[Esce oggi in libreria, nella collana Working Class curata da Alberto Prunetti per le Edizioni Alegre, la nuova edizione italiana de La strada di Wigan Pier (€16), la celebre indagine sociale e conseguente riflessione politica che George Orwell realizzò e scrisse nel 1936, nei distretti minerari del Nord dell’Inghilterra.
Nonostante i quasi novant’anni che ci separano dall’epoca in cui quel testo fu scritto, le riflessioni di Orwell contengono spunti tutt’ora interessanti. Non soltanto perché la precarietà di vita e la condizione di certo proletariato persistono, e non soltanto fuori dal nostro continente; ma anche perché le riflessioni di Orwell si illuminano oggi di una luce nuova, se è vero, come scriveva il grande storico marxista Christopher Hill, che «la storia deve essere riscritta da ogni nuova generazione, perché, se il passato non cambia, è il presente che muta; ogni generazione rivolge al passato domande diverse, e nel rivivere aspetti diversi delle esperienze dei suoi predecessori, scopre di avere con essi nuovi punti in comune».
Di seguito riportiamo la prefazione scritta da Wu Ming 4.]
Prefazione
«La condizione della classe operaia è la vera base e il punto di partenza di tutti i movimenti sociali del presente poiché essa è la più alta e la più palese vetta della miseria sociale esistente ai nostri giorni.»
Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra
Un celebre aneddoto vuole che nel 1891 il passeggero di un treno fermatosi alla periferia di Wigan per un guasto sulla linea ferroviaria si affacciasse al finestrino e guardandosi attorno pronunciasse la fatidica domanda: «Where the bloody hell are we?».
Qualche anno dopo, il personaggio di “John Willie”, impersonato nei music-hall dal cantante comico George Formby Sr (1875-1921), che fu tra le fonti d’ispirazione del più celebre “Charlot”, soleva presentarsi al pubblico tra un colpo di tosse e l’altro dicendo di essere di ritorno da una vacanza a Wigan Pier. La comicità della gag nasceva dal fatto che quel nome evocava il lungomare di località balneari come Blackpool, quando in realtà l’unico «pier» di Wigan era un molo fluviale per il carico del carbone e i dintorni erano proverbiali per l’aria malsana. Anche se alla fine degli anni Venti il molo venne abbattuto, il sense of humour britannico garantì che quella zona dell’Inghilterra settentrionale mantenesse il nomignolo antifrastico.
La realtà era che le conurbazioni industriali e minerarie di città come Manchester e Leeds a cavallo dei due secoli erano quanto di più simile alla tolkieniana Mordor ci fosse in Gran Bretagna. Ancora negli anni Trenta quegli scorci rappresentavano uno shock percettivo per chiunque arrivasse dal sud. Nelle parole pittoriche di Orwell:
«Alle periferie delle città minerarie i paesaggi sono spaventosi e l’orizzonte è chiuso completamente ad anello da montagne grigie e frastagliate. Sotto i vostri piedi ci sono fango e cenere e sopra la testa sono tesi dei cavi d’acciaio dove carrelli carichi di scorie viaggiano lentamente attraverso il paese per miglia e miglia. Spesso questi cumuli di scorie di carbone sono incendiati e di notte potrete vedere i rivoletti rossi del fuoco che serpeggiano da una parte all’altra, assieme alle fiammelle azzurre e lente dello zolfo, che sembrano sempre sul punto di estinguersi e che poi si riattizzano. […] Ricordo un pomeriggio d’inverno negli orribili paraggi di Wigan. Tutt’intorno regnava il paesaggio lunare dei cumuli di scorie e a nord, attraverso i valichi – per così dire, attraverso i cumuli di scorie –, si potevano vedere le ciminiere delle fabbriche che emettevano le loro creste di fumo».
Eccolo il «bloody hell» dell’ignaro passeggero ferroviario, in cui menava la vita una popolazione pari a quella di Londra. Ma ancora tanta parte di quella vita non era visibile dal finestrino del treno, perché si svolgeva sottoterra, per estrarre il carbone che faceva viaggiare il treno stesso, ma anche la nave, faceva funzionare la fabbrica, riscaldava le case. Era ancora così nel 1936, quando George Orwell andò al nord per la sua inchiesta sul campo, per trasformare l’ideologia in carne e sangue e vite, per vivere con i minatori, nei loro tuguri, visitare i loro luoghi di lavoro, le miniere di carbonfossile. Nei suoi appunti disegnò quadretti e schizzi biografici che in pochi tratti affrescano un mondo. Orwell descrive ambienti, paesaggi, nuclei famigliari, e fa letteralmente i conti della spesa. Conteggia, con il pallottoliere, come un ragioniere economo, per sapere al centesimo quanto costa la vita del proletariato industriale, la classe dal cui lavoro dipende l’intero sistema socio-economico, e quanta misera parte del prodotto resta in tasca al produttore, cioè al minatore e alla sua famiglia. E a conti fatti, l’intellettuale borghese Orwell prova un malcelato senso di vergogna per la consapevolezza che da quel popolo del sottosuolo dipende la vita di quelli come lui, che percorrono la superficie senza vedere:
«In un certo modo è umiliante guardare i minatori al lavoro. Cominci a dubitare momentaneamente del tuo status di “intellettuale”, di persona che nel complesso si considera superiore. Perché capisci, quando li guardi, che è solo perché i minatori sudano sangue che le persone superiori possono rimanere superiori. Io e voi, e il redattore del Times Literary Supplement, e i poetastri e l’arcivescovo di Canterbury e il Compagno X, autore del “Marxismo per l’infanzia”, tutti noi dobbiamo la relativa decenza delle nostre esistenze a quei poveracci che sgobbano sottoterra, anneriti fino agli occhi, con la gola piena di polvere di carbone, che spingono avanti le loro pale con braccia e addominali d’acciaio».
Ma Orwell è anche un grande scrittore e sa di poter fare una cosa: raccontare la discesa agli inferi di quegli uomini, che come goblin o nani mitologici trascorrono le loro giornate lavorative nelle viscere della terra. Un racconto che per la sua vividezza non solo mette alla prova i lettori claustrofobici, ma trasmette ansia e senso di soffocamento a chiunque. Si leggono quelle pagine accompagnati da un pensiero costante: “Lui era lì”. Così come aveva vissuto da nullatenente tra i marginali di Parigi e Londra; così come aveva affrontato l’esperienza del servizio coloniale e toccato con mano la realtà dell’imperialismo; allo stesso modo Eric Arthur Blair in arte George Orwell scende sottoterra, perché non gli basta un’interpretazione politica della realtà se non poggia sull’osservazione empirica ed empatica al tempo stesso. Prima di tutto vuole capire, sentire, respirare la stessa aria viziata e satura di polveri dei minatori, piegarsi e strisciare nei cunicoli delle miniere, per centinaia di metri, perfino per chilometri. Solo così può raccontare davvero e senza filtri la condizione della classe operaia nell’Inghilterra degli anni Trenta, aggiornando il lavoro di uno dei grandi padri del marxismo come Engels, e guardare la propria immagine tanto diversa riflettersi in quella dei minatori. Forte di questa esperienza, pochi anni dopo, potrà dare forma alla sua critica al grande Charles Dickens, erroneamente considerato un romanziere del proletariato urbano, e in realtà ancora intento a coltivare un’urbanissima e individualistica etica borghese, tenendo sullo sfondo la classe lavoratrice e mettendo al centro delle sue storie il riscatto del singolo.
Grazie all’osservazione partecipata Orwell è tanto consapevole che la differenza di classe «basta a rendere impossibile una reale intimità» quanto convinto che lì si annidi il problema. Se mescolarsi con i sottoproletari dei bassifondi è soltanto questione mimetica, ben più difficile è farsi accettare dalla classe operaia, che ha un senso di appartenenza e tratti distintivi molto marcati. Questo porta Orwell a considerare i problemi di relazione e comunicazione tra la “sua” gente e la classe operaia, nella clamorosa seconda parte del libro, quella che il suo editore non avrebbe voluto pubblicare, spaventato dall’impietoso ritratto di una tipologia umana e politica nel quale i lettori si sarebbero riconosciuti.
La critica che Orwell ha saputo portare ai socialisti britannici, che agivano e predicavano nella culla del marxismo, quell’Inghilterra capofila dell’industrializzazione dove sorgevano le fabbriche e i quartieri osservati da Marx ed Engels, è di una crudezza rara. Perché questo libro non parla soltanto di minatori, operai e disoccupati, ma anche dei borghesi che si limitano a votare “bene” senza mutare di un millimetro il proprio stile di vita e modo di pensare; nonché dei borghesi dallo stile di vita invece più alternativo e radicale, ma facilmente percepito come eccentrico e respingente dalla classe lavoratrice.
Il problema, dice pragmaticamente Orwell, è che «come nel caso della religione cristiana, i seguaci del socialismo sono la sua peggiore pubblicità». Bam!
Ad esempio Orwell considera nefasta l’identificazione tra l’ideale socialista e l’idea di progresso tecnologico-industriale infinito. Pur rimanendo estraneo a qualsiasi mito regressivo, auspica un approccio critico al ruolo della tecnologia e dell’industrializzazione nella società contemporanea e al loro impatto alienante sulla classe lavoratrice, la quale non può manco permettersi l’esaltazione romantica del passato cara a certa borghesia. Mito del progresso tecnologico e rimpianto del Medioevo sono le due facce borghesi della stessa medaglia: la distanza tra progressisti e reazionari rimane più corta di quella tra le classi sociali.
La percezione di questa distanza, a volte più culturale che materiale, intralcia l’alleanza possibile tra classe operaia e borghesia proletarizzata in tempi di crisi, che invece sarebbe la chiave di un possibile sbocco rivoluzionario. Piuttosto i borghesi progressisti si convincono che la propria superiorità politico-intellettuale li impegni a redimere i proletari dalla demagogia, dalla rassegnazione e dal cattivo gusto, come appunto in una favola morale dickensiana. Al contrario che nei romanzi però i proletari si rivelano sempre troppo ignoranti e indisciplinati agli occhi di chi vorrebbe illuminare loro la strada verso un mondo migliore, così la delusione spinge i borghesi “rossi” a concludere che i lavoratori non ce la possano fare ad acquisire l’autocoscienza politica e che vadano salvati loro malgrado. Per questo servirà un governo forte, che metta le cose in ordine e faccia ciò che è necessario col pugno di ferro. Nasce da qui il fascino che la borghesia di sinistra nutre per le figure autoritarie, già premessa dei peggiori scenari. Infatti in tempi di crisi economica, la frustrazione e lo snobismo della borghesia spossessata sfoceranno nella sua fascistizzazione:
«È abbastanza semplice immaginare una classe media fatta a pezzi e ridotta in miseria, che rimarrà però ancora fieramente avversa nei suoi sentimenti alla classe operaia: ossia diventerà un partito fascista già pronto all’uso».
Orwell questo lo vedeva succedere in Europa tra le due guerre mondiali. E chissà se oggi riconoscerebbe, mutatis mutandis, un’analoga tendenza in atto nella società occidentale dei nostri primi anni Venti.
«C’è qualcosa che possiamo fare?» si chiede. Il suggerimento è ancora quello di uno scrittore: scegliere nuove parole, rinunciare al gergo dottrinario della tribù “marxista”, tradurlo per i profani, smettere di predicare il sacro verbo. Parlare di socialismo senza parlare di socialismo, insomma, riscoprendo ciò che è stato dato talmente per scontato da essere dimenticato:
«L’unica cosa su cui possiamo allearci sono gli ideali sottintesi al socialismo: giustizia e libertà. Ma sarebbe esagerato definire questi ideali «sottintesi»: sono quasi completamente dimenticati. Sono stati sepolti sotto strati e strati di perbenismo dottrinario, di diatribe di partito, di “progressismo” mal digerito, fino a diventare un diamante nascosto da una montagna di letame. Il compito dei socialisti sarà quello di riportare in luce quel diamante».
Per farlo occorre che la sua gente abbandoni il senso di superiorità intellettuale e morale, provando a mettersi nei panni degli altri, consapevole che se «la povertà è povertà, che il tuo strumento di lavoro sia un piccone o una penna stilografica», allora ragionare alla pari con la classe lavoratrice fa la differenza per qualunque progetto di trasformazione sociale in senso egualitario. Se i proletari, come diceva Marx, non hanno altro da perdere che le loro catene, noi borghesi impoveriti e precarizzati dall’eterna crisi capitalistica, dice Orwell, «non abbiamo da perdere che il nostro buon accento».
Appena consegnato il manoscritto di questo libro all’editore, Orwell partì per la guerra di Spagna, a combattere i fascisti nelle file del POUM. Una volta tornato a casa, dopo essere stato ferito, raccontò dall’interno anche quella pagina di storia. Soltanto nel decennio seguente avrebbe composto la grande allegoria “zoologica” della rivoluzione bolscevica e la più celebre distopia nella storia della letteratura. Se c’è uno scrittore che, nonostante il poco tempo concessogli, ha saputo infilarsi nei meandri della sua epoca per raccontarli quello è Orwell. Il posto di primo piano che occupa nel pantheon laico della sinistra è suo di diritto.
Ma oltre a riverirlo bisognerebbe anche tornare a leggerlo questo autore. Questo libro è l’occasione buona per farlo e per meditare sul nostro presente, come accade con le opere migliori. Voltata l’ultima pagina, facilmente ci si ritroverà a considerare che se mai l’intellettualità di sinistra vorrà recuperare una qualche efficacia del proprio agire politico-culturale dovrà ritrovare la strada per Wigan Pier. Dovunque oggi essa sia.
Prefazione molto bella e soprattutto stimolante. Non capisco una cosa però: in essa si parla di “critica che Orwell ha saputo portare ai socialisti britannici”. Oltre si dice che “Orwell considera nefasta l’identificazione tra l’ideale socialista e l’idea di progresso tecnologico-industriale infinito”. E, mi sembra di capire, si addossa la “colpa” dell’incomunicabilità fra classe operaia e borghesia proletarizzata solo a quest’ultima, e tale incomunicabilità spinge il borghese proletarizzato a fascistizzarsi.
Infatti: “i proletari si rivelano sempre troppo ignoranti e indisciplinati agli occhi di chi vorrebbe illuminare loro la strada verso un mondo migliore, così la delusione spinge i borghesi “rossi” a concludere che i lavoratori non ce la possano fare ad acquisire l’autocoscienza politica e che vadano salvati loro malgrado”, e questa delusione, secondo Orwell, autorizzerebbe implicitamente i borghesi a darsi anima e corpo a quel “governo forte che metta le cose in ordine” e, in ultima analisi, al fascismo.
Certamente capisco male io, ma vedo una contraddizione in un autore che prima dice che il proletario, suo malgrado, non può riconoscersi nel supponente borghese “rosso” (anche perchè “la distanza tra progressisti e reazionari rimane più corta di quella tra le classi sociali”), e poi sostiene che questa riottosa chiusura del mondo proletario, il cui forte senso di comunità e di appartenenza impedisce a chiunque di entravi, spinge implicitamente il borghese nelle braccia del fascismo.
Insomma, scorgo un Orwell in un certo senso cerchiobottista, che quando si tratta di individuare i responsabili della miserrima condizione del proletariato britannico e dell’ascesa del fascismo (siamo nel 1936), distribuisce un po’ di colpa al minatore e un po’ all’intellettuale borghese progressista. Spero, leggendo il libro, di trovare una qualche quota di questa responsabilità anche nel capitalista che quelle fabbriche e quelle miniere possedeva e che quel fascismo aveva generosamente alimentato, altrimenti penserei che intenzione del libro (meritevolissimo, intendiamoci) era quella di inserirsi nell’ennesima diatriba interna agli intellettuali di sinistra.
Marcello, mi permetto un consiglio: quando ti viene da premettere «Certamente capisco male io», ascoltala, quella premessa. Ti sta dicendo di rileggere quel che stai commentando, di pensarci ancora un po’ sopra. Io faccio sempre così, quella frase e altre simili, se mi vengono in mente, sono una “spia” preziosa. Non voglio rispondere per conto del mio compadre WM4, però il tuo commento mi sembra basato su un’inversione del senso di quello che lui ha scritto. Quanto alla speranza che The Road to Wigan Pier assegni «una qualche quota di responsabilità anche al capitalista», beh, è un po’ come sperare che Paura e delirio a Las Vegas contenga «almeno qualche riferimento alle droghe» :-)
Orwell non autorizza proprio nessuna fascistizzazione. Anzi, dice il contrario: sono le aspettative tutte ideologiche dei borghesi rossi che portano alla delusione, ovvero la loro incapacità di calarsi in mezzo alla classe operaia e accettarne le contraddizioni, la sporcizia, i limiti. È l’idealizzazione del proletario o della proletaria come vorremmo che fossero – coscienziosi combattenti di classe – a produrre quella delusione. Delusione che rinsalda la diffidenza istintiva, il senso di alterità di classe. E la sinistra senza lotta di classe si riduce a una piccola parte di borghesi illuminati che si sentono superiori agli altri perché hanno letto più libri (questo lo aggiungo io). Orwell mette al centro un problema che non ha colpevoli in una sola delle parti in causa. Non è proprio una questione di colpe, ma di attitudini, di atteggiamenti che si producono nella dinamica sociale e politica.
Certo che c’è anche una polemica interna agli intellettuali di sinistra, troppi dei quali secondo Orwell avevano abbracciato la svolta autoritaria staliniana in Unione sovietica o ancora prima quella mussoliniana in Italia. Ma il problema che lui indica rimane. Nei thread precedenti a questo si è parlato tantissimo del paradosso che ci ritroviamo a vivere: il governo di un banchiere che manda la polizia a gasare, innaffiare, manganellare dei lavoratori – brutti sporchi e cattivi – con il placet della “sinistra” liberal-democratica e di non pochi “compagni” della fu sinistra anticapitalista. Per me la Strada di Wigan Pier parla anche di questo. O, se vogliamo, parla dell’ininfluenza a cui la sedicente sinistra si è ridotta, della quale la svolta autoritaria di questi due anni pandemici non è che la conseguenza diretta.
A couple of cents. Rant warning!
Ci sarebbe anche da chiarire che il «capitalista che quelle fabbriche e quelle miniere possedeva» e il borghese della prima meta del novecento erano la medesima persona, gli stessi agenti sociali.
Dico questo perché credo che uno dei maggiori problemi riguardo alla cosiddetta coscienza di classe, soprattutto nell’era “moderna”, è proprio quest’illusione creatasi riguardo la figura del capitalista: un personaggio che si crede semi-mitologico, residente su di una torre d’avorio, distinto dalla comune borghesia e dalle masse.
Wrong! Oggi capitalista è, per esempio, chiunque abbia un monolocale in affitto alla studentella, un listing su Air B&B, azioni quotate in borsa, BOT, CCT e S&P 500, o un fondo pensione che lievita nel tempo e genera profitto grazie a investimenti nei combustibili fossili etc, etc, etc.
Riguardo a quell’altra di ascesa a cui fa riferimento Marcello, quella del fascismo, mi preme ricordare che in Inghilterra non si è mai materializzata nelle forme viste sul continente. Memorabile a proposito, dato che si parla di anni trenta e nord Inghilterra, la poco conosciuta battaglia di Holbeck Moor, dove 30 mila (ehm…30.000) residenti della città di Leeds accolsero con canti e bandiere rosse e cacciarono a sassate, i mille fascisti, al comando di Oswald Mosley che tentavano di riunirsi per un comizio. Altri tempi, si direbbe.
https://tribunemag.co.uk/2020/09/remembering-the-battle-of-holbeck-moor/
Il fatto che i fasci non abbiano mai preso il potere in UK de facto non vuol dire che non abbiano influenza a livello politico, sia ben chiaro; semplicemente si è verificata una specie di ibridazione alchemico/ideologica tra l’estrema destra e il mainstream, tutto, sia di dx che di sx. L’ascesa della babbiona e del cowboy negli anni ottanta, come di Blair nei novanta, rappresentano l’evidenza storica di questo miracolo dell’alchimia politica.
Nel mentre le frange più violente e impresentabili sono state mantenute in vita nelle fogne, underground, con secchiate di merda social, e come zombie ogni tanto escono dai tombini e vagano per le città; accade ad ogni elezione e in ogni momento di crisi sistemica; è un ben noto giochetto politico.
“Oggi capitalista è, per esempio, chiunque abbia un monolocale in affitto alla studentella, un listing su Air B&B, azioni quotate in borsa, BOT, CCT e S&P 500, o un fondo pensione che lievita nel tempo e genera profitto grazie a investimenti nei combustibili fossili etc, etc, etc.”
E’ la riflessione che faccio ogni volta che controllo il mio fondo pensione (Cometa), di fronte alla paradossale dicotomia tra la situazione economica e quella finanziaria. Paradossale in teoria, almeno.
Mi è capitato diverse volte di essere in cassa integrazione causa “crisi” e avvertire concretamente il rischio di perdere lo stipendio, senza il quale neanche il fondo pensione esisterebbe, peraltro. L’istintiva soddisfazione di veder aumentato il valore della quota del fondo, in quei momenti, ti fa sentire come il cane dei cartoni animati di Tom e Jerry, quando Tom gli butta il bastone e lui non resiste all’istinto di andarlo a riprendere, per poi rendersi conto di essersi fatto fregare e sentirsi un coglione.
Siamo stati trasformati in capitalisti nostro malgrado. Ci hanno messi contro noi stessi.
Siamo tutti dentro il capitalismo, ma non siamo tutti capitalisti, nel senso di classe proprietaria dominante. Gran parte della ricchezza è in mano a un’infima percentuale della popolazione, e tutto il sistema funziona in modo da perpetuare questa disuguaglianza da una generazione all’altra. I ricchi sono quasi sempre figli di ricchi. Tutti noi, anche indirettamente e nostro malgrado, finiamo per essere coinvolti nel mercato azionario/obbligazionario (basti l’esempio del fondo pensione, ma basta anche avere un conto in banca), ma in modi diversi da quelli dei padroni e in ruoli spesso subordinati. Esistono i “risparmiatori”, sì, ma in borsa gli azionisti di maggioranza sono per definizione pochi, e sono quasi sempre figli di azionisti di maggioranza. I grandi mezzi di produzione e di scambio (le grandi aziende rappresentate da quegli stock) restano in mano alle élites borghesi, e sono queste ultime che chiamiamo “i capitalisti”.
“Siamo tutti dentro il capitalismo, ma non siamo tutti capitalisti, nel senso di classe proprietaria dominante. Gran parte della ricchezza è in mano a un’infima percentuale della popolazione, e tutto il sistema funziona in modo da perpetuare questa disuguaglianza da una generazione all’altra.”
Sì, chiaro. Non ho mai pensato neanche per un secondo di essere _davvero_ un capitalista. Volevo solo evidenziare questa forma di coscrizione obbligatoria ideologica. Chiaramente io lavoratore e “investitore” sono doppiamente carne da cannone, sul fronte del lavoro e su quello del mercato azionario.
«Siamo tutti dentro il capitalismo, ma non siamo tutti capitalisti[…]»
Prcisazione puntuale e necessaria, chiedo scusa.
Aggiungerei soltanto che comunque sono innumerevol* e in crescendo gli/le illus*, wannabe capitalists, aspiranti Bettencourt-Meyers o Bezos, che sognano, pensano e agiscono da capitalisti; basti pensare alla popolarità sia delle varie lotterie che dei talent show. In questo senso il sistema dominante si potrebbe paragonare ad uno stato permanente di catalessi, nel quale i desideri e i sogni di una determinata e ristretta classe sociale si trasformano nella realtà vissuta da tutt*.
In quello che noti tu, Isver, secondo me, c’è un altro concetto da inchiodare su un’ideale bacheca ed è quello che oggi ciascuno può “diventare imprenditore di sé stesso”.
Ovviamente è una frottola. E’ una delle tante infiocchettate che si cercano di dare al proletario per blandirlo con la falsa illusione di non essere tra le fila dell’esercito industriale di riserva quando lo è e, quando non lo è, di avere di fronte a sé un orizzonte pressoché infinito di possibilità per l’agognato salto di qualità.
“mai come ora chiunque ha la possibilità (sottinteso grazie a internet&c.) di avviare un’attività”
“il lavoro da remoto in spiaggia”
“ti fai pagare quanto dici tu”
“operare sui mercati azionari con pochi soldi”
Potrei continuare all’infinito, ma sono tutti flash per proiettare l’inconscio del ricevente nel posto dove vorrebbe stare, quello, più o meno, di Zio Paperone(tranne il telegrafo).
E’ divertente notare come anche l’illusione stessa della trasformazione sia stata mercificata. Molti che sono realmente(sicuri?) diventati imprenditori di loro stessi, lo hanno fatto vendendosi la promessa di far diventare chiunque I.D.S.S.
Se domani si rompe la webcam a uno di questi maestri, niente più profitto, loro sì che sono diventati grandi capitalisti.
Per completezza, aggiungo il concetto di ascensore sociale. In un ambito capitalista perfetto, c’è la possibilità che una persona diventi capitalista senza essere figlia di capitalisti.
Se guardiamo la classifica delle aziende più capitalizzate al mondo (ovvero per market cap, capitalizzazione di mercato) https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_public_corporations_by_market_capitalization#2021, troviamo un ridotto numero di aziende, i cui fatturati, profitti, e capitalizzazioni stanno crescendo in maniera esponenziale, divorando l’economia tradizionale. Shoshana Zuboff lo chiama il ‘capitalismo della sorveglianza‘.
Questa classifica mostra molto del sistema economico che attualmente domina il mondo. Su dieci aziende, nove sono del comparto tecnologico/web, e solo una (la Berkshire Hataway) fa parte del settore della finanza. Questo significa che non solo Wall Street non è riuscita a papparsi Silicon Valley, ma che è avvenuto invece il contrario.
Le prime quattro posizioni implicano valori di capitale tra i 1500 e i 2400 miliardi di dollari. L’insorgenza di questi poteri rappresenta una debacle totale della politica, che non riesce nemmeno a far pagare loro le tasse, nonostante gli utili da capogiro che queste generano in tutti i paesi del mondo. Gli Stati nazionali sono così inermi di fronte a tanto potere, che non riescono a tutelare la privacy dei propri cittadini, visto che queste aziende traggono il loro potere e il loro denaro dalla più palese e clamorosa violazione della riservatezza che si sia mai vista. Di pagare le tasse, neanche a parlarne, ovviamente.
Ma, a ben vedere, è stato proprio l’ascensore sociale a permettere il successo della babbiona e del cowboy (babbione pure lui). Il fatto che, teoricamente, qualunque abitante di una qualunque favela di una qualunque megalopoli, possa diventare il nuovo Zuckerberg, tiene miliardi di persone ancorati alla propria miseria e alla propria mancanza di futuro.
Poco importa se la probabilità che avvenga un qualsiasi riscatto sociale sia la stessa della vincita di una lotteria multimilionaria. Perché se non ce la fai, è colpa tua, mica della sfiga.
Quando, riferendosi al fascino che la borghesia di sinistra nutre per le figure autoritarie, Orwell scrive “è abbastanza semplice immaginare una classe media fatta a pezzi e ridotta in miseria, che rimarrà però ancora fieramente avversa nei suoi sentimenti alla classe operaia: ossia diventerà un partito fascista già pronto all’uso”, opera un’analisi lucidissima, ma allo stesso tempo difficile da accettare (per me, digiuno di studi storici), perché nel descrivere la genesi della frattura fra due classi sociali, spiega anche che questa porterà ineluttabilmente una delle due al fascismo. Questa inevitabilità mi aveva fatto pensare ad un improbabile Orwell che giustifica quella che erroneamente vedevo invece come la scelta di una categoria sociale che si riversa nel fascismo (da qui il mio intervento). Non è così, ovviamente. Qui Orwell è solo l’analista, l’ambasciatore che non porta pena.
Calando questa cosa all’oggi, scrivi che un tema toccato da Orwell (la sinistra che abbraccia la svolta autoritaria, ai suoi tempi quella staliniana) è attuale perché lo stiamo rivedendo pari pari (mutatis mutandis, ovviamente). Pienamente d’accordo, e aggiungo che la lucidità di quell’analisi di novant’anni fa non perde nulla della sua lucentezza. Ma oggi, a mio modo di vedere, la situazione è più pericolosa, perché non é solo la borghesia liberal-democratica che si prepara a diventare “partito fascista pronto all’uso”, potrebbe esserla anche parte di quella classe operaia che un secolo fa aveva abbandonato il borghese rosso alla sua deriva. È, ad esempio, quell’operaio che si è già leghizzato (ricordiamo tutti i discorsi fatti su Giap sulla composizione molto eterogenea delle piazze antilasciapassare, ma il processo è molto più ampio) e che non ci metterebbe molto a fare quel piccolo passo che lo porterebbe al fascismo. Quanto questa “evoluzione” sia conseguenza dell’inanità e dell’assenza della sinistra, non saprei.
PS @WM1. “Sicuramente sbaglio io” non voleva essere una formula retorica, era proprio per dire: “so che sbaglio nell’interpretare così, perché Orwell non poteva pensare questo (altrimenti non sarebbe stato Orwell), e dunque cosa c’è di sbagliato nel mio discorso?” Era una richiesta d’aiuto :-)
WM4:”sono le aspettative tutte ideologiche dei borghesi rossi che portano alla delusione, ovvero la loro incapacità di calarsi in mezzo alla classe operaia e accettarne le contraddizioni, la sporcizia, i limiti.”
A questo aggiungiamo la paura sempre attuale nel moderno sistema, di poter ad ogni momento cadervi ed entrare a farvi parte.
in questo senso l’uomo forte ed il fascismo sono la garanzia politica del mantenimento dello status Quo di classe..
da Il Manifesto del Partito Comunista:
“L’industria moderna ha trasformato la piccola officina dell’artigianato patriarcale nella grande fabbrica del
capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. Come
soldati semplici dell’industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di
ufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno e
ogni ora, asserviti dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Un
simile dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non
avere altro scopo che il guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire quanto più l’industria moderna si sviluppa,
tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne e dei fanciulli. Le differenze di sesso e
di età non hanno più nessun valore sociale per la classe operaia. Non ci sono più che strumenti di lavoro, il cui
costo varia secondo l’età e il sesso.
Non appena l’operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il salario in contanti, ecco
piombare su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e così via.
Quelli che furono sinora i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo
capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza con i capitalisti più
grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto ai nuovi modi di produzione. Così il
proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.
Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia incomincia con la sua
esistenza. “
2)Wu Ming 4: “la sinistra senza lotta di classe si riduce a una piccola parte di borghesi illuminati che si sentono superiori agli altri perché hanno letto più libri ”
Probabilmente alla delusione dell’idealizzazione borghese rispetto al proletariato, ed al timore borghese di essere a loro volta trasformati in esso dal progresso del sistema capitalistico, nasce la falsa coscienza borghese.
Questa si traduce innanzitutto in richiesta ed accettazione di maggiore controllo sociale, perché appunto è un sentimento di paura non mediato, e quindi l’accettazione nell’oggi dello strumento del green pass ad esempio, che è forse il completamento post-moderno del controllo di fabbrica moderno, dall’altra parte l’appoggio, senza se e pochi ma, al governo Draghi, visto come garanzia in primis economica ma anche socio-culturale, del mantenimento del proprio status quo.
Il sindacalista borghese che appoggia il governo Draghi, dall’emergenza pandemica a quella stessa “fascista” ha tutta una serie di giustificazione che gli permettono in coscienza sua di giustificarsi e credersi in buona fede.
Questa forse può essere una analogia con quanto descritto da due per l’Inghilterra?
dude: “Il fatto che i fasci non abbiano mai preso il potere in UK de facto non vuol dire che non abbiano influenza a livello politico, sia ben chiaro; semplicemente si è verificata una specie di ibridazione alchemico/ideologica tra l’estrema destra e il mainstream, tutto, sia di dx che di sx.”
SquidGame, economia, circolarità e Rivoluzione.
Dalla rete:
“Il problema dell’indebitamento dei privati è contemporaneamente causato e aggravato dalla crescita economica repentina degli ultimi decenni che da un lato ha superare i problemi figli della Guerra di Corea degli Anni 50, dall’altro ha aperto un enorme divario salariale che ha accentuato le disuguaglianze senza mai limarle.
In più i giovani si trovano in un limbo scomodo in cui la pressione sociale per affermarsi è molto alta, ma dall’altro mancano i mezzi per farlo, a causa di un alto tasso di disoccupazione giovanile, affitti esorbitanti e una rete di protezione sociale pressoché inesistente.”
Questa è una citazione presa da un articolo su Squit Game, in sintonia coi commenti letti sopra sul rapporto tra capitalismo/individui di oggi.
La militarizzazione del gioco, il tatuaggio del numero sulle braccia dei partecipanti, il travestimento delle guardie, proiettano il tutto in una distopia fascisteggiante. I giochi sono quelli presi dalla più giovane età.
Medio lanum, nata intorno a te, ha utilizzato la metafora del cerchio e del bastone.
Il bastone è quello pastorale, il cerchio quello ancestrale delle persone intorno al fuoco che condividono riparo e cibo (su questo si pensi invece alla linearità della rappresentazione cristiana dell’ultima cena) , diviene la cinta muraria che cmq raccoglie una collettività, per giungere infine a mera esclusione dell’individuo rispetto alla collettività, in accordo con l’interpretazione sociale secondo Baumann.
Nella pubblicità il cerchio diventa protezione ed affermazione individuale, il bastone l’autorità economica garante che lo disegna. Essa oggi è in crisi.
Questa serie, scritta dieci anni fa, solo ora trova una produzione, nel pieno della convergenza in divenire di crisi pandemica ed economica, e dove forse va a pescare e proiettare le pulsioni irrisolte del e nel mondo reale.
Ad oggi questa serie sta diventando virale in tutto l’occidente, bambini compresi. Il suo messaggio è vittoria individuale o morte.
A questo forse dovremmo contrapporre un ideale della Rivoluzione che, passando si per il concetto di consapevolezza e lotta di classe, passando dal concetto di rivoluzione orbitale e ripescando all’immagine ancestrale del cerchio intorno al fuoco, si ponga anche come fine la ridistribuzione, la danza di Matisse, la produzione e consumo in sintonia circolare con l’ambiente e la collettività che il sis.cap. sta prontamente promuovendo cammuffandolo a suo uso.
Scusate, a furia di tagliare per rimanere nei caratteri, parti come: “ho letto, ho trovato, penso, temo che,” etc.. questi miei pensieri sembrano venire fuori come monoliti impenetrabili, che è l’ultima cosa vorrei debbano sembrare..
Così mi sono presa il permesso di okkupare (!) un altro spazio per dire questo e rispondere a quello che attratti era anche un mio interrogativo..
Ma tutto questo con la discesa di Orwell nelle miniere, cosa c’entra?
Sono andata OT?
Forse no.. se appunto la classe sociale che deve essere soggetto di lotta cambia col cambiare o con l’apparente annullarsi causa disoccupazione dei meccanismi di produzione.
La bandiera rossa nata dagli scontri dei minatori con la polizia, diventa la crescente violenza del sistema, mimata e promossa dalle serie televisive che irrompono con così grande furia fin nell’immaginario dei bambini e di conseguenza nelle prospettive della nostra società sempre più individualizzata..
Da qui poi il noto interrogativo sulla natura, composizione ed identità della presente “classe” rivoluzionaria..
Ad un’ora circa dall’inizio (1:05) della prima parte della puntata di ieri (29/10/2021) di Fahrenheit su radiotre mi sono imbattuta nell’intervista a Wu Ming 4 su “La strada di Wigan Pier” di Orwell https://www.raiplayradio.it/programmi/fahrenheit/
Spero di avere segnalato correttamente il link. Essendo una appassionata ascoltatrice radiofonica ho apprezzato moltissimo la coincidenza che ieri ha legato l’intervista sul libro di Orwell con la lettura, in corso da circa un mese, di Oliver Twist di Dickens. Un accostamento che ha reso ancora più evidente la contrapposizione fra due differenti rappresentazioni della povertà e del proletariato. Esaltando il valore letterario di entrambi gli scrittori e le posizioni politiche sottese al loro particolare stile narrativo.
Orwell non era uno scrittore. Era uno fisico sperimentale sotto copertura; è riuscito infatti a tracciare un solco letterale nel tempo usando parole al posto di numeri; in questo senso the road to Wigan Pier è una vera e propria “macchina del tempo in disguise”.
Meglio di una qualsiasi realtà virtuale moderna, questo marchingegno simbolico, riesce a trasportare con maestria il lettore all’interno di una miniera e nelle catapecchie umide e sovraffollate del nord Inghilterra anni ’20, in un tempo nel quale, mentre i minatori si spaccano la schiena sottoterra per tenere al caldo e sfamare una intera nazione, la lower upper-middle class, a cui Orwell appartiene, combatte una guerra che è:
«[…] although one could not see it in perspective […] of youth against age resulting directly from the war».
Un conflitto intergenerazionale che sembrerebbe ripetersi anche se ad una più bassa intensità.
Non sò come sia stato tradotto in italiano ma un passaggio che ha risuonato forte alle mie orecchie, per qualche strano motivo, è il seguente:
«At the time there was amongst the young a curious cult of hatred of old men. England was full of half baked antinomian opinions».
Se dopo aver letto la prima parte del libro mi fa ancora male la schiena, alla fine della seconda sono sempre più convint* che il problema maggiore, in questo momento storico, è il lavoro nero, quello che gli invisibili di oggi si accollano, ancora oggi, per tenere al caldo e sfamare intere nazioni, senza fiatare, nel silenzio totale delle istituzioni e delle classi intermedie.
In conclusione una breve doamanda tecnica sulla traduzione del titolo: perché il «to» del titolo originale è stato tradotto con «di» invece che con «perV?
Beh, in questi casi in italiano si possono usare entrambe le preposizioni, quel «di Wigan Pier» significa «che porta a Wigan Pier», come in: «le tasse hanno preso la via di Roma», «ero sulla via di casa quando mi hanno fermato gli sbirri», «Prendo la strada del centro / stasera non rientro da te» ecc.
concordo pienamente con Dude sul fatto che oggi il problema maggiore (e, aggiungo, più sottovalutato, per ovvie ragioni egemoniche) è il lavoro nero, lo sfruttamento, il lavoro “regolare” ma sotto-sotto salariato, ecc.
Colgo l’occasione per segnalare un ottimo libro di Leonardo Palmisano, “mafia caporale”, che ho conosciuto solo qualche giorno fa, in occasione dell’omonimo spettacolo teatrale messo in scena al Fondo Verri di Lecce dalla compagnia Suddarte. Il libro è un resoconto del lavoro sfruttato, da Nord a Sud, in moltissimi ambiti economici e riporta le storie personali di sfruttate e sfruttati, che Palmisano ha intervistato personalmente.
P.S. nella libreria dove ho trovato il libro di Palmisano non avevano “La strada di Wigan Pier”. Esaurito, dicevano.
Riguardo alla cosiddetta economia sommersa, che in Italia pare si aggiri intorno ai 192 miliardi di yuri [1], credo che, oltre a rappresentare un problema per la pubblica amministrazione, ovvero per la società in generale, sia anche un gran bel guaio per lo sviluppo di una vera e propria lotta di classe, sempre che qualcuno in giro per l’Europa si ricordi ancora di cosa si tratta.
Si potrebbe dire che, in questo momento, è principalmente la classe medio-bassa, in Italia ma non solo, ad avvertire una contrazione dei diritti civili oltre che del tenore di vita. Questo non dovrebbe però sorprendere chi conosce le dinamiche del sistema capitalistico; era prevedibile, avendo beneficiato un po` tutt*, per anni, del lavoro sporco portato avanti da un vero e proprio esercito di invisibili, totalmente privi sia di diritti che di tutele.
Ad un certo punto something gotta give.
Penso ad esempio ai benefici di cui tutt* abbiamo goduto grazie alla schiavitú moderna nella filiera alimentare.
A riguardo, ho trovato preziose le parole di Orwell nella seconda parte del libro, dove dichiara che secondo lui […]abolire le distinzioni di classe significa in prima istanza sopprimere un parte di se stessi […]. Per old George, l’abolizione delle classi richiederebbe in realtà uno sforzo incredibile, un cambiamento talmente drastico della propria personalità e abitudini tali che, al termine del processo, non saremmo più le stesse persone.
Ennesima curiosità tecnico/linguistica: stò leggendo il testo in inglese, preso a prestito dalla biblioteca locale e mi farebbe piacere sapere come avete tradotto in Italiano outer suburban creeping jesus (titolo ideale per una rock-band IMHO) e fruit juice drinker.
[1] https://web.archive.org/web/20210205120747/https://www.ilsole24ore.com/art/istat-e-pari-192-miliardi-economia-sommersa-italia-ACNc99r
Vorrei segnalare l’estrema gravità del presente governo nel fare ricadere le offerte di lavoro affiancate al reddito di cittadinanza nella mani delle agenzie interinali.
Nonché la potenziale distanza del lavoro offerto che aumenterebbe il numero dei pendolari, le spese quotidiane per questi ultimi, la difficoltà di eventuale trasferimento e sradicamento delle persone, e non da ultimo il potenziale impatto ambientale.
Lasciare nelle mani delle agenzie interinali l’offerta del lavoro si prospetta come un ulteriore asservimento e ricatto sulla classe lavoratrice e/o disoccupata in funzione del sistema capitalistico, per avere comoda forza lavoro a basso costo.
La nostra società sta andando sempre più verso la “strada di Wigan Pier” e dei “Grappoli d’ira” di Steinbeck.
Oggi su blog “L’indiscreto”, una chiacchierata a ruota libera tra Edoardo Rialti e il sottoscritto sul libro di Orwell: https://www.indiscreto.org/orwell-la-working-class-e-la-lingua-di-legno-della-sinistra/
Bellissimo libro e bellissima lettura. Mi è capitato di leggerlo qualche mese fa, periodo in cui per qualche ragione stavo provando a capire (con dubbi risultati) come funzionano le cripto valute.
L’elemento di intersezione di questi due eventi è il “miner”. Mi pare quantomeno curioso, di come il mondo dell’informatica si sia appropriato di questa parola, conservandone un ruolo imprescindibile, ma stavolta nella catena computazionale della generazione di monete virtuali.
Ridefinirla all’interno di un nuovo contesto sociale, diametralmente opposto a quello descritto nel libro, i cui protagonisti ora sono server, nodi, e comodi uffici.
Probabilmente è solo uno dei tanti esempi in cui questo processo succede, ma ciò non ha comunque fermato il pensiero che è uscito dalla mia pancia: Eddai vi inventate algoritmi spaziali, ma almeno la fantasia per un termine tutto vostro?