Undici anni dopo la prima edizione, pubblicata da Ediciclo, Il sentiero degli dei di Wu Ming 2 si presenta in libreria con molte novità, a cominciare dall’editore, che adesso è Feltrinelli, per passare alla nuova copertina (di Matteo Berton), e al nuovo sottotitolo, “un racconto a piedi tra Bologna e Firenze”, per ricordare che il testo nasce dal cammino tra le due città (la Via degli dei) e un passo dopo l’altro canta storie di resistenza, di Grandi Opere dannose, di paesaggi ed esseri viventi, di acque e di boschi, di autostrade e ferrovie, di morti sul lavoro e stragi fasciste.
Ma soprattutto, la novità più importante è in ciò che il libro contiene, e nell’intervento che l’autore ha compiuto per aggiornarlo, sintetizzato in copertina dalla formula: “nuova edizione aumentata”.
“Aumentata”, per gli amanti dei numeri e delle misure, significa che al libro originale si sono aggiunti pagine e paragrafi pari a oltre la sua metà.
C’era bisogno di un simile “aumento” perché in questi dieci anni si sono conclusi i processi per uno dei più gravi disastri ambientali che l’Italia abbia mai conosciuto, quello causato dai cantieri per la linea ad Alta Velocità tra Bologna e Firenze: 5 sentenze, delle quali soltanto una, quella di primo grado, era stata pronunciata in tempo per renderne conto nel testo del 2010. Andavano raccontate le altre quattro, per evitare che la formula “tutti assolti”, ripetuta da siti e giornali, trasmettesse l’idea di un danno contenuto: niente colpevoli, niente reato.
C’era bisogno di un aumento per interrogare luoghi che nel frattempo sono cambiati, disseppellire nuove asce di guerra, riflettere sul rapporto tra il successo del libro e il successo della “Via degli Dei” – dove quest’estate, con il classico allarmismo, sono stati segnalati addirttura degli “ingorghi”, insieme a episodi di “turismo insostenibile”, con tanto di telecamere installate in un tratto del percorso, per prevenire “comportamenti inadeguati” e “contrastare il degrado”.
C’era bisogno di un aumento anche per spiegare di quale aumento ci fosse bisogno, e precisamente di una Seconda nota dell’autore, scritta nel luglio del 2020, poco più di dieci anni dopo la prima.
Le pubblichiamo entrambe, qui di seguito, perché per illustrare il come e il perché di questo aggiornamento non-identificabile a un oggetto narrativo non-identificato, ci sembra contengano le parole più adatte – almeno fino al prossimo “aumento”.
Nota dell’Autore
(alla maniera di Paco Ignacio Taibo II)
Una buona parte di questo libro consiste nella descrizione del cammino che va da Bologna a Firenze, da piazza Maggiore a piazza della Signoria, conosciuto come Via degli Dei.
Tappa per tappa, il lettore può seguire il percorso e il camminatore arrivare a destinazione.
Mancano però le mappe topografiche al 25.000 e il tono dei paragrafi è narrativo, partigiano e sentimentale. Sarebbe dunque difficile sostenere che questa è una guida per escursionisti.
Una buona parte di questo libro ha per protagonista un personaggio fittizio. Alcune avventure che gli accadono sono frutto di invenzione, altre – le più numerose – prendono spunto da episodi vissuti. Tuttavia la trama del libro è il semplice susseguirsi dei passi e il protagonista è una mano tesa al lettore, per invitarlo a camminare. Sarebbe dunque molto difficile sostenere che questo è un romanzo. Di certo, non è letteratura.
Cinque parti di questo libro sono racconti brevi (i “notturni”) che si possono leggere anche in maniera autonoma, e varie sezioni del testo hanno la stessa caratteristica.
Tuttavia, sarebbe difficile sostenere che questa è una raccolta di novelle.
Una buona parte di questo libro si basa sulle esperienze dell’autore lungo la Via degli Dei, che egli ha percorso in diverse occasioni, a partire dai primi anni Zero.
Il cammino qui narrato, però, non corrisponde al resoconto di quelle giornate e molti argomenti contribuiscono a portarlo fuori strada. Sarebbe dunque difficile sostenere che questo è un diario di bordo.
Una buona parte di questo libro denuncia le “emergenze ambientali” che affliggono l’Appennino tra Bologna e Firenze, in particolare quelle dovute ai lavori per la ferrovia ad alta velocità. In fondo al volume vengono citate tutte le fonti dei dati e delle affermazioni.
Tuttavia, per quanto documentato, l’autore non è né un tecnico né un giornalista. Sarebbe dunque difficile affermare che questo è un saggio, un reportage o un’inchiesta.
Le cinque (o più) tappe della Via degli Dei attraversano due regioni, due province e quattordici comuni.
Se non vi piace attraversare i confini, camminare sui crinali e stare nei margini, temo che questo libro non faccia per voi.
In caso contrario, potreste provare a leggerlo, e trovarci dentro una guida per escursionisti, una raccolta di novelle, un diario di bordo, un saggio, un reportage, un’inchiesta e chissà cos’altro.
Seconda nota dell’Autore
(Dieci anni dopo, luglio 2020)
Come un assassino dalla scena del crimine, di norma sto alla larga dai libri che ho scritto. Una volta che lasciano il tavolo da lavoro e trovano pace su uno scaffale, non mi capita spesso di riprenderli in mano. Con questo non è andata così.
Sarà che negli anni ho accompagnato tante persone sulla Via degli Dei, e c’era sempre qualcuno che mi metteva una pagina sotto il naso, per indicarmi un errore alla quintultima riga o informarsi sull’esito di un processo d’appello, per suggerire una modifica, criticare un’idea o chiedermi di leggere ad alta voce.
Da quest’insolita frequentazione, ho scoperto che il testo stava invecchiando e mi sono chiesto come intervenire.
Quando una guida escursionistica contiene informazioni datate, si procede ad aggiornarle in una nuova edizione, e in alcuni casi la si riscrive da capo. Lo stesso non si può dire per un diario di viaggio: svecchiare le Pictures of Italy, scritte da Charles Dickens nel 1846, significherebbe distruggerne il valore. Al massimo, si possono inserire delle note, per segnalare che l’autore ha percorso una strada che non esiste più, ha visitato un palazzo abbattuto dai bombardamenti o si è recato in un borgo che ha cambiato nome. In un romanzo, anche un’integrazione del genere suonerebbe posticcia. Nessuno si sognerebbe di modernizzare l’ambientazione dublinese dell’Ulisse di Joyce o di segnalare, in fondo a un capitolo, che la tal scena non potrebbe più svolgersi, perché l’edificio che la ospita non esiste più.
Al cinema si girano i remake, e qualche volta sono pure interessanti, ma certo nessuno critica Vacanze romane perché la città dove passeggia Audrey Hepburn non è quella di oggi. Al contrario, ci piace vedere il film per confrontare gli esterni di allora con il loro aspetto attuale.
Se avete letto la nota precedente, “alla maniera di Paco Ignacio Taibo II”, saprete già che questo libro è un ibrido, o un gioco d’equilibrio tra generi diversi, un po’ guida escursionistica, un po’ reportage, un po’ diario di viaggio e un po’ racconto. Ma poiché a ogni tipo di testo si addice un diverso tipo di aggiornamento, come si deve procedere per rinnovare un libro che non appartiene a una categoria precisa? Bisogna lasciarlo com’è, assecondando la sua indole romanzesca, o è meglio riscrivere di sana pianta tutte le parti ormai “superate”? Occorre aggiungere delle postille o serve piuttosto una prefazione?
Nel 2015, d’accordo con l’editore, in occasione della prima edizione tascabile, ho sistemato le sviste, tolto di mezzo le fotografie e rimpolpato le note con informazioni fresche.
Pensavo così di essere a posto per un pezzo, ma Il sentiero continuava a venirmi sotto gli occhi, seguendo la sua natura nomade e inquieta. In breve, mi sono reso conto di non aver trovato la soluzione giusta: integrare le note è un espediente saggistico, ma questo benedetto libro non è soltanto un saggio. Avevo inserito qualche notizia in più e raccontato l’epilogo di alcune vicende, ma che dire di quelle affermazioni che mi suonavano scritte da un altro me? Se il libro era un miscuglio, potevo limitarmi ad aggiustare un solo ingrediente? Non dovevo affrontare anche altri mutamenti, come l’esplosione delle presenze sul percorso, che ormai era tra i cammini più conosciuti d’Italia e accoglieva ogni anno migliaia di viandanti? E potevo tralasciare quel che era rimasto uguale ad allora, e proprio per questo meritava un racconto, come nel caso dei fiumi del Mugello, che ancora soffrivano e sparivano, anche dopo la fine dei lavori per la Variante di valico e l’Alta Velocità?
Nel decennale dell’uscita in libreria, ho voluto tentare un esperimento più azzardato, questo.
Sfruttando la struttura del libro, che è scandito da paragrafi numerati, ho deciso di aggiungerne di nuovi, segnalati in corsivo, mentre sono intervenuto solo in rarissimi casi sul testo originale, per mantenerlo invariato il più possibile, insieme al suo valore di testimonianza storica.
Il risultato è un oggetto narrativo diverso dal precedente e dal sapore più complesso, come quando si utilizza una crema per farcire un dolce: la crema non cambia, ma assaggiarla nella torta non è la stessa cosa che mangiarsela a cucchiaiate.
Per il momento, mi pare la soluzione più interessante.
Tanto so già che pure questo volume non potrà trattenersi dal venirmi tra i piedi, dall’essermi d’inciampo, e dal costringermi a tornare sulla Via degli Dei.
Che gran piacere leggere (e rileggere) di una Via cosi’ importante e centrale (storicamente, geograficamente e ambientalmente) nel mezzo dello Stivale. Io abito a Fiesole e durante tutta l’Estate del 2020 c’era un fiume praticamente ininterrotto di persone a percorrere il sentiero, dall’alba al tramonto. Mai vista cosi’ tanta gente. Fino a che in autunno inoltrato a suon di DCPM non ci hanno rinchiuso, hanno continuato a camminare. Eppure l’altro giorno, con la Toscana in zona rossa e le regioni chiuse, ho visto una ragazza con lo zainone e tenda marciare sulla strada. Mi sembrava proprio una che leggerebbe Wu Ming. Chissa’ se fosse possibile rincontrare lei (ed il suo coraggio) qui.
Non so quanto possa essere interessante /rilevante, ma sono stato parte di questa moltitudine estiva. Ad agosto infatti sono riuscito finalmente a fare il sentiero e confermo indirettamente la valutazione numerica di Derzu. Oltre al centinaio di persone incrociato quotidianamente, gli albergatori e i vari negozianti di beni necessari (dal mangiare alle farmacie) hanno confermato che quest’anno c’è stata una vera esplosione, ma addirittura già da tarda primavera inoltrata, tipo maggio. Le restrizioni al viaggio hanno sicuramente aiutato, però dicevano anche che il trend era comunque in aumento da qualche anno. Certo è che quest’anno si sono trovati quasi presi alla sprovvista. E se la situazione rimane così penso che anche quest’estate 2021 vedrà un sacco di gente passare sul selciato della vecchia flaminia militare.
Ho percorso le pagine del Sentiero degli Dei, con gran diletto e spero davvero un giorno di poter attraversare il tragitto vero “a fette”. Ringrazio WM2 perchè ho trovato, tra le pagine, numerosi spunti che mi torneranno utilissimi nei prossimi incontri/scontri sul territorio, vis-à-vis, in conversazione. Ci sarebbe da dire, in primo luogo, che quella che per me era (pre-pandemia) una intensa e creativa lotta quotidiana, locale, per la tutela dell’ambiente si è ora trasformata in una sterile competizione locale/nazionale/internazionale, tra partiti, “a chi ce l’ha più verde”. La battaglia è, ovviamente, esclusivamente dialettica ed è logorroica; i diktat della Green-revolution filtrano nei discorsi della gente; gli scempi e i crimini intanto non cessano. Insomma non passa minuto che non si senta qualcun* menzionare “il problema dell’ambiente”, e relativa soluzione tecnologica, nel proprio discorso. Mi sembra quindi che ci sia urgente bisogno, nella comunicazione diretta, nell’incontro con l’altr*, di cambiare registro, di uno spostamento di prospettiva, di provare a raccontarla diversa. Chiedo quindi aiuto ai professionisti su Giap: vorrei provare ad approfondire un concetto partendo da ciò che ho letto nel libro; riguarda la riflessione a pagina 137, sul paesaggio come «…prodotto di una relazione di potere tra un soggetto attivo e un oggetto passivo». In particolare mi interesserebbe investigare più a fondo la teoria citata nell’ultimo paragrafo, secondo la quale in Europa abbiamo “scoperto il paesaggio” tramite la pittura. Esistono testi a riguardo? Qualche autore o studio in particolare che mi potreste consigliare? Ringrazio in anticipo chè poi il numero minimo di battute non mi permetterebbe di farlo.
L’ipotesi che citi, quella di una “scoperta” del paesaggio attraverso la pittura, si inserisce come caso di studio particolare in una prospettiva più ampia, ovvero l’idea, tipica della modernità, che il mondo acquisti un significato solo e soltanto per una mente umana capace di estrarlo con lo spremiagrumi dei suoi schemi concettuali. L’ipotesi alternativa, “ecologica”, che provo a indagare e a seguire nel libro, è l’idea che il significato stia nella relazione che ogni soggetto intrattiene con gli altri soggetti. Volendo, dal punto di vista della filosofia del linguaggio, è un’idea che si può far risalire agli scritti del “secondo Wittgenstein”, laddove afferma che il significato di una parola è nell’uso che ne facciamo.
Rispetto al paesaggio – inteso come territorio che acquista significato – queste due prospettive si traducono in due diverse interpretazioni: da una parte, quella di chi sostiene che “il paesaggio non fa ombra” (perché sta nella nostra mente) e che il paesaggio inizia ad esistere solo quando viene elaborato il relativo concetto (estetico); dall’altra, chi pensa invece che sia il gesto di abitare un territorio a trasformarlo in paesaggio ( e quindi esiste il paesaggio di una mosca, esiste il paesaggio di un europeo del Seicento ed esiste il paesaggio di uno yanomami della foresta amazzonica, mentre se pensiamo che “il paesaggio nasce in Europa con la pittura”, stiamo anche dicendo che un aranda dell’Australia, con le sue Vie dei Canti, non percepisce un paesaggio…)
Una eccezionale analisi di queste idee – dal punto di vista “ecologico” – si trova nella raccolta di scritti di Tim Ingold, “The perception of the environment”: https://leiaarqueologia.files.wordpress.com/2017/08/the-perception-of-the-environment-tim-ingold.pdf
In particolare ai capitoli 1, 3, 10, 11 e 13 (in origine pubblicati come articoli a sé stanti).
Il collegamento tra “nascita del paesaggio” e pittura lo trovi argomentato in vari libri, ad esempio:
P. Camporesi, Le belle contrade: nascita del paesaggio italiano
C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio
R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica
In qualche modo “a mezza strada” tra l’idea di paesaggio come rappresentazione e quella di paesaggio come rapporto, si inseriscono i libri, molto affascinanti, di Eugenio Turri: “Il paesaggio come teatro”, “Antropologia del paesaggio”, “Semiologia del paesaggio italiano”.
Buone letture!
Sullo “scoprire il paesaggio attraverso la pittura”: un’idea simile, espressa naturalmente in modo paradossale e provocatorio, si trova in “The Decay of Lying” di Oscar Wilde (1891):
Where, if not from the impressionists, do we get those wonderful brown fogs that come creeping down our streets, blurring the gas lamps and changing the houses into monstrous shadows? To whom, if not to them and their master, do we owe the lovely silver mists that brood over our river, and turn to faint forms of fading grace curved bridge and swaying barge. The extraordinary change that has taken place in the climate of London during the last ten years is entirely due to a particular school of Art. At present people see fogs, not because they are fogs, but because poets and painters have taught them the mysterious loveliness of such effects. There may have been fogs for centuries in London. I dare say there were. But no one saw them, and so we know nothing about them. They did not exist until Art had invented them. Now, it must be admitted, fogs are carried to excess.
Ciao Dude,
volevo dare il mio mini-contributo sulla questione Paesaggio, a cui mi aveva introdotto il professore di italiano dell’Istituto Tecnico con letture di brani de “Storia del paesaggio agrario italiano” di Emilio Sereni e di cui ho finito per occuparmi “per vie traverse” professionalmente, sempre però da un punto di vista solo tecnico pratico e senza purtroppo nessuna delle letture consigliate da WM2 e da Cioban Bey.
Quello che volevo dire è che al di là degli aspetti percettivi di cui parla WM2 qui:
«da una parte, quella di chi sostiene che “il paesaggio non fa ombra” (perché sta nella nostra mente) e che il paesaggio inizia ad esistere solo quando viene elaborato il relativo concetto (estetico); dall’altra, chi pensa invece che sia il gesto di abitare un territorio a trasformarlo in paesaggio ( e quindi esiste il paesaggio di una mosca, esiste il paesaggio di un europeo del Seicento ed esiste il paesaggio di uno yanomami della foresta amazzonica, mentre se pensiamo che “il paesaggio nasce in Europa con la pittura”, stiamo anche dicendo che un aranda dell’Australia, con le sue Vie dei Canti, non percepisce un paesaggio…) »
io penso (dal basso e dal mio contesto) che si possa dare abbastanza per scontato che il “paesaggio” non è una cartolina o un dipinto, ma il prodotto dinamico di quell’atto di abitare il territorio di cui si parla sopra.
E’ l’interazione dell’umanità (e degli altri membri degli ecosistemi) a generare il paesaggio che poi possiamo “fermare” in un’istantanea ma che di suo continua a mutare ed essere mutato da queste interazioni.
Conosco valli alpine, ora lussureggianti di boschi, che a fine ‘800 non avevano una pianta, perché ogni terreno minimamente accessibile era coltivato o pascolato e ogni fusto legnoso finiva ad alimentare le fucine delle fonderie, delle prime fabbriche o le cucine e i forni degli operai di quelle fabbriche e delle miniere di ferro, oltre che dei pastori e contadini.
Il pattern e l’alternanza fra coltivi e piccoli boschi o boschetti tipico di certe campagne è destinato a mutare in un unico panorama boscato quando quelle campagne vengono abbandonate e i suoi abitanti si trasferiscono in massa nelle città.
Aggiungo una cosa forse un po’ complicata per me da spiegare e da tradurre in un testo inequivoco, ma trovo che
1) la tutela del paesaggio a volte tenda a concentrarsi più sulla cartolina che non sul fatto che i paesaggi naturali e agrari oltre a essere in evoluzione possono avere mutamenti “ciclici” o colturali che sono proprio quelli che hanno reso il paesaggio quello che è (le interazioni di cui sopra) e che vanno governati ma non congelati, pena l’inevitabile decadimento di quella cosa dinamica che “era” il paesaggio agrario prima.
2) sebbene si parli di vincolo “ambientale”, spesso i vincoli paesaggistici abbiano poco la capacità di tutelare l’ambiente. Faccio un esempio stupido, ma spero di farmi capire: quando si impone una mitigazione con magari una siepe atta a mascherare un certo intervento, chi la richiede spesso si concentra solo sugli aspetti visivi e “paesaggistici” (siepe verde, uniforme e a a foglia sempreverde che maschera il manufatto) e poco sugli aspetti veramente ecologici e ambientali (siepe mista, di arbusti autoctoni disomogenei e a foglia caduca, in grado di mutare con le stagioni, e di essere fonte di cibo e rifugio per insetti e uccelli).
Ciao “Cuzz”; innanzitutto ringrazio WM2 e Cioban Bey per le segnalazioni. Sereni, come gli altri suggerimenti di WM2, sono in “lista della spesa”; appena ho abbastanza fondi però (purtroppo alcuni di questi titoli costano un botto!).
Se ti interessa approfondire i punti 1 & 2 del tuo secondo commento, ti consiglio vivamente la lettura de «Il Sentiero Degli Dei». Numerosi passaggi del libro rappresentano ottimi appigli a potenziali riflessioni sul problema delle tutele/vincoli ambientali.
Per il resto capisco il senso di ciò che dici e mi trovi daccordo; concedimi tuttavia un breve appunto.
Mi pare di capire che la tua esistenza materiale ti permette di coltivare in maniera abbastanza costante relazioni con “l’altro”, il non-umano: la terra, le piante, gli insetti, I fiumi etc… e un poco ti invidio. Però: questo tuo (e di molti altri) “privilegio casuale” è, come tutti i privilegi, “esclusivo” in quanto ti consente di pensare che «si possa dare abbastanza per scontato che il “paesaggio” non è una cartolina o un dipinto».
Se da un lato questo può essere vero per una ristrettissima cerchia di persone (eg i “privilegiati” e tipo su Giap) la mia esperienza quotidiana, vissuta tra la metropoli e il villaggio rurale, mi permette invece di rilevare che, al di fuori della suddetta cerchia, per tutti coloro che “esperiscono l’altro” in maniera sporadica, occasionale, l’ambiente, la natura, il paesaggio e oramai anche le galassie, sono irrimediabilmente pensate e vissute in quanto relazioni prettamente estetiche, funzionali ai vari “propositi umani”, a quegli «scop[i] prestabilit[i]» di cui parlava Engels:
«Gli uomini, al contrario, quanto più si allontanano dall’animalità intesa nel senso ristretto della parola, tanto più fanno essi stessi la loro storia, consapevolmente; tanto minore diviene l’influsso su tale storia di fatti imprevisti e di forze incontrollate, tanto più esattamente il risultato storico corrisponde allo scopo prestabilito».
Questo è un gran bel problema.