di Wu Ming 4
I’m old fashioned, Michael. I believe private should remain private. Not everything modern is good, now, is it? You gonna write this down…in your little fucking book.
– Peaky Blinders, S5, E1, «Black Tuesday», 2019
Leggendo il catalogo della mostra Tolkien: Maker of Middle-Earth, tenutasi a Oxford da giugno a ottobre del 2018 e uscito ieri in Italia per Mondadori (€45, traduzione di Stefano Giorgianni), si ha a tratti la sensazione di violare uno spazio privato. Una grande quantità di materiale appartenuto al celebre Professore viene messa in mostra per i fan della Terra di Mezzo. È una cosa che accade soltanto per gli autori di culto, e non ci sono dubbi che J.R.R. Tolkien sia tra questi, dato che con il passare dei decenni la sua narrativa ha incontrato un apprezzamento sempre più ampio da parte di un pubblico quanto mai eterogeneo. Per questo, sfogliando il catalogo viene da chiedersi cosa avrebbe pensato di una mostra su di sé. La risposta è che probabilmente ne sarebbe stato al tempo stesso lusingato e irritato. Lusingato, perché sono pochi gli scrittori a cui siano state dedicate esposizioni come questa. Irritato perché era profondamente avverso alla via biografica alla letteratura e contrario al culto dell’autore, ritenendo quest’ultimo un pessimo servizio alla letteratura stessa. In una lettera del 1971 scriveva:
«Una delle mie convinzioni più radicate è che l’indagine sulla biografia di un autore (o su altri aspetti della sua “personalità”, come quelli che vengono racimolati dai curiosi) sia un approccio totalmente inutile e sbagliato alla sua opera, e specialmente a un’opera d’arte narrativa, per la quale l’obiettivo che l’autore cercava di centrare era che venisse apprezzata in quanto tale, che fosse letta con piacere letterario». [1]
Già nel 1958, a pochi anni dalla pubblicazione del Signore degli Anelli, Tolkien si era espresso in termini ancora più netti:
«Non mi piace riferire “fatti” su di me che non siano “nudi” (e che in ogni caso sono altrettanto rilevanti per i miei libri quanto gli altri dettagli più succosi). Non semplicemente per motivi personali; ma anche perché sono contrario alla tendenza contemporanea della critica, con il suo eccessivo interesse per i dettagli delle vite degli autori e artisti. Questi infatti distraggono l’attenzione dall’opera dell’autore (se l’opera è in effetti degna di attenzione), e finiscono, come si vede spesso, per diventare l’interesse principale. Ma solo il proprio angelo custode, o Dio stesso, potrebbe dipanare le effettive relazioni fra i fatti personali e l’opera di un autore». [2]
Si potrebbe aggiungere che quando scriveva narrativa, Tolkien si sentiva affine agli autori medievali che studiava da accademico, spesso anonimi estensori di tradizioni poetiche tramandatesi oralmente per secoli. «Ho sempre avuto la sensazione non di “inventare”, ma di annotare ciò che era già “lì”, da qualche parte» [3], scriveva riferendosi alla propria attività di mitopoieta. L’immagine romantica dell’autore-genio, dell’autore-oggetto-di-culto, non gli è mai appartenuta. Questo non significa, ovviamente, che non fosse disposto a riconoscere la perizia, il talento, l’inventiva, del singolo autore al lavoro su un’opera nuova, attraverso l’uso creativo delle fonti. Semplicemente per lui l’autore non doveva essere anteposto all’opera stessa, la quale, peraltro, se di un qualche valore, gli sarebbe sopravvissuta, guadagnando legittima autonomia, come una figlia ormai adulta. Non era quindi propenso a vedere sviscerata ed esposta la propria vita fin nei minimi dettagli personali e famigliari.
Nondimeno, nel suo caso ci sono almeno tre argomenti a favore dell’approccio biografico, che trovano conferma proprio nelle pagine di questo catalogo.
Il primo è che Tolkien ha pubblicato poco in vita: non molti lavori accademici e davvero poche opere narrative, vale a dire appena due romanzi, tre racconti, e una raccolta di poesie. Dunque una mole considerevole di materiale interessante ha dovuto essere attinta dai suoi archivi personali, per essere pubblicata postuma. Lo stesso vale per l’epistolario, del quale a suo tempo è stata pubblicata soltanto una selezione, priva delle lettere inviate a Tolkien, alcune delle quali fanno invece parte di questo catalogo e rivelano aspetti peculiari dei suoi rapporti con il mondo esterno.
Il secondo argomento è che – essendo stata la narrativa una semplice passione per decenni e poi tutt’al più un secondo mestiere – molto spesso l’espediente per la scrittura era offerto a Tolkien proprio dalla vita privata. Molte delle sue storie nascevano dai racconti serali inventati per i quattro figli. Esiste dunque una dimensione intima della sua narrativa che – a maggior ragione nel caso degli inediti – è strettamente connessa alle relazioni personali. Sotto questo aspetto, dalle memorie famigliari emerge la figura di un genitore moderno, che «univa paternità e amicizia», trascorrendo parecchio tempo con i figli, coinvolgendoli nelle sue storie fantastiche, e prendendo le loro «osservazioni e domande infantili con assoluta serietà» [4]. La capacità di restare in sintonia con l’infanzia – anche la propria – e di non gettare su di essa uno sguardo paternalistico è senz’altro una delle chiavi della sua efficacia narrativa.
Il terzo argomento è che Tolkien amava disegnare e dipingere – una passione trasmessagli dalla madre e rafforzata a scuola – ed era un illustratore dilettante di un certo talento. Aprire il “Book of Ishness”, osservare i suoi acquerelli, i disegni a penna o anche solo i bozzetti, dà la misura di quanta parte avesse l’arte figurativa nella sua attività di creatore di mondi; per non parlare della calligrafia, in particolare quella elfica. Un’arte, la sua, per lo più privata, ma con un tratto distintivo che l’autrice dei testi a commento non esita a definire “surreale”, accompagnato da un uso del colore per il quale Catherine McIlwaine spende l’aggettivo “psichedelico”.
In realtà c’è un quarto argomento che sostanzia il taglio della mostra oxoniense. È l’affascinante mistero rappresentato da Tolkien stesso: il contrasto tra vita e opera assai più che la loro concordanza. Da un lato un’esistenza borghese, estremamente regolare, conforme alle aspettative sociali e alle convenzioni; dall’altro una “evasione” creativa sconfinata. Quanto più costui fu lontano dalla mondanità, politicamente disimpegnato, devoto alla propria fede cattolica, tanto più fu spregiudicato nell’uso dell’immaginazione fantastica.
Tolkien era un uomo ordinario, assai poco eccentrico, privo delle idiosincrasie e delle pose tipiche dello scrittore, dedito alla famiglia, agli amici e alla professione di studioso e insegnante; tuttavia ha coltivato sempre un “vizio segreto”, l’invenzione di linguaggi e la passione fono-estetica, sfociato nell’ideazione di una realtà secondaria in cui quelle lingue potessero essere parlate. Una “subcreazione” mitica – Arda, la Terra di Mezzo – che è ormai entrata a fare parte indelebilmente dell’immaginario collettivo.
Pensando a questo contrasto, allora, non stupisce che i protagonisti dei suoi romanzi siano proprio uomini comuni capaci di caricarsi sulle spalle i destini del mondo, quei piccoli Hobbit dai quali Tolkien distillava «il sorprendente e inaspettato eroismo dell’uomo ordinario “quando è necessario”» [5].
A suggerirgli quella scelta era stata l’esperienza vissuta, il trauma della guerra, che Tolkien riversò nella propria narrativa, come fecero altri letterati reduci del primo conflitto mondiale. Impiegò il tempo concessogli per costruirsi un’esistenza tranquilla e usò la scrittura non soltanto come terapia o elaborazione del lutto, ma anche come grande strumento per raccontare l’umanità posta di fronte al dispiegarsi del male nella storia e ai dilemmi universali. Dove però altri scelsero la poesia, il memoriale, il romanzo realistico, lui mosse in una direzione del tutto diversa, proiettando i grandi temi del suo tempo su un fondale fantastico e posando in questo modo una pietra angolare per la rifondazione e nobilitazione di un intero genere letterario.
Non tutti all’epoca lo capirono e non pochi stentano a capirlo ancora oggi. Tuttavia le lettere che compaiono in queste pagine testimoniano di un riconoscimento da parte di importanti intellettuali e artisti coevi, anche molto lontani dalla visione del mondo del Professore: il reporter e romanziere per ragazzi Arthur Ransome, il poeta Wystan H. Auden, la filosofa Iris Murdoch, la cantautrice Joni Mitchell, o ancora un giovanissimo Terry Pratchett che, proprio grazie all’influsso di Tolkien, sarebbe diventato scrittore fantasy a sua volta. Le epistole messe in mostra raccontano come Tolkien non fosse affatto un eremita. Tanto era refrattario alle luci della ribalta e alla fama mediatica, quanto trasparente nei confronti dei lettori che gli scrivevano. Lettori di ogni ordine e grado, dai suddetti intellettuali a illustri personaggi pubblici, come la figlia del presidente degli Stati Uniti d’America, o la principessa d’Olanda; ma soprattutto illustri sconosciuti, fossero bambini riconoscenti o ammiratori adulti affamati di dettagli sulla Terra di Mezzo.
Il corpus del catalogo – preceduto da una sequenza di saggi dei maggiori studiosi tolkieniani – è un caleidoscopio di carteggi, ritratti fotografici color seppia, disegni a motivi “morrisiani”, acquerelli coloratissimi, mappe e oggetti. Al netto di ogni tentazione feticistica, il volume è un viaggio nel percorso creativo di un uomo che ha nutrito la propria fantasia incessantemente, esprimendosi non solo attraverso l’arte narrativa e la saggistica, ma anche il disegno, la poesia, la pittura, la calligrafia e la cartografia. Queste pagine ci restituiscono l’immagine di uno studioso e artista poliedrico, a tutto tondo, in costante dialogo con le proprie suggestioni infantili, capace al tempo stesso di svilupparle e traghettarle nel racconto adulto, fino a fare collassare la fiaba nel romanzo epico e nell’ucronia fantastica. Sfogliando queste pagine si respirano anche le difficoltà del narratore, trasmesse attraverso la materialità del vivere quotidiano, o la necessità di scrivere e riscrivere, abbozzare, scarabocchiare e immaginare con penna o pennello, prima di riuscire a creare un mondo tanto vivido da sembrare reale e far nascere la voglia di percorrerne i sentieri. Senza dubbio Tolkien ci è riuscito. È per questo che – volente o nolente – viene celebrato.
A tutto ciò si aggiunge un percorso attraverso il Novecento tramite l’album fotografico di famiglia, dove le generazioni si passano il testimone, cambiano il taglio degli abiti e le acconciature, i giovani indossano divise militari poi abiti borghesi, diventano genitori a loro volta e invecchiano, mentre i loro figli crescono di scatto in scatto, diventando giovani uomini e donne.
Questo fino alla tavola 133, che consiste in una fotografia a colori, a tutta pagina. Lo scopo è evidentemente quello di presentare la toga da cerimonia del professor Tolkien esposta alla mostra, ma il cimelio passa in secondo piano rispetto alla fotografia. Il colore produce un effetto di avvicinamento spiazzante. Siamo abituati a vedere Tolkien in bianco e nero e tonalità di grigio, come un vecchio signore che ci parla da un tempo remoto; e in effetti nel catalogo è così, fino a questa foto. Il soggetto è colto mentre cammina spedito, nella mise adatta a ricevere il dottorato ad honorem in Lettere all’università di Oxford, con il tocco in testa, il papillon candido, la toga scarlatta svolazzante, sotto la quale si vede il gessato a righe. Ha in mano un ombrello chiuso, e sotto il braccio tiene forse il programma della cerimonia o l’attestato stesso. La fotografia è stata scattata il 3 giugno 1972, due settimane prima che scoppiasse lo scandalo Watergate e che David Bowie pubblicasse Ziggy Stardust; dieci giorni dopo la presentazione ufficiale della prima console domestica per videogiochi. Alle spalle del Professore, sfocata, c’è una piccola folla di persone dalla quale si sta allontanando. Si distinguono cappotti e vestiti color pastello, capelli lunghi. Il colore, la dinamicità, il fatto che il soggetto non sia in posa, l’espressione concentrata dell’anziano che non guarda in camera, e, non ultimo, il contrasto tra l’abito cerimoniale e l’abbigliamento moderno delle persone sullo sfondo, ci raccontano qualcosa di diverso dal solito.
Nato e cresciuto in un’altra epoca, legato alle convenzioni dei grandi atenei del regno e del ceto accademico, Tolkien, tramite la sua opera, giunge a lambire e perfino ad avere una parte indiretta nella grande rivolta giovanile degli anni Sessanta e Settanta. Eccolo buffamente agghindato, mentre viene onorato dalla sua università, ed è già un autore caro a una generazione di studenti ribelli, rockers psichedelici e hippies, che nella sua opera legge una critica radicale al proprio tempo, alla società industriale, al potere, e un inno alla libertà, alla pace, alla riscoperta della natura vivente. Le storie di Tolkien hanno contaminato e influenzato la controcultura angloamericana di quegli anni: dai Beatles ai Led Zeppelin, dai giovani di Woodstock a quelli di Glastonbury, da “l’uomo più pericoloso d’America” Timoty Leary a un obiettore di coscienza alla guerra in Vietnam che risponde al nome di George R.R. Martin, a tantissimi altri.
Questo ci ricorda che la letteratura non è un feticcio né un altare sul quale innalzare l’autore, ma vive nel mondo grazie alla partecipazione di chi continua a ritrovarsi nelle storie narrate e a farle collidere con la propria vita. Anche e soprattutto le storie fantastiche, che per Tolkien rappresentavano non già un rifugio incantato, ma un’evasione dalla dittatura realista come atto di resistenza contro l’abbrutimento dei tempi. «Perché la Fantasia creativa si fonda sulla dura consapevolezza che le cose sono proprio così nel mondo, quale esso appare alla luce del sole; su un riconoscimento del dato di fatto, ma non sul divenirne schiavi» [6], scriveva nel celebre saggio Sulle fiabe. Un’asserzione che suona come una petizione di principio e che potrebbe essere l’epigrafe perfetta di questo volume.
Note
- Lettera n. 329, in J.R.R. Tolkien, Lettere 1914-1973, Bompiani 2018, p. 656.
- Lettera n. 213, ivi, p. 456-457.
- Lettera n. 131, ivi, p. 231.
- Intervista a Michael H.R. Tolkien sul “Sunday Telegraph” del 09/09/1973, citata nel volume.
- Lettera n. 131, op. cit., p. 252.
- J.R.R.Tolkien, “Sulle fiabe”, in Il Medioevo e il fantastico, Bompiani 2004, p. 213.
Ancora complimenti e grazie per il lavoro fatto su Tolkien.
Tolkien ha una narrativa lineare molto lunga, dove ti senti come se stessi facendo un viaggio. Era un contro-culturalista (una reputazione che lui e il suo lavoro hanno mantenuto fino ai giorni nostri) che si è concentrato sul “primato della narrazione”. Ciò che, mia opinione, distingue le opere di Tolkien dai suoi contemporanei sono i concetti a cui si rivolge. In tutta la serie, Tolkien si occupa di “tre questioni fondamentali”, vale a dire la nostra relazione con la nostra “Terra di mezzo” (cioè la terra), la natura del potere e della tecnologia e la mortalità. È la capacità di Tolkien sia di sollevare questi problemi (che sono applicabili al di fuori del mondo della Terra di Mezzo tanto quanto in esso), e consentire al lettore di ritornarvi all’interno dei suoi testi, che ha contribuito a cementare il Signore degli Anelli come la definizione stessa di buona arte che fornisce luce nei tempi oscuri.
Una domanda un po bizzarra: in relazione alle definizioni usate nell’articolo su arte “surreale” , colori “psichedelici”, l’essere stato letto e largamente apprezzato negli ambienti della controcultura anglosassone negli anni 60/70, si puo` forse definire Tolkien autore psichedelico? O, dato che il termine non credo fosse in uso ai suoi tempi, mistico? Puo` essere che l’esperienza traumatica del fronte, insieme alle sue forti convinzioni religiose, gli lascio` in eredita` una capacita` di spaziare al di la` del “conoscibile” superiore alla norma, paragonabili a quelle che si definiscono comunemente come visioni; o era questa abilita` immaginifica nient’altro che il risultato pratico dei suoi studi e delle approfondite nozioni sulle civilta` antiche? Non credo, dato il suo ethos, che il professore sperimentasse con sostanze psicoattive pero` bisgona ammettere che esistono paralleli tra eventi che Tolkien narra e esperienze di carattere psichedelico. Un esempio: l’incontro tra gli Hobbit e gli Elfi, quando lo lessi per la prima volta mi dissi: che viaggio!
Personalmente non lo definirei così, non sul piano poetico, almeno. Tolkien era fermamente convinto che la vera fantasia fosse ben radicata nella ragione, e qualora se ne fosse sganciata avrebbe prodotto risultati “morbosi”. Ad esempio, ecco come si esprime sulla pittura surrealista, nelle note finali del saggio del 1939 “Sulle Fiabe” (rivisto e pubblicato nel 1947):
«Così ad esempio, nel Surrealismo è di norma avvertibile una morbosità o un’angustia ben di rado reperibili nella fantasia letteraria. Viene spesso il sospetto che la mente la quale ha prodotto le immagini dipinte fosse già morbosa di per sé; ma questa non è una spiegazione valida in tutti i casi. Sovente accade che una singolare alterazione mentale derivi dall’atto stesso di disegnare cose del genere, e si tratta di uno stato simile, per qualità e consapevolezza del morboso, alle sensazioni che si hanno durante un accesso di febbre alta, allorché la mente rivela una sconcertante fecondità e facilità nell’elaborare figure, nello scoprire forme sinistre o grottesche in tutti gli oggetti visibili circostanti». (SF, nota E)
Questo non ha impedito a Timoty Leary, nel suo libro del 1968 “The High Priest”, di mettere Tolkien nel pantheon di autori “da trip”. Ci ha messo anche Omero, per la verità, la compagnia era piuttosto variegata e trasversale. Credo che, come ipotizzi tu, il motivo fosse la grande capacità immaginifica dispiegata sulla pagina da Tolkien.
Indagare quale fosse la fonte di tale capacità è un’impresa impossibile, io concordo con Tolkien: non è materia umanamente conoscibile. In tutto quello che suggerisci potrebbe esserci un indizio: l’esperienza straniante e traumatizzante del fronte; la credenza e la fede nel soprannaturale e nel trascendente; la fiducia nel potere “curativo” delle storie. Ma davvero sono cose che sanno solo «il proprio angelo custode, o Dio stesso».
Se invece cerchiamo nei testi, possiamo chiederci se ci sono riferimenti a esperienze “lisergiche”. La risposta è che in senso stretto ovviamente no, nessun personaggio tolkieniano fa uso di niente di simile all’LSD. Tutt’al più fumano la pipe-weed, cioè l’erba-pipa o erba piparina, che qualche effetto psicotropo, se assunta in grandi quantità, potrebbe averlo, tant’è che Saruman rimprovera a Gandalf di abusarne, e Gandalf difende l’uso della medesima e i suoi effetti benefici. Tuttavia nel Signore degli Anelli ci sono momenti onirici nei quali i personaggi sembrano in effetti varcare le porte della percezione (coincidenza vuole che il libro di Huxley venga pubblicato lo stesso anno del SdA) e uscire da se stessi. Quindi non fatico a immaginarmi gli Hippie che si immedesimano in certe scene.
Uno studioso italiano, Claudio Testi, ha scritto un saggio molto articolato confrontando Tolkien e Breton, e scoprendo che nel SdA c’è tutto un sottotesto narrativo di riflessione sul sogno. Si può leggere qui (la parte sul sogno è il capitolo 3): https://iquadernidiarda.it/claudio-a-testi-frodo-surrealista-andre-breton-e-j-r-r-tolkien/
Per Tolkien la fantasia, se ben guidata e resa proficua dalla perizia e dall’estro dell’autore, tende all’incantesimo, ossia «genera un Mondo Secondario nel quale possono entrare sia l’artefice sia lo spettatore» (SF). Questo effetto, dice Tolkien, lo si vede dispiegato in quello che lui chiama il “Faerian Drama” (uno dei concetti più complicati di tutta la sua poetica), che descrive così:
«Ora, il “Teatro Feerico”, vale a dire quelle rappresentazioni che, stando ad abbondanti testimonianze, gli elfi hanno spesso recitato per gli esseri umani, può produrre Fantasia con un realismo e un’immediatezza che supera di gran lunga ogni umano meccanismo. Ne consegue che l’effetto normale che esso produce su un essere umano, è di trascendere la Credenza Secondaria. Chi assista a una Rappresentazione Feerica, si trova a essere, o si crede, fisicamente dentro il Mondo Secondario di essa: un’esperienza che può risultare assai simile al Sogno e, a quanto sembra, a volte dagli esseri umani è stata con questo confusa. Ma nella Rappresentazione Feerica si è in un sogno che un’altra mente sta tessendo» (SF, p. 66).
Un bel casino, no? In soldoni Tolkien qui dice che se la mitopoiesi è di livello davvero elevato, potresti ritrovartici immerso dentro tanto da scambiarla per la realtà del mondo primario. Tolkien attribuisce questa capacità agli “elfi”, e questo complica tutto: significa che credeva all’esistenza degli elfi, oppure si riferiva alle fiabe e leggende in cui esseri magici incantano la mente degli esseri umani, o a cos’altro ancora?
Non è il caso di addentrarcisi qui, ovviamente. Ma una domanda possiamo farcela: Tolkien ha raccontato un’esperienza del genere nelle sue opere? Risposta: sì, precisamente nel Signore degli Anelli, prima parte, libro II, capitolo I (siamo nel Salone del Fuoco di Rivendell):
«Frodo si mise ad ascoltare. Sulle prime la bellezza delle melodie intrecciate alle parole della lingua elfica, pur capendo poco, non appena cominciò a prestarvi attenzione lo avvolse in un incantesimo. Sembrava quasi che le parole prendessero forma e che visioni di terre lontane e creature radiose da lui mai immaginate si schiudessero davanti ai suoi occhi; e la sala illuminata dal fuoco diventò come una nebula dorata su mari di spuma che sospiravano ai margini del mondo. Poi divenne la malìa sempre più simile a sogno, fino a che sentì che un incessante fiume d’oro e argento si riversava su di lui in un crescendo dall’andamento troppo dovizioso, incontenibile; divenne parte dell’aria vibrante intorno a lui e l’intrise, lo sommerse. Sotto quel peso lucente affondò in un batter d’occhio nel profondo reame del sonno. Dove a lungo vagò in un sogno di musica che mutava in acqua corrente e poi all’improvviso in una voce. Sembrava la voce di Bilbo salmodiante versi». (La Compagnia dell’Anello, 2019, p. 401).
E senza assumere LSD… ;-)
«In soldoni Tolkien qui dice che se la mitopoiesi è di livello davvero elevato, potresti ritrovartici immerso dentro tanto da scambiarla per la realtà del mondo primario»
Bellissima questa cosa.
Di sicuro la mitopoiesi di Tolkien consente a milioni di lettori, se non di scambiare Arda per il mondo reale, di immaginare separatamente “lo stesso mondo”, in modo magari non identico nei dettagli ma certamente simile e soprattutto coerente, nella solidità delle basi storiche e mitiche.
Addirittura nella lingua (io che non sono un linguista e non sono forte nemmeno in italiano, mi chiedo sempre come sia possibile “inventarsi” una lingua. E vale anche per la lingua Klingon).
Fatte le debite proporzioni con Tolkien (debitissime), anche Martin ha saputo creare un mondo estremamente solido e coerente nelle sue basi, soprattutto rispetto alla media degli altri scrittori di genere, e secondo me questo è non solo parte del successo, ma anche parte della “fecondità” narrativa e del motivo per cui si trova molto più in difficoltà a chiudere e tirare le fila della storia principale, mentre invece riesce con facilità a produrre continuamente nuovi contenuti sulla storia dei Regni di Westeros.
Perché nella sua mente quel mondo “esiste”, e lui ne studia regolarmente la storia e la geografia, e anche ciò che lui non sa di quel mondo, diventa un elemento coerente all’interno della narrazione, perché anche nella realtà ci sono molte cose che non conosciamo.
Grazie per il tempo dedicato a rispondere. Per chi ne fosse interessato ho tradotto (al meglio delle mie capacita`) e allego sotto una specie di recensione di T.Leary del ’66 apparsa sul settimanale Diplomat:
«J.R.R. Tolkien e` uno scrittore psichedelico. Si e` “attivato” (turned on nel testo originale) non usando LSD ma immergendosi nello studio delle lingue antiche, trascendendo il tempo e lo spazio, lasciandosi dietro il ventesimo secolo e mettendosi nei panni di uno scriba dell’epoca pre-Chauceriana. E` tornato dal suo viaggio e ha comunicato cio` che ha visto in una grandiosa opera di letteratura mitologica del nostro tempo. Il Signore degli Anelli e`una epica grandiosa, paragonabile ai lavori di Omero o Joyce. Come tutte le grandi epopee mitologiche, la trilogia di Tolkien ha diversi livelli ed ha generato innumerevoli scuole di interpretazione, ognuna delle quali cerca di trovare “il Messaggio”. A mio parere, il SdA e`un opera morale / trattazione magica sul rapporto tra il bene e il male. Il male e` il potere. (notare che non affermo che “il potere e` maligno”, ben piu` debole gioco di parole). Il male usa il metallo, il fuoco, la pietra, macchinari e energia atomica per controllare, manipolare, conquistare il bene. Il bene per Tolkine sta` nel seme, nella saggezza, nella liberta`, nella bellezza, nell’armonia delle cose che crescono. In un momento storico come questo, durante il quale il nostro pianeta rischia di essere distrutto dal potere meccanico, il messaggio poetico e morale di Tolkien e` di prendersi cura e apprezzare la saggezza e la liberta`presenti nell’ordine e nella bellezza della natura che ci circonda.
Per tutti coloro che hannp seguito lo “yoga” dell’LSD, la trilogia di Tolkien e` di vitale importanza.»
Abbastanza singolare e caratteristico di quei tempi. Non di meno interessante considerando che poi invece, in particolar modo in Italia, fu la destra ad “appropriarsi”, strumentalizzare e meccaniccizzare il mito la terra di mezzo.
Bella citazione, dude. E dirò che secondo me la lettura di Leary è degnissima, ancorché molto legata all’epoca e all’angolazione da cui è stata fatta. Me li vedo proprio tipi come lui e Abbie Hoffman farsi i viaggi con Tolkien. Sarebbe interessante trovare anche qualche studio specifico, se esiste, sull’impatto del SdA sul Movement americano degli anni Sessanta, oltreché sulla cultura psichedelica, e successivamente sulla nascita dei movimenti ambientalisti. Non è un caso che gli USA siano stati il paese in cui si svilupparono per primi gli studi tolkieniani e tutt’ora si fanno le riviste specialistiche più importanti (Tolkien Studies, Journal of Tolkien Research, Mythlore). Finora sul tema ho letto soltanto il bellissimo primo romanzo di George R.R. Martin, “Armageddon Rag” (1983), dove tra l’altro compaiono diversi personaggi ispirati ai protagonisti di quella stagione politico-culturale-musicale (tra i quali un meraviglioso simil-Jerry Rubin già passato dalla fase Yippie a quella Yuppie). Consigliatissimo.
“Armageddon rag” non è il primo romanzo di Martin ma il quarto dopo “Dying of the light”, “Windhaven” e “Fever Dream”; restò il quarto a lungo perché commercialmente floppò malissimo rischiando di far deragliare l’intera carriera letteraria di Martin, lo mandò in una crisi personale e creativa che durò per buona parte degli anni Ottanta, ne cui uscì faticosamente prima riciclandosi come sceneggiatore per la televisione e poi mettendosi a scrivere un romanzo fantasy che uscirà solo nel 1996, un certo “A game of thrones”.
Il resto come si dice è storia.
Chiedo venia per l’imprecisione. Devo dire che proprio alla luce di Armageddon Rag non mi meraviglia che Martin si sia passato male gli anni Ottanta. Chi se li è passati bene non ha avuto modo di risorgere da quelle ceneri… (“Non si esce vivi dagli anni Ottanta” cantavano di Afterhours). E Armageddon Rag in effetti era davvero in controtempo rispetto al decennio reaganiano. Il romanzo ha i suoi difetti, ma ha un grande messaggio anti-nostalgico pur nel rifiuto di conformarsi al nuovo che avanza. E questo lo trovo molto tolkieniano. Molto più di quanto non trovi Games of Thrones, a essere sincero.
Io Martin l’ho conosciuto grazie alla prima stagione del telefilm (poi abbandonato in favore dei libri) in un periodo in cui un paio di fantasy malfatti mi avevano allontanato dal genere.
Devo dire che io la “tolkenianità” di Martin l’ho trovata non tanto nel “genere” (e cmq non ci sono elfi a westeros, ma i Figli della Foresta, e le creature magiche e la magia ci sono ma non sono plateali e il “grosso” secondo me deve ancora arrivare, se mai finirà la saga) quanto nella capacità di creare un mondo molto coerente, con tanto di antefatti e storia antica (e nei acconti che parlano di storia antica, con diverse fonti inventate spesso discordanti tra loro), con riferimenti incrociati sparsi oltre che nel romanzo principale, nelle novelle di Dunk e Egg e nei vari racconti sulla Danza dei Draghi che poi sono confluiti in Fire & Blood.
Appena avrò un po’ più di tempo proverò a leggere Armageddon Rag e gli altri che citate.
Wow! Interessantissimo sguardo sulla figura di Tolkien e sulla sua influenza su una certa cultura, anche musicale, a me molto cara.
Linkerò a mia figlia anche questo articolo come sempre faccio con ciò che scrivete riguardo Tolkien e la sua opera.
Si è fortemente stupita del fatto che i partecipanti al test per l’accesso alla facoltà di Medicina non conoscessero la risposta alla banalissima domanda sull’autore. Per lei è stata ovviamente la più semplice!
In effetti anche io sono sorpresa del fatto che molti diciannovenni e ventenni abbiano spalancato gli occhi nel leggere il quesito.
“Una delle mie convinzioni più radicate è che l’indagine sulla biografia di un autore (o su altri aspetti della sua “personalità”, come quelli che vengono racimolati dai curiosi) sia un approccio totalmente inutile e sbagliato alla sua opera, e specialmente a un’opera d’arte narrativa, per la quale l’obiettivo che l’autore cercava di centrare era che venisse apprezzata in quanto tale, che fosse letta con piacere letterario”
Si può prescindere dalla biografia di un autore per apprezzarne l’opera? Io penso di sì, ma a volte questa mia convinzione vacilla. Con queste parole di Tolkien lo farà un po’ meno.
Faccio un’esempio, Viaggio al termine della notte è uno dei miei romanzi preferiti. Céline è stato, con molta probabilità, un personaggio ributtante, antisemita e misogino.
Molti non riuscirebbero ad apprezzare quel libro sapendo da chi provengono le parole che ci stanno scritte…
Non sono sicura si possa applicare su tutti quello che dice Tolkien. Penso lo riferisse soprattutto a se stesso e comunque intendendo sottolineare la non necessità di scavare nella biografia dell’autore per apprezzarne l’opera. Quasi un voler creare un distacco tra la vita dell’autore e la sua opera, in cui liberamente dare spazio all’evasione creativa. Una ricerca della privacy forse.
Ma questo non giustifica poi il prendere posizioni misogine o xenofobe come fatto da Celine.
Temo che in nome della buona letteratura si tenda a sorvolare posizioni assolutamente indegne. Lo stesso avviene con molti filosofi. David Hume per esempio.
Non si può secondo me non considerare anche l’autore nel valutarne l’opera, per quanto questo potrebbe costarci molti buoni romanzi.
In parte condivido e in parte no. Da qui il mio commento sopra. Il problema di autori come Tolkien e Céline è l’appropriazione che ne fece la destra a partire dagli anni ’70 (roba come i campi hobbit fecero assimilare la Terra di Mezzo nel linguaggio fascio-misticheggiante). Con Céline la cosa è stata ancora più facile perché fu lui stesso, dopo viaggio al termine della notte, a scrivere pamphlet deliranti su ebrei, e perché la sua biografia appare come un simulacro per molti neo-fascisti.
Dovremmo dunque lasciare che questi romanzi vengano branditi a uso e consumo dalla destra?
Il paragone con Hume, immagino per le recenti polemiche in merito alla statua, non mi sembra comunque consono.
Mi piace come WM4 abbia riassunto una posizione che condivido:”che la letteratura non è un feticcio né un altare sul quale innalzare l’autore, ma vive nel mondo grazie alla partecipazione di chi continua a ritrovarsi nelle storie narrate e a farle collidere con la propria vita”. Questo per me è come vivo Tolkien e come vivo Viaggio al termine della notte.
Bisogna capirsi quando si parla di “approccio biografico”. Tolkien veniva da una lunga tradizione anglofona a rifiutare un certo tipo di “personalismo”, per un motivo preciso, cioe’ che nella storia della critica, l’approccio in questione aveva portato molte opere a essere giudicate in primis sulla base di quanto l’autore fosse in linea con le preferenze etico/ideologiche dei critici; non si “vedeva” l’opera perché ci si metteva impropriamente in mezzo l’autore. Nel periodo in questione posizioni anti-personaliste furono proposte sia in ambiti lontani da Tolkien (T.S. Eliot, per esempio), sia vicinissimi (C.S. Lewis scrisse non uno ma due saggi in cui rifiutava il processo induttivo autore-opera, opera-autore). A tutti loro interessava principalmente che i due piani venissero tenuti separati: che se si giudica l’opera come letteratura, e’ irrelevante o no se approviamo o disapproviamo dell’autore.
Se l'”approccio biografico” a Tolkien prende la forma di una mostra celebrativa, la cosa e’ abbastanza innocua e non credo che JRRT avrebbe obiettato (anche se c’e’ un certo rischio di feticismo anche qui); se invece, come mi accadde a una pseudo-conferenza anni fa, si finisce per sentire un relatore concludere il suo strampalato intervento dichiarando che “Il Signore degli Anelli e’ un libro cattolico perché l’autore e’ cattolico”, allora si capisce che qualcosa (OK, piu’ di una…) e’ andato storto: la sagoma dell’autore si era introdotta tra lettore e libro, con risultante distorsione interpretativa.
Cambia poco che si tratti di uno scrittore che come persona era tutto sommato accettabile a sinistra, come Tolkien, o di uno meno digeribile come Céline o Hume: e’ sempre questione di distinguere logicamente i piani del discorso. Quindi: accettiamo il razzismo di Hume? No. Lo scusiamo? No (anche se dovremmo storicizzarlo). Ne consegue che la sua opera, le sue idee su causa ed effetto, sui miracoli ecc., ne siano inficiate? No. Ne consegue che le idee per le quali e’ veramente importante debbano essere ignorate o attaccate perché “era razzista”? No. Allo stesso modo, le opere letterarie di Tolkien sono “quello che conta”: quello che aveva offerto della sua creativita’ al mondo, e sulla base di cui andrebbe giudicato.
P.S. Segnalo un refuso: TimotHy Leary.
Sono pienamente daccordo, «…bisogna sempre distinguere i piani del discorso» (e storicizzare). Pero`: « le opere letterarie di Tolkien sono quello che conta: quello che aveva offerto della sua creativita’ al mondo, e sulla base di cui andrebbe giudicato.»; mi preme dire che in quanto lettore e non critico, a me non interessa assolutamente l’atto di giudicare o di criticare, ne l’opera ne tantomeno l’autore. Questo e` un dettaglio che forse in ambito accademico sfugge. Consideriamo che dai tempi delle riunioni all’Eagle and Child le cose sono parecchio cambiate e non mi riferisco esclusivamente all’urbanistica intorno al pub; in primis, non credo che JRRT avesse previsto il livello di universalizzazzione che la sua opera ha poi raggiunto. Cio` che a me (e credo a moltissimi altri appassionati lettori) interessa e intriga assai e` l’investigare, il conoscere in maniera piu` approfondita di quanto una o piu` opere mi permettono di fare, la cosidetta coscienza (for lack of a better term) di una persona che, attraverso un testo, sento “vicina”. Il rischio di trasformare questa persona in un idolo indubbiamente esiste ma, credo, nello stesso modo in cui esiste anche il rischio che le sue parole, l’opera stessa possano essere confuse per dogma. Nel caso dell’approcio bibliografico direi quindi che alla fiducia spontanea che l’autore ripone nel lettore nell’atto della stesura di un testo viene semplicemente estesa nel tempo e nello spazio attraverso incursioni “nell’intimo”. Da profano mi permetto di esprimere quindi la mia preferenza rispetto ad un approcio esclusivamente quantitativo nei confronti dei personaggi letterari, specialmente se intorno all’autore vi e` un gruppo di familiari o compagni che si occupano in modo onesto e professionale della salvaguardia della dignita`, dell’immagine e dell’operato.
“Ha in mano un ombrello chiuso ” è un’ immagine very very british.
Anche se a Tolkien non sarebbe piaciuto, perchè “era profondamente avverso alla via biografica alla letteratura e contrario al culto dell’autore”, fa parte della legittima curiosità del lettore il “diritto” di indagare la vita del “suo” scrittore. Un disegnatore di fumetti, raramente, diventa oggetto di interesse biografico, se non post mortem, perchè la rappresentazione grafica non pone il “problema” di scindere autore, narratore e personaggio. Non pone una questione di “coerenza” tra la vita e l’opera, tra l’autore e il protagonista. Non ho mai letto Tolkien forse proprio perchè consideravo che il suo genere letterario fosse, per me, troppo ” evasivo” o forse anche per una questione di genere. Non mi interessa la trasposizione bellica dello scontro fra il Bene e il Male. Mi affascina però che Tolkien sia così “cinematografico” e visivamente trasponibile mentre non lo è quasi per nessuno Dostoevskij. Tolkien vive in un regno di immaginifica azione forse come forma di ribellione al classico genere introspettivo, come pulsione profonda a visualizzare i conflitti interiori come guerre, come sconvolgimenti scenografici, palpabili e visibili. L’esistenza prende forma e vita su un campo di battaglia.
Ma scandagliare la vita di un autore per indagare “il contrasto tra vita e opera assai più che la loro concordanza” fa parte di quel mistero che rende appassionante il meccanismo creativo.
I libri di Celine acquisiscono un valore differente se si conosce la vita del suo autore da lui stesso raccontata in “Morte a credito” , una testimonianza autobiografica diretta del clima d’odio in cui è cresciuto. A volte la biografia offre la possibilità di illuminare i punti più oscuri di un autore ma anche di un’ opera.
I libri di Dostoevskij sono il risultato perfetto del binomio genio/ sregolatezza e questo li rende ancora più eccezionali.
“On the Road” poteva essere scritto solo da Kerouak, è il prodotto finale di una esperienza irripetibile.
“Il giovane Holden” è paradossalmente scritto da un misantropo ed ambientato in una metropoli.
Alla fine non si può scindere l’autore dalla sua produzione, come se fosse il frutto dello spirito santo. Che ci piaccia o non ci piaccia.
@dude: si’, hai ragione che c’e’ un elemento di deformazione professionale in quanto ho scritto. Naturalmente il “rapportarsi a” un autore anche defunto non si limita a “giudicarne l’opera” anche nel senso ampio in cui lo intendevo io, cioe’ quello di “dirne qualcosa, interpretarla”, insomma fare della “critica”. Poi “da civile” appassionato di Tolkien me lo sono fatto anch’io il pellegrinaggio all’Eagle and Child, al collegio Merton e al cimitero a Oxford – nonche’ al mulino a Birmingham. Tutto questo fa parte, come dici anche tu, di un approccio affettivo all’opera e alla persona basato direi sulla gratitudine per quello che ha fatto – anche se non definirei “quantitativo” l’approccio opposto: piuttosto direi “disciplinato”.
@filo a piombo: non voglio risultare aggressivo, ma questo “piaccia o non piaccia” mi pare dogmatico, e l’idea che chi vuole scindere l’autore dall’opera faccia derivare quest’ultima “dallo spirito santo” una caricatura della posizione di Tolkien (e mia, per quello che vale). L’idea qui non e’ negare che un’opera letteraria esca dalla testa di un essere umano, e che questo essere umano sia inserito in un contesto sociale ecc.: a un livello di astrazione sufficientemente alto, tutto e’ connesso con tutto il resto. Il problema si riferisce piuttosto a quali parti di tutto questo scibile vadano connesse con altre parti _per fare un certo tipo di attivita’_. Attraverso la letteratura possiamo fare (piu’ o meno bene) sociologia, psicologia, storia, biografia ecc., e possiamo fare “critica”, in un senso piu’ stretto. In questo ultimo caso, invocare l’autore porta piu’ spesso che no a distorsioni e a non riuscire ad apprezzare l’opera per quello che e’. Per esempio, il fatto che Tolkien abbia partecipato alla prima guerra mondiale, se vogliamo, in parte “spiega” il fatto che la sua immaginazione si volgesse spesso al mondo della guerra: ma questo non e’ un giudizio critico, bensi’ biografico. Voler per forza vedere la prima guerra mondiale nella guerra dell’Anello significa non voler vedere la guerra dell’Anello per quello che e’, cioe’ un evento in un mondo di immaginazione la cui logica e’ separata da quello reale.
Ciao Cioban Bey, hai ragione. L’ ultima frase mi è proprio uscita male. Non so però se sia o meno dogmatica. Comunque non volevo dire più di quello che ho banalmente detto: e cioè che opera ed autore sono, per me, inscindibili. Con questo non intendo dire che la biografia di un autore possa spiegare i singoli passaggi di un’ opera: “Per esempio, il fatto che Tolkien abbia partecipato alla prima guerra mondiale, se vogliamo, in parte “spiega” il fatto che la sua immaginazione si volgesse spesso al mondo della guerra: ma questo non e’ un giudizio critico, bensi’ biografico. Voler per forza vedere la prima guerra mondiale nella guerra dell’Anello significa non voler vedere la guerra dell’Anello […]” Non ho mai detto che il SDA fosse il racconto della prima guerra mondiale, sarebbe estremamente semplicistico. Ho semplicemente pensato però che la fantasia di Tolkien si è riversata nella creazione di uno scenario bellico permanente per evidenti motivi biografici,credo che l’ esperienza della prima guerra mondiale abbia lasciato tracce indelebili nei soldati e nelle loro famiglie, come si può facilmente immaginare. Al punto anche da diventare un’ ossessione prolungata nel tempo. Credo solo che opera e biografia si integrino e si completino senza offrire la garanzia di fornire risposte esaustive sull’ una o sull’ altra. Di sicuro però la loro compenetrazione può essere fonte di maggiore comprensione. Poi mi sembra chiaro che l’ opera ad un certo punto assuma in alcuni casi un carattere di indipendenza dal suo autore. Come capita ai figli con i genitori. Non per questo non possiamo riconoscere un legame profondo, se vogliamo che questo legame esista e venga allo scoperto.Forse conoscere alcuni dettagli della biografia di uno scrittore non contribuisce sempre ad una maggiore comprensione. Forse, come dici tu, può portare anche ad una distorsione. Ma per quanto mi riguarda non è possibile ignorare il collegamento che esiste tra le due realtà. Come se ci fosse un fluido magico. In fondo lo scrittore non si limita a scrivere quello che pensa. Ma lo vive. È per questo che la lettura è un atto così coinvolgente. È come se il fluido magico passasse dall’autore all’opera al lettore. Non riesco ad immaginare una creazione, di qualunque tipo, senza chiedermi da dove provenga.
Siamo reduci da quasi due decenni di studio sul rapporto tra Tolkien e la sua esperienza al fronte. Uso come data di comodo il libro di John Garth su “Tolkien e la Grande Guerra”, del 2003. Un romanzo come “Stella del Mattino”, un fan movie come “Tolkien’s Road”, o il biopic (sbagliato) “Tolkien”, sono opere figlie della temperie di questi anni. Non si contano più gli articoli scritti sull’argomento.
Da ben prima esiste un filone di lettura che fa risalire la mitopoiesi tolkieniana all’esperienza religiosa, piuttosto che a quella bellica.
Poi ci sono i ferventi germanisti che leggono tutto come una riscrittura…
Volendo è possibile ipotizzare all’infinito su quali siano state le esperienze o gli interessi biografici che hanno portato Tolkien a scrivere ciò che ha scritto. Lui lo riteneva un esercizio ozioso. Noi magari un po’ meno, perché, come è stato detto, è legittimo interessarsi alla persona che ha prodotto una storia che ci appassiona, provare a immaginare cosa sentisse, quali spunti traesse da questo o quell’evento, ecc. Ci sta. Ma resta un gioco di ipotesi che lascia il tempo che trova. Su questo, Tolkien aveva ragione, credo.
Secondo me questo approccio ha anche una controindicazione che lui non considerava. Lo sguardo “biografistico” più che distogliere l’attenzione dall’opera sviandola sull’autore, rischia facilmente di tenerci più concentrati sul punto d’origine (un punto ipotetico, heisenberghianamente parlando, tra l’altro) e non sul punto d’approdo. Ci sono ancora troppo pochi studi e riflessioni sull’impatto dell’opera di Tolkien e sui motivi di tale impatto nella letteratura e direi nella cultura contemporanea (mi viene in mente soprattutto il saggio di Rosebury, pure quello del 2003, nessun altro di quella portata).
Il punto d’approdo è anche il romanzo che esce da se stesso, il surplus di senso che si può trovare in quelle pagine (e qui più che Heisenberg, bisognerebbe chiamare in causa Barthes). Così come non ci sono ancora studi – se si esclude “Arda Reconstructed” di Kane (2010) – sull’anomalia rappresentata dal caso di un autore che pubblica più da morto che da vivo grazie a un coautore “fantasma”. Fantasma che è l’esecutore testamentario trasformatosi in redattore e filologo dell’opera del padre, per dare parziale compimento al piano architettonico da lui abbozzato.
Personalmente trovo molto più interessanti questi ultimi aspetti, cioè quelli legati a Tolkien oltre Tolkien, in tutti i sensi, rispetto alla ricerca delle fonti e delle origini biografiche o bibliografiche. Partendo da Tolkien posso raggiungere molti altri autori e/o saggisti vicini e lontani da lui. Così a occhio, solo tra quelli della sua epoca, mi vengono George Orwell, Simone Weil, Albert Camus, o gli Angry Young Men, uno dei quali fu un Inklings della seconda generazione (alzi la mano chi l’avrebbe detto…).
Aprendo lo sguardo in questo modo, ci si accorge di influssi diretti e indiretti che portano fuori dalle pastoie di un dibattito per pochi intimi che ormai sembra quello tra i teologi di Bisanzio. Sia detto con la consapevolezza di averlo pure alimentato, per qualche tempo.
Ok perdonate l’ignoranza ma perché tutta questa ossessione con Tolkien?
Cioé un autore che, come detto nell’articolo, ha scritto poco e non cercava riconoscimenti personali eppure a 50 anni dalla morte ha societá letterarie a suo nome (i cui scambi diventano di fatto teatri di scontro politico) ed esposizioni sulla sua vita privata (cosa su cui, per quanto é dato capire, sarebbe forse stato il primo ad essere contrario).
Anche nell’ottica “dell’inventore di un genere” é una cosa abbastanza insolita: Mary Shelley, Bram Stoker o Robert Howard non hanno subito lo stesso interesse ossessivo sulla propria vita e opere a cui é sottoposto Tolkien. Gli unici autori che mi vengono in mente abbiamo subito lo stesso “trattamento” sono HP Lovecraft e, forse JK Rowling ma solo perché hanno avuto (o hanno) idee che devono per forza essere considerate nel giudizio delle proprie opere.
Per dirla in un’altra maniera: perché nel 2020 ancora tirare in ballo ancora le idee vecchie di 50 anni in un genere che fortunatamente ha evoluto molto rispetto alla sua creazione? Chiedo sinceramente, non é una provocazione.
…e si gli investimenti (e i probabili flop) miliardari dell’uomo piú ricco del mondo sono solo tangenti a questo discorso.
È un’ottima domanda. Che ovviamente non ha una risposta univoca. Però è un punto di partenza per una potenziale ricerca. Qui mi limiterò a dire che ci sono alcuni grossi autori del genere fantastico attuale, ad esempio Stephen King, George R.R. Martin, Neil Gaiman, Terry Pratchett (rip), Joe Abercrombie, Richard Morgan… che sostengono che la lettura del Signore degli Anelli ha avuto un ruolo determinante nella loro scelta di scrivere narrativa di quel genere. Così come ci sono autori di genere come Michael Moorcock, Philip Pullman, China Miéville, che sostengono più o meno di avere voluto scrivere fantasy anti-tolkieniano. In ogni caso, Tolkien ha influenzato, in positivo o in negativo, in maniera imprescindibile il genere fantastico tra XX e XXI secolo, restando un autore controverso. Così l’inizio della ricerca è un po’ più orientato…
Sará che tematicamente (e politicamente) mi ritrovo piú affine al secondo gruppo ma la veritá é che questo dubbio mi é sorto da uno stimolo ancora piú strano: leggere questo articolo mentre mia figlia si divora gli episodi di She-Ra su Netflix.
Ora chi non ha bimbe in casa non sa che é una serie veramente particolare e insospettabilmente ben scritta per essere il sequel di una pubblicitá per giocattoli degli anni ’80: a parte l’esaltazione Queer (l’unica relazione etero… E’ una vedovanza) sembra il rifiuto di tutto il fantasy classico Tolkeniano: l’esaltazione dei disertori, il rifiuto del dovere e della tradizione, le madri che sbagliano, i regnanti senza risposte e tutto il meting pot di etnie, fenotipi e corporature diverse (e la lista potrebbe continuare a lungo).
Quasi piú forte dei messaggi della serie é stata solo la reazione del fandom tossico e reazionario che l’ha vista come “un’attacco alla tradizione”, una “perversione dell’orignale” e tutto quel bel campionario di solite panzane che é stato applicato anche alla nuova traduzione de “Il signore degli anelli”.
Ora e qui scendiamo nelle preferenze personali: dato che la lotta anche nella letteratura é sempre quella: “mito passato inesistente” vs “arte degenerataºTM” non sarebbe meglio cercare di analizzare e amplificare queste nuove storie invece di continuare ad aggrapparsi alle vecchie? Sará che ho come l’impressione che Tolkien sia una sorta di campo di battaglia per una generazione letteraria specifica (qualcosa su cui se non sbaglio, scrisse anche la Lipperini, parlando della rivalutazione di Tolkien come autore “serio) o sará che magari tutto questo rientra nel mito tecnicizzato di Oxford che vuole vendersi ancora come una culla della letteratura e non come quel diplomicifio per ricchi immigrati che é ora (e che é sempre stato?).
In tutta onestá, anche considerando l’importanza specifica de Il Signore degli Anelli, staremmo ancora parlando di Tolkien se invece che un professore di Oxford fosse stato un pugile amatoriale texano, un gestore di teatri irlandese o un topo di biblioteca veronese?
…o forse questa é solo l’impressione parziale di quell’adolescente di tanto tempo ancora traumatizzato dall’aver cercato di leggere il Signore degli anelli partendo da Salgari e Joe Dever.
«Non sarebbe meglio cercare di analizzare e amplificare queste nuove storie invece di continuare ad aggrapparsi alle vecchie?»
È questa dicotomia a essere sbagliata. Uno dei principali campi di interesse e di studio del mio compare WM4, dell’AIST e di tanti “tolkienologi” è proprio l’immane proliferazione di nuove storie che continuano a diramarsi dal “ceppo” tolkieniano: spin-off, sequel ufficiosi, fan fiction a bizzeffe, fumetti, videogame, giochi di ruolo con le carte o dal vivo, testi di canzoni di migliaia di band, opere grafiche e pittoriche e mille altre formule crossmediali e trans-genere. Perché l’opera di Tolkien si è prestata molto più di altre a tale proliferazione? Perché quell’opera continua a vivere in mille prosecuzioni, rivisitazioni, reinterpretazioni? Questa è la domanda (una delle domande) a cui si sta cercando di rispondere. Io dubito che la risposta possa essere: perché era un prof di Oxford e Oxford se la tira.
Io credo che se dovessi ragionare in base alle affinità politiche, non saprei a quale dei due gruppi sentirmi più affine. I due gruppi sono un mix che copre tutto l’arco della sinistra: si va dai liberal americani, agli anarchici, dagli umanisti razionalisti ai marxisti.
Sta di fatto che nessuno di quegli autori ha dato vita a un fenomeno culturale come è successo ai libri di Tolkien. Per fenomeno intendo quello che scrive qui sopra il mio socio, cioè una complessa rete di diramazioni transmediali che ormai coinvolge tre generazioni. Difficile trovare, nella storia della letteratura, un terreno più fertile della Terra di Mezzo. Sui motivi si discute da settant’anni, ma uno lo escluderei certamente: il fatto che l’autore fosse un professore di Oxford. All’epoca, gli anni Trenta e Cinquanta del XX secolo, che un accademico si dilettasse di narrativa non era considerato serio, andava a suo detrimento. L’unico accademico che lo prese sul serio infatti fu il collega C.S. Lewis, perché era un narratore anche lui. Dopodiché le fortune di Tolkien sono state legate a una generazione di fricchettoni e rockettari psichedelici che della sua provenienza oxoniense non potevano fregarsene di meno, credo.
Detto questo, un prodotto narrativo contemporaneo è sicuramente più updated dell’opera di Tolkien su svariate questioni quali ad esempio quelle che dici essere presenti nel reboot di uno spin-off “femminile” di una serie di cartoni animati “maschili” degli anni Ottanta. O per lo meno diciamo che un racconto come quello probabilmente le mostra e le affronta in maniera più palese e diretta. Tuttavia il racconto apparentemente più retrò è forse più complesso di quanto si supponga e tende a debordare dai binari nei quali lo si dà per instradato.
Potrei dirti che soprattutto in America esiste un filone recente di lettura femminista dell’opera di Tolkien di tutto rispetto (cfr. “Perilous and Fair” a cura di J. Brennan Croft, 2015), contrapposto ad altre critiche della stessa matrice che lo avevano demolito negli anni Settanta. Esiste anche una chiave di lettura queer (cfr. “Tolkien and Alterity”, a cura di Ch. Vaccaro e Y. Kisor, 2017). E certamente esiste una chiave di lettura anti-bellicista (cfr. “Baptism of Fire”, ancora a cura di J. Brennan Croft, 2015). A scanso di equivoci, ho citato tre raccolte di saggi accademici, non amatoriali come capita spesso in Italia.
Ti dirò che per me quella tra “mito passato” e “arte moderna” è una falsa dialettica. I narratori riscrivono i vecchi miti in modi sempre nuovi. Questo penso. E credo che non solo Tolkien, ma anche molti di quegli autori che citavo condividerebbero questa idea. Tolkien non ha fatto niente di troppo diverso da quello che fecero i suoi contemporanei “modernisti”, cioè riscrivere miti. Loro lo fecero con ironia, lui seriamente. Questa è la differenza. Loro per raccontare lo smarrimento dell’umanità dopo la Guerra mondiale, lui per affermare che era possibile ritrovarla l’umanità, nonostante la Guerra mondiale. Restano comunque più vicini di quanto si pensi. Se non altro perché hanno vissuto nella stessa epoca e dovuto affrontare gli stessi problemi narrativi.
Grazie per le risposte. Devo ammettere che, vuoi la differenza generazionale, vuoi la lontananza stilistica, ho sempre considerato la “Tolkeniologia” come qualcosa di piuttosto alieno, quasi una profezia che si autoavvera: “Tolkien é importante perché un sacco di gente importante dice che é importante”. Ma questo é ovviamente un pregiudizio creato dall’aver impattato con la sua opera non dall’angolo accademico ma da quello popolare/nerd: dove leggere il “Signore degli anelli” é una sorta di rito di passaggio per “elevarsi” dal fantasy “basso”.
Ovviamente capisco l’importanza dell’opera di Tolkien ma non posso fare a meno di notare che questa “cristallizazione” sulle “storie vecchie” sia abbastanza in contrasto con quella che é la natura della letteratura: fatta di continue evoluzioni, richiami e ibridazioni. Tolkien stesso sarebbe stato d’accordo con uno studio cosí definito della sua opera o, vista la sua natura modernista, avrebbe preferito che le sue storie fossero stati punti di partenza/appoggio per qualcos’altro? Anche rimamendo all’interno della “Tolkien House” si puó notare una certa frattura tra il lato accademico e quello di intrattenimento che col tempo non ha fatto altro che crescere…
…vedi, ad esempio, la polemica scatenata dal fatto che i casting call per la serie di Amazon prevedevano nudo. Si, trovo ovviamente ridicolo andare appresso a questi stunt, ma dall’altro trovo anche abbastanza forzato pensare che i costumi sessuali di un intero continente siano conformi e limitati ad una logica cattolico/borghese. Possibile che non si possa usare tutto il voluminoso corpo di studi Tolkeniani per trovare una soluzione piú vera e viva?
Vista dall’esterno e da semplici appassionati come me, é come se i migliori dottori del mondo si fossero messi all’opera per trovare la formula della panacea universale di 70 anni fa ma che, per farlo, abbiamo finito con l’ignorare la fila di pazienti che si sta accumulando di fuori. (metafora un po’ forzata ma in tempi di covid é difficile cacciare dalla testa certe immagini)