[Questo nuovo speciale su La Q di Qomplotto è imperniato su un testo di Giuliano Santoro ricavato dai suoi appunti di lettura. Riflessioni che non potevano trovare spazio nella recensione poi uscita sul manifesto.
A seguire segnaliamo nuove recensioni, tutte molto angolate e idiosincratiche.
Segnaliamo anche un’intervista rilasciata da WM1 in inglese, nell’ambito di un interessante progetto di ricerca anglo-nordamericano su cospirazionismo e gamification.
Infine, il calendario aggiornato delle presentazioni del libro.
A proposito, Claudio Madella ci ha regalato un nuovo poster, vedi didascalia dell’immagine di testa.
Per quanto riguarda l’audioserie La Q di Podqast, invece, ci siamo presi una pausa necessaria a preparare le ultime puntate, una delle quali sarà (forse) registrata dal vivo di fronte a un pubblico. Le prime sette puntate sono qui.
Buone letture e buoni ascolti. WM]
di Giuliano Santoro *
Mentre leggevo La Q di Qomplotto annotavo a margine le cose che si intersecavano coi macrotemi di cui mi sono occupato in questi anni: la reazione che assume alcuni dei tratti della rivoluzione; il modo in cui le destre utilizzano la cultura nazionalpopolare per rafforzare la loro egemonia, soprattutto in relazione alla mutazione digitale e all’esplosione del lavoro nell’arco dell’intera esistenza…
Più che di un testo organico si tratta di un file zippato di idee, link e ipotesi di lavoro. Forse soltanto la discussione e la sperimentazione collettiva sono in grado di capire se vale la pena decomprimerlo, di isolare e sviluppare alcune tracce.
Prima abbiamo imparato che far saltare la disciplina della grande fabbrica non è stato sufficiente per liberarci dallo sfruttamento (anni Settanta).
Poi abbiamo dovuto prendere atto che la pur imprescindibile disseminazione capillare di esperienze di autogoverno, autoproduzione e comunicazione indipendente non ha prodotto automaticamente organizzazione politica (anni Novanta).
Adesso si tratta di ragionare attorno al fatto che il potenziale accesso alle informazioni e alla comunicazione orizzontale telematica della stragrande parte della cittadinanza non genera necessariamente maggiore consapevolezza collettiva (Anni Dieci del secolo successivo).
In altre parole, questo accenno di discorso ha a che fare col modo in cui tre nessi che si rincorrono ogni due decadi – il lavoro diffuso, la creazione di istituzioni altre e la condivisione di conoscenza – vengono addomesticati e triturati in relazioni gerarchiche.
1. Parliamo di noi
Dobbiamo smetterla di fare raccontare ad altri la nostra storia, seppure per una forma di narcisismo («Parlano di me, sono proprio io»). L’interessante proliferare di archivi digitali dei movimenti è un segnale di controtendenza. Dunque, anche qui, parliamo di noi. Ma diciamo subito che non possiamo svelare tutto: What we do is secret, diceva il poeta.
Il libro di Wu Ming 1 assume i tratti dell’oggetto conturbante, l’autore si mette in discussione ad ogni pagina ma costringe a mettere in discussione anche il punto di vista del lettore. Allora diciamo subito che le sottoculture hanno i tratti della cospirazione, come se i loro adepti fossero parte di una trama oscura da proteggere, come se fossero gli unici a tramandarsi una storia, difendere spazi, diffidare di infiltrati (accusati di volta in volta di essere svenduti e/o modaioli). Per motivi generazionali o puramente stilistici, gli aderenti a una sottocultura costruiscono un sistema di simboli visibile a tutti ma in fondo solo a loro comprensibile: pillola rossa e sei dentro, pillola blu e sei fuori secondo il bivio da culto gnostico di Matrix.
Nei movimenti degli anni Novanta circolava uno slogan, credo provenisse dal 1977 bolognese: «Cospirare vuol dire respirare insieme». Una delle più importanti operazioni controculturali italiane prende il nome di The Great Complotto, dal quale peraltro vengono fuori alcuni futuri membri del Luther Blissett Project, una delle forme più avanzate di commistione tra avanguardia artistica pratica sottoculturale ed esperimento politico.
Non abbiamo ragionato abbastanza della relazione rischiosa, non lineare ma evidente tra sottoculture e controculture da una parte e movimenti sociali. La definisco rischiosa perché una politica senza culture underground è asfittica e priva autonomia di linguaggio, pronta a farsi ingoiare dal teatrino mainstream. Al tempo stesso, senza l’orizzonte di una prospettiva politica le sottoculture possono ridursi a fenomeno generazionale, ghetto esistenziale, al massimo a serbatoio di politiche culturali alla mercé di imprenditori del settore. Come è evidente, l’equilibrio tra le due sfere è delicatissimo, forse irraggiungibile. Ma ogni tanto questa tensione si ritaglia momenti di grazia.
Fatto sta che Wu Ming 1 per parlare di Qomplotti ha bisogno di fare un bilancio dell’esperienza del Luther Blissett Project. Scrive: «Le fantasie di complotto le avevamo studiate, le avevamo smontate e ne avevamo inventate. Per lanciare il LBP avevamo saccheggiato testi esoterici e cospirazionisti, riadattando termini e frasi adeguando al nostro scopo quegli stratagemmi retorici. In fondo, cos’era il nostro piano se non un complotto sui generis?». Quelle messe in giro dal LBP non erano fake news ma «storie complesse pensate per essere abitate».
In un testo scritto per il primo numero di Jacobin Italia, quello che con una dichiarazione programmatica radicale e senza sconti innanzitutto per noi stessi aveva annunciato di voler indagare cosa significasse «vivere in un paese senza sinistra», avevo tracciato un ritratto dell’ultimo ventennio di rivoluzioni passive a partire dall’orgia durante la quale giornalista Paolo Brosio aveva letteralmente «visto la Madonna» e prendendo le mosse dalla sveltina consumata dietro un divano della casa della prima edizione del Grande fratello con la quale il maschio alfa né di destra né di sinistra Pietro Taricone aveva sedotto gli italiani. Avevo riproposto il concetto di «doppio agghiacciante», per riadattare quanto Paolo Virno ha espresso a proposito del rapporto tra forme di vita nel postfordismo e nuovo fascismo.
Il nuovo fascismo, scrive Virno, deforma caratteristiche comuni come «l’intellettualità di massa, le spinte autonomistiche e destatalizzanti, le “singolarità qualunque”, i cittadini smaliziati della società dello spettacolo». Allo stesso modo, forse possiamo dire che il cospirazionismo è il doppio agghiacciante delle narrazioni che noi abbiamo costruito, dentro e oltre il postmoderno, dalla fine del Novecento.
Pensiamo ad esempio al movimento cosiddetto No Global: al suo interno risuonavano diversi leitmotiv cospirazionisti. L’idea che la globalizzazione fosse il nuovo ordine mondiale destinato a distruggere le culture e le identità – tipica di certa nuova destra e adesso riproposto paro paro nel libro di Giorgia Meloni – circolava anche in quel grande contenitore. Così come i tre capitoli del documentario Zeitgeist (che lancia prima di altri su scala relativamente grande il fantomatico tema del signoraggio e del complotto delle Banche centrali e sostiene tesi complottiste sull’attentato dell’11 settembre) si diffonde nel contesto culturale del movimento anti-globalizzazione, quanto meno cerca di porsi in relazione con quell’universo. Come orientarsi?
Una delle discriminanti si intravede in uno degli elementi della mappa genetica del complottismo isolato da Wu Ming 1, al quale giustamente riconosce centralità nella ricostruzione dell’evoluzione storica del fenomeno. Si tratta della costante del rifiuto della modernità: «Il mondo cambia e io non so come interpretarlo». La grande paura della Rivoluzione francese, della nuova era che andava inaugurando, generò l’antisemitismo e poi i Protocolli dei Savi di Sion, che sono la matrice di ogni racconto cospirazionista. Gratta gratta e dietro ogni complotto spunteranno gli ebrei, intesi come esponenti per antonomasia di una cultura globale ante litteram e meticcia.
Proprio negli anni del movimento globale, tuttavia, le culture critiche postcoloniali ci hanno insegnato che non si tratta di percorrere una linea del tempo lineare, di limitarsi a decidere se bisogna andare avanti o indietro, ma che criticare la modernità significa costruire l’altermodernità, non illudersi di tornare a un mitico passato. Allo stesso modo, chi oggi rimpiange l’età aurea mai esistita degli stati nazione contro la globalizzazione fuori controllo, ricade spesso in schemi complottardi.
Questa forma di rottamazione dell’intelligenza collettiva ha ampiamente travalicato i confini politici tradizionali. Capita di ritrovarsela anche in contesti sedicenti di sinistra. Qualche anno fa mi sono imbattuto una presentazione di un saggio sulla finanza del vicepresidente emerito della Corte costituzionale Paolo Maddalena, cui era invitato tale Luciano Barra Caracciolo. Si tratta di un magistrato del Consiglio di stato già consulente di Berlusconi e sottosegretario agli affari europei nel governo M5S-Lega. Oggi si presenta come antiliberista, ma è quello che oggi chiameremmo – con un eufemismo – sovranista. Barra Caracciolo spiegava il dominio della finanza con un mix di autori trasversale e sincretistico (persino i poveri Marx e Gramsci). Ma il suo ragionamento sfocia nel cospirazionismo quando sventola la famigerata Hazard Circular, una lettera inviata da un banchiere inglese a un banchiere di New York nella quale si pianificava il progetto della finanza globale per dominare il mondo. Il documento risalirebbe al 1862, nel bel mezzo della guerra di secessione.
Facendo una breve ricerca ho scoperto che si tratta di un caposaldo del cospirazionismo, una storiella inventata che risale alla lotta degli schiavisti contro gli abolizionisti, un modo per rimpiangere le care vecchie fattorie coi campi di cotone e gli zii tom che sono state spazzate via dal liberalismo. Il vero archetipo del feticcio di una supposta economia reale vs speculazione finanziaria. Ovviamente nessuno in sala o al tavolo dei relatori – tra i quali stimati intellettuali di sinistra – si alzò per dissentire. Probabilmente più per negligenza che per inettitudine.
Oltre alla nostalgia for an age that never existed – col corollario del rimpianto per il caro vecchio stato nazionale, dove entrambi i termini, sia stato che nazione, sono feticci – La Q di qomplotto individua un altro fattore scatenante le narrazioni complottiste: è la fascinazione esoterica che scaturisce dal riflusso, dal ritorno al privato, dalla cultura del narcisismo, dal fatto che qualcuno decida che se non è possibile cambiare il mondo allora bisogna cambiare sé stessi. È così che il desiderio diventa consumo, la cura di sé diventa body building, Deleuze e Guattari diventano Verdiglione, la liberazione diventa libertinaggio (e/o liberismo), la critica della scienza diventa la cura Di Bella e così via. Questo calderone riproduce una forma di new age e genera l’antiscientismo piccolo-borghese che è facile individuare in certe correnti antivacciniste.
2. Helter skelter
Una volta appurato che questa storia ci riguarda molto più di quanto crediamo, non possiamo procedere senza riconoscere gli Stati uniti come terra di incubazione del complottismo postmoderno: dal maccartismo a Qanon. Tracciando il genoma del cospirazionismo Wu Ming 1 fa riferimento allo schema millenarista fondativo degli Stati uniti: lo sbarco dei padri pellegrini. Mi pare che nel corso del Novecento gli Usa siano stati il laboratorio di Wuhan delle più attuali forme di fondamentalismo reazionario.
Alcuni hanno notato come Ronald Reagan nel bel mezzo della controrivoluzione neoliberista citasse spesso il tema dell’Apocalisse nei suoi discorsi. Nel pieno degli anni Ottanta, quando la guerra contro l’Impero del male era quasi vinta e l’ottimismo edonista era la cifra dominante, il presidente-attore utilizzava quella matrice oscura e spaventosa, parlava del fatto che ci sarebbe stata una catastrofe e che pochi eletti ne sarebbero usciti per costruire un mondo nuovo. Solo in pochi sono in grado di riconoscere la vera trama delle cose che accadono e solo questi pochi si salveranno. Da questa narrazione esoterica al cospirazionismo il passo è brevissimo.
Da alcuni anni l’industria culturale statunitense sembra essersi accorta di questa specificità: in forme diverse le narrazioni seriali hanno affrontato il tema delle sette nate dopo la fine del movimento per i diritti civili degli anni sessanta. Non si limitarono a occuparne lo spazio ma ne ripresero temi e forme di vita. Mi riferisco a Wild Wild Country (la serie documentaria su una tranquilla provincia Wasp colonizzata dal settlement del novello padre pellegrino new age Osho), a Charles Manson (che peraltro assume un ruolo non indifferente in C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino), alla serie sul massacro di Waco ai danni dei seguaci di David Koresh, al reverendo Jim Jones, attorno al quale stanno lavorando da tempo gli autori di Breaking Bad.
Nella gran parte di questi casi i santoni di turno compiono un atto costituente per eccellenza, impossibile da interpretare senza ricorrere alle categorie del politico: fondano una città. Il caso del reverendo Jones è particolarmente significativo, me ne occupai anche su uno degli ultimi numeri della rivista Letteraria. La storia della setta che culmina nel più esteso fenomeno di suicidio di massa dell’epoca contemporanea e che almeno ai suoi inizi ha flirtato con il radicalismo è stata negli Usa nel corso degli anni al centro di una vera e propria ossessione narrativa. Su Jonestown sono stati scritti saggi, memoir, centinaia di inchieste. Eppure continua a perturbare, a stuzzicare l’inconscio collettivo nel profondo.
Il passaggio successivo, appuntato anni fa nel quaderno dei libri da scrivere, è stato: possiamo applicare nel contesto italiano questo schema? Se la crisi del movimento statunitense e il fallimento della ricerca di un altrove costituito dalle comuni hippies hanno prodotto la forma-setta, che cosa è successo nel nostro paese, negli anni del riflusso in cui si svolge la storia de Il Pendolo di Foucault?
La risposta che mi sono dato è: il santone che raccoglie le tensioni e le contraddizioni di quella fase, che fonda una città, è Vincenzo Muccioli. Il quale ha un passato da medium e organizzatore di sedute spiritiche, poi trova il modo di esercitare il suo carisma costruendo relazioni gerarchiche e al tempo stesso comunitarie con i tossicodipendenti, viene utilizzato in una fase di passaggio politico – nonostante evidenti problemi di natura etica e penale – come uomo-simbolo della lotta al male. Il successo e il dibattito suscitato dalla serie Sanpa, in qualche modo, conferma la necessità di mettere mano a quel rimosso.
3. Capitale e linguaggio
Virno dice che il moderno fascismo è il nostro doppio agghiacciante anche perché, come i movimenti contemporanei, «ha la sua radice nella distruzione della sfera lavorativa in quanto ambito privilegiato della socializzazione e luogo di acquisizione dell’identità politica».
È nota ormai la corrispondenza diretta tra la fine del fordismo e la fine degli accordi di Bretton Woods: mentre la grande fabbrica perdeva la sua centralità in luogo di una produzione estesa a tutta la vita e sparsa lungo tutto il pianeta, l’emissione di moneta non era più vincolata alle riserve auree. Era libera di scorrazzare per le strade telematiche della speculazione finanziaria. I futures erano un modo di mettere le mani sul futuro. L’economista Christian Marazzi ha spiegato come la svolta linguistica della produzione cui ha corrisposto la svolta finanziaria dell’economia abbia generato meccanismi finanziari basati sulla comunicazione. Mentre il dollaro veniva sganciato dal rapporto con l’oro, la comunicazione diventava un processo autoriferito.
Non si tratta di rivendicare una qualche distinzione tra reale e virtuale, sappiamo bene quanto queste sfere siano intrecciate e come il linguaggio e la comunicazione abbiamo effetti immediatamente concreti, performativi. Si tratta piuttosto di riconoscere che anche i fenomeni politici vivono quasi esclusivamente dentro la sfera egoriferita ed autoreferenziale della comunicazione e dello spettacolo. Fratelli d’Italia vola nei sondaggi ma non ha una persona da candidare a sindaco della capitale del paese. Se ne trovano anche alla sinistra della sinistra: quelli che ripescano feticci novecenteschi e rinfacciano chi cerca di stare coi piedi dentro la contemporaneità del postmodernismo sono i veri adepti del pensiero debole e della comunicazione prima di tutto, a ben vedere devoti alla forma di vita neoliberali e neotelevisive.
Parlando di finanza, Marazzi dice che «l’efficacia del linguaggio performativo dipende dalla legittimità di chi lo enuncia, dipende insomma dal potere e dalla forma giuridica di chi parla». La crisi economica è crisi di legittimità degli attori istituzionali, la loro incapacità di indirizzare i processi finanziari, orientare i flussi borsistici. Ma se anche in politica si scatena un processo di de-legittimazione tale per cui un anonimo Q – per di più forse col l’intenzione di prendere per il Qulo i complottisti – è in grado di innescare un processo planetario, allora abbiamo la dimensione della crisi che si estende alla politica. Marazzi ricorda che John Maynard Keynes, uno che di crisi se ne intendeva, chiamava convenzione «l’opinione che in un determinato periodo ha la meglio sulla molteplicità delle opinioni e che, in quanto ‘eletta’ dalla comunità, diventa opinione pubblica». E poi si domanda: «Quale è e come si impone storicamente il modello di interpretazione dei “fatti”?»
4. Ognuno risponde a un Qanon
Siamo arrivati al rapporto con il linguaggio della politica e col dibattito pubblico in Italia. Anzi, col linguaggio in generale. Leggendo La Q di Qomplotto ci si rende conto che il modo in cui si diffondono i complotti, il linguaggio che li veicola e il contesto che li accoglie, non riguarda soltanto il cospirazionismo in senso stretto. L’oggetto dell’analisi di Wu Ming 1 è un modo per raccontare il contesto, riguarda più in generale il modo in cui si struttura oggi l’arena e il confronto delle idee.
Wu Ming 1 cita Michael Barkun e il suo saggio A Culture Of Conspiracy non dicendosi convinto di una categorizzazione dei diversi modelli di complotto. A me pare rilevante però che Barkun individui il momento di passaggio, il divenire pop del cospirazionismo (la definizione è mia), al momento del debutto della serie televisiva X Files, uscita per la prima volta nel 1993, l’anno dell’insediamento di Bill Clinton, dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e dello scioglimento della Dc.
Quella serie segna una svolta, in due sensi. Perché la galassia di narrazioni cospirazioniste entrano ufficialmente a far parte della cultura pop. E soprattutto perché sotto il grande cappello della congiura del silenzio attorno allo sbarco degli alieni (sono tra di noi!) si vanno componendo tutte le altre storie cospirazioniste che da anni popolano l’immaginario dell’americano medio allergico all’invadenza dello stato e spaventato del mondo circostante. Dopo X Files, il complottismo smette di essere una sola grande narrazione coerente ma diventa un collage di narrazioni. Secondo un processo con l’ingresso delle masse in quanto tali nella sfera digitale si diffonde in maniera esponenziale. Se con Bernard Manin parliamo di democrazia del pubblico, e della comunicazione che prende il posto dell’organizzazione, allora dobbiamo capire a che tipo di pubblico ci riferiamo.
Con la fine della televisione generalista i media digitali inseguano la sommatoria delle tante nicchie di audience; allo stesso modo la nuova politica sembra riuscire a federare diverse congetture senza essere costretta a farne una sintesi coerente. Allo stesso modo in cui le piattaforme digitali costruiscono diversi canali e assecondano le differenze che costituiscono la platea degli utenti, il politico che lucra sul complottismo – o che ne usa i frame – moltiplica le sue parole d’ordine mettendo insieme concetti che provengono da diverse culture politiche e sensibilità. Si dirà che in politica le contraddizioni sono destinate a venire al pettine. Ma un’altra caratteristica tipica della piattaforma digitale per eccellenza, Facebook, mostra come le nicchie di audience difficilmente interagiscano tra loro, si scontrino. Puoi sostenere il Venezuela chavista ed apparire in una bolla come terzomondista e in un’altra come nazionalista con una riverniciata di socialista.
È ormai noto che il social network di Zuckerberg tende a restringere il campo delle nostre relazioni attorno alle affinità più strette: l’algoritmo seleziona le interazioni e ci sottopone solamente gli aggiornamenti di chi è considerato più consono alle nostre caratteristiche. È in questo modo che il cospirazionismo costruisce narrazioni on demand, plasmate sull’attività in rete del singolo (e atomizzato) consumatore. Ognuno è libero di credere alla sua versione di fatti, di ricombinare i frammenti di tweet, meme e post in modo che il suo convincimento ne esca rafforzato. Ci si informa per avere più frecce all’arco della propria idea pregressa, non per mettersi in crisi.
È in questo modo che la bolla si allarga, perché siamo tutti al lavoro per Qanon, ognuno di noi ha un Qanon che gli indica una direzione vaga eppure rassicurante e lo invita a mettersi alla ricerca della verità destinata a pochi eletti. Do your own research. Ed è in questo modo che, giusto per avere un riferimento, il partito che negli ultimi dieci anni ha conquistato la maggioranza del paese, il Movimento 5 Stelle, è riuscito a rastrellare voti sia a destra che a sinistra. Il giochetto è finito quando hanno capito che per sopravvivere dovevano per forza stare al governo, ma questa è un’altra storia.
Il cerchio si chiude con la mutazione di Facebook, non solo del suo algoritmo ma anche della sua ideologia, della sua dichiarazione programmatica. Nella prima fase di Facebook, Mark Zuckerberg annunciava – e la cosa incredibile era che questo intento ai più non pareva manco così assurdo – di voler portare pace e concordia nel mondo: tutti saremmo diventati amici nel Villaggio globale digitale, a furia di scambiarci messaggini e condividere meme! Nel 2017, dopo che il mito di Facebook e della rete come macchina in grado di diffondere intelligenza e armonia era stato incrinato dalla vittoria alle elezioni presidenziali statunitensi di Donald Trump, da Menlo Park hanno corretto il tiro. Così, come ha spiegato Antonio Casilli, hanno divulgato un manifesto nel quale si immagina una società fatta di tante piccole comunità (le bolle) che si mettono in relazione grazie alla infrastruttura Facebook. Il social network non garantisce che tutti siamo più buoni, ha smesso di promettere cose del genere. Ma consente di chiudersi in comunità per proteggersi dai cattivi. Ergo, da un micragnoso ottimismo digitale, dall’uso strumentale di retoriche liberal sulla open society e l’accesso ai saperi, siamo passati ad una evidente prospettiva libertariana di destra.
Dunque: c’è il comunitarismo di cui parlavamo all’inizio a proposito delle sette (ricostruisco «popoli», ma dall’alto), c’è il feticcio del confine e della perimetrazione delle relazioni sociali (quel genere di cose di cui ci hanno insegnato a diffidare il movimento delle donne e i migranti, per intenderci), c’è la svolta sfacciatamente reazionaria e sempre più commerciale delle piattaforme digitali. È un’ottima rappresentazione di come funziona il potere oggi: invenzione arbitraria di confini che vengono fatti passare per naturali, produzione di ghetti e imposizione di gerarchie. Il tutto per ritagliare spazi colonizzabili dal mercato, al fine di favorire lo sfruttamento. Sembra quasi un complotto!
* Giuliano Santoro lavora al manifesto, è redattore di Jacobin Italia ed è autore di diversi libri tra cui Al palo della morte. Storia di un omicidio in una periferia meticcia (Alegre, 2015).
Nuove recensioni e interviste
■ Su Psychiatry On Line densa recensione de La Q di Qomplotto a firma di Michele Ancona.
«Una lucida e densa storicizzazione di fatti contemporanei e dei nuclei sintomatici che da secoli attraversano il mondo occidentale. In molti punti si ha la sensazione di soffocare, di esserci dentro e di non sapere più come uscirne. Un libro che prende a schiaffi il lettore mettendolo davanti a una realtà in cui anche il corpo è ridotto a un fantasma […] La proposta di Wu Ming 1, in sintesi, è quella di una riappropriazione del corpo attraverso una rivoluzione sistemica che non passi per il social media ma per le piazze, che rimetta al centro il desiderio e non il godimento, che liberi i corpi da un sistema di produzione masturbatorio, narcotico e preconfezionato e assolutamente compatibile con la nascita dei vari totalitarismi.»
■ Su Global Project una recensione travestita da finta recensione travestita da altro ancora svela il complotto de La Q di Qomplotto. Si intitola «Manoscritto trovato in zona Dozza». Il riferimento è ambiguo: si tratta del carcere di Bologna, che è appunto nella parte di periferia bolognese nota come «la Dozza», oppure di Dozza, il borgo appenninico dove ha il proprio quartier generale l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani? Forse la risposta si trova tra i solchi di un album di Roberto Vecchioni, un album che a un certo punto compare nel libro…
«Iniziamo la nostra disamina ricordando che da mesi oramai il collettivo Wu Ming rilascia interviste e scrive analisi in cui afferma che i primi messaggi apparsi in rete a firma “Q” siano da attribuire a Qualcuno che si è ispirato al celebre romanzo del 1999 ed alle scorribande del collettivo Luther Blissett. Queste dichiarazioni sono servite naturalmente per preparare il campo e per iniziare a “mostrare la sutura”, come dicono loro. Ma tutto questo non è stato fatto in maniera troppo esplicita perché, per loro stessa ammissione, ad un certo punto Q è stato sottratto ai suoi creatori ed ha preso tutt’altra direzione. Andando ad elementi più specifici abbiamo contato ben 66 pagine, tutte multiple di 6, in cui le iniziali delle prime tre parole con cui si inizia il primo paragrafo sono SSN, ovvero: Siamo Stati Noi. Questo è un sistema di comunicazione in codice piuttosto comune nei testi antichi che sicuramente sono stati letti dall’autore per scrivere La Q di Qomplotto.»
■ Su Civiltà Laica Alessandro Chiometti aka AlexJC recensisce La Q di Qomplotto e pone un paio di questioni sulle quali WM1 risponderà qui in calce, con calma, tempo al tempo, prima leggete la recensione (e tutto il resto che vi proponiamo qui). WM1 farà una riflessione anche sul titolo scelto da Alex per il proprio post.
«Abbiamo particolarmente apprezzato: la genesi di come è stato possibile arrivare a questo, dalle fantasie di complotto sui Beatles e Paul is Dead alla fluororazione delle acque potabili e di come l’inettitudine degli stessi democratici (il famoso scandalo delle mail di Clinton) abbia aiutato; la chiamata in causa di Umberto Eco e il suo Pendolo di Focault che nella “sintesi” proposta ci è piaciuto da impazzire e ora quel tomo ci guarda da sotto la polvere raccolta in libreria in molti anni ghignando sommessamente ogni giorno che gli passiamo davanti ci ricorda quanto siamo sciocchi a non leggerlo; riteniamo infine straordinaria la ricostruzione “onirica” della “linea del sangue” al di qua e di là dell’Atlantico, dal Beato Simonino di Trento fino a Bibbiano passando per presunti satanisti sempre scagionati, spesso dopo tante sofferenze e mesi di carcere ingiustificato come è successo a Bologna per Marco Dimitri e i “Bambini di Satana”.»
■ Una densa intervista in due puntate su La Q di Qomplotto inaugura il podcast di un nuovo progetto, Conspiracy Games and Counter Games, «a research & intervention project about conspiracism in a gamified capitalist world», a cura di Aris Komporozos-Athanasiou, A. T. Kingsmith e Max Haiven.
L’intervista si intitola «The Q in Qonspiracy: Narrative, Games and Other Conspiracies» e si può ascoltare qui.
Calendario aggiornato delle presentazioni, giugno 2021
Venerdì 4 giugno
SIENA
h. 18, Corte dei Miracoli
via Roma 56
con l’autore dialogheranno
Maria Cristina Addis, Rossella Borri, Alberto Prunetti
e Tommaso Sbriccoli.
ATTENZIONE: POSTI ESAURITI.
Venerdì 11 giugno
REGGIO EMILIA
h. 18, Casa Bettola
via Martiri della Bettola 6
Per prenotazioni: 3316403513
Dettagli a seguire.
Giovedì 17 giugno
BOLOGNA
h. 18:30, Giardino del Guasto
via del Guasto 1
Presentazione congiunta de La Q di Qomplotto
e di Favole del reincanto di Stefania Consigliere
Parteciperà anche l’antropologa Cristina Zavaroni.
A cura della libreria Modo Infoshop.
Non è necessario prenotare.
Domenica 20 giugno
ROMA
Festival Contrattacco
SCuP!, via della Stazione Tuscolana 84.
Con WM1 ci sarà Gad Lerner.
Qui il programma completo del festival.
Mercoledì 23 giugno
PISOGNE (BS)
h 20.30, Piazza Vescovo Corna Pellegrini
Nell’ambito del Festival Terre dell’Ovest
(sistema interbibliotecario Brescia Ovest)
Organizzato con Libreria Puntoacapo / spazio STORiE.
Per prenotare: p.toacapo@gmail.com
Mercoledì 30 giugno
CESENA
h. 20, Magazzino Parallelo
via Genova 70.
Tra le date già fissate e quelle “orbitanti” il calendario è purtroppo già chiuso. A luglio Wu Ming 1 “staccherà” completamente. Sarà necessario recuperare le energie, dopo la collettiva tirata finale per La grande ondata del ’78. Il lavoro sui due libri non ha praticamente avuto soluzione di continuità. A luglio e agosto niente presentazioni né alcun altro impegno pubblico. Il piccolo tour riprenderà a settembre e finirà a metà ottobre.
Per ora è tutto. Da qui al prossimo speciale, aggiornamenti sul nostro canale Telegram, qui.
La Q di Qomplotto è in libreria ed è anche ordinabile dal sito delle Edizioni Alegre.
Pezzo bellissimo.
Grazie a Santoro; sto peraltro apprezzando in generale la linea editoriale del Manifesto, che si era un po’ persa a metà 2020.
In questo pezzo c’è una linea implicata fortemente ma forse mai esplicitata, neanche nel libro (o magari sì, non ricordo), che provo a esplicitare in forma di domanda: se il complottismo è l’ennesimo esercizio _individuale_ che individua una _moltitudine_ di gente che cospira, financo tutto il mondo della medicina, dai vertici dell’OMS al farmacista di quartiere… non è che il complottismo è _esattamente_ un sacco di gente che si sente sola, poveretta, orfana della socialità, dell’associazione e dei movimenti collettivi, che neppure riesce a individuare con chiarezza chi dovrebbero poi essere i propri “vicini” – complice la rimozione, ma non solo, del concetto di classe?
(Risposta: probabilmente sì?)
Assolutamente sì. Nel libro peraltro lo scrivo, e dico più volte che solo nuovi movimenti, nuove concatenazioni collettive possono prevenire le derive individuali e poi tribali nel cospirazionismo, tornando a contendere con lotte anticapitaliste e con legami solidali quello spazio che lo smantellamento/autosmantellamento delle sinistre (e soprattutto delle rappresentanze di classe) ha lasciato vuoto e le fantasie di complotto hanno occupato.
Guardacaso quando scoppiano lotte che toccano il reale, e si esplicita inimicizia lungo le giuste linee di frattura, “la moneta buona scaccia quella cattiva”. Molto probabilmente i lavoratori italiani che hanno scioperato, occupato, bloccato i flussi della logistica accanto a loro colleghi migranti, constatando anche il ruolo di avanguardie giocato da questi ultimi, sono meno sensibili a stronzate come la «Grande Sostituzione» e altre fantasie xenofobe.
Un altro esempio sono le scie chimiche: l’ascesa e il grande successo di quelle fantasie di complotto coincide con anni – gli ultimi anni Zero – di sconfitta dei movimenti, anni in cui tutti registravamo l’assenza di vere mobilitazioni sul problema climatico. Le fantasie sulle scie chimiche colmavano quell’assenza a modo loro, deviando ansie e frustrazioni in una narrazione diversiva. Narrazione diversiva di grande presa: all’epoca vi furono molte interrogazioni parlamentari sulle scie chimiche, anche da parte di deputati e senatori PD, partito che oggi posa da “anticomplottista”.
Ebbene, con l’irruzione sulla scena di movimenti di massa di lotta sul clima (FFF, Extinction Rebellion, mobilitazioni contro Grandi Opere ecc.), le fantasie sulle scie chimiche hanno perso lustro e sono state (temporaneamente) relegate ai margini dell’immaginario. Questo indipendentemente dal fatto che quei movimenti abbiano ottenuto risultati visibili (è presto, e non dimentichiamo che l’emergenza-pandemia ha interrotto un ciclo di lotte planetario).
Scusa il commento pleonastico, in tal caso.
Penso comunque che quando un lettore non è sicuro se una tesi l’abbia trovata dentro un libro, o se abbia unito i puntini spontaneamente successivamente alla lettura del medesimo, è riprova che tale libro è buono e stimolante.
E ok, il lettore è rincoglionito, altra condizione necessaria.
A mio modo di vedere ci sarebbe tutto da sperare che l’emergenza-pandemia — e la prolungata crisi sanitaria in cui si è trasformata — non sospenda ma anzi rafforzi quelle lotte.
Francamente trovo incredibile che si possa _non_ essere critici quando tanto la catastrofe quanto la repressione ce le hai sotto gli occhi tutto il giorno, paradossalmente _anche_ grazie ai vari provvedimenti puramente apotropaici messi in scena.
Tant’è: la stessa Commissione Europea sceglie di inaugurare esplicitamente l’inizio dell'”era delle pandemie” in un discorso agghiacciante e che è difficile non leggere col significato di “abituatevi”:
https://ec.europa.eu/commission/commissioners/2019-2024/kyriakides/announcements/global-health-age-pandemics-speech-commissioner-kyriakides-global-health-conference-organised_en
A proposito di Age of Pandemics, ecco una cosina del 2009 dal WSJ.
Se suscita uno sbadiglio, è comprensibile.
https://archive.is/VuIiP
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the Influenza Pandemic of 2009 is one of the most widely anticipated diseases in history. Epidemiologists have been shouting from rooftops that a pandemic (or, a world-wide epidemic) of influenza is overdue, and that it is not a matter of “if” but “when.” The current pathogen creating the threat is actually a mixture of viral genetic elements from all over the globe that have sorted, shifted, sorted, shifted, drifted and recombined to form this worrisome virus.
[…]
Today, we remain underprepared for any pandemic or major outbreak, whether it comes from newly emerging infectious diseases, bioterror attack or laboratory accident. We do not have the best general disease surveillance systems or “surge” capacity in our hospitals and health-care facilities. We do not have enough beds, respirators or seasoned public-health staff (many of whom, because of the financial meltdown, ironically got pink slips from their state and county health departments days or even hours before WHO declared we are at a Phase 5 alert, one step short of its highest global level).
[…]
And there is worse news: The 2009 swine flu will not be the last and may not be the worst pandemic that we will face in the coming years. Indeed, we might be entering an Age of Pandemics.
[…]
A few years ago, Lord Martin Rees, who holds three of the most distinguished titles in the scientific world (Astronomer Royal; Master of Trinity College, Cambridge; and head of the 350-year-old Royal Society, London) offered a $1,000 wager that bioterror or bioerror would unleash a catastrophic event claiming one million lives in the next two decades. Lord Rees said: “There’s real concern about whether our civilization can be safeguarded without us sacrificing too much in terms of privacy, diversity and individualism.”
[…]
The risks of pandemics only increase as the human population grows, the world loses greenbelts, uninhabited land disappears and more humans hunt and eat wild animals.
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Nessun commento è pleonastico, va bene qualunque occasione di ribadire e precisare.
Del resto non è che la classe dirigente ignorasse i “latrati del cane da guardia”: la DECISIONE N. 1082/2013/UE DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 22 ottobre 2013 decrive il quadro giuridico idoneo per affrontare a livello transfrontaliero l’ emergenza sottolineando l’ importanza della programmazione e pianificazione e il ruolo di una corretta comunicazione istituzionale.
Ancora quindi grandi contraddizioni in seno alla nostra democrazia(?) che si finisce ad amministrare male o anche peggio.
Per i 500 caratteri un breve doc RAI , sull’asilo di Rignano, in Ossi di seppia: l’ottica del giornalista de il Foglio che descrive certe dinamiche del circus mediatico la trovo assimilabile al vostro utile lavoro.
intendo dire alle dinamiche descritte nel lavoro di wuming1 e del resto del collettivo.
Mi incuriosisce in questi casi il ruolo che assume l’organo inquirente, che si trova a gestire una gatta da pelare non indifferente a livello di ordine pubblico, da una parte, forse perchè era troppo impegnato nella lotta alle mafie o ai sovversivi ; dall’ altra a gestire la possibilità che il reato effettivamente ci sia e quindi a intraprendere eventualmente un’ azione penale di cui assurge il ruolo di protagonista. Insomma lo sceriffo s’ era addormentato e quando scoppia il caso diventa la star sotto i riflettori, cavalcando i moti gastroenterici dell’opinione pubblica!
Ciao Rino, faccio un po’ un pout pourri di sensazioni e pensieri in libertà.
Questo tuo commento, che non avevo letto prima, e le riflessioni di WM1 toccano secondo me un punto molto importante.
In questi giorni, infatti, ho dato libero sfogo alla parte della mia anima più complottista :-)) girovagando per tutta una serie di siti a tema, alcuni più new age in cui andavo a piluccare saltuariamente già prima e uno che mi dicono più di destra che non avevo mai visitato prima: la sensazione di fondo, il “retrogusto”, che rimane dopo aver girato da quelle parti è proprio un senso di solitudine e isolamento. Perché ti accorgi di non essere “del tutto” a casa da nessuna parte.
Perché infatti se ti poni delle domande come quelle che si pone rafal qui https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/12/e-colpa-vostra-che-ci-state-a-sentire-covid-e-doppio-legame/#comment-43692, se sei critico nei confronti della gestione dell’epidemia (“lo stato di emergenza, [che, n.d.C.] ha smesso praticamente subito di essere una reazione all’emergenza sanitaria del Covid-19, per diventare una reazione all’emergenza politico-istituzionale del fallimento nella gestione dell’emergenza sanitaria”) e non solo, anche del ruolo che hanno ricoperto (alcuni) scienziati e i protocolli “mediatici” e per questo, visto che i tuoi compagni abituali sono virocentrici, vai a “cercare sponda” fra i complottisti vieni poi spiazzato dalla quantità di terribile “destrume” che aleggia e viene sdoganato da quelle parti.
Per ogni voce che finalmente dà ragione alle tue sensazioni e parla di tutela delle libertà (personali o collettive io non ho gli strumenti per capire al volo a quali stiano facendo riferimento) subito ne salta fuori qualcuna che rilancia le peggiori teorie razziste e antisemite o fa apologia del ventennio.
Per ogni voce che rimanda a qualche domanda un po’ più metafisica che personalmente mi sento di condividere, subito ne salta fuori qualcuna che la cavalca e la scavalca finendo direttamente nel medioevo e nella totale scomparsa della logica e di un barlume di raziocinio.
Ma questo, però, non è che automaticamente ti rimanda “indietro”, perché se sei andato a cercare da quelle parti è perché innanzitutto sei attratto da quei famosi “nuclei di verità” che “a casa” i tuoi abituali compagni di strada non vedono o liquidano come fuffa tout court oppure hanno respinto da tempo in modo aprioristico.
Persone colte e istruite che pur condividendo da sempre i tuoi stessi valori – almeno in teoria (questo in entrambi i versi) – di fronte alla paura del contagio si sono trovati a condividere coprifuoco, mascherine all’aperto e “distanziamento sociale” in modo che ha altrettanto poco di razionale della peggiore boutade complottista.
Ecco che quindi una certa solitudine e senso di isolamento si fa strada (senso di isolamento che, come detto da molti, è stato di molto mitigato in questo anno grazie a questo blog e ai suoi autori e commentatori).
Solitudine a livello “teorico” che, inoltre, raddoppia a livello quotidiano e terra terra quando poi i “vecchi compagni di strada” (come è stato ampiamente discusso qui in quest’anno) mostrano una totale mancanza di empatia “sul piano materiale” e di “visione condivisa di un futuro comune” e partono i refrain tipo “le partite iva sono padroni” o altre piacevolezze su scuola e giovani e movida etc.
Giusto una piccola precisazione, la citazione “la moneta buona scaccia quella cattiva” è invertita, la legge di Gresham sostiene al contrario che la moneta cattiva scacci quella buona, il contrario non avrebbe senso da un punto di vista economico.
La ragione sta nel fatto che tutti desidereranno mantenere la moneta buona (tesaurizzazione) e quindi gli scambi verranno conclusi con la moneta cattiva. Altra curiosità è che Aristofane per primo ne ha dato una definizione ne “Le Rane”
A fine ‘900 molti paesi invece hanno visto un processo inverso (dollarizzazione) in cui veniva utilizzato per gli scambi il dollaro rispetto alla più debole valuta locale
Vi ringrazio per avere inserito i 500 caratteri, altrimenti mi sarei fermato alla prima riga!
Il rovesciamento è intenzionale, “moneta” è usato in senso metaforico, cioè: le lotte vere tengono lontani i surrogati di lotta.
«la costante del rifiuto della modernità».
Permettetemi una domanda: se quanto sopra era vero in un epoca pre-digitale, quando l’accesso ai “saperi” non-teologici e all’informazione erano scarsi o richiedevano impegno, denaro e fatica, è corretto parlare oggi di «rifiuto della modernità» in una società capitalistica avanzata?
Io noto piuttosto un profondo e irresistibile desiderio di aderire, di far parte, di con-sacrarsi e, sopratutto, di non sentirsi esclusi da un “qualcosa”, da questa “modernità” prettamente scientifica (che infatti mi sembra stia subendo una mutazione, si stia spostando su posizioni sempre più dogmatiche). Una modernità che, ci viene detto, non è affatto esclusiva e complessa ma, piuttosto, gruppale e semplificabile, persino addomesticabile e, sopratutto, manichea; un aggregato di dati/informazioni che chiunque, con poche rudimentali nozioni e adeguati strumenti tecnologici, è in grado di recuperare, riordinare e spostare alla destra o alla sinistra dellle due casselle del bene e del male. Una modernità che si propone quindi come accessibile e comprensiva e della quale ci si sente fortemente spronati a far parte.
Infatti una delle caratteristiche peculiari delle fantasie di complotto è il loro essere assolutamente inclusive: indipendentemente da chi tú sia, dalla “matrice ideologica” individuale, chiunque può prender parte, partecipare passivamente o meno alla modernità, diventandone un “agente”.
La nuova costante quindi a me sembra essere non più il rifiuto ma il desiderio se non l’ansia di partecipazione alla modernità.
Bisogna intendersi su cosa intendiamo per «modernità».
Quando si parla di «modernità come complotto» e/o «rifiuto della modernità» non si intende la tecnica, non si intende il capitalismo, non si intendono i mezzi tecnici che il capitalismo mette a disposizione. Quelli non vengono rifiutati: Radio Maria, emittente reazionaria e pregna di cospirazionismo, è una radio, ha profili social, pubblica videoeditoriali ecc., la stessa cosa fanno tutti i movimenti tradizionalisti cattolici, usano i mezzi della modernità e al tempo stesso mantengono attivo il frame della «modernità come complotto»: citano Barruel ecc.
A essere rifiutata non è quella che Adorno e Horkheimer chiamarono «ragione strumentale» della modernità, tant’è che i due pensatori della Scuola di Francoforte partivano da una riflessione sulla tecnologia applicata allo sterminio nei lager nazisti, sterminio che era la messa in atto di presunte “contromisure” rispetto alla fantasia sul complotto giudaico. Fantasia divenuta cospirazionismo di stato.
A essere chiamati «modernità», e conseguentemente rifiutati, sono determinati valori e principii, principalmente valori e principii egualitari e antigerarchici, valori improntati a una razionalità emancipativa. In questo discorso la «modernità» è quella che Jacques Rancière chiamerebbe semplicemente «democrazia» (mentre quella che il mainstream chiama democrazia, la democrazia neoliberale, lui giustamente la chiama «oligarchia»).
Più di trent’anni fa lo storico americano Jeffrey Herf coniò l’espressione «modernismo reazionario» per definire l’approccio dei fascismi a modernità e tecnica. Il modernismo reazionario, scriveva Gian Enrico Rusconi introducendo l’opera di Herf in Italia, «attacca la razionalizzazione e la modernizzazione occidentale senza mettere sotto accusa l’industrialismo come tale o lo stesso capitalismo. Agli occhi dei modernisti reazionari l’industria – come apparato tecnologico – si salva in quanto si mette al servizio della potenza della nazione […] I nazisti attingono al linguaggio e alle metafore dei tecnocrati reazionari per dimostrare che il loro rifiuto dell’illuminismo è compatibile con la tecnologia.»
L’incipit del libro di Herf è significativo: «La modernità in generale non esiste.» Ovvero, bisogna sempre distinguere quale modernità, quando e dove.
Quindi, hai ragione quando dici che nel cospirazionismo odierno c’è un’ansia di prendere parte alla modernità, se la intendiamo come stadio supremo della ragione strumentale (e oggi quello stadio supremo è il capitalismo digitale basato sull’estrazione forzosa di dati sulle nostre vite e interazioni). Ma al tempo stesso, rimane attivo il frame del «rifiuto della modernità», perché quella che questi movimenti intendono come modernità è per loro frutto di un complotto, è il complotto dei complotti.
Meno convincente la tua idea che le fantasie di complotto odierne siano «assolutamente inclusive». I paletti ci sono, anche se meno visibili perché il terreno è scosceso e la linea di confine è tortuosa. Quasi tutte le fantasie di complotto di cui mi sono occupato nel libro sono fortemente improntate al razzismo, esprimono in modo più o meno diretto il desiderio di conservare la supremazia bianca. Oltre a questo, il cospirazionismo odierno continua a essere influenzato dagli “effetti di sostrato” dell’antisemitismo. Il che significa che quelle fantasie di complotto sono costruite su dichiarazioni di inimicizia e principii di esclusione.
A integrazione del commento precedente, un esempio basato su una dissimilitudine: le fantasie di complotto sulla «modernità» non c’entrano nulla con la critica della modernità che esprime Stefania Consigliere in Favole del reincanto.
In quest’ultimo caso, «modernità» è il ratiosuprematismo scientista, capitalistico e coloniale, la ragione come superstizione, cioè – risalendo a come usavano il termine i romani – come “eccesso di credenza”. Eccesso di credenza nei valori di progresso professati dalla borghesia, mentre
«sul versante fattuale [la modernità produceva] l’ecatombe coloniale, le enclosures, i roghi delle streghe, la disciplina di fabbrica, le istituzioni totali […], la tratta atlantica, l’estrattivismo, i genocidi, il totalitarismo, i campi di sterminio, la necropolitica e ora anche ciò che chiamiamo antropocene […]» (Stefania Consigliere, op. cit.)
Il modernismo reazionario di cui sopra accetta questo «versante fattuale» della modernità, anzi, ci sguazza e ne porta le logiche alle estreme conseguenze, come si è visto coi fascismi. In questo senso è modernismo.
Al contempo, il modernismo reazionario rifiuta con grande dispendio di retorica un’altra accezione di «modernità», la modernità intesa come principio che corrode e dissolve un vagheggiato ordine tradizionale con le sue “naturali” gerarchie (sociali, di genere, culturali, spirituali ecc.). In questo senso è reazionario.
Grazie per aver sbrogliato un altro nodo concettuale.
Qualche pensiero sulla superstizione introdotta nel secondo intervento.
Avviso: segue invettiva.
Forse sbaglio ma questo «eccesso di credenza nei valori di progresso professati dalla borghesia» mi sembra sia una caratteristica peculiare non solo della destra reazionaria ma anche, e in maniera abbastanza ampia, di una certa sinistra istituzionale, non solo Italiana.
L’elemento di superstizione a cui mi riferisco è quella particolare interpretazione del Marxismo secondo la quale il capitalismo rappresenterebbe una fase storica, transitoria, necessaria che porterà tramite il progresso, alla realizzazione di una società egalitaria; interpretazione che, si potrebbe dire grazie ad un operazione di “chirurgia estetica”, molti chiamano oggi accellerazionismo.
Questo modo di interpretare lo sviluppo della società umana, non rappresenta forse un eccesso di credenza, una superstizione, un illusione paragonabile a quella di una qualsiasi fantasia di complotto?
Dal mio punto di vista prendere parte a questa eroica e spedita marcia (borghese) verso un futuro socialista significa in realtà ignorare la radice materiale di piaghe sociali come povertà, emarginazione, razzismo ed il legame tra questi problemi e determinati processi economici.
Significa accettare di occultare la storia del capitalismo, che, come scriveva Benjamin, se guardiamo bene ci appare come una «catastrofe permanente» (vedi fascismo).
Stiamo forse trasformando l’intero pianeta in un tempio?
E se invece di abbracciare entusiasti il progresso capitalista/ambientalista e il forsennato determinismo tecnologico, provassimo a «tirare il freno», come dice sempre Benjamin, nel tentativo di fermare l’ennesima catastrofe? Non sarebbe questa una forma di altermodernità? Varrebbe come esempio pratico di razionalità emancipativa?
End of rant.
Vorrei chiarire: l’eccesso di credenza nei valori di progresso professati dalla borghesia (che si accompagna sempre col ratiosuprematismo) non è tipico della destra reazionaria. Della modernità come la intende Stefania, della ragione strumentale la destra reazionaria accetta i dati di fatto ma ne contesta la retorica. Il ratiosuprematismo, la ragione come superstizione è invece tipicissimo della “sinistra” neoliberale/tecnocratica. Naturalmente il ratiosuprematismo non c’entra nulla con la razionalità emancipativa, lo abbiamo visto nella gestione dell’emergenza pandemica, che è stata al tempo stesso boriosamente ratiosuprematista e demenzialmente irrazionale.
Questo commento fa più che chiarire: sintetizza un concetto importantissimo nel modo finora più perfetto.
Da incorniciare, grazie.
A parte quello: sto rileggendo Bulgakov, autore che adoro, accusato da più parti – da Lenin stesso? – di essere reazionario.
Vi pare questo giustificato? Per dirlo occorrerebbe forse misurarlo con un contesto storico o note biografiche che, francamento, non ho.
Mi pare comunque che avesse intercettato in più punti il concetto e avesse un certo astio per i bucatori di palloncini.
Se ben ricordo (devo ancora arrivarci e potrei stare interpolando) nel Maestro e Margherita avviene un po’ il contrario di uno spettacolo di Penn & Teller: si annuncia uno spettacolo di “Magia Nera e Smascheramento della Stessa” che finisce con i convitati teletrasportati _veramente_ sul Mar Nero.
Solo per ringraziare WM1 – e, più in generale, i partecipanti a questa discussione – per il lavoro di chiarificazione concettuale che, come sempre accade, aiuta anche a capire meglio se stessi.
Aggiungo un punto per certi aspetti collaterale alla discussione in corso, ma per altri cruciale.
Le istanze di liberazione dal dominio (gerarchie di ogni sorta, servitù varie, silenziamenti delle dissidenze, leggi vessatorie, violenze politiche e poliziesche, patriarcato, gerontocrazia ecc.) sono tutt’altro che sconosciute presso altre popolazioni. Solo che, spesso, non siamo capaci di riconoscerle.
Da noi, nell’epoca storica che diciamo “moderna”, queste piste hanno preso spesso le forme della ragione emancipativa – ed è una forma che ci (e, indubbiamente, mi) è carissima. Ma non è l’unica, e non bisogna immaginare che sia l’unica o che coincida con la possibilità di liberazione tout court. Non solo: pare che, storicamente, alcune delle idee a cui oggi siamo più affezionati – ad es. quella di democrazia – non sia affatto un’invenzione solo occidentale. (Ne discute David Greaber in “Critica della democrazia occidentale”.)
Quindi, per mia parte, potremmo tranquillamente lasciarci alle spalle l’orrore storico detto “modernità”, tenendoci stretta, e cara, la ragione astuta e danzante che permette di smascherare i trucchi e le bugie del dominio (come anche la poesia che indaga i margini di quel che ci è noti, i sogni che sanno portare visioni, le utopie che aiutano a camminare, i canti che scavano sentieri e via dicendo).
Breve attestato di gratitudine, anzi due: il primo alla professoressa Consigliere per aver portato a stampa un libro coraggioso e, per me cosa importantissima, in lingua italiana.
Il secondo a David Graeber uno dei pochi intellettuali che, nonstante la fama internazionale e fino all’ultimo, non ha mai smesso di portare il “culo per strada” ; qualcuno lo ha definito «l’esatto opposto di un cinico» e credo sia perchè le sue idee possono davvero essere di conforto in quest’epoca insensibile. Ho avuto la fortuna di assistitere ad una delle tante assemble a cielo aperto durante le quali parlava delle sue esperienze che poi trasformava in concetti e vi confido che, ancora oggi, terminata la lettura di uno qualsiasi dei suoi testi, mi sembra, stranamente, di sentire quel particolare e colloquiale tono di voce e la sua risatina riempire lo spazio.
Ai frequentatori di Giap connessi in questo momento che hanno apprezzato LQdQ vorrei suggerire in maniera appassionata di procurarsi al più presto Favole del Reincanto, se possible. Personalmente, dopo poco meno di 50 pagine del libro di SteCon (I am taking my own sweet time) ho la sensazione che sia un testo complementare a LQdQ, in qualche modo parallelo ; le parole e i concetti sembrano fuoriuscire dale pagine per intrecciarsi e formare una solida fune sulla quale, insieme, WM1 e Stefania incoraggiano le lettrici a mantenere una specie di equilibrio psico-fisico, nel precario avvicinamento alla necessaria emancipazione dalla figura dell’ «individuo occidentale», ad una vita effettivamente «non fascista».
Vorrei dire inoltre che opere come queste sono importanti per almeno due ragioni: la prima riguarda un certo senso del dovere (termine ambiguo ma va bene così) che, da genitore, personalmente sento sempre più intensamente, di arginare la «rottamazione dell’intelligenza collettiva» che, come ci ricorda Santoro, «ha ampiamente travalicato i confini politici tradizionali».
La seconda riguarda chiunque, in questa “piega” storica, sente il desiderio, la necessità di protestare. Il dissenso, per produrre mutamento, ha bisogno dei corpi, di menti che si incontrano, che si conoscono e ri-conoscono; prima di tornare per strada diventa quindi fondamentale imparare a riconoscere quella «matrice dei presupposti pulsionali, emotivi e cognitivi presenti in noi», imparare cioè a conoscere e ri-conoscere in primo luogo «la parte più oscura di noi stessi». Solo così, credo, ci si potrà confrontare realmente con la catstrofe e produrre enzimi che catalizzino un reale cambiamneto.
Devo dire che dopo aver letto( e ahimè ben poco elaborato) un capitolo del mio magister sulle considerazioni di Karl Marx relativamente alla guerra civile americana, il tema del Haz(z)ard Circular sta alimentando tanti dubbi culturali: dal perchè la bandiera sudista sia stata assunta a simbolo di resistenza al potere fino ad arrivare ad un limite intrinseco del riformismo , la differenziazione forse moralista tra l’economia reale e la speculazione finanziara, che forse ha precorso con le forti politiche di liberalizzazione del movimento di capitali questa fase critica della globalizzazione.
Grazie per questo utile fulgido scambio di idee: su J. Herf riporto uno spunto, da una brevissima ricerca, che la suddetta reazione sarebbe un’anomalia tutta tedesca che non ebbe riscontri in altri paesi europei. Ricordo che neii miei studi universitari si riscontrava l’ analogo paradosso tra rivoluzione e conservatorismo nel fascismo nostrano,( aggiungo io in un Italia “grande proletaria”) , idea che poi sarebbe stata fortemente ridimensionata nella storiografia successiva.
Cara Stefania, le tue parole riescono sempre a risvegliarmi la voglia di riflettere. Sono ben d’accordo con te quando dici che dobbiamo tenerci cara e prenderci cura della ragione “astuta e danzante”. Allora, danzante sicuramente, astuta però specificandone il senso, cioè disincantata, non cioè “furba” perché la furbizia implica il calcolo, e il calcolo è l’interpretazione della modernità della ragione. Disincantata ma non cinica. Disincantata perché non cade più nel mito, ma anche disincantata rispetto alle proprie debolezze. Una tal ragione non vuole essere posseduta, vuole essere una causa finale, mai raggiungibile ma sempre presente come guida.
@ Negante: sì sì, hai ragione. Quando ho scritto “astuta”, pensavo alla metis dei greci, quell’arte di navigare nell’incerto che il nostro comune nume tutelare (sant’Enzo) ha descritto come nessun altro. E alle osservazioni di Simone Weil sui rapporti della Grecia con l’oceano del non-greco, del non-umano, del caos ecc. E forse: disincantata non tanto perché non cade più nel mito (cosa che penso non sia possibile), ma perché sa scegliersi i miti da esplorare, sa intuire le pieghe in cui diventano pericolosi e sa come disinnescare quelli malevoli.
@ Dude: molto toccata dal tuo commento su “Favole…”. (Lo farò leggere anche alla professoressa Consigliere, con la quale convivo da lungo tempo ma sempre in rapporti altalenanti.)
Segnalo a proposito di satanismo e complotti, la straordinaria intervista ad uno dei protagonisti, un ragazzo che, bimbo di 7 anni all’epoca dell’inchiesta sui “Diavoli della Bassa”, ammette di aver inventato tutto su pressioni degli psicologi. Che dire, complimenti per la presa di posizione in quegli anni da parte di Luther Blisset e sulla ricostruzione nel Q di complotto che integra i fatti in uno scenario piu’ globale.
https://video.repubblica.it/cronaca/veleno-parla-il-bambino-zero-erano-tutte-bugie-fui-costretto-a-inventare-gli-abusi-sessuali/389188/389908?ref=RHTP-BH-I0-P1-S2-T1
Oltre ad aver distrutto la vita della gente coinvolta nelle “confessioni”, ed aver inquinato la sfera pubblica con terrore ingiustificato, la vita di quegli stessi bimbi e’ segnata.
L’idea infatti è sfuggente, difficile da aggredire e circoscrivere in una critica compiuta ed esaustiva in quanto assolutamente contraddittoria: mettere all’opera una forma di rifiuto reazionario della modernità, stuzzicando quei frame tipici del pensiero di destra, aderendo alle caratteristiche tipiche del postmodernismo (pastiche, sincretismo, pensiero debole).
E’ questa contraddizione aperta tra quelle che definisci giustamente “rifiuto” e “ansia di partecipazione” a rendere al tempo stesso incoerente (dal punto di vista logico prima che etico :-) ) e quindi accattivante il cospirazionismo.
Fra le decine di libri che ho cominciato contemporaneamente, senza speranza/possibilità di finirli, c’è Favole del reincanto. Sono solo all’inizio inizio ma c’è una asserzione che mi ha colpita per la sua lapalissiana evidenza di impronunciabile verità. La frase mi è vagamente sembrata la metaforica trasposizione di un’affermazione di Falcone che da un po’ mi rimbalza in testa: la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un inizio ed una fine. La fiduciosa perentorietà di questa constatazione mi ha sempre confortata e sconvolta. Forse perché la fine di alcuni fenomeni può pessimisticamente coincidere solo con la fine dell’ umanità?… La frase di Stefania Consigliere è questa: ” ogni cosa fatta dagli umani – e il capitalismo è una di queste- può altrettanto essere sfatta. “. L’inquietante verità è che questa è ormai una constatazione impronunciabile su cui invece si dovrebbero scrivere fiumi di inchiostro e che si dovrebbe gridare ai quattro venti.
Ringrazio le prof Consigliere e Zavaroni per l’originale prospettiva proposta durante la presentazione al giardino del Guasto insieme a W.M. 1. Forse il clima surreale del giardino ha contribuito ad influenzare l’atmosfera. Bambini che giocavano, vociando spensierati, nella piscina di cemento ondulato del giardino hanno fatto da colonna sonora alle riflessioni sui due libri, insieme ad adulti curiosi, attenti e incredibilmente attivi nel porre domande, complice anche l’assenza di bavaglio.
Mentre sto preparando i bagagli per l’ellade e dopo aver affrontato le follie burocratiche non solo italiche per spostarsi da una terra all’altra, riflettevo che fra le varie vittime della pandemia c’è il concetto stesso di viaggio.
Se già da qualche anno erano sensibilmente diminuiti il numero di viaggiatori che affrontavano i chilometri, terrestri e marini, con i mezzi propri e viceversa erano aumentati quelli che si facevano catapultare con i charter spesso direttamente nel villaggio turistico, ho come la sensazione che quest’anno sarò uno dei pochi con una moto ad aspettare il traghetto sul bordo del molo.
Questo mi porterebbe a riflessioni transamericane in evidente contrasto con la leggerezza estiva e la voglia di evasione dopo due anni di Speranza (roba che neanche al peggior nemico…).
Ad ogni modo fra varianti delta che si diffondono in 10 secondi (altro che fake news) e focolai aperti e chiusi nel giro di una notte spero che dall’ellade leggerò anche, su questo blog, la risposta che WM1 ha promesso di riservare alle mie osservazioni.
A presto giaspsters.
L’ultimo numero di The Nation, storico settimanale della sinistra statunitense, è l’edizione doppia estiva dedicata quest’anno a utopia/distopia.
C’è anche questo interessantissimo articolo su Jim Jones e il rapporto dell’iconografia dell’atrocità con l’immaginario “di sinistra”, i modi in cui (come nel caso della setta che poi è arrivata al massacro di Jonestown) i due mondi possano in casi particolari incrociarsi e coincidere.
Credo che abbia molto a che fare con gli appunti che ho scritto qui sopra e sul rapporto con il cospirazionismo come nostro doppio agghiacciante.
Eccolo: https://www.thenation.com/article/society/jonestown/
GS
1.La lettura di LaQdiQ è stata abbastanza lunga. Da “non-bolognese” l’entrata nel testo ha necessitato di almeno altri 2 libri di Eco. Da antropologo sociale dilettante, invece, studiare la cultura come un fenomeno semiotico è tanto affascinante quanto complesso empiricamente. Molte pagine del libro muovono tra contesti e linguaggi. Trasportano il lettore tra nodi ed alleanze concettuali facendolo viaggiare in luoghi a volte difficili da accostare se si cercano socialità e non culturalismi. Nonostante le mie personali lacune però, il libro mi ha accompagnato tra i temi più spinosi del nuovo strutturalismo prodotto dal potere algoritmico e dalla tecnica. A volte però la critica che propone sembra rimanervi impigliata invece che liberarsene. QAnon è in effetti un caso perfetto di “gamification occidentale” quando “sostituzioni infinite” producono visioni sempre più “alterate” del mondo fino a reinventare un principio di realtà e/o a farsi delirio. Gli adepti di QAnon sono dei credenti che hanno accesso a verità iniziatiche. Sono parlati dal linguaggio nel senso più ampio del “Chi parla?”Lacaniano e ciò che di loro resta è tenuto assieme da un desiderio paranoide che “fa credere” di essere nuovamente nella Storia. LaQdiQ descrive molto bene i percorsi di formazione di questo principio di pensiero totalitario. Come però il semplice avvio del gioco possa diventare meccanismo di creazione di un diversivo permanente e in continua evoluzione narrativa, sostenuto da centinaia di migliaia di personalità autoritarie da tastiera, rimane per me ancora oscuro. Il libro non lo chiarisce come vorrei, ad esempio, con del buon vecchio materiale etnografico che mostri tanta intersoggettività per descrivere fenomeni connettivi che sono anche sociali e non solo culturali o linguistici. Senza questo “atterraggio” a volte i voli tra culture di destra, pur attingendo da una comune dimensione psichica e psicotica, mi sono sembrati quasi eccessivi. Sembra indubitabile che le piattaforme digitali ed i device tecnologici svolgano ormai la funzione dell’Ur-Codice generatore dell’ultimo mondo possibile. In questa prospettiva è vero che debunking è sinonimo di guerra culturale. Ma bisogna chiarire che quel mondo è già tutto catturato dentro linguistiche imperiali.
2. Per spiegarmi meglio, mi prendo un secondo commento sul testo di Giuliano Santoro, che è molto bello e molto interessante. Ci sono però degli aspetti che lo rendono meno convincente in alcuni dettagli. Secondo me le ragioni riguardano proprio una “critica al significante” che non si riesce a mettere a fuoco. Rimane sullo sfondo, troppo sbiadita. Faccio un esempio. Sono rimasto folgorato dal leggere la citazione di Marazzi, perchè riguarda temi sui quali ho speso alcuni anni di studi. Sono corso a leggere il libro citato, perfettamente parlato da quella “ricerca fai da te” che permette la rete. Qualcuno pareva aver descritto con semplicità ed efficacia un problema rilevante circa la natura linguistica dei processi di monetizzazione (quindi di debito e credito) che Deleuze e Guattari spiegano in profondità ma in maniera frammentaria ed a-teorica. Ecco quindi che mi sono ritrovato in un libro sul post-operaismo che racconta cose molto interessanti, alcune delle quali confutabili, altre in linea con i filoni di storia economica che conosco. Soprattutto però, questo è il punto del mio sproloquio, per dimostrare i propri assiomi, l’analisi linguistica che propone a volte rimane impigliata nella struttura che vorrebbe smontare o “contro-culturalizzare”. Universalizza fenomeni che si ipotizza riguardino una “totalità sociale” difficile da identificare se non dentro quella stessa forma imperiale che si sta tentando di decostruire. In poche parole, per tornare a LaQdiQ, il mondo delle piattaforme digitali pare ormai l’unico mondo possibile; cioè l’imperialismo del significante è già totalitario (o irreversibile che è un’altra parola che si ascolta spesso) tanto da richiedere un “passaggio evolutivo” di ogni singolarità biologica (in chiave sostenibile, cioè positiva). Non so se la pandemia abbia scardinato queste convinzioni o al contrario accelerato questa richiesta evolutiva. Mi chiedo però se invece di “partecipare al gioco” non sia meglio creare dei blocchi. Visti i contesti, invece di ri-narrare ed innestarsi sui flussi per deviarli, un buon “metodo” per decolonizzare non potrebbe essere la creazione di un “vuoto informativo”? O non ci rimane che la coscrizione alla guerra culturale e lanciare con un paracadute LaQdiQ su un villaggio casuale?