[Da settimane Andrea Olivieri, ricercatore e scrittore, cammina o si sposta in moto da un luogo all’altro della sua città, di giorno e di sera, attraversa cortei e assemblee di piazza, ascolta le persone più diverse nelle situazioni più diverse, mobilita la propria memoria di ex-lavoratore del porto e di attivista, butta giù appunti su appunti, raccoglie storie. Sta interrogando un Evento, e prima ancora un sito.
Perché Trieste? Perché proprio lì è cresciuta in modo tumultuoso una piazza anti-green pass così diversa dalle altre? Energie si sono accumulate “di nascosto” finché la città dalla «scontrosa grazia» – città poco italiota e molto mitteleurobalcanica, misconosciuta al resto del Paese – non ha prodotto una rottura nell’apparire normato di una società piegata dall’emergenza Covid. Una mobilitazione di massa dai caratteri inediti che ha sorpreso l’Italia – paese regolarmente ignaro o dimentico della “faglia” al proprio confine orientale – e che ci parla dei conflitti futuri, delle lotte post-pandemiche.
È quest’ultimo aspetto a farne un Evento, per chi lo ha vissuto in tutta la sua contraddittorietà e per chi lo ha seguito e cerca di trarne lezioni. Come scrisse di un altro Evento – si parva licet – il filosofo Alain Badiou, «non è solo l’intensità eccezionale del suo sorgere che conta – il fatto che si tratti di un episodio violento e creatore d’apparire – ma il fatto che, nella durata, questo sorgere, benché dileguato, abbia disposto come gloriose e incerte le sue conseguenze. Gli inizi sono misurati dalla loro possibilità di ricominciare».
Questa è la prima puntata del reportage di Andrea. Ce ne saranno due ma forse tre. Diciamo «reportage» perché riporta e fa rapporto (in ogni accezione del termine), non per affibbiargli un genere. È un testo ibrido: cronachistico, saggistico, lirico, psicogeografico, sociologico, teso a quel difficile esercizio che è la storia del presente. Sconsigliamo di ingurgitarlo al volo: merita attenzione, tempo dedicato.
Come sempre avviene con le miniserie di Giap, i commenti saranno attivati solo all’ultimo episodio. Buona lettura. WM
Aggiornamento 17/11/2021: la seconda puntata è qui.
Aggiornamento 26/11/2021: la terza puntata è qui]
di Andrea Olivieri * – Traduction en français ici.
1. Il varco
Il varco 4 è un nonluogo incastrato tra i gate di accesso al Terminal container del molo VII e l’imbocco della sopraelevata che porta alla frontiera con la Slovenia. Anche nelle giornate in cui sarà invaso di persone non cesserà di sembrare un grande casello autostradale, di un mondo che però ha fatto a meno delle automobili.
Solo i portuali, o i camionisti che a volte devono passarci delle ore, o chi per lavoro ha a che fare col porto, lo riconosce come un luogo familiare. Alla grande maggioranza dei triestini è sconosciuto, e quando iniziano ad affluire la mattina presto di venerdì 15 ottobre restano straniti e sospesi, come se uscissero dalla loro città per entrare in un «altrove» che, per la prima volta, si presenta ai loro occhi.
A nascondere il varco come un effetto ottico è la sopraelevata, che nel suo intrico di rampe di cemento da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude, e del porto lascia intravedere solo le braccia delle gru, tutte alzate e ferme e sovrastanti alcune navi, anch’esse immobili quella mattina.
Ci passo sotto a piedi verso le sette, assieme a centinaia di altri, in un flusso iniziato prima dell’alba, di lato alla fila di blindati antisommossa e incrociando il viavai di chi ha già preso le misure e per il momento va a bere qualcosa nei bar della zona. Il clima è rilassato e allegro, molti arrivano reggendo sporte di cibo e di bevande, sembrano comitive di amici in gita, i blindati decorano l’ingresso, con il grosso degli agenti a rilassarsi all’interno.
Si arriva qui da passeggio Sant’Andrea venendo dalla città del salotto buono, delle Rive turistizzate alla cazzo dall’immarcescibile sindaco Dipiazza, dalla città della borghesia che, modestia a parte, fa vanto del suo essere razionale, responsabile e consapevole. O viceversa da viale Campi Elisi, dalla città dei quartieri popolosi e popolari, degli insediamenti artigianali e industriali, della plebe rozza e imbevuta di credenze irrazionali e cultura antiscientifica.
Questa collocazione incerta e mediana del varco 4 potrebbe essere anche effetto della prima di una lunga serie di disvisioni. Mai come in queste settimane la mia città finirà per ricordarmi le due città invisibili l’una all’altra, ma sovrapposte sullo stesso spazio geografico, del perturbante romanzo The City and the City di China Miéville, che di solito cito per figurare le aporie di una città di frontiera, tanto italiana quanto balcanica, ma efficace anche per dare conto delle polarizzazioni dell’epoca che stiamo vivendo.
In questo senso il varco è una zona di intersezione che non appartiene pienamente a nessuna delle due città, senza storia né memorie fino a questo punto, ma destinato d’ora in poi a essere ricordato come il luogo di un evento, fondativo per alcuni, esecrando per altri. Come Trieste stessa del resto, che secondo Karl Marx ancora nel 1857 «condivideva lo stesso privilegio degli Stati Uniti di non avere alcun passato», e invece da un secolo viene ricoperta di reminiscenze nostalgiche e da un accumulo inestricabile di falsi storici che le si incrostano addosso.
Il varco infine è anche un ponte, perché è una struttura sospesa, appoggiata su alti piloni conficcati all’estrema radice del molo VII, prima ancora che il molo diventi tale, finalmente circondato dal mare. Gli ingegneri che l’hanno progettato si sono preoccupati di fare in modo che stia su e che faccia il suo sporco lavoro di smistare mezzi e merci. Ma non credo abbiano considerato ciò che molti architetti, filosofi e scrittori sanno e che qui vedrebbero bene: che al contrario di ciò che siamo portati a credere i ponti possono assolvere sia alla funzione di unire quanto a quella di dividere.
Insomma, qui tutto allude anche fisicamente all’ambivalenza, alla contraddizione e all’urgenza frenetica e non di rado isterica che ne deriva di convergere e assestarsi su uno tra due poli. Un’urgenza di certo molto diversa dalla mia.
Inizio a muovermi, a seguire le voci dei capannelli, cercando volti conosciuti, straniato e sospeso anch’io come tanti, di nuovo in questo posto che a differenza di molti conosco bene.
Per quasi tre anni su questo varco sono morto decine di volte attaccando un turno di lavoro, la mattina presto o dopo pranzo, o la sera per iniziare la notte. E decine di volte sono risorto andandomene. Fino all’ultima, quando il varco me l’ero lasciato alle spalle dopo l’ultimo turno, nell’agosto del 2000, lasciando un lavoro precario al porto per inseguire un’altra urgenza. Un mese dopo mi trovavo su un altro ponte, a Praga, a prendere manganellate e gas lacrimogeni, in un movimento di cui oggi tanti dichiarano che «aveva ragione», ma anche che era di gran lunga più degno di questo. Sarà che riscuotere arretrati vecchi di vent’anni mi importa poco, di quel tempo semmai conservo ancora un insegnamento proveniente dalle foreste del Chiapas. Che è anche un metodo per osservare il mondo: camminare domandando.
2. Un corteo stanziale
Nel giro di qualche ora il varco sarà un’agorà enorme e brulicante, destinata a farsi via via più complessa e contraddittoria col passare delle ore e dei giorni. Ma nella mattina del 15 ottobre è la rappresentazione non erratica dei cortei delle settimane precedenti, stavolta in risposta alla chiamata dei portuali: bloccare il porto a oltranza tutti assieme, scioperare in più luoghi di lavoro, denunciare il ricatto del green pass, chiederne la revoca e rifiutare qualsiasi ipotesi di obbligo vaccinale.
Credono nella strategia che il Coordinamento cittadino No Green Pass ha via via provato a immaginare per affrontare questa lotta, e che Stefano Puzzer – che nel giro di qualche ora sarà elevato dai mass media a unica voce di una situazione forse troppo complessa da afferrare – ha voluto trasformare in una promessa roboante: fermare i traffici e colpire il sistema dove fa più male, confidando che la mobilitazione si propaghi nel resto d’Italia.
Per ora, qui c’è un sacco di gente che attrezza punti di ristoro – che saranno gestiti collettivamente per tre giorni, senza chiedere denaro per cibo e bevande –, allestisce griglie, fa musica, organizza attività per i tanti bambini presenti, o si ingegna a fare in modo che il varco resti pulito.
Oltre a lavoratrici e lavoratori di altre realtà produttive, è evidente la presenza di molte donne, di pensionati, di disoccupati. Riconosco e parlo anche con artigiani e piccoli commercianti, spesso gestori in proprio di bar e locali in affitto nei rioni più popolari. E poi persone impiegate nell’ampio spettro dei servizi e del terziario, settori importanti dell’economia cittadina. A un colpo d’occhio sono meno presenti giovani e migranti, ma nel corso della giornata da qui passeranno talmente tante persone da rendere difficile fotografarne la composizione. Vedo anche un gruppetto di riders che si sono dati appuntamento qui.
Le ragioni di contrarietà al lasciapassare per questa moltitudine di persone sono molteplici: vanno dal rifiuto a trasformarsi in controllori dei propri clienti, o dei propri utenti, rispondendo dei comportamenti altrui e rischiando di pagarne le conseguenze, alla totale contrarietà all’ipotesi, di giorno in giorno più minacciosa, della vaccinazione della fascia dai 5 agli 11 anni nonché della terza dose per tutti. C’è anche chi si è vaccinato ma rifiuta di scaricare e utilizzare il green pass, ma soprattutto sono molti i racconti di chi, sul posto di lavoro, con questo provvedimento si trova a subire veri e propri atti di mobbing.
Raccolgo la storia di una ricercatrice presso un laboratorio – il mai citato precariato della sempre santificata «città della scienza» – a cui la propria responsabile ha aggiunto un turno di lavoro il sabato mattina, costringendola a fare quattro tamponi a settimana per lavorare: rifiutare la vaccinazione per tante e tanti significa demansionamenti, esclusione da servizi, pressioni e ricatti da parte dei superiori e, spesso, stigma e derisione dai colleghi. Per chi rifiuta di pagare per lavorare o semplicemente non se lo può permettere vuol dire invece restare senza stipendio, spesso essere costretti al licenziamento e finire per ingrossare i serbatoi del lavoro nero.
«Lo Stato e tutta l’Europa non possono incatenarsi a un vaccino che procura profitti enormi alle aziende che lo producono», mi dice un conoscente che incontro, lavoratore della sanità e vaccinato, «senza una discussione sull’opportunità di orientare l’enorme spesa di denaro pubblico in quel senso piuttosto che in un altro. Tanto più che nel frattempo non si rendono disponibili ai paesi più poveri nemmeno le prime dosi ai soggetti fragili o a rischio professionale».
Discussioni come questa, dal tono per niente perentorio, qui se ne sentono di continuo. Sono sorpreso dalla diffusa voglia di discutere e di ragionare, un aspetto che fino ad ora, nel flusso dei cortei, non avevo colto del tutto. Spesso i discorsi non hanno a che fare coi vaccini, a volte nemmeno col green pass. «A Trieste», scrivevo qualche settimana fa, «si è determinato un accumulo di rabbia per i provvedimenti anti-pandemici governativi». Ecco, l’impressione di questa giornata al varco è quella di una moltitudine di persone alla ricerca di ciò che è mancato a tutti in questi venti mesi: spazi di condivisione reali, pubblici, aperti e soprattutto efficaci nel farsi sentire.
«Al di là di cosa si deciderà stasera, voglio ringraziarvi davvero tutti e chiedervi di andare avanti assieme», aveva detto una donna, dipendente di una grossa azienda a rischio di delocalizzazione, nel corso di una delle assemblee del Coordinamento precedenti al presidio, «perché in questa situazione, per la prima volta da molti mesi, o forse anni, mi sento ascoltata e in contatto con persone che condividono i miei stessi problemi lavorativi. Per me solo il fatto di essere qui e poter parlare è già una vittoria, non importa come andrà a finire».
Era l’assemblea in cui si sarebbe discusso della giornata di sciopero generale dell’11 ottobre e infine deciso il blocco del porto. Pare sia frutto del caso, ma queste assemblee si sono spesso tenute tra i resti archeologici del foro romano sul colle di San Giusto, spazio pubblico per eccellenza in epoca latina.
Il flusso aumenta di ora in ora, come in precedenza era aumentato di settimana in settimana, fino a rendere enormi i cortei indetti già da inizio settembre dal Coordinamento cittadino. L’ultimo dei quali, il quinto in un mese, era appunto quello dell’11 ottobre. E persino la stampa locale, che per settimane aveva tentato di ignorare la mobilitazione, avrebbe riportato che contava almeno quindici, forse ventimila partecipanti. Numeri che, in una città di medie dimensioni come Trieste, che oggi conta poco più di duecentomila abitanti e ne ha persi circa venticinquemila da fine anni Novanta, equivalgono a una mobilitazione oceanica.
3. Le diverse anime
Al varco ci sono soprattutto le diverse anime che, settimana dopo settimana, sono riuscite a trovare i necessari punti di mediazione per restare unite, fino ad ora, sotto la sigla del Coordinamento No Green Pass. Tra queste spiegherebbe poco distinguere alcune realtà politiche o associative già esistenti, anche perché un elemento di forte attrazione dei cortei, che li ha resi quasi indecifrabili a buona parte della stampa, è stata la richiesta di non portare bandiere né simboli politici. Semmai sono identificabili alcuni ambiti di affinità, passibili però di sovrapposizioni e contaminazioni, anche perché buona parte dei partecipanti alle assemblee sono a volte alla prima esperienza politica collettiva.
C’è ovviamente l’ambito che sembra confermare il più abusato tra i tanti clichés appiccicati a questa mobilitazione, l’equivalenza «no green pass» = «no vax». Fa riferimento a un’associazione storicamente attiva sulla questione vaccinale, l’Alister, e al neonato Movimento 3V, quello che poi, restando in questa lotta anche quando si discosterà di molto dalla questione vaccinale originaria, capitalizzerà una piccola vittoria politica facendo eleggere alle elezioni comunali di inizio ottobre un signor Rossi.
A questo risultato elettorale la stampa nazionale darà un risalto a dir poco esagerato: in realtà il 4,5% del Movimento 3V andrebbe rapportato al fatto che queste elezioni amministrative hanno registrato la più alta astensione della storia repubblicana, di certo a Trieste. Se si considera che qui, città di tradizione municipalista fin dai tempi dell’Austria-Ungheria, ha votato appena il 46% degli aventi diritto, quel 4,5% diventa il 2,07% reale. In numeri assoluti rende ancora più l’idea: 3000 voti per la lista e 3700 per il candidato sindaco, il signor Rossi appunto, su 185mila elettori e 85mila votanti. Se in piazza c’erano almeno 15.000 persone, vuol dire che ben quattro manifestanti su cinque il signor Rossi non se lo sono filato di striscio.
Semmai, nei giorni che seguiranno, si farà sempre più forte l’impressione che molta parte delle persone presenti al varco siano parte di quel 54% di triestini che a votare non ci è andato proprio. Smentendo anche le analisi sulle mobilitazioni no green pass come bacino elettorale di Lega e FdI.
Come tutti i clichés anche quello sui «no vax» non spiega nulla, a partire dal fatto che tutto ciò che viene sbrigativamente etichettato in questo modo in realtà è una galassia composita e non sempre fanaticamente antiscientifica, come racconta bene Guido Viale. Non spiega poi come sia possibile che già a mezzogiorno del 15 ottobre sul varco siano presenti diverse migliaia di persone e soprattutto che l’attività portuale sia di fatto ferma. Perché il dato reale, confermato a denti stretti nei giorni successivi dalla stampa locale, è che lo sciopero in un modo o nell’altro è riuscito, vuoi per le adesioni conclamate, vuoi per l’alta percentuale di lavoratori privi di lasciapassare, vuoi perché altri lavoratori portuali, tiepidi o persino contrari verso la mobilitazione, hanno preferito prendersi una giornata di permesso. E infatti le gru del molo VII sono ferme.
Un’altra componente molto attiva, meno portata a spettacolarizzare la sua presenza e più incline a badare al sodo, è quella che in un articolo apparso sulla stampa locale, viene identificata come la «sinistra radicale», che avrebbe individuato «nel No Green pass un modo per saldare la critica alla gestione pandemica al tema del lavoro e della lotta sociale», relegando la destra ai margini della mobilitazione sull’esempio di quanto successo due anni fa nel movimento del Gilets Gialli francesi (Giovanni Tomasin, «Sinistra radicale», Il Piccolo, 20 ottobre 2021).
Una parte di questa componente, in realtà anch’essa diversificata e difficilmente etichettabile, è un gruppo di attiviste e attivisti che origina in parte dal movimento studentesco dell’Onda e dalla straordinaria acampada studentesca che, nel novembre 2011, prese possesso di piazza Unità dopo lo sgombero poliziesco di dodici edifici scolastici. Ne fanno parte attiviste e attivisti che in questi dieci anni si sono impegnate nelle mobilitazioni antifasciste, per gli spazi sociali, per la libera circolazione dei migranti e per il diritto alla casa. Questo gruppo ha il merito di fornire resoconti puntuali su questa mobilitazione [1 – 2] indicandone le contraddizioni e la natura necessariamente spuria rispetto alle classiche lotte della sinistra, ma soprattutto motivando la necessità di esserne parte, pena lasciare, come scrive appunto Guido Viale, queste piazze alle destre.
È da questa necessità che, dopo le prime iniziative primaverili di critica alla campagna vaccinale, nate perlopiù per iniziativa di 3V e Alister, poi nella contaminazione di istanze più generali legate a tutta la gestione pandemica dei governi Conte II e Draghi – come i cortei spontanei notturni contro il coprifuoco ad aprile e maggio 2021 –, erano finalmente emerse le parole d’ordine che avrebbero impresso una svolta decisiva alla mobilitazione triestina: l’unità di vaccinati e non vaccinati contro la discriminazione introdotta dal greenpass obbligatorio per lavorare.
È a quel punto che avviene la curvatura di cui parlavo nel mio primo pezzo per Giap, ovvero il momento in cui le assemblee e le manifestazioni si aprono esplicitamente a chi ha deciso di farsi vaccinare ma è contrario al lasciapassare, mettendo al centro della lotta contro questo strumento di controllo e ricatto il diritto senza discriminazioni al lavoro e alla vita sociale in generale. Ed è a quel punto che si creano le condizioni per l’adesione alle istanze del coordinamento del Clpt di Puzzer, ovvero il sindacato col maggior numero di iscritti in porto, la realtà produttiva cittadina con la più alta percentuale di dipendenti non vaccinati, e anche quella dove l’identità collettiva e i legami di solidarietà sono più forti.
A tenersi alla larga invece sono stati quei sindacati – in particolare le tre sigle nazionali tradizionalmente più forti, Cgil, Cisl e Uil – che, dopo i timidissimi tentativi di ottenere dal governo la possibilità per i lavoratori non vaccinati di avere i tamponi gratuiti a carico delle aziende, avevano deprecato il fatto che il governo non avesse scelto la strada dell’obbligo vaccinale per tutti. Un’ipotesi che il Coordinamento avversa e non considera alternativa al green pass.
Al varco sembrano quasi assenti i migranti, o perlomeno non si palesano in forma visibile. Del resto per il momento non si palesano granché nemmeno i sanitari, e ce ne sono molti, perché farlo presta subito il fianco a clamorose riprovazioni. Nei cortei c’erano alcune badanti dell’est Europa vaccinate Sputnik che non possono avere il GP, o i loro committenti che non vorrebbero perderne il lavoro, e le addette alle pulizie ex-iugoslave di tante grosse aziende, private e pubbliche, come l’università, che si trovano nella stessa situazione e che stanno perdendo il lavoro.
Ma in generale vale per i migranti regolari ciò che vale per i più giovani: sono le categorie che nella vaccinazione hanno intravisto la via d’uscita a una situazione insostenibile, la loro valutazione tra rischi e benefici non ha potuto permettersi esitazioni. E del resto la parte di capri espiatori si trovano a sostenerla in tali e tante situazioni, e in particolare in quella pandemica, da stare istintivamente alla larga da ulteriori motivi per trovarsi dalla parte dei reietti. E tuttavia, col passare dei giorni e delle mobilitazioni, anche la presenza dei giovani andrà aumentando.
Chi però in città è a fianco dei migranti in molti casi è presente o è persino promotore attivo della mobilitazione: alcuni attivisti del Coordinamento No GP sono anche tra coloro che in piazza Libertà forniscono prima assistenza, cure, vestiario e indicazioni ai migranti in arrivo attraverso la Balkan Route, a fianco di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi – quest’ultimo prenderà anche la parola con un intervento molto applaudito a una delle manifestazioni, proprio denunciando la discriminazione nella discriminazione causata dall’introduzione di un ulteriore lasciapassare all’interno della fortezza Europa. Questi attivisti sono tra coloro che, proprio un anno fa e proprio in piazza Libertà, erano stati caricati dalla polizia mentre tentavano di impedire che la fascisteria locale allestisse una provocazione xenofoba in quella piazza simbolo di solidarietà.
E sono presenti e attive altre attiviste antirazziste e per i diritti di cittandinanza che tante persone straniere giunte in città da trent’anni a questa parte riconoscono come propri riferimenti di cui fidarsi.
Resteranno nei volantini del coordinamento e negli slogan dei cortei riferimenti alla «giustizia», alla «verità» e per le «cure domiciliari» tanto generici da risultare ambigui. Nel gioco delle ambivalenze e della polarizzazione lo sono quanto gli assillanti e generici appelli di segno opposto, a cui siamo sottoposti da venti mesi, a «credere nella scienza» o a «lasciar decidere gli esperti». Come se la scienza e gli scienziati fossero indipendenti e immuni dalle storture che il dominio del mercato determina, a esempio orientando la ricerca in un senso piuttosto che in un altro. L’ambivalenza a ben guardare è del tutto speculare: «giustizia», «verità», «libertà», proprio come «scienza», nell’accezione che assumono di questi tempi, sono spesso parole vuote che poggiano su quelle che Furio Jesi chiamava «idee senza parole». C’è poco di più antiscientifico e fideistico dell’esortazione a «credere nella scienza», come ha scritto Wu Ming 2, come è molto pericoloso invocare la giustizia, soprattutto in Italia, dopo vent’anni di berlusconismo e di tutti i suoi doppi giustizialisti e forcaioli, senza chiarire se si sta parlando, ad esempio, della «giustizia» che revocherà il reddito di cittadinanza ai milioni che ne hanno bisogno, o di quella che dovrebbe imporre una tassa patrimoniale all’1% dei ricchi.
Eppure la moneta buona scaccia quella cattiva. E consultando il sito del coordinamento No Green Pass e andando a rivedere i vari volantini a partire dai primi di settembre, risulta chiaro che nel divenire della mobilitazione è la parola d’ordine più chiara a caratterizzare in modo sempre più netto la protesta: unità delle lavoratrici e dei lavoratori, vaccinati e non vaccinati, contro il greenpass e l’obbligo vaccinale.
4. A casa dei portuali
E poi ci sono i portuali. Tanti nella giornata del 15 ottobre, già sotto pressione per la minaccia di dimissioni del Presidente dell’Autorità portuale Zeno D’Agostino e per l’accusa di fermare il porto contro i loro stessi interessi e di tutta la città. Ma non ancora intimiditi dal fuoco incrociato dei terminalisti e degli altri operatori, dei media, dei sindacati assenti, delle autorità cittadine e dei loro zelanti intellettuali.
Tanti. Certamente in numero maggiore dei trecento iscritti scarsi al Coordinamento Lavoratori Portuali, Clpt, la sigla sindacale autonoma sola infine ad aver aderito senza riserve alla mobilitazione e ad aver proposto questo blocco. E anche quella che, per voce del suo rappresentante Stefano Puzzer, ha deciso di mantenere la linea di solidarietà totale alle altre categorie lavorative, rifiutando la mediazione offerta nei giorni precedenti dei tamponi gratuiti, considerandola un privilegio se concessa solo ai portuali.
A partire da questa parola d’ordine Puzzer aveva lanciato un altro proclama, ovvero che il blocco del porto del 15 ottobre si sarebbe protratto a oltranza fino al ritiro del decreto Green Pass. In realtà, come si capirà in seguito, la sera del 14, in un’assemblea dei portuali, questa linea dura di sciopero a oltranza non era stata formulata da Puzzer altrettanto chiaramente, o perlomeno non era stata accolta da tutti. E questa si rivelerà solo una, forse nemmeno la prima, delle gravi reticenze del leader portuale nei confronti del Coordinamento cittadino e dei suoi stessi colleghi.
Tuttavia è evidente, come lo è stato negli ultimi cortei, che i portuali presenti al varco il primo giorno non sono né solo quelli del Clpt, né tantomeno il ristretto gruppo di fedelissimi di Puzzer. E non potrebbe essere altrimenti, dal momento che il totale di non vaccinati in porto arriva al 40% e addirittura al 70% tra i dipendenti a chiamata dell’Agenzia per il lavoro portuale.
Sentono tutto il peso della responsabilità di essere qui, nella loro casa, questi lavoratori. Sentono aumentare di ora in ora la pressione dei media, e poi quella delle presenze al varco quando, dal pomeriggio del 15 e soprattutto dal giorno successivo, inizieranno massicci gli arrivi da fuori, prima dal Friuli, poi dal Veneto, e poi ancora da tutta Italia.
Sentono tutto questo i portuali. E poi loro lo sanno che questo è un ponte. Lo sanno meglio degli ingegneri che l’hanno progettato e si sono solo preoccupati di fare in modo che stia su e che faccia il suo sporco lavoro. Lo sanno perché lo attraversano spesso, e perché ci lavorano, là sotto. E forse sono preoccupati per questa caratteristica del varco di essere sospeso. Chi non abbia mai guardato il fondo della stiva di una portarinfuse o di una portacontainer non lo può capire il rispetto sacrosanto che chi lavora in porto ha dell’altezza. E ora, con tutta questa gente stranita e sospesa, forse i portuali temono che qualcuno caschi giù, spiaccicandosi tra i binari della ferrovia o sul piazzale di container sottostante. Di certo questo timore i portuali lo avranno quando a uno a uno, chi prima chi dopo, capiranno che questo presidio prima o poi verrà spazzato via.
Quella mattina, in realtà, la vera preoccupazione che i portuali di Trieste hanno è la stessa che chiunque prova quando arrivano ospiti a casa, la voglia di fare bella impressione e di far filare tutto liscio. Anche perché in assemblea la sera prima hanno deciso che non impediranno a chi lo volesse di andare a lavorare. E quindi qualche macchina e camion da principio, quando la folla non è ancora enorme, si presentano agli accessi in fondo al varco. Ed entrano in porto.
È qui che entra in scena, tentando di bloccare uno di questi veicoli a favore di telecamere, il primo di una lunga serie di personaggi funzionali a capovolgere di senso questa mobilitazione sui media e all’esterno. Anche a dimostrazione del fatto che la funzione sistemica dei fascisti, che comprende storicamente anche la sottofunzione di provocatori, in quest’epoca può essere esercitata più con l’immagine che con la forza.
5. Fabio Tuiach
Di Fabio Tuiach ci occupammo con Tuco (Martino Prizzi) nel 2015, quando il suo personaggio fu letteralmente creato a tavolino dagli animatori di un (allora) noto blog cittadino di area «dem-progressista». Invito chiunque non l’avesse fatto a leggersi quella storia balneare tragicomica e grottesca, la storia di come la dabbenaggine della sinistra moderata – sì, proprio quella oggi in prima fila ad alzare il ditino contro quei «fascisti dei no green pass», esattamente la stessa – sia stata capace di inventarsi una vera iniziativa xenofoba e securitaria, imbarcando consapevolmente veri fascisti, instillando vere tossine razziste nel corpo sociale e infine cagandone fuori un nuovo supereroe di nome… Fabio Tuiach.
Del personaggio si sa ormai anche più di quanto sia utile ricordare. E anche la scena in cui al varco 4 tenta di conquistarsi qualche minuto di celebrità, violando gli accordi che tutti i portuali si erano dati, è stata vista troppo. Da quei minuti di piazzata a favore di telecamere emerge però che, nel contesto delle giornate al porto, come del resto nella vita di ogni giorno, Tuiach non è una figura nemmeno minimamente rilevante per gli altri portuali. Al punto che poi lo scriveranno persino nero su bianco in un loro comunicato del 28 ottobre, chiedendo alle TV nazionali di smettere una buona volta di invitarlo alle loro trasmissioni col solo scopo di screditare la lotta e l’immagine di tutti.
Tuttavia Tuiach, ora non più consigliere comunale, cacciato dalla Lega e persino da Forza Nuova, destinato a campare col solo stipendio da scaricatore, e quindi morto di fama, in diverse occasioni è riuscito a farsi ritrarre come una sorta se non di leader, perlomeno di animatore della protesta, con la complicità di qualche giornalista ansioso di descrivere questa mobilitazione come un covo di freaks. Una vera manipolazione mediatica, tra le tante di questa vicenda, dovuta anche alla titubanza dei portuali nel decidersi a cacciare uno che, per quanto procuri diversi problemi pratici e politici, resta un collega in sciopero, come loro. Perlopiù hanno scelto quindi di trattarlo come fanno sempre, un caso umano con cui tocca avere a che fare, magari perché ci dovrai passare chissà ancora quanti turni assieme in una stiva.
Eppure in questa storia c’è chi non ci ha pensato due volte a metterlo fuori gioco. Già prima dell’inizio del presidio al porto, Tuiach si era presentato al foro di San Giusto a un assemblea del Coordinamento. Qui alcune persone avevano posto il problema che, essendo lui comunque ancora un politico in carica, la sua presenza poteva costituire una strumentalizzazione. Altri avevano rincarato la dose dicendo che quella era un’assemblea contro un provvedimento discriminatorio, e la presenza di una persona nota per le sue posizioni discriminatorie era incompatibile con l’obiettivo comune, minando l’unità stessa del Coordinamento. Alla fine l’assemblea aveva votato, e a maggioranza era passata la sua estromissione. Lui aveva tentato di sollevare obiezioni, forse qualche velata minaccia.
Decisivo a quel punto era stato il gesto di un giovane antifascista, per niente intimidito dalla sua stazza, che si era parato a muso duro davanti all’ex pugile e, ripetendogli di andarsene, aveva gridato: – Perché questa xe un’assemblea contro le discriminazioni, mi son frocio e ti te son un omofobo razzista!
Aveva funzionato. Perché le parole sono armi, e un omofobo è comunque uno che ha paura.
6. Tanti Auguri!
La prima conferenza stampa al varco 4 la introduce Raffaella Carrà.
È il primo pomeriggio e a quel punto il varco è affollato in ogni settore e ha assunto una sua fisionomia organizzata: un pezzo consistente dello spazio d’ingresso, sotto il cavalcavia, lo occupano i blindati antisommossa, che dividono così la rampa di uscita per chi proviene dalla Slovenia, dallo spazio di carreggiata e marciapiede da cui continua il viavai di partecipanti da e verso la città; poco più avanti, un gruppo di portuali ha attrezzato delle griglie e un bar; l’area attorno a un box di servizio al centro del ponte, circondata da alcuni new jersey, è diventata il punto di riferimento dei genitori che sono qui con bambini, una sorta di doposcuola aperto; alla sua sinistra un secondo punto di ristoro è stato allestito da un gruppo di lavoratori autorganizzati; e infine, in fondo al varco, nell’area degli accessi che sembrano un casello autostradale, il bar principale, gestito da portuali e persone del Coordinamento, su una piattaforma rialzata che quindi funge anche da piccolo palco con tanto di impianto audio.
Una voce annuncia l’inizio della conferenza stampa prevista per l’una e mezza. Sono quasi le due. I giornalisti, straniti e sospesi pure loro, sciamano per accalcarsi quanto più vicino alle casse. Ma invece di qualche serioso proclama, da quelle partono le note di Tanti auguri. La folla divertita inizia a ballare e fare trenini attorno alle telecamere. I giornalisti, tra sbigottimento e imbarazzo, sono travolti dal coro e ancora più straniti. «Com’è bello far l’amore da Trieste in giù!». Alcuni di loro sono intimoriti: aver prima sminuito la portata delle manifestazioni e poi piegato sull’antivaccinismo le cronache della mobilitazione, ha causato la diffidenza della maggioranza, e l’inutile contestazione ad hominem da parte di alcuni.
Per di più sono arrivate anche le troupe nazionali, composte da gente che della città non sa nulla – a stento ha chiaro dove si trovi sulla mappa – e ancor meno capisce delle peculiarità di questa mobilitazione rispetto alle altre piazze. Se ne vanno in giro con l’atteggiamento di un inviato di Striscia la notizia che provoca un malavitoso o alla ricerca del fenomeno da baraccone che ridicolizzi la piazza e faccia clamore.
Solo quando si spengono le ultime note della Carrà, Stefano Puzzer prende il microfono. E fa l’intervento più lineare, chiaro, diretto, onesto e politico che gli sentirò pronunciare in tutta questa vicenda.
Parla per nove minuti, con pacatezza, smorzando gli inevitabili applausi, senza cercarli. Racconta del lavoro in porto nei momenti più cupi della pandemia, quando il volume di lavoro è aumentato del 45%, mentre le sole misure di prevenzione adottate, mascherine e igienizzanti, erano procurate dal presidente dell’Autorità portuale, e i terminalisti e la maggior parte delle ditte non si preoccupavano nemmeno della sanificazione degli ambienti. Di come, per tutta risposta, ora col green pass quattrocento lavoratori del porto su poco meno di un migliaio siano costretti a restare a casa. Spiega che il green pass non è una misura sanitaria, ma economica e di ricatto, che mette gli uni contro gli altri, prima dividendo tra vaccinati e non vaccinati, poi tra lavoratori a cui viene data la possibilità di avere i tamponi gratuiti e altri a cui questo non viene concesso. Ripete che i portuali, a cui i tamponi sono stati offerti, non potrebbero guardare in faccia gli altri se accettassero questo privilegio. Che il fatto di essere una categoria con un forte potere contrattuale, che ha preso questa posizione di solidarietà anche per una questione di orgoglio, ha dato il coraggio alle altre categorie di iniziare a lottare a loro volta e di essere qui insieme. Racconta di come sia facile definire i portuali dei privilegiati, dimenticando che in porto si lavora su turni di ventiquattro ore, sette giorni su sette, con qualsiasi condizione atmosferica o pandemica, ma soprattutto con un’incidenza di infortuni gravi tra le più alte in assoluto. E accenna a come si stia lavorando con i portuali del resto del Paese a un coordinamento che affronti di petto il tema della salute e della sicurezza nei porti. Fa appello alla Costituzione, al diritto di scelta, al restare uniti qualunque sia la propria idea politica. Racconta di un’infermiera che non potendo vaccinarsi per motivi di salute ora si trova a casa sola con due figli e un mutuo da pagare, e di come l’aver dichiarato illegittimo lo sciopero sia l’ennesimo segnale che ci stanno portando dalla democrazia alla dittatura. Infine introduce l’intervento di una ragazza del Coordinamento cittadino, raccontando che lei è tra coloro a cui va il merito di aver iniziato per primi questa lotta, di aver permesso ai portuali di farla propria, prendendo la sofferta decisione di chiudere la propria casa e assumendosi la responsabilità di farlo per la lotta comune.
Perfetto, penso. Be’, quasi perfetto, mi dico, mentre il boato «no green pass! no green pass!» si alza e si propaga fino all’imbocco del varco, dove nessuno deve aver sentito nemmeno una parola di quanto detto. Io, che invece mi sono ricavato un piccolo angolo favorevole all’ascolto vicino a un ex collega, ho ascoltato tutto, prendendo appunti, analizzando la progressione retorica, tentando di individuare i punti di sutura di quell’abile illusionismo, non so ancora quanto consapevole.
Sabina ci mette qualche secondo per sovrastare con la voce gli ultimi echi dello slogan, ma poi tira dritto come fa chi ha le idee chiare e niente da nascondere. È una compagna giovane, sa che dovendo parlare per tutto il Coordinamento ha una responsabilità anche nei confronti di persone che non la pensano come lei. Sa di essere una donna che prende parola in un luogo dove il lavoro e la cultura maschile sono predominanti. Ma ci mette due minuti a mettere in chiaro le cose, una chiarezza e una determinazione che se altre e altri come lei facessero propria nel resto d’Italia farebbe saltare il banco del green pass in pochi giorni. Soprattutto dimostrerebbe che i Draghi sono mostri dai piedi d’argilla. Se li colpisci dal basso cadono, o perlomeno poi devono camminare facendo meno gli sboroni.
Riassume la nascita e il funzionamento del Coordinamento, la contrarietà al greenpass come strumento di controllo e di discriminazione, inaccettabile per il lavoro, per la scuola, per la sanità. Ennesimo esempio di come i governi hanno gestito la pandemia, scaricando sui cittadini la responsabilità dei contagi, imponendo ora a tutti di scaricare il greenpass mentre a Confindustria non è stato nemmeno chiesto il conto delle stragi bergamasche e di chissà quante morti per contagi sul lavoro in nome dell’imperativo di non fermare la produzione. E spiega che l’unità di vaccinati e non vaccinati è molto più di semplice solidarietà, perché prima di tutto è unità tra lavoratrici e lavoratori, che se lottano uniti hanno il potere di cambiare davvero le cose, perché è grazie a loro e al loro lavoro che l’economia va avanti.
Perfetto, mi dico, mentre la folla applaude e grida di approvazione. Applaudo anch’io adesso. Per la prima volta da quando seguo questa mobilitazione provo l’istinto di farlo, mentre riparte lo slogan «no green pass! no green pass!». La voce maschile che, più di altre, fa da speaker ai cortei lo riprende al microfono, e poi lo intervalla con il più paraculo «Libertà! Libertà!», mentre attorno alle casse la calca si fa più intensa e movimentata, impedendomi di vedere da dove mi trovo ciò che accade.
Si sentono alcune imprecazioni, trambusto e infine un colpo secco, come un tonfo contro un armadio di metallo. Vedo compagni che conosco tentare di dirimere una zuffa, e infine alcuni portuali spingere via Fabio Tuiach verso l’ingresso del molo VII. Poi sento Puzzer riprendere la parola al microfono, con un tono del tutto diverso stavolta, di rabbia e di urgenza: – Quello che è appena successo non è qualcosa che deve disunirci, perché siamo qui tutti per far rispettare i nostri diritti! Se c’è qualcuno a cui non sta bene che se ne vada! Chi vuole dimostrare di averlo più lungo che vada a casa a guardarsi allo specchio!
Gran parte delle persone che lo sentono non sanno di cosa stia parlando, hanno visto solo il trambusto e intuiscono che deve essere successo qualcosa, e che quell’intervento serve a ristabilire l’equilibrio. Applaudono. L’atmosfera si rilassa di nuovo.
7. Fascisti
Quando Fabio Tuiach ha tentato di prendere il microfono dalle mani della persona che lo teneva, questi gli ha ripetuto quanto gli era stato detto all’assemblea da cui era stato allontanato: tu non parli.
La reazione è stata un pugno violentissimo che ha mandato chi l’ha preso a sbattere contro un box di metallo. È stato un momento che ha rischiato di creare una frattura grave tra il Coordinamento e i portuali, alimentata per un attimo da chi fino a quel punto credeva ancora che «no esisti fascisti o comunisti» e «qua semo tutti lavoratori contro el green pass». Residui storici di una città che polarizzata lo è stata per decenni, nella quale la parte proletaria arrivata dall’Istria, che ridisegnò la demografia delle periferie e delle fabbriche nel Secondo dopoguerra, finí spesso a ingrossare le clientele elettorali della Democrazia Cristiana o del Movimento Sociale di Almirante, blanditi/ricattati da un sistema clientelare che assegnava impieghi e alloggi popolari solo dopo rigido accertamento di fedeltà politica, o perché martellati da una propaganda antislava e anticomunista che saldava il bordone continuo del ventennio al neo-irredentismo lasciato per strada dalla «questione di Trieste»…
Altri tempi davvero. Ma la storia, come il presente, porta le sue contraddizioni fino a questo varco, dove a dirimere quella che per un momento rischia di diventare una rissa insensata è un portuale in pensione che prende per il bavero uno dei suoi ex colleghi più infervorati per ricordargli che davanti a quei cancelli i fascisti non hanno mai parlato. L’altro, più giovane, non lo riconosce, crede sia un tizio qualunque che col porto non c’entra nulla e fa per reagire. Ma il pensionato lo fulmina con lo sguardo e, sovrastando ogni altra voce, gli sbatte in faccia i suoi trentasei anni di lavoro, più quelli abbonati per l’esposizione all’amianto, e decenni di lotte nelle quali i fascisti alla fine giocavano sempre lo stesso sporco gioco, quello dei padroni e del potere. L’altro finalmente capisce. Tutti in questa vicenda prima o poi dovremo capire e fare i conti con qualcosa che mina le nostre convinzioni.
A quel punto la situazione torna calma, Tuiach è ormai oltre le porte. Attorno chi gli spiega, in una lingua che possa intendere, che ha già esaurito il bonus di cazzate che si poteva permettere.
Da quel punto in poi l’ex pugile, formalmente escluso anche dai portuali, ma non cacciato fisicamente, vagherà ai margini della protesta, portando nel pugno un rosario, in braccio un ritratto della Madonna e a tracolla un megafono comprato da un cinese, interpretando per quanto gli riesce la parte che i mass media governativi gli hanno assegnato, aspettando la carità di un’ennesima comparsata televisiva o di una foto mentre si riunisce in preghiera con qualche cattolico tradizionalista scoppiato. Ma per il grosso dei presenti è solo un corpo estraneo, un po’ inquietante ma anche decisamente patetico.
A buona parte della fascisteria triestina non tocca sorte migliore. E l’episodio del pugno sferrato da Tuiach metterà ancora più in difficoltà i pochi fascisti presenti, spiazzati dal fatto che la gestione del presidio al varco, come quella dei cortei, per quanto necessariamente caotica sia in mano a portuali e Coordinamento, e che per conto di questo parlino compagne riconosciute da tutti.
Non casualmente Il Piccolo riporta subito la notizia del pugno di Tuiach e sostiene che la cosa sia stata causata da un «gruppo di sinistra» che avrebbe tentato di prendere il microfono e intonare… El Pueblo Unido! A ciò si sarebbero opposti i portuali causando poi la reazione di Tuiach…
Nulla di tutto questo è accaduto, e il dettaglio sulla canzone degli Inti Illimani fa sorgere il dubbio che il cronista del Piccolo sia sotto LSD, o forse già perso nel metaverso che, il giorno successivo, tenterà di contendere alla realtà fisica ogni spazio del varco. Ma raccontarla così, insinuando per la prima volta il tema della spaccatura tra portuali e Coordinamento No GP, che diventerà poi un leitmotiv molto gettonato, allontana la paura secolare e atavica che la borghesia benpensante di questa città ha delle sue classi popolari. La stessa che ogni 10 febbraio, e in qualsiasi altra occasione, viene esorcizzata sul bordo di un pozzo del quale nessuno vuole veramente sapere cosa contenga.
Gli attivisti e le attiviste che hanno fatto in modo di innescare l’anomalia delle piazze no green pass triestine, ponendo il diritto al lavoro al centro della lotta, oltre a renderle accoglienti per le antifasciste e gli antifascisti, nei giorni del varco avranno a che fare con una mole soverchiante di problemi da risolvere. Tra questi, va detto, il minore sono i pochi militanti fascisti triestini, smarriti più di chiunque altro nell’interpretare cosa sta accadendo, tuttalpiù capaci di avvicinare solo qualche portuale conosciuto per contiguità di tifo calcistico o di farsi intervistare da qualcuna delle decine di troupe televisive presenti. Così come nelle manifestazioni delle settimane precedenti si erano dovuti accontentare di tentare qualche blitz, che permettesse a fotografi e cameramen di ritrarli in modo da sembrare promotori della protesta. Il più patetico, ma quasi riuscito: l’accensione di tre fumogeni bianco, rosso, verde di fronte alla Prefettura, accompagnata da qualche saluto romano, approfittando del caos causato dall’intrico di gazebi e container espositivi che occupavano la piazza e della disattenzione di una parte di Coordinamento che ancora non conosceva l’importante test del sorcio: se sembra un sorcio, si muove come un sorcio e squittisce come sorcio, allora probabilmente è un sorcio.
Si cerchino nelle foto di queste giornate i tricolori che compaiono nelle altre piazze anti-greenpass, perlomeno per come i media le hanno rappresentate: qui non ce ne sono proprio, per diverse ragioni, non ultima che l’indipendentismo triestino ha radici profonde e ben diverse dalla caricatura che ne fanno i sedicenti indipendentisti di oggi, ma anche perché in una città dove un’importante fetta di popolazione usa come madrelingua lo sloveno, il tricolore italiano è un simbolo divisivo (e disvisivo), associato alla destra irredentista o fascista.
Del resto a tentare di affibbiare a questa mobilitazione etichette come «fascistoide», ma anche «vandeana» e persino «Reggio Calabria mitteleuropea», in queste settimane ci si metteranno davvero in molti. Ci sarà persino chi, invece dell’ormai dilagante coro «la gente come noi non molla mai», si convincerà di aver sentito lo slogan guerrafondaio e neofascista «boia chi molla», e qualche male informato suggerirà persino che a intonarlo siano dei tizi con il Manifesto in tasca…
Riguardo a quel coro alcune cose devo dirle.
La prima è che ha quasi certamente origine tra le tifoserie calcistiche, utilizzato però sia da quelle di destra che di sinistra, come in quelle che si definiscono apolitiche – detto per inciso, quella della Triestina, al contrario di quanto credono di sapere molti, va perlopiù annoverata tra quest’ultime oramai da molti anni.
La seconda è che personalmente l’avevo sentito intonare anche in alcuni cortei antifascisti romani almeno una decina di anni fa, un fenomeno di travaso culturale dalle curve alle piazze piuttosto frequente.
La terza è che, se proprio si volesse scavare, qualcuno potrebbe notare che, in effetti, la melodia che lo accompagna somiglia molto a quella della strofa iniziale di una marcetta del Ventennio dal titolo All’armi siam fascisti! E la spiegazione di questo andrebbe cercata nel primo punto, ovvero un tipico caso di calco musicale, tanto frequente tra le tifoserie quanto lo sono i cori che riprendono la melodia della Marsigliese e persino quella di Bella ciao. E come per alcuni di questi, magari scavando ancora con le necessarie competenze di filologia musicale, forse si scoprirebbe che anche la canzonetta fascista, a sua volta, riprendeva la melodia di qualche altro canto precedente. E anche questo è piuttosto frequente.
8. Un varco sociale
Sia come sia, quel coro è in effetti diventato, nel 2014, un inno sportivo, ma non di una squadra di calcio, bensì della Juvecaserta, storica formazione di pallacanestro che a inizio anni Novanta vinse anche uno scudetto, contando tra le sue fila in quegli anni campioni come Nando Gentile, Vincenzo Esposito e Oscar Schmidt. Che esista una versione ska-rock di «La gente come noi non molla mai», “tirata” e danzereccia come il genere richiede, lo scopro al varco la sera del 15 ottobre, quando la sistematica attitudine triestina a far fraja e l’occasione di avere un impianto audio e un bar – a quel punto fornitissimo di vini del Carso, birre e molto altro –, di fatto trasforma il varco in un centro sociale a cielo aperto, illuminato dai fari notturni del porto e da una discreta quantità di fumogeni.
Tanto più che a un certo punto della serata dalle casse dell’impianto per un’ora buona si diffonde anche musica che conosco bene, praticamente un amarcord anni Novanta fatto di roba tipo Sud Sound System, Asian Dub Foundation, Rage Against the Machine… E sono in molti a raccogliere in coro l’ironica trovata del deejay e del suo MC quando risuonano le note di ‘O documento dei 99 Posse, e un verso della canzone viene modificato così:
«Passaporto patente e greenpass
Nu bello documento prima o poi tu me l’ha da’
Nu bello documento pe’ t’identifica’
Nu bello documento ja me n’aggia a i’ a cucca’»
La cosa mi insospettisce. Mi spingo fino alle casse, piuttosto certo che ci troverò qualche sovversivo della «sinistra radicale» del Coordinamento, magari uno di quelli che quando quella canzone era uscita non andava ancora alle elementari, o nemmeno era nato.
Sto già per sfottere il deejay – «ciò, ma coss’te meti ‘sta musica de veci?». E invece mi trovo davanti a due portuali sulla quarantina che se la ridono e si divertono a far ballare tutta quella gente. E nei loro volti forse intravedo quelli di certi ragazzini che, magari a tredici o quattordici anni, frequentavano gli spazi sociali che occupavamo, le feste che organizzavamo, suonando la stessa musica che ora suonano loro qui al varco.
Ed è in quel momento che penso alle tredicenni e ai quattordicenni di questo tempo, a tutto ciò che la pandemia, o la sua gestione, gli hanno imposto e negato, e ho una vertigine e un forte senso di colpa, come se a decidere le restrizioni della loro socialità e dell’affettività agita coi corpi che la accompagna, sempre, avessi contribuito anch’io. Come se fossi stato anch’io tra coloro che hanno puntato il dito sui loro comportamenti e stigmatizzato ogni disobbedienza.
E poi penso alla mia gente, a quella che qui al varco c’è, e a quella che non c’è. Perché non è potuta venire, perché non se la sentiva di stare in una situazione politicamente ambigua, o persino perché in fondo, a volte anche in superficie, si è davvero convinta che non c’è alternativa, e da venti mesi a questa parte cambia idea anche diverse volte nella stessa giornata, seguendo il flusso schizoide delle informazioni, dei numeri e delle discussioni sui social, per poi concludere, di nuovo, che non c’è alternativa, e quando te lo dice formula frasi come «anch’io sono contro il greenpass, ma…».
Me ne vado verso le due di notte, guardando preoccupato i blindati fermi all’ingresso del varco. Ma non scorgo nulla che mi allarmi in ciò che l’istinto mi consiglia di osservare. Forse non sgomberano stanotte, penso.
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* Andrea Olivieri, autore del libro Una cosa oscura, senza pregio. Antifascisti tra la via Flavia e il West (Alegre, 2019) collabora da diverso tempo con la Wu Ming Foundation e in particolare col gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete e sulle false notizie a tema storico Nicoletta Bourbaki. Alcuni dei suoi membri hanno collaborato anche a questo reportage.
I commenti saranno aperti in calce all’ultima puntata del reportage.
Aggiornamento 17/11/2021: la seconda puntata è qui.
Lundi Matin | Jours étranges à Trieste contre le pass sanitaire
Récit d’une lutte étonnante. Premier épisode
Andrea Olivieri
Traduction par Alessi Dell’Umbria
https://lundi.am/Jours-etranges-a-Trieste-contre-le-pass-sanitaire