo il post precedente e in ogni altro frangente in questi ultimi due mesi, però bisogna anche valutare il rischio che questa impostazioni non ci aiuti a uscire da questa situazione senza gravi costrizioni aggiuntive alle nostre vite. E che alla prossima pandemia le cose siano ben peggiori. Se per esempio il virus piuttosto che attaccare gli anziani attaccasse i bambini? Cosa sarebbe legittimo allora? Sparare all’untore dalla finestra? Quale sarebbe il grado di costrizione che ci verrebbe imposto in un caso simile? Che precedenti stiamo creando? Come contrastare tutto questo con quello che ci si aspetta nei prossimi anni?
Sull’accusa di strage a chi vede oltre, e non solo, l’aspetto emergenziale sta parlando in questi giorni lo Stato ed i suoi telegiornali nel trattare l’arresto degli anarchici a Bologna.
La Procura scrive che le misure cautelari si sono rese necessarie anche in un’ottica di «strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare situazione emergenziale [covid], possano insediarsi altri momenti di più generale campagna di lotta antistato». Aggravante, va da se’, la partecipazione, in tempi di covid, a sit-in contro l’istituzione carceraria. I telegiornali applaudono agli arresti notando come alcuni percepissero addirittura sussidi statali.
Il messaggio che vogliono scritto a caratteri cubitali e’: abbiamo messo in atto questa emergenza (nel senso giappiano), non osate lamentarvene. Perche’? Perche’ e’ un’emergenza. Via arresteremmo, l’abbiamo fatto gia’, lo rifaremmo.
Volevo scrivere esattamente quello che hai scritto tu. Aggiungo solamente che sono parecchio incazzato/deluso/amareggiato etc etc perché vedo che di questi arresti non frega particolarmente a nessuno, nel sia pur ristretto ambito di quella che potremmo definire area di sinistra, movimento, oppure solo vagamente democratica e costituzionale. Praticamente interessa solo alle persone vicine politicamente e umanamente agli arrestati: gravissimo errore. Qui infatti abbiamo tutta la reiterazione di procedure delle leggi di emergenza di Cossiga, nella peggiore tradizione di repressione del dissenso in questo paese, con le accuse di istigazione, psicoreati, eventuali reati del futuro che vanno prevenuti, la criminalizzazione delle proprie opinioni politiche e tutto il resto appresso. Tutto ciò avviene proprio in ragione di questa emergenza creata dallo Stato, giustificato esplicitamente con la teoria che adesso lo Stato debba avere le mani libere per risolvere questo particolare momento storico. Ora io spero che si alzino altre voci contro quello che sta succedendo rispetto all’operazione contro i compagni e le compagne di Bologna, anche se resto anche abbastanza scettico a riguardo visto che sono passati già alcuni giorni.
penso che uno dei punti fondamentali sia proprio – al di là della polarizzazione delle posizioni (che in fondo sta diventando elemento in qualche maniera “passato”) – “la strategica valenza preventiva”.
“Prevenzione” è una parola, con tutti i suoi immaginari possibili, che mi sembra stiano adottando per mantenere il tutto in una post-normalità all’interno del recinto di controllo, in una situazione storica particolare in cui il tempo a disposizione per adoperarcisi si è dilatato notevolmente. in questo senso secondo me diventa fondamentale capire noi quali scenari vogliamo figurarci. linko un articolo che in parte ne analizza la questione… https://dontpanicbo.it/stavamo-per-fare-la-rivoluzione-femminista-e-poi-e-arrivato-il-virus/
Intanto è passato, quasi sotto silenzio (molto più importante parlare della conversione all’Islam di Silvia Romano o delle lacrime della Torrenova), che lo stato d’emergenza dal 31 luglio data originaria di scadenza è stata prolungata di sei mesi ulteriori (con due mesi di anticipo). Mi pare che oltre a permettere al governo di avere “mano libera costituzionale” in merito a decisioni su misure confliggenti con lo stato di diritto sia in senso sostanziale che formale, decreta una sorta di clausola di salvaguardia della stessa maggioranza (è impossibile che Mattarella sciolga le Camere in stato d’emergenza, anche se magari a ottobre l’emergenza sanitaria sarà inesistente). Anche questa ulteriore proroga è una forzatura costituzionale, che getta una pericolosissima ulteriore ombra sulle future mosse del governo.
Vi chiedo, se possibile, di chiarirmi il punto in cui affermate che è tempo di superare l’impasse della trappola retorica in cui tutti, chi più, chi meno siamo caduti. Non è certo per spirito di adulazione ( che non mi appartiene) ma per onestà che mi sento di dire che in tutto ciò che avete scritto su Giap come WM e nei singoli vostri interventi non ho mai colto atteggiamenti da vittime della “fallace dicotomia” cui accennate. Piuttosto siete sempre riusciti a mantenere per davvero un approccio di sintesi equilibrata e lucida. Seguendovi da tanti anni ero fiduciosa che ciò sarebbe accaduto, ma non era scontato.
Non vorrei aver male interpretato la vostra posizione ma credo possa essere riassunta in modo estremo così: non é tollerabile che l’intera popolazione, senza distinguo in base alle specificità del territorio, sia costretta a stare in casa senza che ci si interroghi sul perché di una misura che, lungi dall’essere correlata con la prevenzione, sia addirittura sbandierata come manifestazione di autoritarismo. Vietare tout court l’uscita di casa come se nell’aria volteggiasse una nube funesta stride poi con il fatto che i luoghi di lavoro sono stati affollati come sempre. Non tutti certo, ma, tra codici ateco e deroghe, ben il 52% delle attività produttive, nel periodo di massima chiusura, era attivo. A metà Aprile le aziende operative in deroga erano 200.000 ed il 55,8% era ubicato nelle regioni più colpite dall’epidemia. L’Inail, al 4 Maggio, ha certificato che il 17% del totale dei contagi ( oltre 37.000) é avvenuto sul luogo di lavoro. Se si considerano questi dati che sono certo stimati in difetto è evidente che la critica alla limitazione dei movimenti dei cittadini appare ancora più legittima. Ma non porta alla conclusione che i lavoratori dovessero essere trattati come carne da macello e sacrificati sull’altare di Confindustria e della ricca borghesia che poteva permettersi, essa di, di rimanere protetta entro le ampie mura delle proprie abitazioni. Difatti voi avete messo in risalto le profonde disuguaglianze generate dalla chiusura “totale”, ma che totale di fatto non è stata neppure durante il picco dell’epidemia.
Guarda, noi abbiamo fatto del nostro meglio, qui su Giap, per mantenere l’equilibrio, però abbiamo camminato sulle uova per tre mesi e in quelle condizioni è impossibile non rompere qualche guscio. Per quanto mi riguarda la prima cosa a cui penso non sono i post, dove da un certo punto in avanti pesavamo le sillabe (parlo di quelli scritti di nostro pugno), ma ad alcune risposte nei commenti, in cui mi sono fatto trascinare dalla vis polemica e, ad esempio, ho chiamato «imparanoiat*» e descritto con sarcasmo cert* compagn* che avevo in mente.
Sono cose che molti di noi hanno fatto in chiacchiere orali tra amici e sodali, a volte dopo avere sbottato per l’ennesima accusa gratuita ricevuta. Ma su Giap è un registro inadeguato, può solo esacerbare gli animi ed estremizzare ulteriormente le posizioni.
Resto convinto che certi comportamenti, certe retoriche, soprattutto certi cedimenti – e la tanatofobia che ne stava alla base – andassero e vadano criticati duramente, per non dire di (ormai ex) amici con cui ho condiviso pezzi di vita anche lunghi che si sono messi a fare i delatori contro i runner e/o ci hanno riversato addosso calunnie incredbili… Chiaro che con certe persone non si ricuce, non è più possibile. Ma scrivendo qui di «imparanoiati», facendo riferimenti generici sulla scorta dell’irritazione, si rischia di sbagliare mira e colpire chiunque abbia mantenuto il focus sul virus e non sull’emergenza, chiunque abbia avuto paura ecc., persone con cui si potrà tornare a ragionare.
In generale, con tutta la gente che sta appostata sui social in attesa di estrapolare, decontestualizzare, fare screenshot tossici, sfruttare ogni nostro mezzo passo falso, basta poco per farci dare dei minimizzatori del virus, dei delinquenti, dei confindustriali ecc., con buona pace di tutto quello che abbiamo scritto contro Confindustria, contro le deroghe prefettizie e i cambi precipitosi di codice Ateco che hanno permesso di tenere aperte le fabbriche anche in zone di alto contagio ecc. Non siamo sempre stati bravi a muoverci, curare il contesto, evitare equivoci. Per come la vedo io, e soprattutto per come la sento, la vicenda del post precedente con relativa discussione è stata comunque utile perché ha fatto capire delle cose e ha contribuito a rifinire la riflessione qui sopra, ma nel complesso è una storia che io per primo non ho saputo gestire, anche per la stanchezza dopo questa lunghissima tirata. Però non vorrei “sdoppiare” le discussioni, per rimanere su quello specifico c’è già l’altro thread. Qui proverei a guardare avanti.
Rispondo qui (sperando di non disturbare gli “interlocutori”) perché da questo commento mi sento chiamato in causa, anche se so benissimo che non stavate pensando a me vista “l’attività” scarsa che ho su questo blog: negli scorsi mesi (e l’ultima volta anche in un commento) ho “criticato” quello che mi sembrava essere un vostro atteggiamento di “minimizzazione” del rischio per sottolineare i gravi danni politici e sociali che la gestione del Covid-19 stavano facendo. Mi rendo conto ora di essere stato vittima del “principio di indeterminazione” di cui parla Negante, nel senso che ero talmente impegnato a prendermela coi vari edonisti del paese da non comprendere che voi stavate parlando di *altro*. E d’altronde, non vorrei aver fatto la figura di quello che dice “chissenefrega delle derive autoritarie del governo”: per “deformazione professionale”, il mio focus era maggiormente spostato verso la porzione di discorso pubblico che cercava di minimizzare i rischi, con l’intenzione di far “ripartire l’economia” (=dare i soldi ai capitalisti), e non sul resto. Anche io sono stato vittima di quell’indeterminazione, e mi è sembrato che voi ignoraste un discorso che invece non vi competeva.
Grazie, lettura illuminante.
Grazie a te, Gaber, secondo me comincia un momento in cui, spezzati alcuni “incantesimi”, diverse persone torneranno a poter comunicare. È calato il bombardamento mediatico, come dice Talpa60 qui sotto. Molti corpi sono tornati negli spazi pubblici, la morsa del terrore si è allentata, ci si incontra. Tra Tizia e Caia, nell’incontrarsi, potrà esserci un iniziale imbarazzo, per l’essersi trovate su opposti lati di una barricata virtuale, per i toni utilizzati… Ma sono cose che si stemperano, erano fatte “sotto incantesimo”.
Come detto, però, altre persone hanno trasceso anche il limite di ciò che sono disposto a condonare a chi è sotto incantesimo. Non ci ritroveremo con tutte e tutti. Di alcune persone ho scoperto – o riscoperto – che è «meglio perderle che trovarle». In fondo va bene anche questo.
In un libro del 2005 intitolato “Stregoneria capitalista”, Philippe Pignarre e Isabelle Stengers teorizzavano che le alternative infernali fossero lo strumento principale del dominio capitalista per ottundere il pensiero critico e indurre alla passività e alla rassegnazione. Vuoi aumentare i salari? Accelererai la delocalizzazione! Vuoi accogliere i migranti? Foraggerai gli scafisti! Vuoi smettere di regalare i tuoi dati a Google? Resterai fuori dalla rete! Il trucco è noto e continua a funzionare alla grande: si tratta di ridurre il complesso e il molteplice a un’alternativa fra un disastro sicuro e qualcosa che (apparentemente) è un po’ meno disastroso. Le passioni tristi e l’asservimento si costruiscono sulla paura e ogni fascismo è, fra l’altro, una drastica semplificazione del reale.
Oggi, però, abbiamo raggiunto un livello ulteriore di perversione, sia in termini di potenza ricattatoria (Vuoi assistere i tuoi cari per non farli morire da soli? Propagherai il virus, ti ammalerai tu stesso, moriremo tutti!), sia in termini di indecidibilità (l’indeterminatezza di cui hanno scritto Negante e Wu Ming, appunto). Il che significa due cose: (1) il senso di impotenza e il senso di colpa schizzano alle stelle, perché alla paura viscerale della propria morte e di quella dei propri cari si aggiunge quella di poter essere gli agenti diretti di quelle stesse morti; (2) come nelle situazioni di tortura, totalitarie o di “campo”, il mondo diventa opaco, indecidibile. In queste circostanze, il rischio d’impazzimento si fa altissimo.
Alla fine della “Montagna incantata” Thomas Mann descrive il rimbombo cupo degli eventi “della pianura” sugli ospiti del sanatorio: battibecchi continui, irrequietezza, animosità… poi la guerra arriva e spazza via tutto e tutti. La padronanza di sé e delle proprie reazioni – anche in un blog – è già prendere parte per una politica di vita invece che di morte.
A proposito di dicotomie fallaci un caso che a me pare c’entri è quello che riguarda il riflesso condizionato alla parola “Svezia”. Per quanto uno si possa sforzare a dire che la Svezia è un paese capitalistico che ha adottato le sue misure non certo per logiche umanitarie o perché avesse a cuore chissà quali principi democratici (o in ogni caso non mi pare siano i motivi prevalenti) non c’è niente da fare: a primo dato sputato fuori da una newsletter del Minnesota o dal un blog del Suriname ci sarà sempre quello che ti twitta “bello il modello svedese eh?”. Stremato da queste notifiche avevo pensato di farla davvero una comparazione tra con Norvegia, Danimarca, Finlanda, o boh, ma appena ci ho messo mano mi sono ricordato che queste cose mi venivano pagate e ci dovevo lavorare un anno. Quindi metto qui a futura memoria cosa si dovrebbe fare prima di dire una sola parola di comparazione:
1. chiarire cosa stiamo cercando. Sono importanti i contagi o i morti?
1a. Ricordate che quando si risponde “entrambi” potreste avere la brutta sorpresa che il paese X ha più contagi e il paese Y più morti
2.a che data va fatto il conteggio? Fine maggio? fine giugno? 31 dicembre? Ieri?
2a. Ricordate che il dato è diverso a seconda del momento in cui è contato
3. Standardizzare le modalità di conteggio. I contagi come sapete dipendono dai tamponi; la causa di morte dalle modalità specifiche di ogni paese
–> segue
–>
4. Standardizzare le strutture ricettive. Se il paese A ha 1000 posti in terapia intensiva, pochi medici, il sistema sanitario a pagamento e il paese B 10000, tanti medici, sistema sanitario universale, è saggio farsi visitare dal dubbio che la variabile che state studiando (il lockdown) c’entri poco.
5. Trovare le morti attese dei paesi usati come riferimento. Cioè andare a vedere quanti morti al giorno nel periodo considerato ci sono stati in passato
5a. Ricordarsi che esistono fluttuazioni naturali attorno alla media e spesso la media NON è un buon parametro di riferimento. (per esempio non ricordo dove si è calcolato che il dato delle mortalità italiane ha un’oscillazione intorno, mi pare, al 30%)
Tutto questo solo per cominciare. Se non si fa manco questo qualsiasi considerazione sugli “effetti del lockdown” è senza senso (altrove i termini sarebbero più pesanti).
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Quando leggo Minnesota da qualche parte, mi sale la frequenza dei battiti cardiaci (è una battuta del posto). Il Minnesota è un luogo freddo, popolato da persone riservate. Ha storia di immigrazini da Germania e paesi scandinavi. Viene introdotto spesso nelle discussioni, ma un po’ come si fa con CanicattÌ in Italia. Io, per ora e ancora per poco, ci vivo.
E sono sono uno di quelli fallaci, percepivo la Svezia come un dogma – certo per mia disattenzione, in fondo qui sul blog c’era scritto tutto – ma insomma se uno obiettava “sì, ma siamo poi sicuri che in Svezia le cose stiano andando così bene”, partiva il coro di “ma ci vuole tempo”, “i numeri non dicono tutto”, “uffa, ancora ‘sta storia” ecc.
Ora, riemergendo dal bombardamento whatsapp degli ultimi mesi, è anche grazie alla lettura di questo blog che ho curato – spero – le ferite che avevano messo in crisi la mia capacità di mettere a fuoco.
Nel Minnesota l’epidemia è stata amministrata con chiusure e facendo appello al senso di responsabilità. Ha funzionato? Pare proprio di sì. Ma la vedrei bene, questa strategia, esportata di peso in Italia?
Per usare le parole di uno di qui: “the times they are a-changin’” e forse non ha neanche più senso fare confronti (lo dico a me stesso, non al blog). Se ci si prova, bisogna farlo con gli strumenti giusti. Come hai scritto qui sopra. grazie
Quando si dice aprioristicamente che non c’è un piano capitalistico dietro quanto sta accadendo mi sembra miope. Perchè?: il capitalismo sta “prendendo la palla al balzo” ok, e capisco la fermezza nel non avvallorare ipotesi cosìddette “complottiste” che sono reazionarie e una enorme “buttata in caciara”. Però Noi si vive in uno stato in cui la loggia P2 ha manovrato più o meno sotterraneamente al fine di orientare la società italiana;la cosiddetta strategia della tensione attuata in italia, non è un esempio storicamente comprovato di complotto da parte di interessi politici più o meno istituzionali? e l’accordo stato-mafia?
visto che negl’ultimi denenni il raggio d’azione del potere economico finanziario si è globalizzato come non mai nella storia, sdoganandosi eassorbendo gli stati nazione, non vedo incocepibile che grossi e strategici interessi economico-finanziari multinazionali vogliano imprimere un orientamento al capitalismo globale.
In primis, le multinazionali che controllano la rete e la società virtuale attraverso i social network, studiano l’immaginario della gente al fine di manipolarlo e condizionarlo. già Bauman in Modernità e olocausto, ha reso noto
di come la sociologia era ed è utilizzata a tale fine; la società statunitense è stata la prima cavia da sottoporre ad una modello finanziario biopolitico, che si sta esportando in tutto il pianeta. Ed eccoci arrivati allo strapotere di società come amazon google microsoft…… che si stanno insinuando nelle singole economie locali di tutto il mondo. Di chi sono le piattaforme su cui si fa la DAD? lo smart working? le app che si vogliono usare
le dinamiche attuali sono una strategia d’azione ben studiata e collaudata. strategia che con il covid si sta imponendo più velocemente.
Che esistano strategie capitalistiche è ovvio, e che alcuni complotti anche vasti siano esistiti ed esistano è chiaro: la strategia della tensione, il Watergate, o i complotti per far credere che esistesse un Grande Complotto, come la fabbricazione dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion.
Il problema è il complottismo, o cospirazionismo, forma mentis che vede ovunque complotti – spesso deviando l’attenzione da quelli veri – e mette un Grande Complotto al centro del funzionamento del sistema, esagerando il ruolo della volontà nella storia (per giunta, una Volontà che tutto prevede e tutto ottiene), immaginando cabale e supercaste pressoché onnipotenti ecc.
Un conto è dire che l’emergenza viene gestita con gli strumenti che nel frattempo il capitale ha perfezionato, anche grazie alle emergenze precedenti. È quasi un truismo: l’emergenza arriva dopo quarant’anni di policy e governance neoliberale, ne prolunga molti fili, ne aggrava le conseguenze, fa pagare tutto a chi già pagava. Un altro conto sarebbe dire che quest’emergenza è stata programmata in anticipo.
Le emergenze non funzionano così, perché sono a tutti gli effetti emergenze, non sono finte, sono emergenze anche per il capitale, che al principio ne rimane addirittura spiazzato. Negli anni 70 il capitalismo italiano rimase spiazzato dall’aumento vertiginoso della conflittualità sociale, con un uso della forza che produsse anche un lottarmatismo diffuso; però colse la palla al balzo e usò quell’emergenza per reprimere le lotte e accelerare la ristrutturazione capitalistica.
La governance tramite emergenze che si susseguono è diventata, ex post, una strategia, ma è una strategia basata sul saper sfruttare opportunisticamente le emergenze.
Tornando allo specifico, quest’emergenza non può essere stata pianificata in anticipo, a meno di non credere che il virus sia stato inventato, o che il suo spillover sia stato man-made. Roba che non sta in piedi. Gli addetti ai lavori sapevano che prima o poi ci sarebbe stata una pandemia, ma nessuno poteva sapere in anticipo dettagli e calendario della sua diffusione.
Aggiungo, per complicare ancora un po’ le cose: le emergenze esistono e non sono “costruite”, proprio come è esistita un’emergenza criminalità a NYC dopo i tagli brutali al welfare del 1975, o durante l’«epidemia» dello spaccio e consumo di crack dei primi anni novanta.
Ma poi le reazioni politiche e istituzionali a quelle emergenze di NYC sono state globalizzate, al punto che, per esempio, nell’Italia degli anni novanta si è fatta letteralmente emergere – con lavorio mediatico e politico – un’«emergenza criminalità di strada», criminalità che aveva in realtà «piccato» almeno dieci anni prima, e che non aveva davvero ragione di esistere, soprattutto in un momento in cui l’attenzione dei cittadini era puntata sulla criminalità dei colletti bianchi, ovvero quella di Mani Pulite.
Mani Pulite, che a sua volta, è diventata il pretesto pseudo-emergenziale per fare emergere una gestione tecnocratica, neoliberale e fintamente a-politica della ricchezza pubblica,
In nessuno di questi punti è possibile sepatate nettamente e definitivamente tra emergenza e narrazione dell’emergenza. Che è un po’ l’altra faccia, il reciproco, di quanto detto (in modo efficacissimo e utile) da Negante.
In occidente siamo in una società molto liquida, dove lo schema sfruttatori/sfruttati si è confuso, complicato da figure sociali intermedie e trasversali. Siamo passati da una società fondata sulla produzione a una società fondata sul terziario, ovvero sui servizi, e oggi è in atto una ulteriore deviazione: l’esplosione del settore dei servizi ai servizi, quello che si potrebbe definire “il terziario parossistico” o “quarto settore”. C’è una forte spinta alla istituzionalizzazione dell’emergenza in quanto occasione creatrice di nuove strutture di servizio che non fanno altro che occuparsi di gestire/complicare i servizi che i gestori di servizi stanno erogando. E’ una piramide rovesciata sempre più gigantesca, con al vertice basso il lavoratore vero e proprio. Questa situazione – ancorché paradossale e insostenibile – sembra sempre di più piacere a tutti. Lavorare nel quarto settore , nei “servizi ai servizi” sembra ormai seconda solo all’ambizione di non lavorare per niente percependo reddito/sussidio. Qui si incuneano le emergenze viste come occasione di sviluppo per questo settore. Un esempio classico sono le “allerta meteo” ormai finite per rendere routinaria l’emergenza perché figlia non più dell’evento eccezionale ma del proliferare delle strutture e dei meccanismi impiantati in forma stabile. Questo è il rischio (quasi certezza) che corriamo con la pandemia: la trasformazione in strutture di allerta stabile di ciò che oggi è eccezionale. Possiamo prepararci a enti appositi, task force permanenti, strutture regionali, agenzie private, aziende certificatrici ecc. pronte per le emergenze sanitarie, attivate una o più volte all’anno, ovvero in forma praticamente continuativa. L’emergenza in pianta stabile non come forma di controllo politico ma, ben più banalmente, come cialtronesca invenzione di settori (im)produttivi dove (non)lavorare percependo stipendi, gettoni di presenza, parcelle, ecc. Questo tipo di emergenze permanenti sono assolutamente e perfettamente funzionali a quella che Ricolfi chiamò “Società Signorile di Massa” (va letto con un velo di ironia), sono i mattoni della società postmoderna, decadentista e masturbatoria nella quale viviamo.
Faccio un commento del tutto tecnico a livello economico. Perché mi pare che a furia di citazioni la realtà si veda dietro spesse coltri. Il virus è un fatto, l’emergenza economica è in parte un effetto ma in gran parte un prodotto. Prodotto politico. Chi gestisce le file economiche ha solo preso la palla al balzo per accelerare il processo naturale di distruzione creativa che sarebbe dovuto originarsi da qui a breve. In un epoca di moneta fiat e infinite possibilità di politica monetaria e fiscale la profondità della crisi e dell’emergenza sarà valutata e decisa attentamente. In tutto il mondo eravamo a livelli di costo del denaro bassissimi, inflazione quasi zero etc ( che vuol dire che le politiche monetarie non hanno effetto sull’economia reale, quindi non si cresce). Serve bruciare un po’ di capitale per ripartire..se la crisi sarà breve si ricomincerà col credito ai sopravvissuti e ai nuovi imprenditori. Se sarà lunga prima elicopter money e poi credito e nuovo giro e nuova corsa fino alla prossima crisi. Non pensiamo che il capitale abbia a cuore tutti gli imprenditori, quelli sotto un certo livello ( sempre più grande)sono considerati alla stregua degli operai, quindi del tutto sacrificabili fino a che non si presenti un problema di ordine pubblico.
Lo scontro talvolta violento fra i due “partiti” quello del no al virus e quello del no all’ emergenza lo abbiamo vissuto in molti nel cerchio delle nostre amicizie e affetti. Penso che però abbiamo vissuto due mesi e mezzo di un bombardamento mediatico che ha avuto una intensita’ che non ricordo di avere mai visto in vita mia, neanche per le altre emergenze che indicate. Quindi non dispero che nei prossimi mesi mesi il conflitto interno tra noi possa decantare e si possa tutti arrivare a vedere con piu’ chiarezza le cose, dato che per necessita’ il bombardamento a tappeto perdera’ perdera’ forza ed efficacia. Vorrei anche dire che è certamente vero che il capitale ha colto al balzo l’opportunita’, ma la troppoa velocita’ dei mutamenti non li aiuta, perche’ la gente li vede. Se passi di colpo dalla scuola con gli insegnati e i compagni di classe alla DAD, vedi la differenza. Se passi di colpo dal lavoro in una azienda al lavoro in casa vedi nettamente la tua condizione di isolamento e di debolezza, e ti accorgi che hai perso, quando hai perso i tuoi colleghi, rapporti umani importanti e una forza di gruppo contro il padrone. Personalmente ogni volta che sento Virtual+ mi viene da vomitare ormai, e non credo di essere il solo. E cosi’ via.
I cambiamenti nel mondo del lavoro hanno impiegato decenni per essere attuati, partento dalla politica dei sacrifici della fine anni 70 per completarsi con il governo Renzi. Un passo alla volta verso un obbiettivo ben chiaro, ma ogni regresso è stato fatto digerire con calma ai lavoratori. Forse stavolta la fretta non li aiuterà a farci digerire il menù che hanno in mente.
sinceramente non sono sicuro del fatto che non ci sia la manina dell’uomo in questo virus, in quanto non c’è stato a riguardo un dibattito nella comunità scientifica internazionale, se c’è stato vi prego di segnalarlo. inoltre vista la mancanza di un alternativa economica e di pensiero paragonabile per efficacia al modello dominante così pervasivo e onnipresente in tutte le sfere umane non ci rimane che ritenere fondamentale e necessario l’assistenzialismo dei sacrosanti redditi di emergenza ecc…
Il fatto che il nostro immaginario è stato colonizzato a tal punto da non riuscire a concepire un esistenza senza tutti i giocattolini tecnologici, e le comodità a esse connesse, la dice lunga di come siamo succubi degli specchietti per le allodole che ci offrono.
Debord ha teorizzato la sintesi tra il capitalismo occidentale e il comunismo sovietico che si affermava in europa tra gli anni ’60 e ’70, cosa che nella cina dei nostri giorni è andata ben oltre, e che sta facendo da traino al capitalismo occidentale per adeguarsi alla sua forza inarrestabile e onnisciente (grazie ad una società hi-tek della sorveglianza).
concludendo penso che le teorie sociali ottonovecentesche, alternative al capitalismo abbiano perso, e che necessitiamo
di una teorizzazione adeguata e attualizzata che possa far intravedere una visione radicalmente diversa e altrettanto efficace della vita collettiva.
Che intendi per dibattito? Mi pare che ci sia una certa concordanza sul fatto che ci sia stato il “salto di specie”, non trovo nessuno di serio che dica il contrario. Il segretario di stato USA Pompeo, un giornalista spagnolo, Meluzzi (e lo stesso Montagnier poveretto) non sono certo da considerare. Se tu hai articoli seri potresti postarli per favore? Qui un paio di articoli di gente che invece un po’ dovrebbe capirne
https://notiziescientifiche.it/coronavirus-della-covid-19-ha-origine-naturale-secondo-team-di-scienziati/
https://www.fondazioneveronesi.it/magazine/articoli/lesperto-risponde/coronavirus-no-non-e-stato-creato-a-tavolino-in-laboratorio
Considera che è già un casino districarsi sulle cose complicate, quelle “semplici” io le lascerei perdere, almeno fino a quando non ci sono motivi “seri” per tornarci (uno scienziato “vero” per esempio)
La “manina” c’è, ma nel senso che le condizioni per gli spillover delle ultime pamdemie sono conseguenza dell’impatto capitalistico sugli ecosistemi. Il settore di capitale con le maggiori responsabilità è senz’altro l’industria zootecnica planetaria, per il duplice tramite dei mega-allevamenti intensivi e delle grandi deforestazioni necessarie all’agricoltura che sostiene quell’industria. Un altro grande responsabile è il processo di urbanizzazione senza freni. Mi sembra di gran lunga più efficace, sotto l’aspetto della critica al capitalismo, parlare di tutto questo anziché inseguire narrazioni già pluridebunkate sul Covid-19 “ingegnerizzato” coi soldi di Bill Gatea nell’ambito di un subdolo piano segretissimo che però tutti sembrano conoscere e di cui parlano liberamente su Facebook…
So che qui nessuno pensa che quando Brin e Page, nel 1998 lanciarono Google, avessero nel contempo programmato che 22 anni dopo il loro “collega” informatico Bill Gates avrebbe diffuso sul pianeta un virus creato dai suoi laboratori (situati dove? A Peenemunde?) per rinchiudere in casa l’umanità che avrebbe usato strumenti Google. Di cose così se ne sentono a iosa. Per dirla con WM, il capitale in fondo non programma niente, rimane solo in attesa di fare quello che sa fare meglio: sfruttare le occasioni, adattarsi velocemente ai cambiamenti (così facendo predisponendo quelli successivi), governare le mutazioni della società, influenzare le scelte. Il tutto finalizzato all’imposizione di un modello accattivante che si perpetua, si autoalimenta.
Una volta un giocatore di poker professionista ebbe a dire ad un amatore che in una partita secca avevano entrambi le stesse probabilità di vincere, ma se avessero giocato 1000 partite SICURAMENTE lui (il professionista) ne avrebbe vinte di più rispetto all’avversario. Il capitalismo, in fondo, è un giocatore di poker professionista: prima di iniziare la partita non sa esattamente come potrà andare a finire, ma sa che alla fine della serata si alzerà dal tavolo con più soldi di quando ci si era seduto, perché sa di essere capace di mescolare abilità, fortuna, sangue freddo, spregiudicatezza, determinazione, cattiveria.
E cos’è questa pandemia se non una gigantesca occasione nel tavolo da poker del capitale? Qualcuno aveva mai sentito parlare di google meet? O google classroom? Google è stata veloce e reattiva nel predisporre e diffondere strumenti che già aveva ma erano di nicchia, e farli diventare oggetti quotidiani. È stata pronta a darci quello che chiedevamo, ha letto la partita e ha giocato le sue carte. Chapeau (non rassegnato).
Boh. Io francamente di lottare non ho intenzione. Per me è sufficiente una idea che mi dice: se devo comprare qualcosa e il negozio fa il suo tranquillo orario non schiavistico allora torno con calma quando trovo qualcuno. E per me va benissimo. Se impiego mesi per riuscire ad avere un paio di scarpe che mi sono indispensabili per non farmi male in montagna attendo mesi e nel frattempo cerco comunque di non farmi male. Altrimenti mi attivavo prima. Il problema penso sia non soltanto il discorso politico ma anche il fatto che non abbiamo più la capacità di vivere con tranquillità. È difficile generalizzare però ecco penso che con un chilo di pasta, qualche pomodoro e una scatoletta di tonno (faccio per dire. Se siete vegetariani va bene lo stesso) si può non morire di fame per qualche giorno. Poi ovvio che deve esserci la possibilità dell’indispensabile. Però con calma
Volevo rispondere ad altro commento ma l’ha piazzato qui. Si è ipersensibilizzato pure il telefono. D’altronde mi sembra di capire che abbiamo anche qualche problemino con la tecnologia. Comunque il ragionamento è esattamente il discorso del lavorare con tempi adeguati e a parità di salario. Era per enfatizzare. La cosa buffa è che quando si parla per parlare dicendo che in un mondo giusto non si dovrebbe lavorare più di tre giorni a settimana per più di quattro ore al giorno tutti che rispondono ‘eh ma è impossibile’. Forse il problema è proprio la rassegnazione. Comunque io credo nelle utopie.
effettivamente non lo penso nemmeno io,e sono d’accordo con quanto dici sul come è argomentato, rende l’idea; ma è una visione parziale e macroscopica della questione. Si parla del capitalismo come di un entità impersonale autodeterminantesi in maniera inconscia se non incosapevole che agisce in basi a leggi intrinseche. Si poteva parlarne in questi termini negli ultimi due secoli nel millennio scorso. Secondo me ora ha fatto un salto “quantico” insieme alla sua voracità.
La sua sostanza di funzionamento è la concorrenza, cosa avviene quando gli attori della concorrenza fanno cartello? oppure cosa avviene quando si sbaraglia la concorrenza? Con questi modi di dire intendo affermare che quando nella società-mercato si crea uno squilibrio di influenza e persuasione tanto forte al punto di concentrare un enorme potere finanziario,e produttivo e mediatico in una manciata di individui, che detengono i mezzi di produzione materiale e immateriale, il cui fine ultimo è la crescita infinita di quella stessa influenza, ecco che ci si avvicina alla realtà attuale e al prossimo futuro. Perchè la cina ha creato le sue piattaforme virtuali? Ogni attore nello schacchiere mondiale c’ha le sue, solo che li sono assoggettate allo stato, “qui” saranno gli stati e le genti a esserne assoggettati. Non so chi starà peggio……
Per fare un esempio di come le potenze globali entrano nelle economie locali, la cantina vicino casa vende il vino su amazon che ci guadagna
la stessa cifra di chi lo produce, solo perchè fa da tramite….
per non parlare dell’acquisto on line, che già andava alla grande, nei due mesi di chiusura ha decuplicato i profitti,…..
non sono un esperto, non so se la terminologia è adeguata, ma secondo me sono queste le dinamiche da contrastare, e per farlo bisogna conoscerle e affilare gli strumenti di persuasione e di consapevolezza collettiva.
era riferito al commento di marcello07,
ora devo allungare il brodo, per lasciarlo passare.
mi sembra che ci siam resi conto che anche la scienza è soggetta a questa accelerazione, che non esiste più (o quasi) una ricerca
pura. L’idea suggerita o che viene facilmente alla mente è che si viva nel miglior civiltà di tutti i tempi, che abbiamo sconfitto l’ignoranza dei tempi passati. Descrivendo i nostri antenati come bruti,
per non parlare di come viene descritta e divulgata la natura dai media del settore…. puro spettacolo (dis)umanizzato
Secondo me una questione di fondo, ancora non trattata a sufficienza (ma ci vorrebbero, e ci vorranno, anni) è quello del ruolo sociale dell’evidenza scientifica. In una pandemia in atto, le ricerche e le analisi sono quasi sempre provvisorie: un esempio è l’uso massiccio dei servizi di pre-print, il che significa che la maggior parte degli studi che circolano non sono stati sottoposti a revisione esterna (peer review), perché si privilegia la massima diffusione in un momento di necessità.
Ma il problema resta, ed è quello che anche in ambito scientifico è facile finire su posizioni estreme, che finiscono ad annullarsi a vicenda. Voglio sostenere che l’unica soluzione è stare chiusi in casa per sei mesi? Ecco il modello X. Voglio sostenere che non è peggio di un’influenza? Ecco il grafico Y.
Sia l’articolo “incriminato” precedente, sia, in misura minore, quello di Roberto Salerno, fanno secondo me l’errore di prendere alla lettera la “evidence-based medicine”, cioè quell’orientamento di cui John Ioannidis, citato da entrambi, è un esponente. Ma si tratta appunto solo di *un* modo di inquadrare la verità scientifica, più problematico di quanto possa sembrare a prima vista. La questione è spiegata nel dettaglio in un ottimo articolo: http://bostonreview.net/science-nature/jonathan-fuller-models-v-evidence
Del resto sembra intuitivo: servono prove prima di chiudere le scuole! Il problema è che, in molte circostanze, le prove solide non sono ottenibili in tempi brevi; oppure non sono generalizzabili, perché legate al contesto locale in cui viene fatto lo studio. Ed è qua che entrano in gioco i modelli (che però hanno, a loro volta, grandi limitazioni).
Questo per dire che, nel contesto di una pandemia, pensare che si debba procedere solo sulla base delle prove scientifiche, o solo sulla base dei modelli, è un’altra delle trappole binarie di cui si parla qua sopra.
Ciao ab, la questione è così enorme che è impensabile rispondere senza essere superficiali, quindi mi scuso in anticipo, ma servirebbero pagine e pagine (e giorni e giorni). Mi scuso in anticipo anche con gli ospiti perché sarò lunghetto… Per una volta però parlo di quello che forse conosco meglio in assoluto (vabbè a parte il tennis o il calcio :-)) o, se preferisci, quello su cui mi pare di avere meno lacune: l’analisi dei processi decisionali. Il tuo punto di partenza è “il ruolo sociale dell’evidenza scientifica”. Io, per entrare meglio in topic (e seguire un po’ l’articolo che citi) lo trasformerei nel “la rilevanza dell’evidenza scientifica nel processo decisionale”. In sostanza, nel prendere la decisione x o quella y, quanto conta il fatto di avere le prove? Non so bene cosa intenda per “prendere alla lettera” questa questione, te lo chiedo sinceramente, perché nel mio pezzo io parlo più dei modelli che delle evidenze, mi pare. Ma per me il punto non è questo. A me preme provare a “divulgare”, diciamo così, una delle poche acquisizioni di una “scienza” così debole da essere evanescente, come la scienza politica. Ovviamente perché ritengo che serva, non ho interessi corporativi da difendere, anzi i miei “colleghi”, generally speaking, hanno una consapevolezza della politica, che è inferiore a quella di qualsiasi militante medio di una generica formazione politica. –>
–> Però appunto una cosa l’abbiamo detta anche noi e cioè che le decisioni vengono prese in vari modi – che sappiamo persino calssificare – ma in uno sicuramente no: quello razionale. E questo per il motivo banale che è impossibile, per un qualsiasi decisore, tenere a bada le infinite variabili e gli infiniti interessi che si agitano dentro un processo decisionale. Non trattiamo certo il decisore come un decisore razionale, ma come un decisore che ha una sua “funzione d’utilità” cioè che crede che gli convenga una cosa. Siccome non è razionale – perché pure lui non può prevedere le infinite conseguenze delle sue decisioni – non è raro che si sbagli, e che quindi la “prevalenza del più forte” non si risolva con un vantaggio reale. Ma il decisore è “guidato” da quello che crede essere il suo interesse immediato. Siccome il decisore non è “uno” ma nelle società complesse (cioè tutte in ogni tempo) sono soggetti collettivi che “precipitano” nel decisore formale, la decisione è il risultato di questi interessi a volte contrapposti, anche se rientrano nella cornice di sostenibilità del capitalismo, per dargli un’impronta politica (cosa che i policy analist non sanno fare, perché ideologicamente sono tutti liberisti del cavolo, da quelle parti un piddino passa per un rivoluzionario sognatore). –>
–> Capisci che partendo da queste premesse per me un dibattito come quello raccontato nel pezzo che hai postato è buono come spunto per una discussione seminariale, ma non credo affatto che abbia una qualche ricaduta. Come si è detto in un commento che non sono in grado di recuperare visto i due giorni difficili, il modello dell’imperial college aveva il pregio di incontrare alcune preoccupazioni di alcuni decisori influenti, che l’hanno usato come risorsa; avessero voluto fare altro ne avrebbero usato un altro. Modelli, prove, sono – per la mia disciplina – alla stessa stregua di regole, consenso, denaro: risorse a disposizione degli attori, che questi usano per prevalere nel conflitto.
Ho tirato via un sacco di cose e non sono certo sicuro che si capisca tutto né di aver centrato il punto (alla fine i commenti rischiano di diventare flussi di coscienza) ma ci tenevo a dire che le prove scientifiche non sono in grado di cambiare un bel niente nei processi decisionali.
Grazie a robydoc per aver segnalato gli articoli,
ne conoscevo i risultati, come anche la causa della devastazione degli ecosistemi a causa del salto interspecifico, che rimane la vera emergenza che esiste già da anni, che non viene affrontata con la stessa urgenza.
Comunque per dibattito intendo più studi indipendenti che confrontano i risultati,
che per forza di cose non si possono avere nel breve periodo. La velocità a cui siamo abituati ci porta a dare per scontato un pò di cose.
Questa esperienza di chiusura totale imposta così maldestramente alla popolazione,
potrebbe fare capire che con un po di consapevolezza in più nella quotidianeità sarebbe molto facile imprimere una direzione diversa alle scelte di chi governa.
Potremmo dire che a prima vista, il Virus sembra una cosa triviale, ovvia. Quando si analizza l’Emergenza, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici.
Esiste un valore di feticcio del virus, quello che istituisce attorno ad esso una forma del rapporto sociale.
A me sembra che non sia possibile indagare a fondo il virus, l’emergenza, ma anche la cura, a prescindere dai rapporti sociali che instaurano e da cui sono prodotti.
Non ne siamo ancora usciti, che già emerge una sorta di Nostalgia del Lockdown.
Ho sentito persone lamentarsi che se si torna nelle strade, queste non saranno più pulite, perché c’è chi butterà le cartacce per terra.
Così come c’è chi pensa che per tenere le strade pulite bisognerebbe lasciarle deserte, c’è chi pensa che per difendere la società sia necessario… azzerare la società.
Non si può comprendere un Evento totale scomponendolo, sezionandolo al microscopio.
Mi sembra che l’unica cosa da fare sia continuare ad accumulare discorsi e fare incrociare saperi, ma facendo emergere sempre la cifra politica delle forme sociali sottese ad ogni teoria.
Vorrei provare a mettere sul tavolo traiettorie socio-economiche di lungo periodo per capire dove potrebbe risolversi dialetticamente la dicotomia virus-emergenza. Un libro di Ricolfi dell’anno scorso definisce l’Italia una società signorile di massa in cui il consumo opulento si muove insieme a bassi livelli di produttività e di creazione di surplus. Racconta cioè una società tenuta assieme da profonde relazioni di debito tra generazioni e tra classi sociali nonché da relazioni quasi schiavistiche con chi non ha gli stessi diritti di cittadinanza. Tutto ciò viene camuffato non solo dalle emergenze ma dalla spettacolarizzazione dell’esistenza individuale tutta protesa al consumo simbolico invece che ad usare al meglio il proprio tempo ritrovato. La sintesi della dicotomia di sopra si aggira allora da qualche parte nel superamento del narcisismo della società dello spettacolo. Penso alla proliferazione di performance che generano continui inni sulle capacità di spesa dell’individuo. Penso ai grandi Istituti bancari mondiali che producono ogni settimana scenari della recessione e partecipano al gioco di creazione sia della recessione sia della risposta dei governi. Ieri ascoltavo l’ennesima discussione sullo stato d’eccezione ed Esposito ricordava, citando Santi Romano e il terremoto di Messina del 1908, che l’eccezione\emergenza non è solo frutto di una volontà del potere ma anche di una necessità. E’ evidente però che la sovraesposizione ai linguaggi dell’emergenza e la predisposizione di fondi d’eccezione non appartengono all’emergenza in quanto tale ma ad una volontà che la riporta dentro le caratteristiche opache del capitalismo italiano e alle sue logiche di profitto. Da dove scrivo non siamo stati esposti ai flussi mediatici dell’occidente e in questi giorni di riaperture ci sono visi sorridenti e persone che continuano a camminare a piedi. Il mercato locale di bici cinesi pare sia tornato ai fasti degli anni ‘50. La paura non ha ammalato e l’angoscia per l’economia che non va sarà vissuta, probabilmente, con la lentezza di chi non ha la pretesa di trovarsi in un centro da cui si articola un qui-e-ora globale e certamente non aspira a cambiare il SUV ogni 3 anni.
Non ho letto il libro di Ricolfi ma la descrizione che fai non è solo dell’Italia ma di tutti gli stati occidentali che vivono molto oltre le loro possibilità grazie alla forza della moneta, al fatto di appartenere ad un circolo ristretto e allo sfruttamento dei lavoratori di altre nazioni(Vedi deficit commerciale USA). Se dividiamo grossolanamente realtà da rappresentazione diciamo che il virus è un fatto l’emergenza è una proiezione. Nella società dello spettacolo tutto viene proiettato in termini di farsa. Ognuno è stato attore attivo nel rendere l’emergenza un fatto enormemente più grande e esasperato di quello che è. Creando paranoie, paure eccessive, che si riflettono poi a livello economico sociale e psicologico amplificandosi da persona a persona perché quello di costruire storie è ormai una prassi comune e nessuno a nessun livello a a cuore semplicemente di fare il suo lavoro dire la verità e quello che davvero sa. Perché questo non farebbe audience. Non diamo sempre e solo colpa al capitalismo a meno di non considerare società e singolo come assoluto prodotto storico del capitale. Anzi potremo anche farlo ma non cambierebbe la realtà che è su questo materiale umano che si è inserito il fenomeno del virus ed è questo materiala umano che ha contribuito a creare l’emergenza, ne ha disegnato i caratteri per nulla materialmente necessari. Per quanto riguarda la paura economica. I capitali immobilizzato sono li non c’è nessun terremoto che li abbia distrutti, i lavoratori sono lì, e da tanto tempo che i valori dipendono esclusivamente dagli utili futuri. Si bruceranno un bel po’ di capitali finanziari che però sono infiniti e si riparte…siamo ben lontani da crisi economiche reali che ormai non ci possono più essere, almeno di fatti reali e materiali dirompenti e i lvirsu per ora non sembra esserlo.
Non ho letto neanch’io il libro di Ricolfi, ma quest’idea che in occidente “tutti” vivano al di sopra delle loro possibilità, un po’ da parassiti, senza dividere in classi la questione mi puzza un po’.
Anche perchè credo che oggi i canali attravero i quali il capitale estrae valore sono molti e la produzione materiale di beni è solo uno di essi.
Senza contare che il concetto di signorile è relativo, quindi quello che nell’epoca pre industriale era accessibile solo ai “signori” oggi è a disposizione di fasce più larghe, ma questo non ci rende quasi tutti dei “signori”.
Non so se mi sono spiegato.
Sul fatto che non esistano più crisi economiche non sono affatto d’accordo.
Vallo a dire ai greci (ma anche a noi lavoratori italiani in effetti).
Anche Ricolfi rischia di cadere nella semplificazione che ritiene la società bianca (quella signorile di massa che consuma con opulenza) o nera (quella degli schiavi che non ha diritto di cittadinanza). In mezzo ci vede una indistinta massa tenuta insieme da relazioni di debito.
In mezzo invece ci sono milioni di persone che si alzano alle sei di mattina, che fanno fatica a pagare le bollette, che vivono costantemente sul filo di un rasoio da cui potrebbero scivolare al primo imprevisto.
Per queste persone la dicotomia virus-emergenza è una delle tante dicotomie X-emergenza che si trovano ad affrontare nel corso della loro vita, è solo quella del 2020, più potente delle altre, per qualcuno devastante, ma sicuramente nei prossimi anni ce ne saranno altre.
Concordo con RoccoSan quando sostiene che è necessario “superare il narcisismo della società dello spettacolo” che crea bisogni fittizi, stimola continuamente a ritenere indispensabile il superfluo e proietta tutto in termini di farsa (Anarcobiotici). In quest’ottica anche il messaggio di cambiare il SUV ogni tre anni è funzionale, perché bisogna dare il proprio contributo all’emergenza del settore auto sennò tanti operai vanno a casa, e chi il SUV non può comprarlo si sente non all’altezza (ecco un’altra dicotomia: inadeguatezza personale-emergenza).
Il tutto per alimentare senza sosta quel qui e ora globale di cui parla ancora RoccoSan. E ho l’impressione che la paura (economica, ché quella sanitaria è altra cosa) indotta dalla dicotomia virus-emergenza, è la paura di vedere la macchina ferma che smette di darci tutto e subito, e la sosta si trasforma in apocalisse. Sarebbe il caso di recuperare un po’ di saggezza contadina (che a volte scambiamo per ottuso conservatorismo), che sa che un mese all’anno ci si deve fermare e vi si prepara, vivendo la sosta con serena rassegnazione.
Dopo aver letto i vostri commenti, chiarisco ed espando alcuni punti perchè ho probabilmente strigliato troppo il libro di Ricolfi e quindi la citazione regge così così. Ricolfi osserva l’Italia attraverso le variabili Capitale, Lavoro e “Terra” ma centra il suo studio su alcune dinamiche che finanziano quello che definisce consumo opulento e da Marx, diciamo, si sposta su Veblen. La sua nozione di “società signorile di massa” riguarda il benessere generalizzato di circa i 2\3 delle famiglie “italiane” che finanziano i loro consumi ricorrendo in maniera consistente a rendite di vario tipo. La definizione di “massa” però estende la signorilità alle relazioni tra classi più che dentro le classi. Non mi dilungo troppo ma ci sono tutta una serie di dati interessanti sull’Italia che si digitalizza, utili per capire dove si sono inserite l’epidemia e l’esperienza del lockdown. Ad esempio, gli acquisti via internet o il food delivery erano già in forte aumento così come il tempo trascorso su internet. Altri dati raccontano l’opulenza attraverso il parco auto famigliare (tra i più estesi al mondo), le case possedute e le apparecchiature tecnologiche. Una sezione del libro parla delle “eredità attese”, quindi della mortalità come fattore economico “positivo” e il tema mi pare tristemente d’attualità. Ricolfi non cita direttamente il debito ma sottolinea che gli standard salariali italiani sono al di sopra delle capacità produttive e non analizza la struttura dei profitti delle imprese. La mia notazione sul debito tra classi e tra generazioni quindi riguarda una valutazione antropologica che non c’è nel libro così come il riferimento alla società dello spettacolo da cui si genera, a mio parere, la spinta al consumo “oltre la classe”. Pensavo ad alcuni figli di contadini lucani che alla fine degli anni ’90 con i sussidi della P.A.C. e le concessionarie d’auto che operavano come istituti di credito al consumo acquistavano le golf GTI come simbolo di mobilità sociale. Oggi probabilmente votano lega. Non consiglierei l’acquisto del libro ma magari sfogliarlo o riceverlo in prestito per dargli un’occhiata si.
Non avendo letto il libro non posso commentare. Faccio solo alcune considerazioni di fatto riguardo a dati semplici che possono far capire la situazione italiana. L’italia ha uno dei parchi auto più grandi ma anche tra i più vecchi in Europa, segno che ci son moltissime persone che non si possono permettere di cambiarla. Benessere generalizzato di circa i 2\3 delle famiglie mi pare davvero esagerato. L’Italia è un paese che si avvia velocemente a impoverirsi. E non lo fa tanto per motivi esterni ( tipo l’euro sigh) ma perché è pieno di cretini che non hanno capito come va il mondo furbi che credono di averlo capito meglio degli altri e incapaci a tutti i livelli. L’italia ha un debito privato bassissimo e non è necessariamente un pregio, non è un pregio perché se il debito è fatto per investimenti in aziende e settori che hanno un futuro non è un difetto ( a livello di economia lasciando perdere la mia e spero la nostra visione del mondo). L’italia ha un patrimonio privato enorme ma per lo più sono immobili, pure il poco debito è dato in grossa parte da mutui. è presa al cappio del debito statale accumulato che la costringe a pagare 60-70-80 fino a 90 miliardi di euro di interessi all’anno quando una nazione non certo messa benissimo come la Francia si finanzia col decennale negativo. Gli basterebbero 500 miliardi per tornare al rapporto debito pil del 100% e finanziarsi come la francia a 0 risparmiano quei miliardi di interessi ogni anno, non lo fa pur avendo, i cittadini, 1400 miliardi a marcire senza dare interessi nei conti correnti. Ha una delle più basse produttività in Europa segno che si lavora spesso in settori che producono poco e non danno ritorni decenti perché non ha investito in scuola ricerca brevetti etc. questa è la situazione ormai questa irreversibile. Poi chiamiamola società signorile o come vogliamo, decadente, o magari romanticamente come una società a cui il capitalismo non è mai del tutto andato giù
Altra mia imprecisione:
i 2\3 delle famiglie “italiane” sono calcolate in questo modo:
1. scorporo 7% famiglie in povertà assoluta
2. scorporo 4,8% famiglie in povertà relativa
3. scorporo 28,2% famiglie che consumano al di sotto del consumo medio (tra il 25% e il 75%).
Siamo quindi al 60% delle famiglie “italiane” (circa 2/3) che rientrano nella cosiddetta classe media e classe alta. Anche il termine “italiane” va definito perchè i dati si riferiscono solo a chi ha cittadinanza e lascia fuori circa l’8% della popolazione. Quindi stiamo parlando di un campione rilevante ed etnicamente definito: “la popolazione bianca italiana agiata” che poi Ricolfi chiama signorile di massa (ma non importa). Riguardo al parco auto se guardiamo a questo campione la questione cambia o per lo meno questo si legge nei dati dell’ISTAT. Il fatto rilevante è che il consumo dipende in maniera importante da rendite. Quel risparmio che citi ad esempio è spesso dentro titoli di stato, obbligazioni, case ecc. Se si consuma al di sopra di ciò che si produce da qualche parte si attinge. Quando scrivo “debito” non mi riferisco solo al suo lato monetario ma anche alle relazioni sociali. La rendita o l’eredità attesa sono forme di debito tra generazioni. O il clientelismo può intendersi come una relazione “di debito” tra classi. Esiste poi un’economia pubblica che produce essenzialmente rendite e questa si lega in maniera più netta alla produzione di debito pubblico.
Non vorrei entrare OT comunque nel 2016 Milanovic pubblicò un libro (Global Inequality) che fu molto citato e riguardava la crescita della global middle class. Qui spiegava che alcune delle sofferenze di paesi come l’Europa potevano dipendere dall’aumento di consumi ed aspettative di consumo delle classi medie di altri continenti. In Italia si parlava del crollo della classe media. Questi dati dicono invece che c’è, produce poco, consuma molto e probabilmente definisce le politiche economiche nazionali. In questa emergenza molti degli stimoli previsti (eccezionali perchè porteranno il debito italiano al 140% del PIL) riguardano il consumo. Ma il consumo di chi?
Non sono un economista Mi limito ad osservare che il senso delle parole signorile e benestante mal descrive la situazione italiana di oggi.In italia il reddito medio disponibile è piantato da anni. Si è difesa con le unghie e con i denti la capacità di spesa privata e il pil ma lo si è fatto con ogni mezzo, dal lavoro nero all’evasione e a discapito della salute dei conti pubblici..rimandano nel tempo gli effetti di una valanga che non può far altro che crescere. Guardiamo solo il patrimonio immobiliare dove c’è grossa parte dei risparmi e che produce rendite ma necessità di investimenti che vengono sempre più rimandati, con lo stato che arriva ora addirittura a regalare soldi per interventi nell’edilizia per salvare il comparto, interventi che già prima del covid erano consistenti. L’italia è tiratissima a livello economico, con la spada di damocle del fallimento dello stato o dell’uscita dall’euro con conseguenze svalutazione di tutti i patrimoni, mancanza di competitività, invecchiamento. Se guardiamo i consumi medi può essere fuorviante. Ad esempio la Germania per i conti che ha potrebbe domani ridurre il cuneo fiscale e mettere soldi nelle tasche dei tedeschi con conseguente aumento di inflazione e consumi, non lo ha fatto per scelta,magari lo farà ora ma con molta cautela, mentre Italia non lo ha potuto fare in passato e ora prova a farlo andando molto oltre le proprie possibilità sperando che l’Europa ci aiuti per paura di un nostro fallimento e delle ripercussioni. Insomma mi pare una classe signorile che sta badando più alla apparenza momentanea che a programmare per mantenere il suo benessere futuro, a partire dalle scelte politiche. Su quello c’è poco da discutere che sia questa classe media insieme a quella alta e a una classe di lavoratori che si sentono tutelati (sindacati) e ai pensionati il blocco che muove le politiche del paese.
Anche io non ho le competenze per discutere di politiche economiche nel dettaglio. Cito questo libro (ma non vorrei nemmeno dargli troppa importanza) perchè mi pare relativizzi queste tue percezioni che sono anche le mie. Dando per corrette le stime però, sono “limitate” al 40% che fa fatica. I numeri non generano empatia, ma a volte mi chiedo se dentro la politica della paura non ci sia una sua branca cristiana che è la politica della pietà che genera feticci, anche numerici, della povertà e torsioni melanconico-depressive che riempiono le narrazioni sulle crisi. Alla lunga rinforzano la necessità di rincuorarsi e chi può fa “una passeggiata a piazza della signoria” in modo da sentirsi tra i “fortunati”. “L’italiano medio, bianco ed etero” ha come maggior problema il non poter accrescere il proprio benessere economico rispetto alle generazioni precedenti. I vebleniani italiani sembrano abbastanza d’accordo al riguardo. C’è un pò di machismo ferito qui dentro, insieme al mito della crescita continua. Si parla di spese per vacanze, ristoranti, fitness, tecnologia, casa, seconda auto, bici elettrica, scuole private, asili nido eccetera. Per chiarire le mie posizioni, non parlo di “decrescita felice” ma mi chiedo come mai in una casa occidentale ci siano almeno 10.000 oggetti. Siamo dipendenti dalla circolazione di cose più che dal piacere di muoversi. Forse c’è un’altra dicotomia che sta dentro allo spettacolo e che crea mercati continui (marketing). Il primo mezzo di locomozione privato, non alimentato dalle gambe, che ho acquistato nella mia vita, è stata una pessima (per standard occidentali) bici elettrica, di seconda mano e made in Vietnam (per i miei 40 anni). L’ho affidata alla mia compagna ma quando la uso mi fa stare bene e odiare i SUV. Qua c’è una dicotomia come virus-epidemia e salute-lavoro ma è forse psicoanalitica, o come dici tu, “decadenza”, perché con la mia scelta di consumo, non sto fuori, ma dentro al capitalismo e non sono nemmeno eticamente più elevato rispetto all’autista del SUV! Siamo solo modelli apparentemente in antitesi che la Storia risolverà!
Ricolfi pochissimi giorni fa ha chiarito la sua posizione su un giornale degli Agnelli in un’intervista intitolata “Ci avviamo verso una società parassita di massa”.
Le conclusioni della sua lettura sulla distribuzione della ricchezza le tira lui stesso e le riassumerei in Arbeit Macht Frei. Gli imprenditori salvano la societa’, mentre tutti gli altri, ma soprattutto i percettori di welfare, ne godono i benefici. Ha lodato esplicitamente Confindustria per la pressione nel riaprire le fabbriche. Gli italiani sotto i quarant’anni sanno solo vivere nella bambagia e quindi dopo l’emergenza sanitaria si dovra’ fare affidamento agli anziani che non dovranno andare in pensione ed agli immigrati. Testuale:
Di alcuni segmenti di quella che nel mio libro definisco la “infrastruttura para-schiavistica” della società italiana sarà difficile fare a meno. Ma mi piacerebbe che il dopo-Covid fosse anche l’occasione per attenuare il loro giogo. [Grazia sua]
Dal commento qui sopra abbiamo dovuto rimuovere un’espressione che dava appigli per eventuali azioni legali. Senza di essa, il contenuto rimane invariato. Facciamo attenzione, per favore. Grazie.
Abbiamo commentato in simultanea. Spero di non stare riempiendo Giap di miei messaggi ma dopo questo torno alla lettura per un pò! A me puzza questo articolo che citi. Comunque di solito leggo i libri che trovo in citazioni di qualcuno di cui ho letto qualcosa. Quindi diciamo ne traccio un pensiero o una genealogia di pensiero più che una biografia. Quella viene solo se l’autore mi piace particolarmente. Non conosco la storia di Ricolfi e il suo personaggio pubblico. Ne dentro quali fili si sia impelagato per pubblicare i suoi studi. Comunque consigliavo di sfogliarlo per guardare i numeri. Leggerlo se interessa il tema anche se non si è d’accordo può far bene. Nei commenti di sopra però ne ho estratto alcuni elementi di interesse e credo anche criticato le posizione “etniche” che assume. In ogni caso sull’ “infrastruttura para-schiavista” dice: “Senza quella infra-struttura, che genera surplus ed eroga servizi alle famiglie e alle imprese, la comunità dei cittadini italiani non potrebbe essere qualificata come “signorile di massa”. Quella comunità è definita come nel commento più sopra. Non sono in disaccordo con questa constatazione che rende le persone come infrastrutture…
Nel post abbiamo linkato il nostro antico saggio storico e d’inchiesta «Nemici dello Stato», Derive Approdi, Roma, 1999. Mi sembra possa essere utile riportare qui stralci dell’Introduzione, dove facevamo una vera e propria “prolessi delle tesi”:
«[…] In Italia, dagli anni Settanta in avanti, il metodo di governo è consistito interamente in un avvicendarsi di emergenze. In questo paese esiste da sempre una complicata dialettica dell’incostituzionalità, al cui interno l’emergenza ha stabilito una propria retorica, un compiuto ma fluido sistema di metafore, un peculiare modo di cristallizzarsi nel diritto scritto e nel costume nazionale.
Le emergenze servono a introdurre nuove forme coercitive nella divisione sociale del lavoro, o tutt’al più a preservare quelle già esistenti. Certo, servono anche al regolamento di conti gangsteristico tra diverse sezioni di capitale (d’ora in poi le chiameremo “cosche”), vedi l’esempio di Mani Pulite… Ma questo viene dopo: l’esigenza primaria è la coercizione di cui sopra, il controllo sociale, la prevenzione di probabili “devianze” e antagonismi; le cosche si scontrano tra loro per assicurarsi il governo di tale prevenzione.
In Italia l’emergenza per antonomasia, quella rappresentata dalla lotta al “terrorismo”, nasce come contro-movimento rispetto alle lotte iniziate con l’Autunno Caldo: lo Stato si muove per distruggere le avanguardie dei lavoratori in lotta, usando le “forze eversive” come capro espiatorio e spettacolo di copertura, confinando il conflitto sociale alla sfera del penale e del giudiziario.
Terminato quello scontro, l’emergenza, lungi dall’esaurirsi, diviene permanente e soprattutto molecolare.
Studiando a fondo le politiche e le retoriche emergenziali, abbiamo infatti individuato un trend: la molecolarizzazione dell’emergenza, un suo spingersi dalla res publica ai microlegami sociali, dall’ordine pubblico alla privacy, fino ai recessi delle differenze singolari […]
La svolta è stata imposta combinando tre diverse strategie:
– la revisione dell’ordinamento giuridico, con la soggettivazione del diritto penale, l’introduzione di meccanismi premiali e più in generale l’accentuazione di quello che è stato definito il “modello cattolico”, inquisitorio;
– l’uso terroristico dell’intero sistema dei media, con periodiche campagne d’allarme, tanto violente quanto strumentali, a cui seguono risposte in termini di “legge e ordine” da parte della “gente”, groviglio indistinto di campioni statistici stimolati a colpi di slogan e sondaggi-farsa.
– a livello transnazionale, il “dirottamento” dell’innovazione tecnologica, con l’installazione di sempre nuovi dispositivi di controllo e sorveglianza: intercettazioni telefoniche e ambientali, videocamere in ogni strada, controlli satellitari, bracciali elettronici per chi sta agli arresti domiciliari etc.
In questo senso l’Italia è servita da laboratorio, come già negli anni venti (col fascismo) e nel dopoguerra (come turbolento teatrino e campo da gioco della guerra fredda). Gli esperimenti giuridici, mediatici e in generale biopolitici condotti negli ultimi venticinque anni si sono rivelati utilissimi durante il processo di integrazione pan-europea delle dinamiche di repressione e controllo sociale.
[…] La forma-stato postmoderna incorpora in sé l’emergenza non più come eccezione e “strappo” costituzionale, ma come regola: venendo a mancare un riconoscimento degli antagonismi società-stato e lavoro-capitale, la funzione dello stato si riduce a mera “scienza di polizia”. Ogni conflitto viene interpretato come emergenza; si tratterà quindi di prevenire estendendo e perfezionando (grazie a tecnologie impensabili fino a poche ore fa) il controllo sociale, e reprimere dando sempre più potere alle forze dell’ordine.»
Oggi diverse riflessioni contenute in quel libro necessiterebbero di aggiornamenti, revisioni, ulteriori precisazioni. Ma questa descrizione sommaria dell’emergenza mi sembra tenere anche oggi.
Segnalo, non certo agli autori, che questo saggio è stato citato proprio oggi in un pezzo di Alexik su carmillaonline (https://www.carmillaonline.com/2020/05/16/il-nemico-interno-4/) a proposito del fatto che lo strumento coercitivo (nello specifico l’art. 270bis cc, reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico) non prevede neppure la messa in atto di azioni concrete idonee a terrorizzare o a sovvertire l’ordine pubblico. Insomma, una sorta di autorizzazione a processare le intenzioni.
Il pezzo del saggio di LB che Alexik cita è: “gli atti concreti non sono importanti, ciò che conta è individuare il fine ultimo, quindi stabilire nessi logici, interpretare la personalità e le convin-zioni delle persone sospette, sì da rinvenire la fattispecie terroristica.
Alexik, centra il suo articolo sull’anarchismo e sul suo ruolo di “tradizionale” nemico, rispolverato in tempi di covid (e post-covid). Tuttavia la citazione si può calare, a mio parere, nel contesto emergenziale di questi ultimi mesi; creare i sospetti, studiarne le presunte finalità destabilizzanti, autorizzare implicitamente alla delazione. L’atto in sé (andare su una spiaggia deserta, passeggiare su una strada poco frequentata e i tanti esempi postati su Giap) non era importante, importava l’intenzione (considerata arbitrariamente certa) di ar-recare danno al sistema.
Tra una pulizia e l’altra, collego qui la seconda parte del mio primo commento che apriva la questione dell’emergenza come necessità e non solo come volontà. Rileggendo l’introduzione risistemata del libro, effettivamente questa definizione di emergenza dei Wu Ming sembra decisamente attuale e seguendola lungo le sue implicazioni, l’accelerazione epidemiologica starebbe generando un’implosione da cui “il costituito” si difende con stati di polizia e “linguaggi totalitari”. Quindi oltre a tentare di descrivere il costituito dentro alcune categorie socio-economiche, se ci ho capito qualcosa, inserivo la critica di Esposito per ragionare su quella che lui aveva consdierato come una visione monolitica del costituito, in questo caso dello “Stato”, che potrebbe scorgersi nel vostro libro e che a suo parere dovrebbe invece essere scomposto dentro un paradigma istituente. Qui citava, ad esempio, le università o diverse Ong che sono appunto istituite nello Stato e che possono arginare gli stati di polizia. Per quel che conta e per contribuire al dibattito, sono ormai tre anni che mi cimento nell’interpretazione storico-antropologica di una città portuaria sorta sull’economia schiavista nella costa pacifica colombiana. Sperando di non perdere di senso nel viaggio nel dettaglio, qui ho potuto osservare sia quello che i Wu Ming chiamano nel libro “regolamenti di conti tra cosche” sia il “divenire-mafia” del capitalismo locale e internazionale. L’economia d’enclave della città e la costituzione della sua specialità giuridica partecipano dell’emergenza permanente in cui vivono i cittadini. Per varie ragioni, necessità e volontà del potere si sovrappongono ma più ci penso, più mi pare di scorgere un sociale che si fa dividuale (come diceva Strathern) o in tensione verso il Due come dice Esposito, machiavellico e diviso dentro forme di antagonismo che non permettono mai il raggiungimento di un culmine da cui si genera un potere costituente. Al contrario si producono forme locali di “lockdown” (blocchi di strade, blocchi periodici del porto eccetera) che si “limitano” a ridefinire periodicamente i flussi di capitale.
Non è che qualcuno è in grado di spiegarmi (o almeno raccontare) cosa diavolo sia successo tra giovedì e ieri sera? Insomma io ero fermo alla prolungazione dello stato d’emergenza e mi ritrovo con i voli aperti da e verso l’UE?
Una delle cose misteriose di questa vicenda – per me dico – è stato sin dall’inizio capire chi decide davvero e in base a che tipo di ragionamento. Qualcosa – grazie ai metodi che ho provato ad abbozzare nel lungo commento di sopra – riesco a intravederla ma davvero è il caso di mettere in dubbio qualsiasi considerazione. Ho sempre pensato che nella fase 2 sarebbero successa una di queste tre cose:
1. contagi che esauriscono la spinta per cause x (indebolimento del virus, terapia trovata, guarigione di quelli “nascosti”, vedete voi);
2. aumento e relativo delirio parte II
3. aumento e sticavoli, media che si disinteressano della cosa e numeri che interessano solo me e altri 4 disgraziati come me.
Ciononostante una cosa così repentina è davvero una novità, per la letteratura che frequento almeno.
Per chi fosse curios*, máo dùn si pronuncia così:
https://www.wumingfoundation.com/suoni/maodun.mp3
Volendo si può pronunciare anche mujun, o almeno è quello che faccio spontaneamente io che ho la deformazione nipponica :)
(per tutti: c’è una parte di lessico che in giapponese e cinese si scrive allo stesso modo, ma naturalmente si legge in modi diversi nelle due lingue – comunque non sempre diversissimi, diciamo)
Scusate, mi pregio per ora di fare sporadici interventi di utilità opinabile, comunque è un mio modo per prendere confidenza con questo posto, che visito in realtà da tempo e che mi offre spunti di riflessione piuttosto ficcanti, al punto di farmi rivedere un paio di priorità intellettuali. Prometto di contribuire in modo più sostanzioso in futuro.
Onestamente non mi rincuora tanto leggere citazioni di libri ormai risalenti decenni che continuano ad essere perfettamente attuali. Se Debord non avesse scritto la società dello spettacolo e qualcuno la scrivesse oggi sarebbe oltremodo illuminante. Si certo si potrebbe discutere di vari passaggi, migliorargli, specificarli (come molti fanno oggi magari non citandoli)ma il grosso sta tutto li a pesare come un macigno sulla lettura dell’oggi. E un mondo che come Penelope continuamente disfa per ricostruire. E pure noi disfiamo ossessivamente i nostri ragionamenti per ricostruirli uguale e tornare al solito punto.E tutto ciò occupa tempo e produce inerzia circolare nella prassi reale.Mi pare quasi che ci si sforzi di dare un senso logico a una trama che essendo trama può stravolgersi da un momento all’altro e presenta ormai buchi e irrazionalità tali che non accorgersene può essere causato solo dal fatto che intimamente si vuole credere alla finzione con la stessa dinamica che avviene nella visone di un film. E la si preferisce ad una realtà ormai cosi povera e misera che nessuno ha il coraggio di guardare. Semplice e irrazionale nel suo solo scopo di riprodursi sempre identica e indurre più gente possibile alla continua e mera visione.
Ciao, stavo per pubblicare un commento all’articolo precedente, nel sotto-thread sul “fermo della produzione”, poco prima che l’articolo fosse rimosso. Lo pubblico allora qui. Non credo sia OT, anzi, forse ci sta meglio. Si perde però il contesto di discussione, che vedeva in parziale contrapposizione chi sottolineava i costi del fermo per la classe lavoratrice e chi ne sottolineava la necessità e l’opportunità per la stessa classe lavoratrice. Mi scuso per il doppio post.
Dicendo “fermo della produzione”, intendo la produzione di valore, dunque anche i servizi ecc. Io credo che in questa discussione vi sia il rischio di cadere in una delle molte trappole del tipo di quelle denunciate dai WM anche nell’articolo successivo [cioè questo]. Il rischio cioè è quello di cadere nella dicotomia “chiusura sì / chiusura no”, che ricalca il ricatto capitalistico “o la salute o il lavoro”. Io trovo condivisibili sia le argomentazioni di chi qui sottolinea le ricadute del fermo della produzione sulla classe lavoratrice, sia quelle di chi pone come inaccettabile non fermare l’economia in un momento come questo. Non c’è contraddizione tra le due posizioni. La contraddizione è nella posizione oggettiva della classe lavoratrice all’interno dei rapporti capitalistici.
Una volta stabilito che la gestione della pandemia avrebbe dovuto e potuto essere completamente diversa fin dall’inizio (isolamento dei focolai, quarantena mirata ecc…), non ha senso che tra compagn* ci si divida sulla questione se poi per la classe lavoratrice fosse più deleterio fermare o far continuare l’economia, altrimenti si cade (e molt* fuori di qui mi pare ci sian cadut*) nel tranello “tu cosa avresti fatto se fossi stato al governo?” Credo che in questo contesto siamo tutti più o meno d’accordo sul fatto che i rapporti capitalistici si riproducono tramite un dominio impersonale sugli individui tale per cui, ad esempio, la qualità della vita della classe lavoratrice dipende oggettivamente dalla riproduzione allargata dei rapporti capitalistici stessi. Ciò che fa male ai profitti dei padroni fa male in primis ai lavoratori e alle lavoratrici, e questo è tanto più vero quanto meno sono sviluppate forme di mutuo aiuto. [continua]
Dunque è chiaro che si può essere convinti della necessità di fermare il più possibile la produzione (e che lo scandalo del “lockdown all’italiana” stia proprio nel fatto che NON ha fatto stare tutti A casa, ma ha SOLO fatto stare tutti IN casa, come hanno perfettamente sintetizzato i WM), senza per questo ignorare il fatto che anche quel poco di blocco della produzione che c’è stato avrà, e già ha, costi altissimi per la classe lavoratrice, al netto della recessione che stava comunque arrivando. Come anticapitalisti, al di là di ogni ulteriore divisione, il nostro compito principale dovrebbe essere quello di far capire, di far esperire al maggior numero di persone possibile che questa contraddizione tra salute e lavoro non è una necessità assoluta, ma è una necessità di un modo storicamente determinato di produzione e socializzazione. Questo obiettivo generale, io credo, dovrebbe permeare ogni nostra ulteriore lotta specifica da questo momento. C’è chi punterà più su rivendicazioni “redditiste” (scusate la banalizzazione a scopo di brevità), c’è chi, come me, crede che in questo momento simili rivendicazioni siano troppo compatibiliste, c’è chi sarà più impegnato sul fronte strettamente sindacale, chi più sulla lotta per la sanità pubblica, per dire, ma io credo che questa crisi ci dia anche l’opportunità di iscrivere tutti questi fronti all’interno di un orizzonte comune, cosa di cui si sente la necessità ormai da decenni. Questo è possibile a patto di superare sia il “lavorismo” e il “produttivismo” che han storicamente caratterizzato parte del movimento operaio, sia il “decrescismo” astratto e (illusoriamente) compatibilista, ovvero borghese, come l’ha definito Vanetti.
Grazie Antelao, questa è un’ ottima riflessione sulla falsa contrapposizione fra lavoro e salute che, come dicevo a Mauro nell’altro post, sono priorità fra cui una sfruttata/ o non può/ deve trovarsi a scegliere. Soprattutto quando la difesa della salute si accompagna ad autoritarie misure di reclusione e la difesa del lavoro passa attraverso uno strumentale concetto di libertà vigilata, finalizzata al profitto. In questa contrapposizione dialettica non si interpella nulla che abbia a che fare con la sfera dei desideri, che devono essere confinati in un remoto scomparto per essere scongelati a comando. Lo impone l’emergenza sanitaria, che ha perfino il potere di plasmare un nuovo “modello” di essere umano.
Ne approfitto per correggere un errore ortografico in un altro commento in cui c’è un “h” che non ci fa nulla davanti ad un verbo all’infinito, se non ricordo male.
Quello di Antelao mi sembra un commento molto profondo. Siamo di fronte a un gigantesco ricatto del tipo “salute o lavoro” che riprodurrà le divisioni e i tranelli che vediamo ogni volta che si pone questo tema, da cui si esce solo con la ricomposizione di classe attorno a un programma “incompatibile” che risolva la contraddizione in avanti dicendo che bisogna espropriare, porre la produzione (o la non produzione!) al servizio dei bisogni umani, coinvolgere direttamente i lavoratori nella gestione dell’economia ecc. Questo programma però risulterà sempre “utopico” a molti, che preferiranno accontentarsi o della salute o del lavoro, e quindi sarà una lotta continua anche nelle nostre file che tenderanno a sfilacciarsi. Sono tutte cose che abbiamo visto mille volte, tanto per fare un esempio a Taranto.
Rispetto a quanto dice Filo c’è poi un discorso ulteriore che è quello sulla riconquista del tempo libero, che c’entra con la critica alle misure inutili contro la vita all’aria aperta o la socialità essenziale considerata meno essenziale dei codici ATECO “essenziali”. Faccio notare che anche su questo un punto di contatto che può aiutare a ricomporre un blocco sociale è puntare a qualcosa che è interesse comune di chi deve andare a lavoro per campare, di chi vorrebbe andarci meno per non contagiarsi e di chi soffre per la repressione della parte bella e improduttiva della vita: il punto di contatto è la richiesta di riduzione drastica dell’orario a parità di salario.
Io l’ho formulata varie volte in queste settimane nei termini di una rivendicazione generale di una trasformazione permanente della scansione delle settimane, che io chiamo la liberazione del venerdì. Non è fondamentale in realtà che sia davvero il venerdì per tutti, anche se sarebbe meglio essere liberi il più sincronizzati possibile, perché ci sono anche problemi pratici, ma il punto è: vogliamo la settimana con soli 4 giorni feriali. Rallenta il virus, contrasta la disoccupazione, migliora la vita, distribuisce meglio la ricchezza prodotta dal lavoro.
Purtroppo la catena che lega le persone al giogo capitalista è ben più salda. Se si guarda con occhi realisti il sistema si dovranno abbandonare illusioni di paradisi futuri. La competizione mondiale si fa sempre più serrata e questo spinge sempre più in altro l’asticella della efficienza nel lavoro e del tempo di lavoro. spingere il consumo e la produzione come unici scopi nella vita è funzionale ad un sistema fondato sul debito e condannato alla crescita continua.L’italia si sta specializzando a fare lavorazioni povere per la germania, ha una bassa produttività che vuol dire più ore lavorate per fare pil perché ha produzioni ha basso valore aggiunto. Non è pessimismo ma a livello economico non se ne esce. Il grado di efficienza nella programmazione economica, nel dosare la quantità di moneta, il costo e l’accesso al credito sono ormai una rete così fitta che obbliga a percorsi individuali rigidamente programmati nei minimi dettagli. Possiamo solo trovare una strada completamente nuova per ricavare benessere da situazioni non economiche. Ritornare a rapporti sociali non mediati dallo scambio economico. Ritornare ad uno scambio economico diretto e basato sul valore d’uso. Riabitare in maniera diversa l’ambiente urbano e il territorio. C’è un sacco di gente che sta finendo ai margini del sistema economico perché costretta o perché lo vuole. Reti di compagni si stanno lentamente trasformando da meramente politici a reti sociali ed economiche e di solidarietà. Occorre ripensare tutto da zero e abbandonare ideologie che ormai hanno esaurito qualsiasi impulso di cambiamento e inventare resistenze del tutto nuove, orizzontali dal basso che si originano dalla prassi di concreti modi di vivere e non da ideologia o teoria politica.
Qua rischiamo di andare fuori tema, ma credo che ne valga la pena.
Anarcobiotici, è evidente che la vediamo in maniera parecchio diversa. Però, guarda, ho talmente poco contro chi cerca di uscire dall’economia ufficiale che io stesso con la mia famiglia sto cercando di muovermi parzialmente in quella direzione. E non sottovaluto l’importanza di mettere in pratica in maniera diretta altri modi di vivere. Tuttavia i limiti di queste pratiche, dal punto di vista politico, sono talmente tanti che dovremmo aprire una discussione a parte per discuterne in maniera argomentata.
Però ecco, credo che il mutualismo conflittuale, a patto di non considerarlo come un sostituto della lotta di classe, ma integrato in essa, abbia un ruolo fondamentale. In soldoni, perché la lotta di classe (quella incompatibile) abbia successo, occorre che la classe lavoratrice riesca a costruire spazi di autonomia dai rapporti capitalistici, proprio per spezzare quel dominio impersonale di cui parlavo sopra, che lega la sopravvivenza delle lavoratrici e dei lavoratori alla riproduzione dei rapporti capitalistici.
Tornando a parlare direttamente di lotta di classe, sono convinto che in questo momento sia strategicamente centrale quello che dice Vanetti: rivendicare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Se ne era parlato anche (con M.Ale) sotto al post sul 25 Aprile. Quella rivendicazione tiene tutto assieme, spinge in direzione di una incompatibilità coi rapporti capitalistici e al contempo potrebbe raccogliere in questo momento storico più consenso di quanto non abbia mai fatto. Potrebbe essere essa stessa uno strumento di politicizzazione. Certo, costruirci una lotta politica “di massa”, non semplicemente vertenziale, è affare tutt’altro che semplice.
Certamente partiamo da presupposti diversi che io magari potrei definire meno dogmatici e tu meno rigorosi. Riguardo ai limiti politici del mutualismo conflittuale( che non definirei così ma perché lo trovo riduttivo )si sarebbe troppo da discutere. così come non è semplice tornare alla realtà di rapporti non utilitaristici e non alla loro simulazione. Ma divago torno ad un linguaggio comune. Il problema però è anche di vedere i limiti reali di concezioni ideologiche ormai datate e mi limito per non far risultare un intento provocatore che non mi appartiene. Siamo realisti, guardiamo ai limiti teorici e affranchiamoci da un atteggiamenti messianici illusori e futuristi di una certa ideologia. La realtà è che il mondo preme ai nostri privilegi e si va da decenni ad un aumento delle ore lavorate a parità di salario, anzi con un depauperamento reale del potere (qualità) di acquisto e di vita. Come ci si può appellare al tempo libero se ormai da decenni è il tempo del lavoro del consumo? Come sperare in una presa di coscienza di classe se il sistema di controllo mediatico e statale è arrivata a minare la stessa concezione di sé e a degradare perfino i rapporti amicali affettivi e familiari ad uno scambio economico simbolico. Come non vedere che l’alienazione ha ormai occupato ogni spazio vitale fino a prendere i caratteri di un simulazione dell’esistenza ( parola di Baudrillard che non mi piace perché grossolana ma rende l’idea)? Come non guardare cosa è oggi l’economia politica se non lo studio ( fatto da luminari e geni perché questo sono) portato avanti da istituzioni nazionali e sovranazionali di come rendere un bene infinito come la moneta un bene tanto raro da costringere ogni singolo individuo alla sua perenne ricerca ma non così tanto raro da fargli perdere le speranze e farlo ribellare. E potrei continuare ma son già andato troppo oltre. Tornare a rapporti di vita orizzontali e umani è prima di tutto un disintossicarsi del singolo dall’atomismo e dalla spersonalizzazione reale ( in cui gioca un ruolo anche la comunicazione mediata di massa) in cui è stato cacciato e dalla ripetitività riflessa di movimenti obbligati dal sistema poi forse in futuro potrà ambire ad essere politico. Chiudo questa mia breve parentesi qui e saluto tutti per primi chi ci ospita.
矛盾 è un termine affascinante che ha subito lo stesso destino di molte altre parole della lingua cinese dal Maoismo in poi. È stata assorbita all’interno del discorso ideologico, passando così dall’ambito della logica a quello della politica. D’altra parte nel linguaggio rivoluzionario maoista (di retaggio marxista ma non solo), il termine “contraddizione” è stato (ed è ancora) usato come un jolly per indicare quelle posizioni ideologicamente inconciliabili che vanno riconciliate per forza. Questo è l’effetto della violenza rivoluzionaria, la stessa violenza che accomuna tutti i regimi. Ora, per quanto sia effettivamente difficile far passare un magnete attraverso due sponde metalliche ravvicinate senza che questo si aggrappi a una delle due, mi sembra che il principale problema nella narrazione di questo “evento” non sia tanto quello delle interpretazioni binarie o manichee che dir si voglia, quanto quello delle diverse categorie dello scibile – scienza e politica per prime, così come (tipicamente) ideologia e storia – che vengono fatalmente avvicinate e confuse, con sprezzo dei diversi ambiti di applicazione.
Nell’ordinanza odierna 57/2020 della Regione Toscana è precisato che non è obbligatorio l’uso della mascherina al momento della consumazione dei pasti nei locali di somministrazione. Queste disposizioni, oltre ad assomigliare sempre di più ai bugiardini dei farmaci in cui si precisa spesso anche l’inutile, offendono l’intelligenza dei cittadini e degli elettori. È ormai evidente la considerazione dei consociati alla stregua di bovini (mi perdonino l’accostamento i simpatici colleghi animali), incapaci di comprendere anche una simile ovvietà. Siamo al tragicomico o meglio siamo sicuramente pronti ad essere sottoposti a qualsiasi trattamento più o meno invasivo che ci sarà propinato da qualche noto filantropo internazionale. De profundis della democrazia
Una traduzione tedesca di questo articolo:
矛盾 (máo dùn). In welche Fallen wir bei der Diskussion über den “Coronaviren-Notstand ” tappen
La pandemia esiste. E’ un dato di fatto innegabile. Come tutti gli sconvolgimenti globali tende a ‘rimescolare le carte’, cioè provoca sbilanciamenti, inceppamenti e tensioni impreviste sia nella loro portata che nella loro direzione e durata. Come tutte le crisi è quindi una ‘Window of opportunity’ una finestra di opportunità entro la quale i diversi attori politici e sociali cercano di promuovere (o almeno proteggere) i propri interessi. Questo è il fronte della lotta politica. Non tanto il significato complessivo da dare all’evento (significato che rimane molteplice, multiplo e in parte contraddittorio come questo articolo mi pare colga pienamente) quanto le singole decisioni e azioni che tendono a dare una direzione piuttosto che un’altra al mutamento in corso.
E questa “window of opportunity” è molto più importante per chi deve cercare di sovvertire il sistema socio-economico, piuttosto che per chi già da diversi decenni sta erodendo con facilità i diritti dei lavoratori. In questi giorni, oltre agli orrori che vengono giustamente evidenziati su queste pagine, stiamo vedendo che la pandemia ha innescato dei processi economici e sociali assolutamente inaspettati e, direi, fuori da questo tempo: dalle misure di solidarietà della UE ai paesi più colpiti e dall’allentamento dei vincoli di bilancio (tutta roba che la Grecia, ridotta alla fame, si era vista unanimemente rifiutare dai condòmini europei a guida prevalentemente socialdemocratica), a un aumento mai visto dei fondi assegnati al Ministero della Salute, al riconoscimento della necessità di aumentare servizi pubblici di base come i presidi territoriali sanitari e il trasporto dei pendolari, alla corsa all’accaparramento delle biciclette in un momento in cui la vendita delle auto è ridotta al lumicino. E a volte anche gli “orrori” nascondono dei risvolti positivi: la concessione di spazi pubblici a bar e ristoranti spinge alla pedonalizzazione delle strade, l’impossibilità di uscire dal nostro comune per fare la spesa ci ha ricordato l’importanza di negozi di vicinato che sempre più spesso sono costretti alla chiusura dall’invadenza della GDO. E questi sono solo alcuni, in ordine sparso, degli effetti “benefici” della pandemia: tutta roba che nemmeno con decenni di lotte politiche avremmo sperato di ottenere. Bisogna ora che la lotta continui a spingere in questa direzione: è un momento di cui approfittare.
mi unisco ai ringraziamenti ai gestori e a tutta la comunità perché veramente la discussione qui in questo mesi è stata una bussola nella nebbia. Questo è il dato importante e non certo un incidente di percorso che forse prima o poi era anche inevitabile.
ma quello che mi preme dire è che il dibattito, mi sembra,si sta avviando anche lui verso una nuova fase, come è giusto che sia, dato che bene o male non siamo più lanciando messaggi in bottiglia nel mare del web dalle nostre isolette deserte. Ora il tema che diventa centrale è appunto in che direzione provare a spingere *il mutamento in corso* e soprattutto come.
L’emergenza globalmente intesa ha fatto addensare nubi minacciose: gestione autoritaria, controllo, atomizzazione, recessione. Però ha anche reso evidente perfino alle menti più obnubilate l’importanza dei beni comuni a partire dalla sanità pubblica, dell’ambiente, del lavoro, sta dando un assist importante alla mobilità leggera, ha reso palese la delicatezza degli equilibri che permettono di vivere… Secondo me sarebbe davvero importante in questo momento capire come capitalizzare certe acquisizioni, riconoscendo che per alcuni aspetti l’agenda che abbiamo davanti oggi è più avanzata che non tre mesi fa
Concordo. Se davvero una crisi può essere un’opportunità, la sfida che abbiamo di fronte adesso è quella di ridare forza al sistema pubblico complessivamente inteso, a cominciare dalla sanità ma non solo: la scuola, ad esempio: chiunque ha figli in età scolare, soprattutto primaria e medie inferiori, avrà provato e sta tuttora provando sulla sua pelle (e quella dei figli) quale sfascio sarebbe una DAD o una scuola pubblica gestita con criteri privatistici. La mobilità, il cui problema, fino a gennaio, si risolveva con le auto ibride (costose) e fanculo (mi si perdoni la volgarità) l’elaborazione di strategie davvero alternative e alla portata di tutti.
Apparentemente la crisi ci ha fatto tornare per qualche mese ad una sorta di economia di sussistenza, ognuno rincagnato nel proprio cantuccio dostoevskijano a salvarsi la pelle, in realtà, come sostiene antonella, oggi siamo più consapevoli di ieri, invece di tornare indietro abbiamo fatto passi avanti nella direzione di un progresso davvero sostenibile e per tutti (pubblico, appunto).
Dovremmo (dobbiamo) esere in grado di direzionarlo, e questo richiederà uno sforzo enorme.
Analizzare una situazione da dentro il sistema, soprattutto in real time, come fatto con l’emergenza attuale, richiede innanzitutto di essere fuori dal sistema, di non esserne coinvolto in prima persona, almeno emotivamente, altrimenti più che di analisi si parla di racconto. Il che è comunque necessario, ma sia ben chiaro è altra cosa.
Venendo alla nostra “emergenza” scaturita formalmente dalla pandemia, ma nella sostanza credo che fosse già là, neanche poco latente per giunta, è stata, come già detto da molti, presentata come una dicotomia: tutela della salute vs. imposizione di uno stato di polizia.
Per chiarirmi le idee ho preso una similitudine musicale: se voglio riprodurre digitalmente nel modo più fedele possibile della musica, che faccio, la campiono a 2bit? Credo proprio di no. Piuttosto cerco tutte le sfumature possibili aumentando il numero di campioni ed anche la frequenza di raccolta degli stessi. Fine dell’analogia.
Mi sarei aspettato insomma, nell’era della globalizzazione matura, una sinergia di intenti nell’analisi dell’epidemia (non intendo quella sanitaria, che cmq è strutturata ed ha l’OMS come supervisore, e localmente l’ISS) dal punto di vista metodologico. Un manipolo di esperti nelle varie discipline che formulassero in tempi brevissimi un portfolio di piani a,b,,z, con le loro conseguenze nei vari aspetti funzionali della società e con la rielaborazione continua degli stessi mano a mano che evolveva la situazione. Ok, significava avere un piano per gestire le emergenze di qualsiasi natura. Non esiste evidentemente.
La stiamo vivendo attivamente e contemporaneamente in modo passivo (neanche fossimo un qbit) vibrando e oscillando in maniera incontrollata, alla giornata. “Speriamo che me la cavo” sembra essere il motto appeso nella stanza dei pulsanti.
Situazioni complesse richiedono risposte complesse (pur finite), e che guarda caso richiedono tempo per essere sviscerate. Col senno di poi tutti sono bravi (ma anche su questo fronte la memoria sembra fragile) a tirar fuori le soluzioni. E ricordiamoci pure che non esistono soluzioni uniche, ma che ognuna ha un suo costo.
La società “pro” sembra da un lato proporre, incensandoli, i sistemi di machine learning (qualcuno li spaccia per AI) come panacea per tutti i problemi e in tutti gli ambiti del sapere, ma poi allo stato pratico degli avvenimenti pochi saprebbero usarli e questi soggetti, guarda caso, non servono ai politici ai quali è data comunque l’ultima parola.
Da extraterrestre (a.k.a. alieno) osservando(ci) la Terra mi pare un gran bailamme. Non trovo modelli che possano dire che finirà in meglio. L’economia ad incremento infinito non sta nemmeno aldilà dell’orizzonte degli eventi.
non riesco più a leggere tutti i commenti perché questo lockdown mi ha effettivamente annientato la capacità di concentrazione. non è un bene. il primo mese abbiamo deciso di chiudere per nostra scelta. e ci siamo ritrovate con un caos pazzesco impossibile da districare con il lavoro esclusivamente telefonico. nel senso che se vedendosi di persona una questione la potevamo risolvere in tre minuti così impiegavamo un’ora. moltiplicato per tot persone è uguale a delirio da esaurimento nervoso incipiente. che già non è che fossimo rilassatissime neanche prima. poi abbiamo riaperto random. orari a caso. arrivi trovi che ci siamo bene. arrivi e non ci siamo prova a tornare. e questo va anche bene come regola essenziale se non fosse che il fermo di mesi ha generato lavoro rinviato per i prossimi due anni. e lo sapevo. per questo mi sono sempre preoccupata. ora stiamo con le giornate che stanno evaporando senza neanche riuscire a capire il perché. poi oh io in ufficio sto il meno possibile. e qualcuno ogni tanto mi chiede il perché. ma è semplice: perché il mio sistema nervoso non vuole, e lo capisco benissimo. però alcune cose devo risolverle e in questo cerco sempre di impegnarmi come riesco. sempre nel rispetto innanzitutto del mio sistema nervoso. non è egoismo. è che se crollo faccio crollare con me le persone alle quali voglio bene. e questo non va bene. ho già messo alla prova anche i loro sistemi nervosi negli anni. e siamo tutti al limite. questo per dire che: secondo me il telelavoro va benissimo. entro certi limiti. facilita l’esistenza. senza dubbio. però dobbiamo comunque trovare un buon equilibrio. altrimenti non sono ottimistica
Nel frattempo Nardella e la sua giunta ieri hanno deliberato di dare suolo pubblico gratuito ai locali per mettere sedie e tavolini e poter garantire il distanziamento.
Pensando alle politiche di gestione dello spazio pubblico della mia città e alle ordinanze degli anni scorsi per vietare di mangiare cibo in strada o seduti sui sagrati delle chiese mi viene da pensare che finalmente ci sarà la giustificazione per cui le persone dovranno mangiare solo al ristorante senza che il sindaco debba andare a far alzare i turisti dagli scalini delle chiese o farli rincorrere con idranti.
Ha anche detto che questo piano è per creare le condizioni perché “si torni a vivere”, è risaputo che l’unico modo in cui si può vivere è consumando in effetti, nell’idea di certi amministratori sicuramente.
Sempre poche ore fa a Livorno le palestre hanno chiesto i parchi. Chiederei ai gestori delle piscine di concorrere anche loro così in una botta sola piazziamo piazze, parchi e fiumi.
Curioso come gli stessi luoghi che fino a pochi giorni fa erano pericolosi per le passeggiate da soli e in sicurezza degli abitanti adesso tutto d’un botto, come le riaperture del resto, diventino sicurissimi se destinati al profitto di pochi.
Visto il clima mi aspetto l’obiezione: “Eh ma allora voi non volete rinunciare neanche al vostro patrimonio pubblico/comune per far ripartire l’economia e/o per permettere ai lavoratori di lavorare in sicurezza”, insomma dopo la responsabilità dei singoli del contagio, nella fase 1, ma non è escluso che i singoli tornino ad averne la colpa se risaliranno i contagi, ci avviamo nella fase 2 ad essere responsabili anche del tracollo economico.
Rinvigorita da questa nuova consapevolezza della nostra potenza vado a letto.
Ripartire! – di Franco “Bifo” Berardi
Bifo cita e linka il nostro «矛盾 (máo dùn)» – o meglio, cita il commento di Negante – e scrive una riflessione che a nostro avviso va letta con attenzione. È l’ultima puntata del suo diario della pandemia.
P.S. Mi ha fatto ridere l’espressione «i Wu Ming seduti sulla riva del fiume», perchè quando i miei compadres mi hanno segnalato il pezzo io ero letteralmente seduto sulla riva del Reno.
Io sono ottimista. Le persone cominciano a vedere che se devi affollarti in metropolitana per andare a fare il tuo dovere di produttore, hai anche diritto di affolarti nei parchi, nelle strade e nelle case per mantenere e rinsaldare i tuoi rapporti umani che sono poi la sola cosa che rende bella la vita. I tentativi proposti dai media di sostituire la vita vera con viaggi, frequentazioni o rapporti “virtuali” si fanno sempre piu’ malconvinti e inefficaci. Io penso che i mesi di lockdown abbiamo sortito l’effetto opposto di quello sperato: se si volevano convincere le persone che è possibile e bello vivere nella tua tana isolato e con contatti solo via internet credo che invece la gente si sia convinta esattamente del contrario. Colleghi stressati dal traffico che prima anelevano al telelavoro ora fanno il conto alla rovescia per la data di rientro in ufficio, dopo avere assaggiato per quasi tre mesi il lavoro da casa.
La credibilta’ dei mezzi di informazione, trasformati in mezzi di propaganda, e’ ai minimi storici, e se questo da una parte da’ spazio a canali piu’ che discutibili, dall’altra anche le nonne piu’ televisive ormai hanno forti dubbi su “quello che dice la TV”. Molti devoti del lockdown hanno la vaga impressione di essere stati presi per il culo, hanno creduto con fede che la colpa della diffusione del virus era dei runner, e ora da un giorno all’altro tutto è rovesciato, e capiscono che quello che è cambiato davvero è solo che bisogna urgentemente tornare a produrre. Il ridicolo di cui si è coperto lo stato, dicendo che puoi vedere la fidanzata ma solo con mascherina e guanti, ne ha minato la credibilta’ anche su altri temi piu’ seri.
Io penso che molti cominciano a vedere il re se non nudo, almeno in mutande. Non va poi così male.
Condivido le ragioni del tuo ottimismo, ma in maniera fin troppo pedante, evito di usare implicazioni come “se devi affollarti in metropolitana per andare a fare il tuo dovere di produttore, hai anche diritto di affolarti nei parchi”. Questo perché, da un punto di vista logico, se un condizionale ha una premessa falsa, allora è sempre vero, a prescindere dalla conclusione. Il che lo rende poco utile. in questo caso, la premessa è appunto falsa: “devi affolarti in metropolitana per andare a fare il tuo dovere di produttore”? Secondo me no, non devi, non lo dobbiamo accettare, in questa primavera del 2020. Piuttosto direi: “Posso affolarmi nei parchi, all’aria aperta ma questo non vuol dire che devo andare a lavorare in condizioni di scarsa sicurezza”. Lo so bene che su questo siamo d’accordo tutte quanti, ma poi il linguaggio può combinare brutti scherzi. “Se devi affolarti in metropolitana per andare a fare il tuo dovere di produttore, allora gli elefanti hanno le ali” è un implicazione altrettanto vera, da un punto di vista strettamente logico!
Usando l’inglese per disambiguare, la frase di talpa60 sarebbe suonata ragionevole con “se ‘you must’ affollarti in metropolitana per andare a fare il tuo dovere di produttore, ‘you shall’ avere il diritto di affolarti nei parchi”. Purtroppo l’italiano in questo caso crea confusione. Si tratterebbe, prendendomi la licenza di interpretare, non di una implicazione di pura logica proposizionale, ma di un rilancio politico in assenza di abolizione del lavoro, quindi di prendere la metro, come obbligo per sopravvivere. Dovere e diritto rilassavano l’ambiguita’. Principio di carita’, mi pare che lo chiamavate altrove.
Ma certo, Tenib. Ho capito benissimo quel che intendeva Talpa60 e l’ho anche premesso. Mi preme però non dare appigli al solito discorso: “Voi volete aprire le fabbriche, eccetera eccetera”. Il condizionale che ho analizzato, usato a quel modo, qualche appiglio lo può offrire, a una lettura che non utilizzi il principio di carità, e che purtroppo è diffusa. Poiché un condizionale con falso antecedente è molto raro nell’uso, se non per fare frasi surreali, si potrebbe accusare Talpa60 di voler dire che, in effetti, “si deve” andare a lavorare, eccetera. Ma in modo anche più subdolo, quello stesso condizionale potrebbe essere rovesciato: “se puoi/vuoi assembrarti nei parchi, allora puoi andare a lavorare, eccetera” o ancora peggio, che è esattamente ciò di cui viene accusato chi è “riaperturista” sui parchi: di essere “riaperturista” tout court. Per questo, terrei sempre separati i due ambiti di discorso, perché appena li avvicini, partono i malintesi, o le letture volutamente capziose.
“se puoi/vuoi assembrarti nei parchi, allora puoi andare a lavorare, eccetera” non ha senso perche’ “se A allora B” non implica “se B allora A”. Prima di continuare ad ammorbarci con i disegnini, quello che intendo e’ che prima o poi questi discorsi li dobbiamo accostare, altrimenti stiamo nascondendo la testa sotto la sabbia, ci consegnamo alla pura analisi intellettuale. Se davanti alle critiche ci poniamo sempre in allerta come in un tribunale abbiamo gia’ perso, abbiamo consegnato le regole del gioco all’accusa.Accostare i piani in modo intelligente e creativo, ognuno come puo’, certo, ma non possiamo solo criticare.
In un vostro post precedente invece, ed a ragione secondo me, i piani li avevate accostati eccome. Parlavate della caccia all’untore come diversivo per nascondere le i focolai nelle fabbriche aperte. Sul non accostare i piani e sul darla vinta a tavolino alla controparte capitalista e repressiva, parlano piu’ chiaro i fatti di ieri alla Brt di Sedriano. Militari a far rispettare le distanze, proprio durante un picchetto, mai prima, durante i normali turni di lavoro. Ora capisco l’atteggiamento difensivo a seguito dell’errore nel pubblicare un grafico scorretto, ma non iniziamo un ‘riflusso’ prima ancora di averci provato.
Su questo hai ragione. Il problema non è “accostare i piani” ma metterli nella relazione condizionale di cui abbiamo discusso. Infatti anche io, nel riformularla, li ho accostati. Qui sopra ho scritto: “Piuttosto direi: «Posso affolarmi nei parchi, all’aria aperta ma questo non vuol dire che devo andare a lavorare in condizioni di scarsa sicurezza».”
In ogni comunicazione cerchiamo di usare un linguaggio preciso per farci capire dagli altri: questo non significa che ci autocensuriamo, ma che teniamo conto dell’interlocutore, perché è a lui che ci rivolgiamo. Per questo, senza rinunciare ai nostri argomenti, eviterei di formularli in un certo modo. Il che, molto spesso, invece di tradursi in un’autocensura, finisce per farti trovare formulazioni più efficaci e più radicali.
Dalle mie parti si dice: salta cetriolo, va in culo all’ortolano.
È un po’ come il missile della gioiosa macchina da guerra di Occhetto di guzzantiana memoria. A questo ho pensato leggendo il paragrafo che suggerisce che non puoi vincere nella dicotomia “all right-all wrong”. A me pare che questo atteggiamento paternalistico serva soprattutto a scansare le responsabilità. Anche oggi si legge che alcuni sindaci hanno visto “video” (fatti da chi? Di chi sono rappresentativi? in che ratio?) che li hanno indignati e che li porterebbero a “chiudere tutto”. Sembra che ci facciano un favore a lasciarci vivere. Chiaro che, se i contagi dovessero risalire per problemi indipendenti dalla “movida”, sarà stato non per incompetenza di chi scrive i decreti ma perché noi abbiamo insistito a bere lo spritz.
“Noi sappiamo che non è così, che la colpa della pandemia è del sistema, ma ogni volta dobbiamo spiegarlo”
Secondo me bisognerebbe introdurre una distinzione tra due diverse forme di complottismo: un complottismo “soggettivo” e un complottismo “oggettivo”.
Il complottismo “soggettivo” imputa tutto ciò che viene concepito come un male possibile o reale all’azione consapevole e concertata di soggetti individuali o collettivi che ordiscono le loro perfide trame dietro le quinte. E’ il classico complottismo di destra che tutti giustamente schifiamo.
La variante “oggettiva” del complottismo, invece, imputa tutto ciò che viene concepito come un male possibile o reale al funzionamento di grandi entità astratte, ma presentate con le sembianze di un’oggettività autoevidente. Due classici: “il sistema” e “la società”. E’ una forma di complottismo meno pacchiana, ma proprio per questo forse più insidiosa, che purtroppo a volte capita di sentire a sinistra.
Dire che la pandemia è “colpa” del sistema capitalistico secondo me ha tanto senso quanto dire che la peste nera fu “colpa” del feudalesimo europeo, o che l’estinzione dei grandi mammiferi nel continente australiano fu “colpa” del sistema tribale neolitico.
Tutto nasce da un problema con la parola “sistema”, che può avere due significati che vengono però fatti spesso collassare l’uno sull’altro, con il risultato che delle astrazioni teoriche dotate di una loro coerenza, e molto utili a spiegare dinamiche o a illustrare tendenze, vengono scambiate per entità sistemiche realmente esistenti in natura.
Nella realtà abbiamo una rete di sistemi socioeconomici che seguono, chi più chi meno, e comunque in forme differenziate, delle dinamiche capitalistiche. Ma non lo fanno nel vuoto. Lo fanno in un ambiente che include altri sistemi socioeconomici e sistemi che socioeconomici non sono.
Il punto è semmai capire come le dinamiche di quei sistemi (dinamiche in larga parte capitalistiche) si riorientano in una fase segnata da una pandemia globale, incidendo in modo positivo o negativo sul suo decorso, scaricando o meno le conseguenze economiche sulla collettività per difendere gli interessi di chi detiene le leve del potere economico ecc. Ma è un discorso completamente diverso dal dare “la colpa” della pandemia al sistema capitalistico.
Chiedo scusa, ma non riesco a capire alcuni passaggi del discorso. Ad esempio “la variante oggettiva imputa tutto ciò che viene concepito come un male possibile o reale al funzionamento di grandi entità astratte, ma presentate con le sembianze di un’oggettività autoevidente.”. Ammetto la mia spaventosa ignoranza in filosofia, e anche in semantica, e a questo punto anche in grammatica, ma proprio non riesco a capire cosa vuol dire. Ti sarei grato se potessi chiarire.
Chi dovesse affermare che la pandemia è colpa del sistema capitalistico sarebbe un complottista molto rozzo, da caricatura. Da troppo tempo la sinistra mostra scarsa perspicacia, ma da qui a instaurare un legame di causa-effetto tra pandemia e capitalismo ce ne passa. Certo, si sono avanzate ipotesi sul ruolo della globa-lizzazione nella diffusione del virus, ma oltre non si va.
Le dinamiche capitalistiche non possono che svilupparsi in un ambiente capitalistico, chiaro che non si sviluppano nel vuoto.
Cruciale invece la tua domanda finale: come si riorienteranno le dinamiche capitalistiche post pandemia? Possiamo solo immaginarlo (qui sono state avanzate diverse ipotesi), ma di certo non usciranno dall’ambiente. Molto probabilmente lo rafforzeranno.
Penso che l’analisi parti da un equivoco. Nel pezzo qua sopra c’è un paragrafo che recita:”Grazie al virus Sars-Cov-2, il capitale ha avuto l’occasione di accelerare certe dinamiche per poterle gestire meglio. Stante l’inevitabilità di una recessione, di gran lunga meglio gestirla potendo scaricare le colpe su un evento presentato come “naturale”, sulla sfiga, su un disastro, su condizioni “esterne” al sistema (noi sappiamo che non è così, che la colpa della pandemia è del sistema, ma ogni volta dobbiamo spiegarlo).”
Penso che con “la colpa della pandemia è del sistema” non intendano affermare che il salto di specie del SARS-CoV-2 e la conseguente trasmissione da animale all’uomo sia direttamente imputabile al capitalismo, ma che la pandemia per come si svolge (intendendo le dinamiche che ne scaturiscono) sì.
Wu ming correggetemi se sbaglio.
Penso anch’io che sia così. Se ho fatto le pulci a quella frase non è perché credo che Wu Ming non abbiano presente il caveat (al di là delle divergenze di visione che sicuramente ci sono) ma perché purtroppo, in questo momento, il bisogno di spiegazioni, diciamo, “rinfrancanti” c’è un po’ dappertutto (ed è pure comprensibile). Il rischio di assecondare involontariamente delle forme di ipersemplificazione che innescano poi l’effetto rinfrancante della spiegazione “risolutiva” è alto.
Penso sia importante misurare le parole con attenzione, ecco. E dove si delinea una trappola, farlo magari presente.
Quello che intendevo è che cose come “la società” e “il sistema capitalistico” vengono spesso introdotte nel discorso come degli attori impersonali, e che questa operazione è possibile proprio perché sono delle astrazioni e capita a volte di prendere delle astrazioni troppo sul serio, con conseguenze non sempre positive per la discussione su determinati fenomeni.
Esistono *molte* società e molti livelli di organizzazione all’interno di ogni società. Ma “LA società” è un’astrazione, un comodo concetto-ombrello che torna utile per indicare in modo sintetico quella molteplicità.
Idem per il capitalismo. Il capitalismo è un insieme di dinamiche socio-economiche assolutamente reali, e la descrizione e l’analisi di queste dinamiche può produrre, a livello teorico, un quadro di spiegazione coerente e organico.
Ma se si scambia questo quadro coerente e organico per un *unico* sistema realmente esistente nella realtà, si personifica di fatto un’astrazione. Nella realtà ci sono sistemi socio-economici che funzionano in modo capitalistico, e sono quelli i sistemi da considerare quando si valutano dei fenomeni in chiave storica; non un presunto “sistema capitalistico” che copre l’intero orizzonte dell’esistente.
La mia critica a quella frase è che dando “la colpa” (addirittura!) della pandemia al “sistema” (capitalistico) si finisce dritti in bocca a questa trappola.
Non so se mi sono spiegato un po’ meglio.
Non sono invece d’accordo quando dici che “di certo” non usciranno dall’ambiente. Non lo possiamo sapere.
Avevo dato la stessa interpretazione: è la gestione della situazione che si sviluppa all’interno delle dinamiche del sistema dato (capitalista) che risente di quelle logiche. All’inizio avevo pensato anche al significato del termine, ossia la diffusione rapida fra i popoli di vaste aree, da qui il mio accenno al ruolo della globalizzazione (come aspetto caratterizzante del sistema capitalistico).
Se capisco bene, StefanoR, la trappola a cui alludi è quella di identificare alcuni sistemi, separati tra loro e dal resto, funzionanti in un quadro capitalista, con un unico grande sistema che è il capitalismo. Inviti inoltre a non personificare un’astrazione logica. La questione mi interessa, perché tendo a fare esattamente il contrario, ossia dare “nome e cognome” ai sottosistemi. Il titolare della trattoria a conduzione familiare (Mario Rossi) a seguito di questa pandemia deve chiudere, perché la gestione degli adempimenti di legge sarebbe per lui antieconomica. Il gestore di una catena di ristoranti “à la page” (Giuseppe Verdi) può riaprire le sue attività, ce la fa a gestire la ripresa. Entrambi sono capitalisti, dato che entrambi si guadagnano da vivere in ragione della libertà di iniziativa privata consentita dal capitalismo, ma uno soccombe e l’altro prospera. Maria Bianchi, che ha un negozio (di qualsiasi cosa) è capitalista e viene travolta e schiacciata da Jeff Bezos, capitalista. Dunque è giusto distinguere i diversi soggetti che operano all’interno del sistema complessivo, ma le dinamiche nelle quali sono coinvolti sono parte imprescindibile dell’ambiente, ne sono anzi le leggi (ferree) costituenti. Se il capitalismo di oggi è più selvaggio, più violento, ha meno scrupoli di quello di ieri, è perché sulla scena, ad un certo punto, sono comparsi esseri umani più spregiudicati, più cinici, più squali, che semplicemente sfruttano le leggi che costituiscono il sistema. Non si può identificare Maria Bianchi col sistema, tuttavia il sistema è anche Maria Bianchi. Ciascuno è vittima e carnefice (perchè, nel sistema, arriverà qualcuno, prima o poi, che schiaccerà anche Bezos). Probabilmente stiamo dicendo la stessa cosa.
Esatto! Incolpare di tutto il sistema capitalistico può diventare una scappatoia cognitiva non troppo diversa da quelle che adottano i complottisti “strictu sensu”, e su questo fronte secondo me bisogna fare molta attenzione. Se si vuole produrre una critica efficace e forte alle *dinamiche* capitalistiche resta invece fondamentale comprenderle nella loro articolazione reale, con tutte le loro mille sfumature. E’ un lavoro immane, e soprattutto in fasi di incertezza come questa, la tentazione di affidarsi a spiegazioni semplificanti (e quindi rassicuranti) c’è per tutti.
Il capitalismo di oggi non è né più né meno selvaggio del capitalismo di ieri. Dipende da quale fase si considera. Se lo si confronta al capitalismo nel periodo tra gli anni ’50 e gli anni ’80 sì. Ma se lo si confronta con quello di fine ‘800-inizio ‘900 no. In confronto ai magnati della Gilded Age (Carnegie, Rockefeller, Mellon ecc.) Bezos e Bill Gates sono delle cacchette di piccione.
La questione, più che altro, è capire se si accettano le dinamiche capitalistiche come base legittima dei sistemi socioeconomici in cui viviamo o meno; e se le si accetta con riserve, fino a che punto siamo disposti a spingere queste riserve (nella consapevolezza che ogni tot si ripresenterà il problema di come mettere un freno ai nuovi aspiranti Carnegie e ai nuovi aspiranti Bezos).
Qui abbiamo semplificato, peraltro in un inciso en passant, però in questi tre mesi – e anche in questo stesso thread – abbiamo fatto riferimento a dinamiche capitalistiche precise, le cui responsabilità sono da tempo attestate per quanto riguarda le altre epidemie degli ultimi vent’anni. Ad esempio nel Diario virale, già a febbraio:
«L’aviaria, la Sars, la suina e prima ancora la BSE erano uscite dai gironi infernali dell’industria zootecnica planetaria. In parole povere: dagli allevamenti intensivi, per via di come gli animali erano trattati e, soprattutto, nutriti. Ebola, Zika e West Nile erano venuti a contatto con gli umani per colpa della deforestazione massiva e della distruzione di ecosistemi.»
La deforestazione segue il land grabbing e precede ulteriori estensioni dell’agrobusiness che servono a sostenere l’industria zootecnica mondiale. Un terzo della produzione mondiale di cereali è destinata all’alimentazione dei bovini. Questo processo ha creato le condizioni per tutti gli ultimi spillover. Un riferimento importante è, ad esempio, il libro del biologo Rob Wallace Big Farms Make Big Flu. Che non a caso viene citato anche dal collettivo Chuang nel loro densissimo saggio-inchiesta Contagio sociale: lotta di classe microbiologica in Cina.
Dopo lo spillover, altre dinamiche dell’economia capitalistica, relative alla globalizzazione e all’estensione delle metropoli e megalopoli, creano le condizioni per la diffusione rapida del contagio. Vero che «la colpa è del sistema» era un’espressione tirata via e pure stereotipata, ma dietro c’è una realtà che non è difficile approfondire.
La distruzione di interi ecosistemi, e il feedback devastante di questa distruzione sulle comunità umane, non sono invenzioni del capitalismo. Il problema della dinamica capitalistica è che, da un lato, ha accelerato quei processi spingendoli a dei livelli distruttivi senza precedenti, dall’altro le forme possibili di controllo, prevenzione, rigenerazione che quelle stesse dinamiche avrebbero in teoria reso possibili non riescono a stare al passo della distruzione, perché l’infrastruttura sociale delle società capitalistiche lo impedisce. Si è allargata la forbice, insomma.
Lasciando troppo spazio all’idea che la distruzione “in sé” sia un’esclusiva del capitalismo, secondo me si corre il rischio di mettere un po’ troppo tra parentesi la contraddizione fondamentale incarnata dalla forbice, prestando il fianco ad una lettura forse un pelo semplicistica.
Questo, in sostanza, il senso della mia riserva. Ho preso quella frase perché l’ho trovata sintomatica.
Però non c’è scritto da nessuna parte né mi pare si possa in alcun modo inferire che secondo noi – ultagenericamente parlando – la distruzione degli ecosistemi sarebbe «un’invenzione» del capitalismo. Nel post si fa riferimento a «la pandemia», intendendo *questa* pandemia, e nel commento qui sopra ho scritto di dinamiche capitalistiche, di uno specifico ciclo di distruzione-valorizzazione tipico del capitalismo, degli ultimi “salti di specie” e delle epidemie più recenti, verificatesi tutte tranne una nel XXI secolo.
E infatti il mio non è né un attacco, né un processo alle intenzioni.
Semplicemente una precisazione, per suggerire una possibile direzione di analisi. Perché purtroppo quello che ho chiamato complottismo oggettivo esiste ed è un bel problema, e il rischio di finire in quel pessimo calderone, involontariamente e nonostante tutte le accortezze, è sempre presente. Precisare più a fondo i termini del dibattito potrà essere visto come il classico “spaccare il capello in quattro”, ma secondo me in questo momento spaccare il capello in quattro è più necessario che mai.
Per onestà, devo dirti che avevo pensato a una parte del corpo ma non era il capello :-) Jokes apart, ok le precisazioni e i caveat, anche se trovo ossimorica e troppo equivocabile l’espressione «complottismo oggettivo», quindi non la ritengo utile.
Anche gli spaccapalle hanno la loro utilità, credo. Ma in futuro eviterò di compromettere la preziosa integrità delle gonadi altrui con distinzioni così poco utili ;-)
Jokes apart, l’inadeguatezza del nome secondo me non rimuove l’esistenza della cosa. Se il problema è l’ossimoro derivante dall’equivocabilità della parola “oggettivo”, basta trovare un altro nome. Altro discorso, invece, è se si ritiene che la cosa non esista o non sia un problema… ma, di nuovo, ho troppo a cuore la tenuta della sacca scrotale dei Giapsters per fare poking su quel particolare terreno, per cui la chiudo qui.
Scusa se mi inserisco con un OT nella bella discussione con StefanoR (che dal post sopra e la questione delle “dinamiche” ho incominciato a capire), ma c’è una domanda che è da un po’ che voglio fare (non solo a te Marcello ma è il tuo post che riesce a farmela esternare), anche se credo di sapere già la risposta.
Tu dici che la signora Maria Bianchi che ha un negozio di alimentari e un po’ di tutt’altro in un quartiere di periferia (o in un paesino di montagna) è “capitalista” qualitativamente “tanto quanto” Bezos?
“Quantitativamente” mi sembra ovvio che NO, perché il capitale e anche le condizioni di vita e di lavoro della signora Maria Bianchi non saranno mai confrontabili con quello di Bezos, ma qualitativamente la definiamo “capitalista”?
E, faccio per dire, Cugino_di_Alf (faccina sorridente, non sono polemico) con la sua “vera” partita IVA e la sua professione di cui è tanto orgoglioso (almeno quello, visto che il reddito è quel che è) è capitalista pure lui?
E un’impresa di pulizie a gestione familiare?
Probabilmente a livello teorico la risposta è sì a tutte le domande,«dato che entrambi si guadagnano da vivere in ragione della libertà di iniziativa privata consentita dal capitalismo», però politicamente mi sembra sbagliato metterli sullo stesso piano.
O meglio, magari la Signora Bianchi, che tira a campare nel modo più etico possibile, è più consapevole di certe dinamiche e più desiderosa di equità di un (faccio per dire, esempi a caso) impiegato di 6 livello che invece è perfettamente integrato nel sistema (però in quanto dipendente non lo chiamiamo capitalista o padrone).
Boh, a me, al di là della teoria, sembra sbagliato tirare una linea su queste basi.
Scusa Cugino_di_Alf, ma sono stato assente per un po’ e tento di rimettermi in pari.
Ovviamente non intendevo mescolare Maria Bianchi e Jeff Bezos nello stesso calderone. La partita IVA è capitalista perché accetta (a prescindere dal fatto che sia costretto o meno ad accettare) di competere in un gioco il cui manuale delle regole si chiama capitalismo. Cerca di sopravvivere in questa arena, e nel farlo può essere, nel suo piccolo, carnefice (magari si aggiudica una commessa a scapito di un altro per il quale quella commessa era vitale e non essersela aggiudicata significa per lui la chiusura dell’attività) o vittima. Il covid ha creato tante vittime i cui carnefici non sono il capitale o il capitalismo ma altri attori, persone in carne e ossa, che operano all’interno dello stesso quadro solo in maniera più spregiudicata. È ovvio che il vero responsabile delle soccombenze è la regola del gioco, che consente la spregiudicatezza.
Tornando a Maria Bianchi, “capitalista”, il suo sforzo di competere rimanendo umana (magari cercando di campare nel modo più etico possibile, come dici), si scontra, inevitabilmente, con i Bezos perché i Bezos più di Maria Bianchi sono il prodotto del capitalismo, ne sono l’espressione più caratteristica, direi più pura, dato che più di tutto il capitalismo premia il profitto ottenuto con qualsiasi mezzo non etico (ma perfettamente legale per il manuale delle regole).
Probabilmente banalizzo il discorso, ma cerco io stesso di capire cosa davvero è il capitalismo, se una “semplice” astrazione (tipo la società di StafanoR) , o una somma di concreti, vivi, più o meno feroci esseri umani per i quali vale l’antico homo homini lupus.
Chi non muore…. Vi ho spedito via mail un piccolo script che inserito nella pagina che apre la form per i post dovrebbe fare il conteggio dei caratteri ad ogni battuta e scriverlo a fianco della label, tipo “Commento (battute: XX)”.
Spero funzioni perché non potevo provarlo! E spero che troviate qualcuno che vi mostri come aggiungerlo nella pagina o nel plugin: io non sono un espertone di wordpress!!!
… E spero anche di aver raggiunto il numero minimo di caratteri perché il mio commento sia approvato… :-[
[…] Pare di no: avrei dovuto parlare per circa un minuto (90 parole, 550 battute) ma in genere on sono uno che parla poi tanto… Senza bere almeno ;-)
Ok: il blocco note mi dice che ci sono ora! Ciao
PS: se lo usate e non funzionasse fate un fischio che faccio debug e correggo
Non so quanto in topic qui, ad ogni modo penso abbastanza.
Oggi scivola nella narrazione tossica anche “Il post” che fino ad ora era stato molto prudente e onesto.
https://www.ilpost.it/2020/05/20/svezia-tasso-mortalita-coronavirus/
“Ora la Svezia ha il tasso di mortalità (giornaliero, se lo sono dimenticato chissà perché) più alto d’Europa”.
Poi apri l’articolo vai al grafico del NYT e realizzi che forse un titolo del tipo: “Nonostante l’enorme differenza delle misure di contenimento adottate non si riscontrano differenze degne di nota nell’andamento del tasso di mortalità giornaliero fra Svezia e Italia” sarebbe stato più adatto.
Poi a voler essere proprio cattivi uno dovrebbe notare che per lungo tempo, a parità di giorni di diffusione del virus, quello svedese è stato inferiore. Ma verresti catalogato come nemico della patria.
La questione della Svezia è delicata. E non è questione di catalogare le persone come amiche o nemiche della patria. Confrontare la diffusione del virus in Svezia con la situazione in Italia ha davvero così senso? O non sarebbe meglio confrontarla con gli altri paesi scandinavi, che presentano situazioni probabilmente più simili a livello sociale e demografico? Perché se si fa il confronto tra la Svezia e gli paesi scandinavi, che hanno adottato misure di contenimento più rigide, il confronto è impressionante: 376 decessi da Covid ogni milione di abitanti contro i 96 della Danimarca, i 55 della Finlandia e i 44 della Norvegia (fonte: John Hopkins University).
E poi c’è la questione, che non va mai persa di vista del *perché* la Svezia ha scelto quella linea lì: per non mandare l’economia a rotoli. Il modello socialdemocratico scandinavo ha subito colpi pesanti negli ultimi 30 anni, e le disuguaglianze sono aumentate a un ritmo persino superiore alla media dei paesi OCSE (https://bit.ly/3cUPhkR). Sarà forse una semplificazione, ma i motivi per cui in Svezia perseverano su quella linea (che tra l’altro non ha avuto effetti rilevanti in materia di immunizzazione, altra cosa da tenere presente) non mi sembrano troppo diversi da quelli che hanno provocato in Italia i disastri che ben conosciamo.
Azz, il link non è quello giusto, ho accorciato e rilinkato per sbaglio l’articolo del Post. Chiedo venia.
Sulla questione dell’aumento delle disuguaglianze sociali volevo linkare questo:
https://www.eticaeconomia.it/i-paesi-piu-egualitari-deuropa-lo-sono-sempre-meno/
Su Jacobin tempo fa avevo letto un’analisi ancora più pesa, ma non sono riuscito a ripescare l’articolo.
Sulla questione dello sviluppo degli anticorpi nella popolazione e sul numero di decessi per milione di abitanti, invece:
https://www.internazionale.it/liveblog/2020/05/22/stoccolma-anticorpi-svezia
Sulla Svezia qualcosa puoi trovarla nei commenti al pezzo che abbiamo scritto con Monica (https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/04/svezia-e-coronavirus/). In questo stesso pezzo che stiamo commentando, più sopra trovi qualche considerazione su cosa fare se davvero si vuole cominciare una comparazione. Qui aggiungo due cose. Sulla seconda parte io sono molto d’accordo con te, anche questo devo averlo detto qui e lì: non è Svezia bella contro Italia cattiva, sono due modelli capitalisti che hanno scelto strategie differenti. Per caso (ma Monica e credo anche i Wu Ming non sono d’accordo sul “caso”, ma io semplifico) una delle due è più democratica e quindi io la preferisco.
Sui risultati – oltre a rimandarti di nuovo a quanto già scritto – qui aggiungo che almeno (almeno) dovremmo cominciare a discutere su come si sia manifestato questo benedetto contagio, soprattutto quando si parla di numeri piccoli. Dire “morti per milione di abitanti” per paesi che di milioni ne hanno 6 (Norvegia) o 10 (Svezia) non ha sostanzialmente senso. Lo avrebbe per Russia, Cina, India, USA e SOLO a condizione che il contagio e i relativi morti fossero uniformi sparpagliati nel territorio, cosa che non pare sia una caratteristica dell’epidemia che si sta attraversando. Infine, le misure più rigide di Norvegia e Danimarca sono lontanissime da quelle dell’Italia, mica non facevano uscire la persone di casa (ma anche questo è raccontato nell’altro pezzo). Insomma io capisco che sereva trovare un senso a tre mesi della nostra vita buttata nel cesso, e i grafici da scuola elementare che vedo in giro credo servano a questo. In fondo molti grafici sono ancora più inutili, quindi bene così.
Grazie, l’articolo mi era sfuggito e lo leggerò molto volentieri, perché l’argomento mi interessa molto.
Preciso però che non era mia intenzione “trovare un senso a tre mesi della nostra vita buttata nel cesso”. La questione è proprio quella che dici tu: le polarizzazioni inutili e dannose. Dare ad intendere che la Svezia abbia gestito l’emergenza nel modo “giusto” mentre in Italia si è sbagliato tutto è un modo per dare un senso a quei tre mesi non troppo diverso da quello che parte dal presupposto inverso.
Ogni situazione è diversa dalle altre per una tale molteplicità di fattori che fare confronti diventa estremamente complesso. Possiamo dire quanto vogliamo, e assolutamente a ragione, che il sistema sanitario nazionale è stato vessato da anni di privatizzazioni e tagli, e che in questa fase abbiamo pagato anche quelle scelte. Rimane il fatto che, quando si è presentata l’emergenza, *quello* era il sistema con cui toccava gestire l’emergenza; e ho molti dubbi che, in un paese ad elevata densità abitativa, senza misure di lockdown più stringenti di quelle adottate in altri paesi, *quel* sistema sarebbe stato in grado di reggere.
Criminalizzare i runner e le famiglie che portavano i bambini a fare una passeggiata è stato indice di una mentalità gratuitamente poliziesca? Il lockdown poteva essere gestito in modo più intelligente? Non c’è dubbio. Ma al tempo stesso, se il modello svedese ci piace di più perché la gente poteva continuare più o meno con la vita di sempre (e non sto dicendo che questo sia lo scopo di chi come te lo ha esaminato a fondo, beninteso) penso sia giusto farsi qualche domanda.
A proposito di Svezia, lo so che ormai è un disco rotto, ma va segnalato l’ennesimo capolavoro di Repubblica, a firma Maurizio Ricci.
La tesi è che la strategia svedese sia stata fallimentare anche dal punto di vista economico. Per dimostrarlo, il bravo giornalista usa i dati sul crollo dei consumi, che è in linea con quello dei paesi (vicini) che hanno fatto il lockdown. Ora, a parte il solito smarmellare sui numeri, di cui si è discusso a iosa, l’argomentazione è questa: “nessuno impediva agli svedesi di approfittare della primavera incipiente per andare a bersi una birra o mangiare il classico mix di aringhe al ristorante, ma non l’hanno fatto”. Capito? Le autorità svedesi hanno dichiaratamente fatto affidamento sulla responsabilità dei cittadini e non hanno adottato misure draconiane, i cittadini hanno recepito il messaggio autoregolandosi per distanziarsi, quindi… è chiaro che non ha funzionato! Dovevano fare il lockdown per ottenere lo stesso risultato.
Ma non è finita qui. L’articolo continua affrontando anche il tema dell’immunità diffusa, e riporta che contrariamente alle aspettative degli infettivologi governativi, a Stoccolma, che è la zona più colpita del paese, sarebbe entrato in contatto col virus solo il 7,3% della popolazione. Capito? Questi non hanno fatto il lockdown e manco una diffusione decente del virus sono riusciti a ottenere, tanto che a Milano, che ha una densità di popolazione paragonabile, con un lockdown stringente i casi reali stimati sono in percentuale gli stessi se non di più. Ergo, di nuovo, dovevano fare il lockdown per ottenere lo stesso risultato.
Di fronte a un simile sfoggio di distorsione della logica, che cosa si può dire? Possibile che nemmeno con certi dati davanti agli occhi si riesca anche solo ad ammettere l’ipotesi che l’alta mortalità svedese possa spiegarsi con specifici errori analoghi proprio a quelli commessi in Lombardia, e non con la strategia di contenimento del contagio?
Questa storia della Svezia sta diventando surreale, e se non si trattasse di morti sarebbe ridicola. La notizia di questi giorni è che la Svezia ha l’indice di mortalità più alto del mondo. Quello che non viene detto è che ce l’ha *in questi giorni*, ora che quello dell’ Italia e quello del Regno Unito sono in discesa. In realtà sono Italia e UK ad avere (avuto) il picco più alto di mortalità. Qua il grafico:
https://nitter.net/francofontana43/status/1263330238873980928#m
Passando al dato cumulativo, anche in questo caso Italia e UK sono messe peggio della Svezia.
https://www.businessinsider.com/sweden-coronavirus-per-capita-death-rate-among-highest-2020-5?IR=T
Ora il punto per me è che sticazzi della Svezia, ma la stampa italiana sta barando per nascondere il fatto che l’Italia è il paese al mondo, insieme al Regno Unito, che ha fronteggiato peggio l’epidemia. E non si capisce se lo fa per difendere Fontana, Gallera e la sanità lombarda, o Giuseppe Conte e il lockdown all’italiana, o per tutte e due le cose.
Non li recuperi più Tuco, possono fare tutti i capolavori che vogliono, come segnalato da Isver, ma ormai è andata. Uno come Raimo, che per me era tra gli insospettabili, posta grafici che definire cretini è fare un complimento, il nuovo mantra (ma circolava già) è “devi fare la comparazione con Norvegia e Danimarca”. Perché? Perché hanno orecchiato da qualche parte che alcuni tipi di ricerca presuppongono alcuni parametri simili e quindi per estensione TUTTE devono essere fatte così. Cosa c’entri il virus con lo stile di vita simile lo sa iddio che è nei cieli. Scandalizziamoci di Gallera, ma la società italiana è tenuta assieme con la sputazza, leggo di insegnanti che “dobbiamo valutare, perché altrimenti siamo nell’illegalità” e ringrazio i santi del paradiso che mia figlia la scuola la fa altrove. Ellroy dice che gli americani erano marci già sulla mayflower, ma il quadro che esce di questo penisola è un deserto di devastazione. E il fondato timore che sia il mondo intero in questa situazione. Vabbè, buona domenica :-)
“Cosa c’entri il virus con lo stile di vita simile lo sa iddio che è nei cieli.”
Scusa, ma è una scemenza così incredibile pensare che i parametri demografici, la densità abitativa, le abitudini, lo stile di vita ecc. abbiano un peso determinante sugli sviluppi epidemiologici di una pandemia? Perché a me sembra ovvio il contrario.
Che in Italia la gestione sia stata disastrosa è verissimo, e non lo si dirà mai abbastanza. Ma ripeto quello che ho detto sopra: ci siamo trovati ad affrontare una situazione catastrofica con un sistema inadeguato per affrontare una catastrofe. Ma era il sistema che avevamo a disposizione. Smontare la narrativa, evidenziare gli errori e contestare le carenze è fondamentale per sperare, in futuro, che il sistema cambi…
Ma qui il discorso è completamente diverso. C’è qualcuno, qui, disposto ad affermare con assoluta certezza che se la reazione fosse stata più sul modello svedese il contenimento, in Italiam ci sarebbe stato comunque? E non sto parlando della criminalizzazione dei runners o delle famiglie che portavano fuori di casa i bambini… parlo della sostanziale libertà di movimento che è stata mantenuta in Svezia in piena emergenza. Anche alla luce di quello che si è visto in questa settimana in Italia (e vi prego non ditemi che la piazza di Brescia sembrava piena perché hanno fatto la foto con la prospettiva truccata…).
Stefano c’è qualcuno qui che può affermare con certezza che senza il contenimento criminale adottato in Italia i risultati sarebbero stati diversi? Quello che faticosamente cerco di spiegare con non troppo successo è che si è deciso di abbattere un condominio per prendere un mafioso. Sicuro che non ci fosse un altro modo? Perché sai, nel frattempo è morta altra gente, non è che non sia costato proprio nulla quell’arresto.
Però questa discussione l’abbiamo già fatta, perché tornarci sempre?
Certo che la densità, le abitudini, lo stile di vita contano, ma contano anche nella stessa nazione – anche questo già detto – tra il gavleborg e il vistra goland immagino che ci sia differenza, così come il trentino e la calabria. La decisione di cosa comparare è del tutto arbitraria, e qui, da sempre, si è detto che un virus di questo tipo è stato da idioti trattarlo in modo uniforme. Non escludo che la stessa idiozia sia stata fatta in Svezia – sulle RSA immagino di sì – ma cosa c’entra tutto questo con il lockdown?
“Perché sai, nel frattempo è morta altra gente.”
No, guarda, non lo sapevo. Grazie per avermelo detto tu.
“Sicuro che non ci fosse un altro modo?”
Mi pare di averlo detto molto chiaramente: la gestione è stata piena di errori, dovuti in larga parte ad un sistema disfunzionale e inadeguato ad affrontare una situazione così grave.
A me non è ancora chiaro, in tutti questi discorsi pro- e contro-Svezia se il punto è smontare una narrativa (e ci vogliono cinque minuti), contestare la gestione del lockdown (che è solo *un* aspetto della gestione dell’epidemia) o mettere in discussione l’idea stessa di un lockdown, nell’ottica che comunque non sia servito a niente perché in Svezia le cose non stanno come ce le raccontano.
Perché sui primi due punti ci sono, sul terzo proprio no. Poi, sia chiaro, ognuno è libero di pensarla come vuole.
Scusate, ma – lo ripeto per l’ennesima volta – è inevitabile che la discussione deragli e si incasini, e che i toni si inaspriscano inutilmente, se al centro del discorso si mette un’espressione astratta e vaga come “il lockdown”, che non vuol dire praticamente niente. Non esistono paesi che hanno fatto “il lockdown” e altri che non l’hanno fatto. Tutti i paesi hanno chiuso qualcosa, hanno fatto *dei* lockdown, Svezia compresa. Bisogna vedere lockdown di cosa e in che tempi. E qui non si è mai fatta l’apologia della Svezia, si è detto sempre che non è mai esistito un unico “pacchetto”, un unico modello, un unico insieme di divieti e restrizioni, ma che le strategie sono state variegate e modulate (benino, male o malissimo) nello spazio e nel tempo, e nonostante questo le curve del contagio appaiono molto simili in tutti i paesi.
Intanto per giustificare tutti questi discorsi basterebbe l’evidente capziosità dei ragionamenti proposti dai media. Perché se accettiamo che si usino i dati in modo scorretto quando ci fa comodo – e ci fa comodo dio solo sa perché, visto che anche a noi in ultim’analisi converrebbe il contrario, ma mi pare evidente che l’Italia intera godrebbe se la Svezia ne uscisse a pezzi… – poi non possiamo cadere giù dal pero quando ci raccontano cose palesemente false sulla realtà che abbiamo intorno.
Poi questi discorsi sono utili perché se l’importanza del lockdown potesse essere ridimensionata – ovvero riportata alla sua dimensione reale, che è quella di ausilio alle misure di contenimento del contagio – forse si potrebbe iniziare a parlare in modo serio di come è stata affrontata questa pandemia e di come affrontare le prossime. Al momento il dibattito è ancora sviluppato tutto lungo un’unica direttrice, para-religiosa, che io trovo umiliante per persone adulte. Dopo… boh… 26 secoli di storia del pensiero occidentale, sul serio non riusciamo a produrre analisi che vadano oltre la divisione del mondo in superbi e umili o egoisti e generosi?
Volevo segnalare un documento importante uscito in Germania, dove a differenza che qui, la scuola e i diritti dei minori sono al centro dell’attenzione durante la gestione della pandemia.
Il documento è solo in tedesco purtroppo, e si può scaricare a questo link https://t.co/bgeshBI3Fw?amp=1
Cerco di riassumerne il contenuto:
La Società tedesca per l’igiene ospedaliera (DGKH), la Società per l’igiene, la medicina e la prevenzione ambientale (GHUP) e le società specializzate in pediatria: la Società tedesca per le malattie infettive pediatriche (DGPI), l’Accademia tedesca per la medicina pediatrica e adolescenziale (DAKJ) e l’Associazione professionale di pediatria (BVKJ) considerano possibile la riapertura di scuole e asili nido nel rispetto delle norme igieniche specifiche.
Esse affermano che, pur se accompagnate da indagini strutturate di sorveglianza scientifica, le scuole non abbiano motivo di permanere chiuse agli studenti.
Esse ritengono che le attuali conoscenze sul ruolo dei bambini e degli adolescenti nella pandemia di Covid 19 siano sufficienti per avviare l’apertura di asili nido e scuole nel rispetto di specifiche norme igieniche. I dati di molti studi, studi, calcoli di modelli e analisi delle epidemie puntano in una direzione: a differenza della diffusione dell’influenza, intendendo l’infezione influenzale comune, i bambini e gli adolescenti non sono la forza trainante della pandemia di Covid 19. L’ulteriore chiusura di asili e scuole, così come la riapertura ritardata, non ha alcuna relazione con le notevoli conseguenze sociali per i bambini, i genitori e la società.
I bambini e gli adolescenti non solo sono meno frequentemente infettati, meno spesso gravemente malati in caso di infezione e, a parte alcuni casi isolati, non a rischio di morte, essi infettano anche significativamente meno altre persone.
Si stima che l’importanza delle chiusure scolastiche e di asili nido sulla dinamica dell’ulteriore diffusione delle infezioni sia bassa.
Il rischio per insegnanti, educatori, tutori e genitori può essere adeguatamente controllato osservando le importanti norme igieniche da parte di adulti e giovani.
Per tre mesi ci siamo sentiti raccontare che i bambini erano supercontagiatori, e probabilmente era una puttanata, trasmettono il contagio come gli altri, se non addirittura meno. Ne aveva già parlato Lancet.
Detto questo, la situazione delle scuole tedesche è probabilmente diversa da quella italiana. Tuttavia le scuole italiane sono state chiuse a fine febbraio, e a settembre, quando dovrebbero riaprire, saranno trascorsi più di sei mesi a scuole vuote. Sarà curioso osservare come sarà stato messo a frutto questo tempo.
Chiunque abbia figli in età scolare sa che la DAD non è vera didattica. Per i ceti più poveri è quasi impraticabile. Per molti questi mesi saranno stati di pura e semplice dispersione scolastica. Per gli altri, appunto un surrogato. Il diritto all’istruzione è uno di quelli saltati. La domanda è: fino a quando? Cosa si sta pensando di fare per adeguare gli edifici scolastici e le aule alle nuove esigenze sanitarie? La risposta è: niente. Si sta aspettando “o’ miracolo”, fatto dalla Madonna o da Santa Scienza, e nel frattempo l’idea che abbiamo sentito avanzare è l’aula a turno (metà scolaresca in classe, metà in DAD).
Insomma qua si tratterà di capire per quanto ancora i genitori di figli in età scolare vorranno subire passivamente questa situazione (che poi grava in grandissima parte sul versante femminile) o se decideranno di farsi sentire. Perché se aspettano il governo rischiano di vedere la DAD diventare organica al piano di studi. All’università lo darei quasi per scontato…
“In Germania la scuola e i diritti dei minori sono al centro dell’attenzione durante la gestione della pandemia.” Quali sono le basi per questa affermazione? Lo chiedo in modo sincero e non polemico, senza nascondere però che è una visione che mi stupisce. Vedo riaffiorare periodicamente la Germania come esempio positivo di gestione della pandemia sotto diversi punti di vista, ma non ho davvero capito sulla base di cosa (se non del puro risultato numerico dei relativamente pochi decessi, che certo ha la sua importanza, ma in questo blog si parla di altro). In particolare questa affermazione sulla centralità dei diritti dei minori nella presente situazione mi risulta oscura e sarebbe interessante se DigitalePurpurea potesse fornire gli argomenti.
Germania. Nel mio caso è una realtà che seguo con attenzione e di cui sono in grado di capirne la lingua.
Come scrive Wu Ming 4, le scuole italiane sono state chiuse a fine febbraio, e a settembre, quando dovrebbero riaprire, saranno trascorsi più di sei mesi. In questo tempo non c’è in programma di fare nulla. Ci si ridurrà all’ultimo a metter su un trabiccolo che permetta in qualche modo di dire che si garantisce l’istruzione (magari anche attraverso quel sistema classista che è la DaD).
In Germania invece si stanno affrontando questi temi già da settimane: riduzione di orari, implementazione delle strutture, assunzione di nuovo personale, test e tracciamento dei focolai, ecc.
Tu senti qualcuno affrontare questi temi da noi?
La risposta alla tua domanda poi, parte proprio dal documento che segnalavo.
In Germania i governi federale e statale avevano concordato alla fine di aprile un piano in quattro fasi per l’apertura graduale. Tuttavia, la procedura concreta viene eseguita dagli stessi stati federali. Il ritorno dei bambini nelle scuole è dunque regolato in modo diverso in ciascuno stato federale.
Ogni stato lo sta facendo diversamente.
Negli ultimi giorni, il dibattito sull’apertura più rapida di asili nido e scuole è ripreso, supportato dalla dichiarazione congiunta di quattro associazioni mediche (il documento che segnalavo) che hanno chiesto un’apertura immediata e senza restrizioni.
Ovviamente non tutti sono d’accordo. Un esempio è Christian Drosten virologo del Berliner Charité che invece è contrario alla riapertura.
Molti politici stanno prendendo posizioni differenti a riguardo e
Il fondo tedesco per l’infanzia ha parlato, a proposito della chiusura delle scuole, come di “un intervento difficile e sproporzionato nell’ambiente di vita dei bambini, dei loro diritti fondamentali e del loro sviluppo psicosociale sullo sfondo delle attuali conoscenze tecniche”.
Al link uno degli ultimi articoli dello Spiegel a riguardo.
https://www.spiegel.de/panorama/bildung/kitas-und-schulen-nach-corona-anja-karliczek-warnt-vor-ueberbietungswettbewerb-a-cc749fe4-7541-4cd6-a620-4eaa34c8893a-amp
Direi che sono buone basi per la mia affermazione.
Grazie per l’argomentazione. D’accordo sui fatti che citi, vorrei però allargare la prospettiva, vedila come un’integrazione, non una confutazione. L’attenzione al tema bambini e scuola in Germania non si spiega solo o necessariamente con una maggiore attenzione ai diritti dei minori, potrebbe anche rispondere a una logica prettamente funzionale: fare in modo che i genitori vadano a lavorare (per i piccoli), evitare ritardi o lacune nell’immissione nel mondo del lavoro (per i grandi), oltre ad altre finalità. Queste due che ho nominato mi sembrano particolarmente plausibili in un Paese che (1) ha trattato la crisi accentuando spiccatamente l’aspetto economico e (2) il cui sistema scolastico, modulo il forte federalismo che ricordavi, è improntato all’antica filosofia del “c’è chi è nato per studiare e c’è chi è nato per zappare” e che si premura di indirizzare tutti presto al “proprio” ruolo nella società. Probabilmente il capitale tedesco funziona meglio di quello italiano ed è riuscito nella crisi a gestire più razionalmente non solo le risorse sanitarie ed economiche, ma anche questioni annesse e connesse, come i bambini. L’impressione attuale è che, smorzandosi lentamente le declinazioni dal minaccioso all’escatologico del “Niente sarà più come prima” in Germania si stia veleggiando verso una sorta di “Visto? È andato tutto bene” che non favorirà la messa in discussione di strutture esistenti. Il dibattito sulla scuola ai tempi del corona ha, oltre a varie differenze, molte analogie con quello italiano, dalle autofustigazioni per aver mancato la rivoluzione digitale prima dell’avvento del virus alla constatazione del divario sociale nelle possibilità di fruizione della didattica a distanza. Il ruolo di virologi e scienziati in generale, visto che citi Drosten, anche in Germania non è sempre limpido e le strategie di comunicazione discutibili. Drosten ha inizialmente esitato a raccomandare la chiusura delle scuole, è stato criticato, poi ha preso quel partito lì. Essendo il consulente principale del governo e molto esposto mediaticamente, è cauto e non tornerà indietro tanto velocemente. Il mio invito è a restare critici sulla Germania e non farne un’altra Sv**** (non l’ho pronunciata!) nel dibattito.
Io ho non ho “hard data” ma solo aneddoti al riguardo. In più la Germania è un caso particolare perchè come per la gran parte della gestione dell’epidemia anche le decisioni riguardo l’istruzione sono demandate ai singoli Laender.
A Berlino per quanto so io alcune scuole hanno già riaperto ma si tratta principalmente di istituti di istruzione superiore (ma non le università), e ogni scuola può decidere in autonomia. Anche in Baviera stanno riaprendo le scuole a partire dalle classi coi ragazzi più grandi e via via a scalare verso le classi più giovani. Parlando con colleghe/i con figli, sembra che l’apertura di materne e asili nido sia ancora in discussione – credo che la ratio sia di permettere agli studenti delle secondarie di finire l’anno in classe e che più gli studenti sono maturi più sono in grado di stare attenti a mettere in atto i comportamenti necessari a contenere potenziali contagi (che qui descrivono con l’acronimo AHA – in ordine di importanza Abstand (distanza) Hygene (Igene) Alltagsmaske (mascherina per uso quotidiano)).
Tuttavia per quanto ne so nel dibattito pubblico la questione scuole e asili nido è stata presente fin dalle prime settimane di lockdown. Mentre in italia si invocavano i lanciafiamme contro i runner, qui alcuni giornali intervistavano sociologhe/i e demografe/i che discutevano di quanto chiudere tutte le scuole sarebbe stato problematico per i bambini e le famiglie, specialmente per l’occupazione femminile, in quanto le madri sarebbero state costrette a restare a casa coi figli – la Germania è molto conservatrice da questo punto di vista, specialmente a ovest. Quindi la questione è sempre stata presente nel dibattito anche se forse non esclusivamente centrata sui minori.
È un documento importante, in cui 10 autori, secondo la propria interpretazione dello stato delle conoscenze, chiedono l’apertura immediata e senza restrizioni di asili nido, scuole materne e scuole.
Leggendolo ho pensato alle vostre analisi nei due post DAD e bambini scomparsi per decreto. Forse era meglio commentare sotto a quei post, ma ero indecisa e alla fine ho optato per il post più recente.
Se ho sbagliato qui finisce il mio errore.
Vogliate in caso spostare questo intervento nella discussione più adeguata.
P.S Ho suddiviso male le battute e ora, dopo un commento lunghissimo mi ritrovo a non raggiungere le 550 battute.
Ad maiora
Non capisco perché richiamare ad un documento che tanto quasi nessuno qui può interpretare visto che è in tedesco. Potrà pure essere importante, sempre in base al tuo personale giudizio e riassunto, che quindi è inficiato dal tuo pensiero a riguardo e quindi non può essere considerato attendibile, ma l’Italia ha dinamiche diverse da quelle tedesche, anche nelle scuole.
Cercare appigli in altri Stati per validare ipotesi nel nostro non ha molta logica.
Non penso che in Italia ci siano le premesse per riaprire le scuole immediatamente senza correre il rischio di far tornare a crescere la curva dei contagi. In Italia non hanno le stesse capacità o forse gli stessi interessi di sorveglianza sanitaria nelle scuole.
Quindi sì, secondo me sei in errore ed è meglio che finisca qui.
Giovenale, non sei a casa tua. Lascia che il blog lo gestiscano quelli che si fanno il mazzo su queste pagine non stop da due mesi e che sono responsabili di cosa ci viene scritto e della moderazione del dibattito. E quelli siamo noi.
È già la seconda sbruffonata. Alla terza ti accompagniamo alla porta.
Però è fantastico. Si riporta – in concordanza sostanziale con quanto si sa – che:
– “dati di modelli, analisi delle epidemie, che bambini e adolescenti non sono la forza trainante dell’epidemia”;
– “i bambini e gli adolescenti sono a) meno frequentemente infettati, b) meno spesso gravemente malati in caso di infezione e c) a parte alcuni casi isolati, non a rischio di morte;
– “essi infettano anche significativamente meno altre persone”
– “l’ulteriore chiusura di asili e scuole, così come la riapertura ritardata, non ha alcuna relazione con le notevoli conseguenze sociali per i bambini, i genitori e la società.
– “l’importanza delle chiusure scolastiche e di asili nido sulla dinamica dell’ulteriore diffusione delle infezioni sia bassa.”
E qual è la replica? Qui in Italia è diverso. Così, senza uno straccio di ragionamento, dato, appiglio. E quindi non ci sono le condizioni. E persino col dubbio che poi chissà se quel documento dice davvero questo. (sì, lo dice, la prossima volta basta google translate)
Per carità si può essere in disaccordo, ci mancherebbe ma boh, in che modo la discussione è stata agevolata?
Giovenale si è montato la testa e pensa di poter spadroneggiare e fare il bullo con gli interlocutori, anzi, con le interlocutrici (Mojo e DigitalePurpurea). Nostro dovere di Admin è fargli capire, in un modo o nell’altro, che si sbaglia di grosso.
Fortunatamente leggo il tuo commento solo ora e gli altri compagni ti hanno già messo a sedere, altrimenti ti avrei risposto in malo modo.
Il documento lo trovo utile proprio per confrontare il metodo di Germania e Italia per quanto riguarda la scuola, non per validare ipotesi (poi quali ipotesi? Di che stai parlando?) Quelli riportati sono dati che potevi andare a cercare per conto tuo e verificare prima di mettere in dubbio la mia onestà. Come ti suggerisce robydoc bastava anche un traduttore online e forse ti seresti evitato la figura dello sbruffone.
Una volta mi hanno accusata di usare la scienza come un randello, dovresti vedere come uso una spranga!
Che seccatura. Ma non riesci proprio ad abbassare i toni? Addirittura minacciare di usare una spranga. Per così poco. Per quanto riguarda me, la volta precedente,non ti ho nominata semplicemente per non ‘personalizzare” la mia osservazione in maniera eccessiva ( visto e considerato che il post era già stato chiuso e anche i commenti, ma quello che pensavo mi era rimasto sulla punta della lingua) ma tu hai preso immediatamente fuoco, sentendoti chiamata in causa. Ne avevi motivo. Devi sapere, però, che questo tipo di minacce,in generale, non sono credibili. Chi fa tante chiacchiere non passa mai ai fatti. Il ricorso anche verbale alla violenza fisica è il retaggio di una cultura machista, da cui tutti dovremmo disintossicarci. L’unico effetto che sortisce è di tipo caricaturale, gonfiarsi a dismisura per mostrarsi più grossi di quanto non si sia. Per mettere paura a qualcuno non c’è bisogno di alcun effetto pirotecnico o teatrale. Detto questo, trovo molto interessante la tua traduzione dell’ articolo dal tedesco, perché tocca una questione di vitale importanza: la riapertura delle scuole. E sapere come un paese limitrofo pianifica la riapertura delle scuole e che tipo di dibattito si formi intorno a questo argomento è enormemente utile. Adesso prima di rispondere ( ma puoi anche evitare), conta fino a cento.
Uno, due, tre… Novantasette, novantotto, novantanove, cento!
Ciao filo a piombo, vedo che anche stavolta non hai parole tenere nei miei confronti e che non siamo d’accordo sul concetto di violenza.
Mi sembra tu tenda a criticare la violenza in toto. Io penso invece ci sia una “violenza giusta”, una violenza necessaria.
Il mio alludere alla violenza fisica era invece proprio intesa a rispondere ad una cultura machista che avevo intravisto nel commento di Giovenale.
“Dovrei vergognarmi, e invece devo constatare che, date le circostanze che mi riducono a questo – a ragionare coi pugni – provo una vera soddisfazione: finalmente il nemico ha mostrato la sua faccia, e gliel’ho riempita di schiaffi, com’era mio sacrosanto diritto.”
Ok… nella risposta a Giovenale hai tirato di nuovo fuori la questione della scienza utilizzata come randello, evocandomi. Purtroppo. È una cosa che non hai digerito e che continui a rimuginare nell’ intento di accendere una ” rissa”. Passare dal randello alla spranga per “minacciare” qualcuno è una operazione molto molto disonesta. Non hai motivo di essere così piccata e di inserire nessuno in un commento in cui ti fregi di sapere utilizzare una spranga… Nei fatti stai dimostrando l’esatto contrario. Chi ha abitudine al conflitto, quello reale e non quello virtuale, pesa molto bene le parole che dice. Tu sei il classico tipo che si spaventa se qualcuno di sorpresa gli fa ‘buh’. Altrimenti non avresti bisogno di strepitare tanto. Non mi addentro in una disputa sulla violenza machista e sull’ autodifesa dei compagni che può ricorrere alla violenza. Sono chiacchiere da bar. Devi solo sapere che chi conosce bene la violenza, la sa distinguere dalla rabbia giustificata e motivata che può sfociare in violenza, dalla violenza machista ( un sistema strutturato di oppressione) e dalla frustrazione da sbruffocelli, tra parentesi, non hai riempito la faccia di schiaffi a nessuno. Neanche metaforicamente. Però stai attenta alle parole che usi. In ogni caso, can che abbaia non morde.
Per favore, il mio compadre Wu Ming 4 ha già fatto una mozione d’ordine, per evitare i toni aggressivi. Io stesso, in un altro scambio, ho fatto notare a DigitalePurpurea che poteva evitare di definire “inutile” un commento. Allo stesso modo, chiedo a Filo a Piombo di evitare deduzioni su che “tipo” sia DigitalePurpurea, su come reagirebbe a chi le fa “buh”, definendo il suo intervento uno “strepitare”. Evitiamo anche l’obbligo di avere l’ultima parola, non ce n’è bisogno. Invito DigitalePurpurea a non ribattere, Filo a Piombo a non insistere, e tutte quanti a favorire l’ecologia del dibattito.
Suvvia! Non ho fatto in tempo a ringraziarti per l’articolo che hai linkato e per averne fatto un sunto ( prezioso per me che non conosco il tedesco e non avevo voglia di usare google translate) e poi mi trovo ad immaginarti che fai roteare una spranga! Il punto esclamativo in finale in luogo di un secco punto ( e basta) mi fa pensare ad un sotteso ironico. Voglio sperare. Perché Giovenale è stato sgarbato e arrogante e difatti è stato rimesso in riga da chi ha la potestà per farlo, però incendiarsi così per ogni sbruffoncello che si incontra e soprattutto evocare un oggetto così brutto…mi hai fatto pensare si manganelli etc. etc. Avessi minacciato di usare il mattarello sarebbe stato più appropriato. So che non c’èntra nulla con il merito della discussione, ma poichè dai l’idea di essere parecchio vispa e competente nel tuo campo, arricchiscici con questi strumenti, non con le tue qualità da Kill Bill!
Allora, mozione d’ordine: sforziamoci tutti e tutte di evitare toni aggressivi, di evocare spranghe metaforiche, mattarelli, ecc. Non ce n’è bisogno. Ci sono tre tizi che – mentre provano a vivere nelle condizioni date e con tutti i loro limiti – si occupano di vigilare l’andamento delle discussioni su questo blog. Lasciatecelo fare, per favore, ed evitate per quanto è possibile di renderci il compito più difficile. Grazie.
Recepito! Mi ritiro, però ti prego non mettere sullo stesso piano la spranga ed il mattarello. Perché il potere evocativo dell’una è ben diverso da quella dell’altro. E il mio riferimento voleva essere la cornice di una scena divertente ed innocua, non certo una incitazione alla violenza, che può essere esercitata con qualunque oggetto e/o verbo- certo- ma un conto é mia mamma che mi urla contro mentre fa i ravioli, un conto è il militante di quella roba che inizia con la C… capisco che non dobbiamo intavolare battibecchi che trascendono i contenuti del thread e rispettare la vostra immane opera, però ogni tanto scappa.
Ad ogni modo scusate. Amici come prima.
Ben venga ogni contributo come quello apportato da DigitalePurpurea che si è pure scomodata a tradurre. Trovo utilissimo carpire informazioni sull’approccio degli altri Paesi nei riguardi del tema “ scuola” dato che qui, complice una titolare di Dicastero a dir poco imbarazzante, pare essere in fondo alla lista delle priorità. Difatti personaggi come Renzi e Salvini si stanno appropriando, a modo loro ( quindi capzioso) di questo argomento. Inoltre, ma questa è una considerazione molto “ basic”, ho tanti amici insegnanti ed una carissima in particolare e mi ha spiegato che tutti i suoi alunni stanno regolarmente “ spuntinando” ( non so se questo espressine si usi ovunque) in comitiva in appartamenti, orti e cantine ( e si intende che avrei fatto lo stesso al loro posto). Certo, non é questa la motivazione per cui le scuole debbano aprire, semplicemente mi pare illusorio pensare che gli adolescenti non di incontrino tra loro e abbiano contatti stretti. Questo stigma per cui sarebbero addirittura colpevoli di “uccidere” i nonni dovrebbe essere fondato su più solide basi scientifiche e non essere buttato qua e lá come argomentazione definitiva. Senza contare che i modi per proteggere gli anziani della famiglia esistono.
Sulla (mancata) riapertura delle scuole segnalo questo:
https://ilmanifesto.it/i-bambini-esclusi-ci-e-stato-chiesto-di-concentrarci-sulleconomia/
“Ma a noi è stato chiesto esplicitamente di concentrarci sul mondo economico: la priorità era quella. Forse era possibile decidere di anticipare la riapertura di scuole primarie e dell’infazia. Sono convinto che i bambini non siano i principali canali di trasmissione dell’epidemia: sono meno suscettibili, hanno sintomi moderati, probabilmente trasmettono il virus meno dei sintomatici. Il problema è che riaprendo le scuole si riduce il margine di manovra per gli altri settori economici. Il famoso indice R0 dipende da tante componenti. Se ci si pone l’obiettivo di rimanere sotto il valore 1 servono scelte politiche, non scientifiche.”
Vorrei provare a riconnettere il tema scuola a quello del post, cioè “lancia-e-scudo”.
Durante la fase 1, noialtri ci siamo sentiti accusare di volere la riapertura delle scuole in barba ai morti (l’argomento “Ma ci sono i morti…” che impedisce ogni articolazione del discorso). Questo perché abbiamo parlato a più riprese del fatto che la DAD è un surrogato di didattica, della sofferenza di bambini e adolescenti, di diritto all’istruzione negato, ecc. Per noi è sempre stato evidente che il diritto all’istruzione, uno dei tanti diritti sospesi in via emergenziale, non dovesse essere contrapposto a quello alla salute, ma che servisse uno sguardo “olistico”. Per non cadere nella trappola era ed è necessario partire dal presupposto che la chiusura delle scuole è stato un provvedimento necessario per rallentare i contagi se non altro fuori dalle pareti domestiche, e nondimeno che questa scelta obbligata ponesse immediatamente un problema di prospettiva.
La fase 2 ci conferma che quella preoccupazione “prospettica” era più che fondata. Infatti ci troviamo di fronte a un paradosso esemplificativo dell’approccio italiano alla scuola prima ancora che alla pandemia: riapre tutto eccetto le scuole. Dice: be’, tanto ormai l’anno scolastico è finito… A parte il fatto che, emergenza per emergenza, si sarebbe anche potuto prolungarlo per fare almeno qualche esperimento in previsione di settembre, il punto è cosa si è escogitato o si sta escogitando in questi sei lunghi mesi, per ripristinare il diritto all’istruzione nelle fasi successive (mentre l’università ha già annunciato che fino a gennaio 2021 proseguirà in DAD).
Al momento abbiamo riaperto le fabbriche, i bar, i parrucchieri; abbiamo stabilito come stare sui mezzi pubblici; stiamo programmando perfino come andare in spiaggia questa estate. Ma di come rientrare a scuola a settembre si sa poco o niente, è un problema percepito evidentemente come secondario. Credo c’entri anche il fatto che questo è un paese anziano e a bassissima natalità. Sta di fatto che fin dall’inizio di questa storia, i giovanissimi sono stati chiusi in un angolo (domestico) e dimenticati, anzi, evocati solo per colpevolizzarli. Lo stesso accade in questa fase 2, in cui la colpa dell’eventuale riapparizione di focolai ha il capro espiatorio preventivo nei giovani che si “assembrano”, mentre le fabbriche lombarde hanno ripreso a pieno regime. Il giochino ha funzionato a marzo-aprile, perché non dovrebbe funzionare anche adesso? Confindustria può dormire sonni tranquilli.
Le scuole italiane sono vecchie, fatiscenti, carenti di personale, sovraffollate, ecc. Non sarebbe potuta essere questa crisi l’occasione buona per affrontare di petto l’annoso problema? Se non ora quando? Il fatto che non succeda è un dato indicativo. Il rischio grosso è che la pandemia, dopo avere fatto decine di migliaia di morti, dia il colpo di grazia anche alla scuola pubblica, ovvero che quelle decine di migliaia di morti diventino il “fatalistico” fardello davanti al quale tutto si potrà giustificare. Se a settembre non si ripartirà con la didattica normale, non è difficile prevedere che anche i più convinti “pubblicisti” inizieranno a perdersi d’animo e a buttare l’occhio verso la paritaria più vicina, che magari avrà trovato soluzioni migliori. È un ragionamento analogo a quello che si sente fare sulla sanità pubblica, ma, appunto, sulla scuola il governo tace. Il “socialismo di guerra” dei mesi scorsi può tirare facilmente la volata a un ulteriore salto di qualità verso modelli sanitari e scolastici liberisti. Ripeto: per l’università la DAD rappresenterà precisamente questo.
Solo uno sguardo olistico potrà evitarci di ricadere nel paradosso della lancia e dello scudo consentendoci di affrontare i prossimi mesi con la lucidità necessaria a cotrastare il fallout della pandemia e dell’emergenza.
Aggiungo solo che lo sguardo olistico consiste anche nel guardare il problema dal punto di vista dei suoi tanti protagonisti diretti: non solo quindi genitori e studenti, ma anche insegnanti e personale scolastico. Non a caso, sulla DAD abbiamo ospitato un post scritto da maestri e professoresse. Dove i limiti di quel modello sono inquadrati anche dalla loro prospettiva. Che non consiste soltanto nel dire che la Didattica a Distanza non è buona didattica, è classista e in buona sostanza incostituzionale, ma anche nel dire che è un pessimo modo di lavorare. Perchè dall’esterno può sembrare che sia una bazza, per la prof, non andare in classe e far tutto da casa. E ci saranno anche casi di insegnanti che “se ne sono approfittati”, così come da sempre esiste chi “si approfitta” dello Stato sociale, i finti invalidi e le welfare queen. Ma il singolo aneddoto non può diventare stereotipo narrativo. Partendo dal presupposto che un insegnante voglia far bene il suo mestiere, la DAD si trasforma in un ricatto che lo costringe a lavorare di più, con più stress, senza orari, con mille problemi da risolvere, con strumenti tecnologici che si deve pagare… Quindi, sempre tenendo fermo il diritto alla salute e la tutela di soggetti a rischio (i docenti più anziani), qua bisogna mettersi insieme tra genitori, studenti e insegnanti per trovare una soluzione praticabile e forme di lotta per farla emergere, perché a ben pochi – in questo momento, e pure da prima – frega un piffero dell’istruzione pubblica e gratuita. E nessuno sembra volerla garantire.
Concordo con te su tutta la linea. È necessario uno sguardo olistico per non precipitare nel dualismo tra quale diritto sia più importante: salute o istruzione.
Aggiungerei alla tua riflessione sull’Italia paese anziano e a bassissima natalità, che proprio l’anzianità del corpo docente nelle nostre scuole, è stata utilizzata come scudo alle critiche sulla mancata riapertura: i docenti sono mediamente anziani e per loro il rischio di infettarsi è concreto.
Una criticità del sistema scolastico che non viene affrontata nel suo essere problematica, ma viene utilizzata come motivazione per giustificare la chiusura a data da destinarsi.
La necessità di assumere personale, di creare classi più piccole (per numero di alunn*, non per metratura!), di creare orari differenziati, non sono invece pervenute…
“Il rischio grosso è che la pandemia, dopo avere fatto decine di migliaia di morti, dia il colpo di grazia anche alla scuola pubblica, ovvero che quelle decine di migliaia di morti diventino il ‘fatalistico’ fardello davanti al quale tutto si potrà giustificare.”
Non solo. La pandemia darà il colpo di grazia anche alla sanità pubblica (paradossalmente), al sistema pensionistico (altro paradosso) e al mondo del lavoro, con forme para-schiavistiche che si mangeranno quel poco che ancora si salvava (vedi il discorso agghiacciante di Bonomi sulla necessità di calcolare il salario in base ai “risultati” e non alle ore lavorate).
Il confronto con il sistema tedesco è utile, perché aiuta a capire quello che si sta sbagliando qui (e la lista è lunga e preoccupante). Ma teniamo anche presente che non solo quello italiano e quello tedesco sono due sistemi differenti, ma che anche non stanno assolutamente sullo stesso piano se si considerano gli equilibri di potere in Europa. Non c’è un rapporto diretto di causa-effetto tra la relativa “bontà” di un sistema e la palese inadeguatezza dell’altro (la storia è più complicata di così) ma non credo di dire nulla di nuovo se faccio presente che, in queste condizioni, se anche noi volessimo migliorare il nostro sistema non ne avremmo la possibilità reale, per via di politiche di bilancio restrittive che sono gli stessi paesi nordeuropei, sia pure con gradazioni diverse e relative aperture, ad imporci.
Il caos gestionale è il frutto di una mancanza di strategia da parte delle forze politiche al governo. Ma altri soggetti una strategia ce l’hanno eccome, ed è quella di attaccare le riserve di risparmio che ancora sopravvivono nel nostro paese e che negli ultimi 10 anni hanno in parte ammortizzato le conseguenze della crisi. Era il mantra dei teorici dell'”austerità espansiva” già nel 2010.
Non stupiamoci allora se non ci sono piani credibili per scuola, sanità e lavoro (o piani che non siano inadeguati, pericolosi o spaventosi) mentre si riaprono bar, parrucchieri e spiagge e c’è tanta insistenza sul fatto di “fare le vacanze in Italia”. Il punto qui non è fare un passo avanti, ma tirare a campare preservando l’esistente grazie alla mobilizzazione delle riserve di risparmio, in attesa di riforme ancora più draconiane.
Sono tornato da poco dalla manifestazione «Priorità alla scuola» in Piazza Maggiore.
In città l’aria è tornata a odorare di scappamenti, ma in piazza si è respirato ossigeno puro: hanno parlato docenti, educatrici ed educatori, genitori, studentesse e studenti, bambine e bambini, comitati (c’era Scuola e Costituzione), coordinamenti (c’era la Rete BESSA), organizzazioni sindacali (ho sentito gi interventi di FLC-CGIL, Cobas, USB). Dopo questi mesi di atomizzazione, la piazza di nuovo piena di corpi ha subito sollevato l’umore di tutte e tutti, nonostante l’incazzatura che ci portava lì.
Interventi a valanga e durissimi contro il governo, che
– parla e straparla di tutto ma su ragazze e ragazzi, sul «vuoto esistenziale» che la chiusura delle scuola ha prodotto dice poco e niente, e quando parla di scuola non lo fa certo col focus sul diritto allo studio e a una didattica fatta anche di relazioni;
– spende in ogni settore, rovescia miliardi nei forzieri di FCA ma alla scuola riserva briciole;
– non ha ancora nessun piano per riaprire a settembre, a parte mantenere la DAD, che invece – nonostante i generosi sforzi di molte/i insegnanti – è stata un disastro, su questo tutti gli insegnanti intervenuti e anche gli studenti e persino bambine/i di una quinta elementare hanno avuto parole di fuoco: la DAD fa schifo a tutti;
– ha consegnato la vita scolastica – milioni di lezioni al giorno e migliaia di riunioni di organi collegiali alla settimana – a colossi multinazionali come Google e Microsoft, che dall’uso delle loro piattaforme traggono profitti, senza alcuna trasparenza sull’utilizzo di dati estratti soprattutto a minori;
– non si preoccupa delle diseguaglianze ed esclusioni aggravate dalla DAD e della dispersione scolastica aumentata a dismisura, un cartello diceva «DAD = Didattica Anti Democratica»;
– ha imposto i voti e la valutazione di fine d’anno nonostante le condizioni improbe in cui si è portato avanti quello che era solo un surrogato (parola usata più volte) di didattica, di fatto non valutabile.
Molte proposte su come ripartire: più classi e meno numerose (e sarebbe un modo di non tornare allo status quo ante, che rendeva difficilissimo insegnare e imparare); assunzione di più insegnanti e personale ATA, no all’ennesimo ricorso al precariato, utilizzo di altri spazi cittadini come teatri, cinema, parchi (finché la stagione lo permetterà).
In diversi interventi, una critica netta dell’emergenza come strumento di governo, come pretesto per imporre cose che si volevano già imporre (varie ricette neoliberali sulla scuola), per imporre dei precedenti mentre non si poteva scendere in piazza. Quest’ultimo punto è stato toccato più volte: le scuole vanno riaperte anche perché chi ci lavora possa ritrovare uno spazio di collaborazione e confronto non solo virtuale, una sfera d’azione collettiva.
Distanze di sicurezza, mascherine quando si stava vicini, ma nessun discorso “virocentrico”, nessun clima di paura. Una spinta dal basso, per una riapertura non motivata dal profitto ma dalla volontà di far valere il diritto allo studio, di riconquistare la socialità, di lottare per fermare le brutte derive che la scuola ha preso da troppo tempo.
Ci si è ridati appuntamento per il 6 giugno, ultimo giorno di scuola, per una mobilitazione che dev’essere la più vasta possibile.
Anche solo leggere certi racconti in questo periodo è ossigeno.
Le manifestazioni sono necessarie e urgenti. Lo stato di emergenza coinvolge le masse: anzi, soprattutto le masse. E queste stesse masse possono fare la differenza nel prossimo futuro.
Le lotte della scuola si possono unire a quelle della sanità e a quelle degli ambiti produttivi.
La riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario è necessaria.
Il clima tornerà un tema centrale (FFF e mondo della scuola insieme).
Forse è presto per dirlo, ma si prospetta uno scenario di lotte, una nuova stagione di manifestazioni.
Bisognerà lottare.
Oggi pomeriggio anche io in piazza ho respirato ossigeno puro: discorsi lucidi, logici, pragmatici.
Chi ha subito la DAD, alunni, insegnanti e genitori, non usa mezzi termini né immagina soluzioni miste a settembre.
Mi è sembrato che tutti concordassero sul fatto che la DAD, semplicemente, non è una didattica degna di questo nome.
Diversi interventi hanno sottolineato che le relazioni sociali ed il confronto sono aspetti imprescindibili dell’insegnamento.
Una ragazza dell’ultimo anno di liceo ha ben riassunto il concetto dicendo che si impara anche quando si discute al bar, con i compagni, delle lezioni svolte.
Un’altro aspetto fondamentale, come ben evidenziato da WM1, è che la piazza urlava forte che è necessario lottare per una scuola diversa da com’era prima.
La narrazione ufficiale di questa emergenza offre al mondo della scuola almeno tre diverse opportunità servite su un piatto d’argento:
– classi meno numerose, con conseguente, immediato aumento del numero di insegnanti;
– un generale ripensamento degli spazi scolastici, con la possibilità di utilizzare luoghi diversi, spazi pubblici e all’aperto;
– una riflessione seria sul senso e sul metodo della valutazione numerica.
Come ha scritto DigialePurpurea nel commento sotto, “le lotte della scuola si possono unire a quelle della sanità” e, in generale possono assumere centralità in molte delle lotte a venire.
Io, personalmente, dopo essere stato in piazza oggi mi sento parecchio meglio.
Magari il 6 giugno piazza Maggiore non sarà sufficiente per contenere tutti!
Manifestazione secondo me molto ben riuscita.
Un sacco di contraddizioni in campo, ma sarebbe stato strano non ci fossero. Finalmente si parla e lo si fa fra tante persone. Questo sembrava un’utopia pre-covid, ora si fa e l’azione si carica di un’ulteriore valenza: è liberazione, è sprigionamento di energia.
A fine incontro ho parlato con una donna che mi diceva: “Ci vuole uno sciopero dei genitori perché impediscano ai figli di partecipare un giorno a questa DAD”. La voglia di fare qualcosa contro le politiche del governo c’è, non sprechiamo questa occasione.
Sono intervenute tante persone, anche studentesse, che avevano addosso una carogna infinita non solo per le politiche del governo, ma anche per le pretese assurde di alcuni insegnanti. Da un giorno all’altro si è dovuto inventare qualcosa che non c’era, che non può funzionare anche solo perché non ci sono le competenze e che però il Governo spaccia come un gran risultato.
Tutto ci dice il Governo non vede in maniera del tutto negativa quanto sta avvenendo. La Dad per alcuni è fonte di guadagno, per lo Stato può essere un bel colpo: è controllabile, grazie al formato “invalsi” è anche più “valutabile”, forse in tendenza può far spendere meno…
Negli interventi di oggi, invece, tutt@ avevano ben chiaro che questa non è didattica. E moltissim@ avevano chiaro che i problemi della scuola che ci sono vengono da problemi precedenti.
L’intervento della Rete Bessa ha chiarito che senza relazione non c’è didattica. La classe è un luogo fondamentale per le relazioni tra student@ e insegnanti, ma anche, e forse soprattutto, come diceva una studentessa, tra student@ e student@.
Anche la cura della presa di parola politica per me è stata importantissima. Le indicazioni erano chiare: distanze di sicurezza e mascherina. Ad ogni intervento veniva cambiato il panno sul microfono . Se questa è la condizione attuale per fare manifestazione, perché tutt@ si sentano in sicurezza me l’accollo. Non so se mi andrà sempre, ma in questi piccoli gesti ho visto una gran cura collettiva.
La manif del 6 in realtà è tutta da costruire. Bene si sia detto. Bene la manifestazione dei braccianti dell’altro giorno. Bene uscire da casa per un’urgenza politica. Bene superare la paura e farlo tutt@ insieme.
https://archive.is/59Zh0
La vicenda della didattica e delle omissioni nei confronti di alunni e docenti sta assumendo contorni scandalosi.
Dimostriamo ancora una volta grande arretratezza culturale e scarsa lungimiranza, tant’è che la scuola pare essere l’ultimo punto dell’agenda governativa. E molti ( v. Salvini) ne parlano solo in termini di “ dove stanno i bambini mentre i genitori sono a lavoro?” Non funziona così. Potrebbero esserci anche orde di tate retribuite dallo Stato, ma non sarebbe la soluzione.
Parlo anche da madre di una ragazza di 18 anni. Sarà che lo scarto generazionale tra noi è proprio minimo però mi sembra ieri che affrontavo l’esame di maturità ed assistere impotente alla terrificante gestione di questo aspetto mi getta nello sconforto. Temo che mia figlia sia stata privata di una opportunità e della possibilità di aggiungere un tassello fondamentale al
suo percorso formativo non solo scolastico, ma anche umano.
A proposito della prospettiva olistica (o come meglio preferisco dire, un modo di pensare dialettico che risolve le dicotomie con una “sintesi in avanti”, come dice Wu Ming 1, o come retrocessione all’unità originaria, nel senso di “ablatio alteritatis” come dicevano i mistici tedeschi) a me pare che trattasi di un modo di pensare che consente innanzitutto di criticare ciò che viene affermato come certo, giusto, utile, ecc., ci consente di vedere i limiti, i presupposti e quindi anche le sottotracce, per così dire, ci consente cioè il pensiero critico, ma non riesce a trasformarsi in azione. L’unità, cioè, non è mai realizzabile: ogni volta che determiniamo in una scelta il nostro pensiero lo inseriamo inevitabilmente nella dualità che costituisce l’essenza di noi esseri finiti. Possiamo solo tenere la prospettiva olistica come ideale limite a cui avvicinarci, e quindi correggere di volta in volta le determinazioni parziali dicotomizzanti, ma non possiamo e non dobbiamo mai ritenere che la determinazione che stiamo attuando sia la verità, sia la giustizia. Dobbiamo cioè mantenere anche verso le nostre idee lo spirito critico, ed evitare di credere di poter raggiungere qui “in terra” l’assoluto. Non si tratta né di relativismo, e neppure di teologismo, ma di consapevolezza dei nostri limiti. In altri termini è solo il “sapere di non sapere”socratico che può consentirci di uscire dal dualismo compiaciuto in cui si è infilata la cultura occidentale.
Andiamo di sicuro OT, però lo trovo un argomento affascinante, anche in relazione al post sull’ammalarsi di paura. Tu dici: “L’unità non è mai realizzabile” – affermazione prfonda, che meriterebbe molte parole, ma sulla quale mi trovo d’accordo, se intendo bene quel che vuoi dire. E se lo intendo bene, non mi pare che da quella impossibilità discenda la necessità di “inserire il nostro pensiero nella dualità”. Perché – in un’ottica appunto non-dualista – l’alternativa all’Uno non è per forza il Due, ma i Molti. La prospettiva olistica non si risolve in una riduzione all’uno – altrimenti sarebbe olistico anche il riduzionismo, e questo mi pare contraddittorio. L’approccio olistico cerca di preservare la complessità, ben sapendo che il troppo complesso non è comprensibile e che il troppo semplice non è utile. Ma questo problema, secondo me, non è il problema di trovare la scala giusta della mappa (né 1:1 , né 1 a un milione) bensì di modificare alla radice l’idea stessa della conoscenza come mappa. Ma qui mi fermo, perché davvero, senza mappa, rischiamo di andare molto lontano.
Sono totalmente d’accordo con te, Wu Ming 2. E forse siamo già OT. Volevo solo riprendere quel tuo passaggio in cui dici:
l’alternativa all’Uno non è per forza il Due, ma i Molti.
Questo tuo passaggio è fondamentale, io me lo rendo intelligibile pensandolo in questi termini: l’io non è per forza una unità che si contrappone ad un’altra unità, ma trova il suo senso nel “noi”. Il noi non è altro dall’io ma è l’io che ha trovato la sua propria essenza. Il noi arricchisce l’io. Ma il grande nemico del noi, è proprio l’io stesso che dualizza tutto. Non certo per necessità, hai totalmente ragione, ma di fatto accade, avviene sempre (un sempre storico) che il noi si rompa a causa dell’io.
Il noi si rompe a causa dell’io, e il Molti può rompersi a causa del noi, quando il “noi” è soltanto una prima persona plurale, che funziona allo stesso modo dell’io, per garantire un’identità. “Noi italiani”, per esempio. Il nazionalismo è un noi che vorrebbe dare un senso all’io, allargandolo, ma alla fine si basa sullo stesso principio: un’unità che si contrappone a un’altra unità. Per non distruggere il Molti, bisognerebbe saper stare insieme senza appartenere. Oltre l’identità.
Nel mondo animale, soprattutto in alcuni gruppi, il concetto di “io” esiste in termini di soggettività ma non in termini di individualismo, mentre esistono il concetto di “noi” e “molti”. Il concetto di ” noi” esiste in relazione ad interessi di gruppo e quello di ” molti” può essere in contrapposizione con il “noi” o in equilibrio di specie ( cioè quando non esiste “conflitto di interessi”). La coesione sociale si fonda sul noi e sul riconoscimento di interessi comuni. Per i cani, il noi è una forma mentis, legata ad un concetto di sopravvivenza e di convivenza. La forza del gruppo si ottiene trasformando la competizione e il possesso in collaborazione: cioè in interesse comune. Quello che ci distingue dagli animali sono le pulsioni individualiste, cioè quelle che minano la coesione, quindi la sopravvivenza e quindi la difesa di interessi di classe. Scusate, ho contribuito ad andare OT.
*Arrivano gli assistenti civici, 60 mila volontari per vigilare sulla Fase 2*
Pare saranno reclutati tra gli inoccupati e i disoccupati che usufruiscono di ammortizzatori sociali, compreso ovviamente il reddito di cittadinanza, che proprio non gli va giù a questi. Gravissimo vulnus ai principi dell’economia di mercato. Ma ha anche dei difetti, verrebbe da dire.
Quindi, intanto mi sembra che saranno volontari fino a un certo punto, perché sottoposti a un ricatto morale e non solo. Anche se non dubito che là fuori sia pieno di “vecchi drughi” che non vedono l’ora di riciclarsi come poliziotti, come dicono Dim e Georgie al buon vecchio Alex, mentre gli tengono la testa sott’acqua nell’abbeveratoio e lo riempiono di manganellate.
Nessun piano, esattamente come tre mesi fa. Si riapre a cazzo esattamente come si era chiuso. Sappiamo molto di più sul virus, ma ancora praticamente niente sulla sua reale diffusione in Italia. E pensiamo di risolvere il problema con un esercito di rompipalle e spioni. Tanto fa caldo, e se butta male casomai si richiude.
Fascinating…
Segnalo quest’articolo:
Perché in Italia si muore sempre meno di coronavirus?
(su Internazionale, che riprende il pezzo da Scienza in Rete)
In sintesi: il virus ha fatto strage soprattutto in Lombardia e soprattutto tra persone anziane e con co-morbilità, per via delle condizioni in cui si era ritrovata la sanità lombarda e per un concatenamento di errori diagnostici e procedurali dovuti a quelle condizioni e all’effetto-sorpresa.
Oggi la mortalità è dieci volte più bassa rispetto a marzo, e questo – aggiungo io – nonostante tutti siano ormai tornati a circolare e a vivere gli spazi pubblici, con attenzione ma senza più paranoie, facendo quello che soltanto un mese fa era demonizzato. Com’è possibile?
Secondo l’articolo, si spiega così: i soggetti più a rischio sono più consapevoli e tutelati, le procedure sanitarie sono più appropriate e la carica infettante media, che era schizzata alle stelle per via della “superdiffusione” dovuta alle infezioni ospedaliere, è ora calata a livelli bassissimi.
Il quadro che emerge è coerente con molte delle cose scritte qui su Giap negli ultimi tre mesi.
Nell’articolo resta implicito, ma possiamo esplicitarlo noi: la demonizzazione dell’aria aperta e la conseguente caccia all’untore portate avanti da media e politici nel periodo marzo-aprile non c’entravano nulla con le reali dinamiche del contagio e dei decessi. Questi ultimi sono dipesi principalmente dalle infezioni in ospedali e altre strutture sanitarie.
La demonizzazione, la titolazione terroristica tipo «il virus è nell’aria», la caccia all’untore e al “furbetto” hanno distolto l’attenzione, avvelenato il clima e causato sofferenze soprattutto ai più deboli.
Per avere scritto questo “troppo in anticipo”, noi ci siamo beccati valanghe di insulti e ci siamo sentiti chiamare “negazionisti del virus”.
La nostra comunicazione negli ultimi tre mesi non è stata esente da sbavature, passaggi frettolosi, sottostime e sovrastime, come quella di tutte e tutti. Analizzare in tempo reale, fare “storia del presente” espone a rischi. C’era, ad esempio, chi faceva stime apocalittiche, rivelatesi del tutto sballate, anche nel caso il lockdown avesse funzionato. C’era chi vaticinava un indefinito #stareincasa, città deserte per chissà quanti anni ecc.
Noi quando abbiamo fatto un passo falso e un ruzzolone, lo abbiamo riconosciuto e abbiamo chiesto scusa. Qualcuno chiederà scusa a noi e alla comunità che ha discusso su questo blog per le caricature da social delle nostre posizioni, per gli insulti e le etichette sballate, per le accuse di «fregarsene dei morti» e voler far morire gli anziani, di voler difendere la «libertà individuale» contro il bene comune, di stare con Boris Johnson e Trump e altre idiozie?
Ne dubito a tal punto che non la metto nemmeno in questi termini. Delle scuse me ne farei comunque poco. Quel che mi auspico è che i termini del dibattito facciano qualche passo avanti, oltre le contrapposizioni dei mesi scorsi, come ha già fatto molti passi avanti la realtà intorno. Serve uno sguardo retrospettivo il più lucido possibile su quel che è accaduto, ma uno sguardo retrospettivo si può lanciare solo se nel frattempo ci si è spostati in avanti.
Mi pare che questo pezzo, insieme al post di Silvestri che abbiamo ricordato qualche giorno fa (e lui continua un po’ a battere su questo tasto), cominci a fornire conferme di cose che qui si sono scritte sin dall’inizio, compreso il tentativo di svelare quello che è un vero e proprio mistero, cioè come mai in Lombardia sia morta tutta questa gente. Non basterà certo a chi da mesi ha collaborato (collaborazionista, verrebbe da dire, ma eviterei di scendere sullo stesso terreno) da utile idiota con chi ha sparso il terrore per interessi sin troppo facili da identificare. Costoro non chiederanno scusa, lo so, ma spariranno, parleranno d’altro e attenderanno che tutto venga dimenticato. Dal punto di vista dei rapporti privati ci rimarrà la pena e qualcosa da ricucire, se ricucibile, mentre come al solito dal punto di vista politico saremo più indietro e maggiormente in difficoltà. Non c’è troppo da essere contenti mi sa.
Ma quali sguardi e quali passi puoi aspettarti da chi ha detto certe cose su di voi? Poi una buona parte degli ultras del lockdown è lì che spera intimamente che si debba richiudere tutto di nuovo per poter dire di aver avuto ragione, altro che rispetto per i morti e per il lavoro di medici e infermieri. Lo senti da come commentano i numeri degli ultimi giorni, che gli rode il culo. Questi qui non ne usciranno mai.
Tra i compagni, poi, sono molti di più quelli che chiederebbero più volentieri scusa a Boris Johnson e a Trump che a voi e alla community di Giap. Anche questa cosa dell’essere compagni, tra parentesi, ha stuccato. Dal mio modestissimo punto di vista, se sei comunista lo decidi tu, se sei (mio) compagno lo decido io.
E comunque ieri c’era anche chi – non cito la testata, ma è facile indovinare… – titolava in questo modo:
*Coronavirus, il 30% dei guariti avrà problemi respiratori cronici*
Polmoni a rischio per 6 mesi. Lo pneumologo Richeldi: “Nuova emergenza sanitaria”
Notare che il primo caso di Covid-19 è di 7 mesi fa, più o meno, ma questi hanno già una statistica a 6 mesi dalla guarigione. E in effetti ce l’hanno da una quindicina d’anni, visto che è quella relativa alla SARS. Ora, essendo quello del Covid-19 un coronavirus dello stesso sottogenere di quello della SARS, viene spontaneo e non è neanche sbagliato in linea di principio ragionare per analogia. Ma resta il fatto che tutti i numeri presenti nell’articolo riguardano pazienti infettati da un altro virus. Così come riguarda pazienti infettati da un altro virus anche il riferimento alla loro età: “anche giovani”. Sempre di sopravvissuti alla SARS si tratta.
Al netto delle analogie, resta che “in molti pazienti Covid-19 che sono stati ricoverati o intubati osserviamo dopo la dimissione difficoltà respiratorie che potrebbero protrarsi per molti mesi dopo la risoluzione dell’infezione”. Anche in molti intubati per motivi diversi, che io sappia, la riabilitazione polmonare può durare molti mesi. Ma diciamo che almeno è un tema.
Poi ci viene detto che “i primi dati riferiti dai medici cinesi su Covid-19 e i nostri primi dati osservazionali, parlano di molti pazienti sopravvissuti nei quali viene diagnosticata proprio una fibrosi polmonare, ovvero una situazione in cui parti di tessuto dell’organo sono sostituite da tessuto cicatriziale non più funzionale”.
Primi dati. Molti pazienti. Quanti sono? Quanti anni hanno? Hanno altre patologie? Che sintomi avevano sviluppato? Chissenefrega. E chissenefrega anche se quello che in realtà sta a cuore agli pneumologi, giustamente, è solo richiamare l’attenzione sulle speciali necessità dei pazienti dimessi, non certo creare il panico.
Perché il giornalismo ha delle regole. Quindi il 30% dei guariti avrà problemi respiratori cronici e voi non dovete rompere il cazzo.
Attenzione Isver: ti segnalo questa lettera in risposta ad un pre-print cui forse indirettamente fai riferimento nel tuo commento : il Covid-19 può danneggiare i polmoni anche in maniera silenziosa (nei contagiati asintomatici). Esperienza italiana italiana su Radiology(IF =7.608) di fine marzo :dopo la fine della quarantena nella zona rossa in provincia di Lodi, un campione di cittadini (asintomatici) si sono sottoposti alla radiografia del torace. Il 59% ha mostrato lesioni del polmone tipiche della malattia.
Bisogna rompere il cazzo per capire quanti guariti avranno problemi cronici angiologici, neurologici.. in generale , non credi?
Ma secondo te anche sulla base di uno studio fatto a Lodi su un certo numero di persone, un quotidiano nazionale sarebbe autorizzato a titolare che addirittura la maggioranza dei contagiati asintomatici avrà problemi polmonari permanenti? A me sembra da irresponsabili totali. A parte il fatto che se si parla di fibrosi polmonari, come si diceva nell’articolo, tenderei a escludere l’assenza di sintomatologia. Se invece si parla di lesioni di modesta entità, ci può anche stare. Ma non sappiamo comunque niente di quelle persone, se non che sono di Lodi.
Ho ritrovato l’articolo della solita testata relativo alle lesioni polmonari trovate negli asintomatici a Lodi, o meglio a Codogno.
Stranamente chi ha scritto l’articolo non si butta a pesce sul dato per sostenere che gli asintomatici siano in realtà degli zombie. C’è invece scritto chiaramente, e ribadito, che le lesioni trovate negli asintomatici non erano gravi. E a quanto capisco io, nemmeno permanenti.
Ci sono virgolettati di Luca Maria Sconfienza dell’Istituto Galeazzi e Roberto Boffi dell’Istituto Tumori, entrambi di Milano. Il primo dice che quelli di Codogno potrebbero essere “casi in via di risoluzione, che si portavano avanti l’infezione già da un po’”. Il secondo fa presente che “le polmoniti virali sono subdole, possono comportarsi così” ma che “se il danno è veramente esteso, è impossibile che resti senza sintomi”. Aggiunge poi che c’è il rischio di danni permanenti sottoforma di fibrosi, come ormai sappiamo, e che per questo motivo le persone guarite vanno seguite con attenzione. Persone guarite. Non asintomatiche. Le fibrosi polmonari non sono senza sintomi.
Sì, ma non è tanto una questione di singoli articoli e singoli giornali. Il punto – che non mi sembra OT, parlando di trappole retoriche sul COVID – è che praticamente tutti i media hanno imposto un sistematico travisamento della realtà. Perché coi loro bollettini, titoli, dati decontestualizzati hanno fatto implicitamente intendere ai più che tutti i “decessi COVID” erano delle anomalie in sé, causate solo da quel virus, senza il quale nessuno sarebbe morto – il che ovviamente è vero solo molto parzialmente. Da qui, la vera anomalia storica: non certo l’incompetenza e/o la corruzione della minoranza al potere, ma il fatto che milioni di persone abbiano più o meno placidamente accettato di subire gravi danni psicologici ed economici (più o meno gratuiti a seconda della zona).
Quindi la vera, enorme trappola in cui cadono in tantissimi è dar fede ai giornali, troppo spesso ritenuti “neutri”, “oggettivi” – idea erronea quanto pericolosa.
Aggiungo che anche l’articolo sul coronavirus più condiviso a livello mondiale negli ultimi mesi, quello dell’immunologo Erin Bromage che si trova tradotto in italiano sempre su Internazionale, dice con nettezza che all’aperto il rischio di contagio da Sars-Cov-2 è minimo, perché «a due metri di distanza e con uno spazio aperto capace di ridurre la carica virale, il covid-19 non ha il tempo sufficiente per diffondersi. Il sole, il caldo e l’umidità sono tutti fattori che ostacolano la sopravvivenza del virus e minimizzano il rischio di trasmissione all’aperto.»
Infatti, scrive Bromage, «nei paesi che svolgono un tracciamento adeguato è stato registrato solo un focolaio collegato a un evento che si è svolto all’esterno (meno dello 0,3 per cento dei contagi accertati).»
Il problema sono sempre stati gli spazi chiusi. In particolare, chiusi, affollati, poco ventilati: «in tutte le situazioni prese in esame le persone sono state esposte al virus presente nell’aria per un periodo prolungato (ore). Anche se si trovavano a 15 metri di distanza (coro e call-center) e la dose infettante era ridotta, il contatto prolungato con il virus è stato sufficiente a provocare il contagio e in alcuni casi la morte.»
Sarebbe stato logico chiudere le fabbriche e organizzare la vita sociale perché la gente potesse stare il più possibile all’aria aperta in parchi, boschi, campi, spiagge. Invece si è fatto il contrario. Per l’ennesima volta constatiamo che c’è stato uno «scambio spettacolare». La chiusura delle fabbriche è stata una mezza farsa, c’è stata una pioggia di deroghe (vedi l’inchiesta pubblicata qui su Giap l’1 maggio scorso), più della metà dei lavoratori dipendenti ha continuato a lavorare, mentre si è feticizzato lo #stareincasa, si sono tenuti milioni di persone in cattività (contagiati e non contagiati insieme, dato che non c’è mai stata una seria campagna di test sulla cittadinanza), punendo e mettendo alla gogna chi usciva a sgranchirsi le gambe e prendere una boccata d’aria, multando persino conviventi perché erano usciti insieme, chiudendo i parchi, mettendo il nastro rosso e bianco intorno ai giochi dei bambini, mandando gli elicotteri a pattugliare le spiagge, sorvolando i boschi coi droni, strillando che il virus era genericamente «nell’aria», tutte cose del tutto irrazionali rispetto al fine propagandato.
Nel mentre, come si è detto, le dinamiche reali del contagio erano tutt’altre.
Quanto sopra è indiscutibile. Il mio timore é questo: per me, per voi, le dinamiche della diffusione dell’agente infettivo ( ovviamente fondate
sui dettami della scienza, non su convinzioni personali) sono evidenti. Le misure adottate secondo un processo parossistico che ha condotto in breve tempo alla segregazione domestica di chiunque ( anche delle persone sane), con demonizzazione e criminalizzazione di condotte non solo innocue, ma addirittura benefiche sono state accettate docilmente, a tratti persino invocate…L’allentamento è stato dettato da ragioni economiche ( basti pensare infatti alla posizione nei riguardi della didattica) e non certo dalla conclamata illogicità e inutilità di disposizioni degradanti. Ancora oggi la lente di ingrandimento sembra puntata verso “ movida” ed “ happy hour” piuttosto che su condizioni di lavoro e protocolli atti a contenere sul nascere eventuali focolai. Il mio timore é che certe restrizioni possano essere applicate di nuovo dato che non mi sembra di assistere ad una generalizzata opera di analisi retrospettiva nè ad una ferma condanna del sistema messo su in quattro e quattr’otto in spregio di qualsiasi riflessione onesta sulle conseguenze e soprattutto sulla sua legittimità sotto molteplici aspetti ( giuridici, sanitari, sociali, economici).
Non possiamo aspettarci analisi retrospettive, anche perché l’istinto generalizzato sarà quello di lasciarsi rapidamente l’esperienza traumatica alle spalle (caso mai ci sarà da lavorare sulla sindrome post-traumatica, che agisce più sottilmente di quanto si immagini). Né si poteva pensare che non si sarebbe tornati “come prima”, in barba alle previsioni apocalittiche e all’equivoco tra lockdown e socialismo di guerra, o tra richiesta di redistribuzione della ricchezza e aumento del debito pubblico. Chi è caduto in questi equivoci per un po’ resterà afasico, poi tornerà, appunto, al prima.
Ciò che rimarrà, nella percezione o nell’inconscio collettivo, è ciò che l’emergenza ha rivelato del paese e di noi stessi: i meccanismi di cattura, gli scambi spettacolari, la segregazione domestica, la paradossale convivenza di paranoia e scetticismo, la “bolla” nefasta dei social media e l’intruppamento dei mass media che hanno avvelenato l’aria, lo stato di polizia e l’appoggio da sinistra a un governo ultraconfindustriale (prima, durante e dopo la pandemia), i 15 miliardi alle imprese e un miliardo e mezzo alla scuola pubblica. E ovviamente la povertà. Perché c’è gente alla fame. Letteralmente.
Io credo che questa vicenda abbia messo davvero il paese allo specchio e gli abbia mostrato il suo vero volto. Ora, appunto ci si affretterà a passare oltre, perché nessuno vuole pensare sempre all’orrore delle decine di migliaia di morti e all’infelicità e sofferenza dei tre mesi scorsi. Ma nella retina rimarrà comunque impressa quell’immagine di sé tanto ridicola quanto inquietante e orribile. Per quello che si è stati capaci di esprimere, perdendo letteralmente la testa, il raziocinio, e abbandonandosi al dolore, al panico, alla fobia. Quell’immagine, spinta istintivamente alla periferia del campo visivo, potrà essere colta con la coda dell’occhio in ogni momento, per quanto ignorata dalla coscienza, fino a diventare uno sorta di spettro dickensiano del “Natale che fu” nelle notti che verranno.
Riguardo a certi “compagni” qualche giorno fa ho avuto una specie di illuminazione: sono diventati gli umarell del virus. Passano il tempo a monitorare i casi, sono esperti di mascherine, disinfettanti, protocolli, droplet… setacciano i selfie pubblicati sui social per beccare in castagna quelli con la mascherina indossata male, e concludono ogni discorso con aria rassegnata: “non ne usciremo mai”, “non ce la possiamo fare”, che è come dire “non c’è più rispetto”. In questi mesi si sono costruiti un ruolo, e alla fine credo che il confinamento in casa non gli dispiaccia. Il confinamneto esonera dalla fatica di relazionarsi in persona con gli altri, è un guscio che protegge dalle proprie paure (che in buona parte non hanno a che fare col virus).
Più che di scuse, a chi come voi ha portato avanti un lavoro di inchiesta senza farsi accecare dall’ isteria, credo che si dovrebbe proprio parlare di risarcimento di danni morali e materiali, per tutti coloro che non solo hanno perso la vita, falciati dal virus, ma per tutti coloro che hanno perso, stanno perdendo e perderanno le uniche fonti di sostentamento che hanno, per tutti coloro che pagano il conto altissimo di questa situazione. Credo che non si possa dimostrare cosa sarebbe successo senza questa italica quarantena ma si potrà dimostrare cosa succederà a causa di questa quarantena. È arrivato il momento di esigere il dovuto per non seppellire, sotto una coltre di fumo e di oblio, le responsabilità della politica nella gestione dell’ emergenza. E che ora più di prima bisogna evidenziare la precisione, nel complesso, di alcune analisi, sbattendola in faccia a tutti i ferventi ammiratori del pensiero unico emergenzialista. A tutti quelli che per vedere il virus hanno “dimenticato” tutto il resto. A tutti quelli che hanno giustificato una sospensione, apparentemente sine die, della vita e dei diritti per combattere il virus.
Segnaliamo:
I nodi vengono al pettine: rapporti diseguali, sguardo coloniale e propaganda nel post covid-19 – di Omar Onnis