di plv *
La notizia della morte di bell hooks cade nei giorni della chiusura delle scuole.
Non mi riferisco alla chiusura natalizia, ma allo stillicidio di chiusure per quarantena che in realtà già da parecchio tempo accompagnano la scuola italiana, riportando in auge la Dad e il malessere che questa produce. Chi è nelle chat dei genitori, degli insegnanti, dei vari movimenti, sa che questo è un problema rilevante da più di un mese. La differenza rispetto all’anno scorso è che le chiusure sono frammentate e non stabilite da un organo centrale. Ma di chiusure si tratta e sono destinate a fare danni.
Negli ultimi due anni abbiamo visto discutere di Insegnare a trasgredire di bell hooks in moltissimi ambiti, non solo tra insegnanti. Nel corso dell’estate anch’io ho letto il libro e quando l’ho chiuso mi è rimasta addosso una forte voglia di discuterne. In realtà, la voglia non mi veniva tanto dal libro in sé, ma dalla necessità di riadattare quelle riflessioni al contesto scolastico che stiamo attraversando.
Mi viene da citare Wolf Bukowski, che in un articolo pubblicato in questi giorni, più di parlare del Green Pass, ragiona sul tanto discusso «ritorno alla normalità»: «Avevo iniziato questi appunti in ottobre…».
Perché quest’anno scolastico fa così schifo?
Anch’io avevo scritto questo articolo mesi fa e, convinto ci fosse tempo per capire meglio l’avevo lasciato ristagnare, per capire meglio. Eccola qui la nuova normalità: non quella della mezz’oretta di Ottobre, in cui ci si raccontava – sulla base di cosa non è chiaro – che il problema era alle spalle, ma quella in cui l’instabilità, l’incertezza e la sensazione che tutto possa crollare all’improvviso dettata dall’alto è pane quotidiano. E chi attraversa il mondo della scuola dovrebbe sapere a cosa mi riferisco: a scuola oggi ci si va, ma domani?
Non sono un esperto di bell hooks, tantomeno un suo studioso, ma riprendere alcuni nodi di quel testo è oggi più necessario che mai. Per farlo occorre forse ripartire da una domanda che serpeggia più o meno a bassa voce nel corpo docente: perché finora l’anno scolastico è stato così devastante? Emotivamente, fisicamente, mentalmente devastante.
Per quanto mi riguarda, la situazione sarebbe più tollerabile se ci fosse una reazione. Ci sono le occupazioni studentesche, ci sono gli scioperi sindacali, ma non basta, è evidente. Si sono affievolite le – complicatissime e contraddittorie – lotte degli anni scorsi, quelle che hanno tenuto le scuole aperte ottenendo tracciamenti, tamponi gratuiti, riaperture delle scuole. Oggi i tamponi costano 15 euro, i tracciamenti nessuno sa cosa siano, classi e istituti richiudono, spesso in maniera discrezionale.
Basterebbe questo per far capire che smettere di andare in piazza non è una scelta geniale di questi tempi.
Problemi di traduzione
Nella scuola che conosciamo il punto di partenza dell’analisi di hooks, il «margine», esiste eccome, ma è più variegato rispetto a quanto viene descritto nel libro. La riflessione di hooks descrive aule universitarie vissute da studenti – nella traduzione il termine è usato anche al femminile – bianche e bianchi. Nelle aule che frequento, su 25 componenti delle mie classi, si contano persone provenienti da 13 nazioni differenti! Spesso in questi contesti ci sono persone con disabilità, altre con disturbi lievi ma che diventano giganti se compressi insieme a quelli di altre studenti. Spesso ci sono vite personali devastate. Magari quelle delle insegnanti. Non solo: riferendosi all’università, hooks scrive di persone che hanno deciso di proseguire gli studi, non di scuola dell’obbligo. Gli studenti che conosco sono anni luce da questa volontà.
Tuttavia i contributi dell’edizione italiana – di Rahel Sereke, Mackda Ghebremariam Tesfau’ e del Gruppo di ricerca Ippolita – offrono un buono stimolo per tradurre le riflessioni di hooks, anche se il contesto che viviamo semplicemente non offre spazio per dare corpo ad alcune delle intuizioni più felici del volume, a causa di problemi tanto strutturali, che la scuola si porta dietro da decenni, quanto contestuali.
Sfortunatamente, il piano contestuale e quello strutturale, stanno cominciando a fondersi amorevolmente, grazie alla spinta del ministro Patrizio Bianchi e del governo di Mario Draghi, a partire dalla famosa Dad, ufficialmente attivabile solo in caso di emergenza e invece ritornata in maniera surrettizia per le classi in quarantena, per gli studenti a casa col Covid, per gli studenti che ne fanno richiesta e trovano DS compiacenti, per la seconda quarantena della stessa classe, per, per, per, per…
È così che ora ci ritroviamo sommersi da una quarta ondata, che in realtà è tale perché è stata prodotta come tale: da inizio Novembre è evidente che le ASL non hanno personale sufficiente per eseguire tamponi, inviare gli avvisi di quarantena, convocare la gente al momento giusto. E quindi le persone venivano rinchiuse a casa, preferibilmente in Dad. Alla quarta volta che non assumi personale fisso, il virus è l’ultimo dei problemi.
I soldi PNRR risolveranno questo problema? Non sembra.
D’altronde, la soluzione sembrava dietro l’angolo… non fosse che ci sono continenti interi dove il virus circola e si modifica. Ciononostante si è voluto puntare tutto esclusivamente su vaccini brevettati e Green Pass. Risultato: alla minima crepa il sistema crolla e il panico si diffonde, tra adulti e minori. Poco importano i dati reali, poco importa l’esperienza accumulata.
La discriminazione più progressista d’Italia
A cavalcare l’onda di panico c’è il neo-eletto sindaco Matteo Lepore che per mantenere Bologna all’avanguardia delle politiche securitarie – ricordiamo l’uso del DASPO per i senzatetto, tra le tante amenità degli ultimi anni – propone il Green Pass per gli studenti e la Dad per chi ne è sprovvisto. Quella che lui stesso ha definito «la città più progressista d’Italia» si trova quindi a produrre una divisione della popolazione in base ad un lasciapassare che proprio l’attuale aumento dei contagi dimostra essere inutile e discriminante.
I prodromi di questa idea li abbiamo già visti nella discussione sui trasporti, dove il Green Pass è diventato da poco obbligatorio. Ora il salto di qualità è notevole: al centro di questa divisione c’è il diritto allo studio.
Persino la sonnacchiosa, brachicardica CGIL ha attaccato Lepore e gli altri amministratori emiliani che condividono la sua proposta.
Già perché, anche se i numeri di morti e i ricoveri sono drasticamente ridotti rispetto all’anno scorso – e meno male – la Dad è diventata ora la soluzione adeguatissima in un sistema basato sullo scaricabarile: metti che c’è un focolaio, è colpa del dirigente, del prof, del contagiato. Non del sistema dei tracciamenti saltato senza aver mai funzionato, non delle classi affollate, non degli autobus stipati.
Non vi è ancora capitato? Tranquille: si sa che prima o poi andrà così. Studenti e studentesse lo sanno meglio di chiunque altro.
– Prof, ma perché non chiudono le scuole?
– Prof, ho la gamba rotta, possiamo fare la Dad?
– Prof, se non posso prendere l’autobus perché non ho il Green Pass, facciamo la Dad?
– Prof, se c’è sciopero si va in Dad?
– Prof, sono stanco, andiamo in Dad?
Come si fa a insegnare a trasgredire in Dad?
Si può, basta aggiornarsi con le nuove tecnolog…
Andiamo a leggerci bell hooks.
Il piacere
Insegnare a Trasgredire è un libro esaltante.
Innanzitutto per la passione che trasmette rispetto all’insegnamento, inteso come esperienza pienamente militante. Riprendendo Paulo Freire, hooks ci parla di un’educazione come pratica della libertà, da distinguere da quell’educazione che rafforza il dominio.
Nell’esperienza e nella traiettoria critica di hooks, questo vuol dire veicolare contenuti che infrangono il dominio razzista, patriarcale e capitalista. E farlo tramite forme diverse da quelle cui siamo abituati, a partire dalla lingua che utilizziamo che rimane un luogo di lotta. Ma c’è anche molto di più.
hooks ci rivela, infatti, una banalità che altre persone prima di lei hanno già affermato e che pure merita di essere riaffermata: in contrasto con una trasmissione del sapere grigia e priva di emozioni, l’aula deve essere un luogo di piacere. Persino nell’università, «l’eccitazione nell’istruzione superiore era considerata potenzialmente distruttiva dell’atmosfera di serietà ritenuta essenziale per il processo di apprendimento. Entrare nelle classi scolastiche e universitarie con la volontà di condividere il desiderio di incoraggiare l’eccitazione, significava trasgredire».
Il piacere dell’apprendimento, di misurarsi con qualcosa di complesso e il piacere di comprendere sono pienamente politici. E l’insegnamento è a sua volta una pratica di apprendimento che può dare effettivamente piacere, sebbene rimanga un lavoro devastante, frustrante e sottopagato. È una contraddizione, certo, ma è una contraddizione viva con la quale misurarsi apertamente.
hooks va anche oltre e non esita a riferirsi all’eros come «forza motivante» che spinge ad apprendere e a vivere in modo diverso. L’invito è quello di interrogarci sull’eros nelle nostre classi, invece di tacerlo, anche e soprattutto per liberare noi stess* dai limiti che ci imponiamo: «per comprendere il posto dell’eros e dell’erotismo in classe, dobbiamo andare oltre al pensare a quelle forze solo in termini sessuali, sebbene questa dimensione non debba essere negata».
Certo per i docenti maschi, bianchi eterocis che tutti i giorni esercitano il loro potere pienamente sessuato in una società ampiamente patriarcale e a volte pure nelle aule, facciamo lo stesso discorso? hooks non affronta questo aspetto e personalmente sarei (e sono) più cauto, ma il tema del corpo in aula è comunque centrale. hooks lo pone con forza affermando che la dicotomia tra corpo e mente è aleatoria, che «vivere nel mondo è vivere col proprio corpo. Siamo corpi, il colore della nostra pelle, il sesso che ci viene attribuito alla nascita, la abilità che ci sono riconosciute ci posizionano in modo parziale e fingere che non sia così è mentire. Fingere che non sia così è parte del problema.
A meno che non si vogliano chiudere i corpi dietro ad uno schermo. Così, in effetti il problema lo risolvi, o quantomeno diventa facile dimenticarsene.
Con buona pace del piacere.
Conflitti nella scuola
Ogni stimolo che hooks offre è anche un processo di cambiamento da intraprendere. È paradossale vedere quante volte in Insegnare a trasgredire è usato il termine «paura», vissuta tanto dalle persone più conservatrici, quanto da quelle più progressiste. Sarebbe consolatorio affermare che tale paura è ingiustificata, che basterebbe lasciarsi andare, superare i confini istituzionalizzati per migliorare la situazione. L’entusiasmo e le argomentazioni di hooks ci spingono in questa direzione, ma, attenzione, può anche andare male.
Innanzitutto perché, modificando le forme dell’insegnamento, la classe diventa un «luogo di possibilità» e quindi di conflitto, come scrive nel suo contributo al volume Rahel Sereke. La classe, infatti, non è un luogo pacificato. Non lo è mai, ma lo è ancor meno nel momento in cui gli/le studenti mettono in gioco se stesse, il loro vissuto e le loro differenze. hooks racconta che quando questo è avvenuto nelle sue lezioni «molte persone furono prese dal panico. Ciò a cui assistettero non fu la confortante idea di “melting pot” della diversità culturale, la coalizione arcobaleno in cui tutti erano uniti nella propria differenza con lo stesso sorriso rassicurante. Questa era la sostanza della fantasia colonizzante, una perversione della visione progressista della diversità culturale».
Il successo, dunque, non è scontato. Nemmeno con l’insegnante migliore del mondo. Nelle prime pagine del libro hooks ci racconta di un fallimento: «più di qualsiasi altra classe alla quale ho insegnato, questa mi ha costretto ad abbandonare l’idea che chi insegna possa, per pura forza di volontà e desiderio, rendere la classe una comunità stimolante e istruttiva».
Che queste righe siano scritte da un’insegnante e un’intellettuale così radicale è assolutamente liberatorio: l’insegnante-eroe non esiste. Non senza una comunità che risponde e rielabora. Senza l’apporto attivo degli studenti, non la sfanghiamo.
Le comunità scolastiche
E però leggere bell hooks è assolutamente straniante.
Basta ricordare che in Italia, l’educazione sessuale, al piacere, alle emozioni è bandita.
Ma c’è di più: gli inviti a ragionare sul corpo emanano un’energia potente, ma se pensiamo alle classi degli ultimi mesi questa energia è stata dissipata, sedata, censurata. E non mi riferisco solo alla Dad, ma alle regole imposte alla scuola dal vivo, su cui vale la pena riflettere, visto che molte cose sono comunque destinate a rimanere.
Mi riferisco alle leggi reali, scritte, già esistenti prima del Covid-19 – si leggano i regolamenti dei singoli istituti – la cui applicazione è diventata più esacerbata, data la diffusa ansia di controllo che stiamo respirando.
Sfoglio il mio registro e leggo le note per uso del cellulare durante la lezione. Lo stesso Stato che ti ha facilitato la dipendenza da cellulare facendoti seguire mesi di lezioni a distanza, ora ti sanziona perché non riesci a staccarti dal dispositivo.
Non mi chiamo fuori, anzi, ritengo di esser io stesso parte del problema: sono parecchio più stronzo quest’anno e, bombardato, letteralmente bombardato da continui stimoli, richieste, disordine e drammi faccio realmente fatica a non cedere al lato oscuro dell’ansia da controllo.
D’altronde le pretese sul corpo docente non sono diminuite, anzi, le richieste sono aumentate, persino nei mesi di ottobre quando si riaprivano le discoteche, ma durante la ricreazione all’aperto bisognava stare con la mascherina. Il tutto senza i rinforzi necessari di personale, tempo, spazi.
Per esempio: abbiamo iniziato l’anno con delle regole sul distanziamento assolutamente aleatorie: «si prevede il rispetto di una distanza interpersonale di almeno un metro (sia in posizione statica che dinamica) qualora logisticamente possibile». In altre parole, il problema delle classi-pollaio è stato risolto con la logica dello scaricabarile: se le aule sono già grandi ci si distanzia, se no arrivederci.
Il tutto con banchi separati, messi a un metro di distanza l’uno dall’altro, che da più di un anno non producono altro risultato se non quello di restituire l’immagine della classe come insieme frammentato e disgregato in cui ciascuno è chiamato a farsi carico della sua solitudine.
Ed è qui che sale la carogna rispetto all’idea, proposta da hooks, di classe come comunità. Perché la comunità non è un dato di fatto, ma qualcosa da costruire. E può essere un contesto terribile, se terribili sono le condizioni in cui la inserisci.
Meno male che grazie al Ministro Bianchi la sperimentazione delle scuole superiori in 4 anni anziché in 5 sta finalmente prendendo piede. Così ci leviamo dalle scatole quella rottura che è la scuola e ci tuffiamo nel mondo del lavoro. Che invece è bellissimo.
Fughe
Ragionare sul piacere consente di leggere a contropelo la scuola e altri settori della nostra società, per chiederci cosa genera stress e disagio, lì dove dovremmo godere dei nostri diritti.
È chiaro che sul diritto all’istruzione si sta giocando una partita decisiva, e che due anni di delegittimazione della scuola in nome del diritto alla salute – situazione che, occorre ribadirlo, è chiara prima di tutto alla popolazione studentesca – stanno portando a risultati disastrosi. Come se i due diritti fossero alternativi e non intrecciati. Come se studenti e studentesse non fossero rientrate dopo due anni di mancata scolarizzazione con problemi devastanti per il loro benessere psicofisico.
A pagare maggiormente la crisi di questo benessere sono soprattutto quelle soggettività che a scuola erano già ampiamente messe da parte e che ora sono in assoluta difficoltà. Basterebbe riconoscere il diritto a qualche ora in più di sostegno ai ragazzi e alle ragazze che ne hanno bisogno, per avere una scuola radicalmente differente. Basterebbero classi ridotte per far sì che i disturbi specifici di apprendimento fossero ciò che in realtà sono: disturbi e nulla di più. Senza tutto questo la scuola diventa il luogo ontologicamente escludente che è stato ben chiarito durante il Tavolo Educazione dei recenti Stati Genderali di Roma. A causa della gestione della pandemia e delle problematiche pregresse, la scuola italiana produce malessere in chi ha più bisogno di serenità, scatenando frustrazione, insofferenza, allontanamento.
Ma guardare al piacere ci consente anche di rivolgerci ad altri contesti. Il mondo del lavoro può essere letto con un’altra lente ed essere attraversato da alcune istanze che sono centrali nel mondo della scuola. In diverse occupazioni degli ultimi mesi, gli/le studenti pongono il problema della valutazione.
D’altronde al rientro dopo la Dad a primavera scorsa, una delle poche cose garantite erano le prove INVALSI. Quel buco di milioni dell’Istituto INVALSI è oggi un pericolo non solo per la scuola, ma per l’intera società. È uno stilite messo lì a ricordarci che le nostre conoscenze devono essere necessariamente quantificate, valutate, incasellate. Un’educazione alla valutazione, questa sì, veramente formativa dal momento che sempre più ogni nostro istante deve essere valutato, giudicato e monetizzato.
Rispetto a tutto questo tocca tornare a tessere i fili, ricordandoci di guardare oltre al nostro piccolo orticello, oltre alla nostra piccola classe in Dad, per comprendere come il mondo della scuola sia investito di un attacco a tutto tondo rispetto a cui occorre resistere senza nostalgia, costruendo insieme nuove forme di trasgressione.
Perché è bello leggere i libri, ma ancora più bello è recuperare un margine d’azione.
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* plv è un attivista e insegna, da precario, italiano e storia nelle scuole superiori di Bologna. Fa parte della Rete Bessa e di Priorità alla Scuola. Ha scritto per Giap diversi articoli sulla scuola durante l’emergenza pandemica, e prima ancora varie cronache da Bologna (qui e qui), da Ventimiglia (qui e qui) e dalla penisola iberica (qui e qui). Ha insegnato letteratura portoghese e brasiliana e sulla rivoluzione portoghese ha scritto un articolo per Nuova Rivista Letteraria: «Garofani rossi per sbiancare la storia» (pdf qui).
Concordo su tutto: l’anno scolastico è talmente devastante che, per quanto mi riguarda, il bene che ho sempre voluto agli studenti non è più sufficiente per trovare le forze e le motivazioni per, semplicemente, lavorare decentemente.
L’aula con i banchi fissi, altro che a rotelle, i lavori di gruppo impossibili, il panorama indistinto e alienante delle mascherine, dentro e fuori, mi raccomando. La spada di Damocle del gorgo infernale di studente assente, malato, positivo, la quarantena e la DAD.
Non è un luogo di piacere, ma proprio per niente.
Stamattina mi consolavo pensando al mio solito voto elettorale disperso, fra passante di nuova generazione e DAD per i non vaccinati, ma poi in classe è toccato sentire la vicepreside nonché referente covid, piombata all’improvviso per la solita verifica a campione dei protocolli di sicurezza (ovvero: incarna la docente di turno la legge con sufficiente convinzione e rigore?), dire letteralmente alla platea di sedicenni (vaccinati al 99%) che:
“la variante è fra noi, sette volte più contagiosa della precedente, e in ospedale qua a Bologna i malati di tumore non riescono più ad essere curati a causa delle risorse spostate nella lotta contro il covid, e per i medesimi motivi non si fanno gli screening, e in ultima analisi di malattie prima curabili oggi si muore perché la gente come voi non ha ancora capito quanto sia grave la situazione e quanto è importante l’uso della mascherina”.
Ho replicato, davanti ai ragazzi, parlando di tagli alla sanità, di mancati investimenti. Loro muti. Altro che occupazione.
La narrativa dominante secondo la quale non si curano le altre malattie perchè gran parte delle risorse sono state dirottate sul covid la trovo insopportabile. Non perchè sia falsa, ma perchè non si è fatto nulla in questi 2 anni per cercare qualcosa di diverso dalla sacra triade vaccini-mascherina-distanziamento. Mentre non si è fatto nulla di strutturale e i politici continuano a incolpare i cittadini, quasi 5.000 unità del personale sanitario si sono contagiati negli ultimi 30 giorni e persone che ricaricano ruoli dirigenziali (in questo caso la vicepreside) non hanno alcun dubbio sulla modalità di gestione della pandemia. Per fortuna esistono ancora persone come valentinap che mantengono uno sguardo critico.
EP: Vedi, è per questo che la terapia antropologica distanziamento-mascherina ovunque, per strada (il governodeimigliori la paventa anche in zonabianca), all’asilo, nei bordelli mi crea particolare irritazione.
Perchè si tratta di qualcosa che, avremmo convenuto tutti un anno fa, può per definizione essere una misura di emergenza anzichè strutturale, come è diventata.
La mia impressione è che la rinnovata attenzione su tali vaccate sia anche parte di un estremo tentativo di convincere la popolazione che la crisi sanitaria è transitoria e non strutturale, così come le fandonie tornate di moda sul “battere IlVirus”, che non solo – dice LaScienza – plausibilmente resterà con noi per sempre, ma se ne aggiungeranno altri, come le tante specie di insetti d’importazione diventati via via endemici in Italia.
L’equazione è:
Patogenicità del nostro sistema di produzione + effetti della vita non-produttiva > capacità di cura delle strutture
Una volta era <=, ma sono bei tempi che non torneranno più, complice l'aumentare delle malattie in circolazione, l'ulteriore assottigliamento delle strutture sanitarie e l'aumento della violenza dello sfruttamento (dalla pensione a età improbabili alla riduzione dei diritti dei lavoratori che, è dimostrato, aumenta gli incidenti, le morti bianche e sicuramente… i contagi, se il tuo lavoro a cottimo non ti permette di stare a casa se hai il dubbio di essere malato o contagioso).
Per ora, fingendo di aspettare che Sars-Cov2 sparisca magicamente (anzichè continuare a mutare, come sta accadendo), si assottiglia l'addendo sinistra del primo termine.
Peraltro, la scuola è uno dei maggiori luoghi di riproduzione delle merdate neoliberiste.
La mia esperienza da dietro la cattedra è che la maggior parte degli insegnanti siano assolutamente inadeguati e non di rado fascisti tout court.
Aneddoto correlato: alla fine del 2020 seppi da una giovane ex collega che "aveva dedicato moltissime ore a spiegare ai ragazzi come si diffonde il covid per insegnargli a stare in sicurezza".
Nobile proposito, non fosse che si tratta dell'insegnante di inglese, e dubito che abbia impartito ai ragazzi conoscenze avanzate di fluidodinamica quanto piuttosto ripetuto la narrazione colpevolizzante, probabilmente inconsapevolmente.
1/3 La “nuova normalità” rimanda a più antiche e già normali desolazioni pre-pandemiche. Nel tempo ho tenuto una specie di taccuino su cui appuntare le mie osservazioni da lavoratore scolastico, e qui penso di poterle collegare in qualche maniera a quanto plv ha fatto emergere, senza risultare troppo divergente rispetto al post. Non le propongo in modo molto organico, me ne scuso:
Questa, sosteneva già più di vent’anni fa Gilles Deleuze, è l’epoca dell’ibrido, del lavoratore-liceale in perpetua precarietà e ininterrotta formazione. L’insegnante-studente ne è una variante. Secondo certi pedagogisti, l’“istruzione lungo tutto l’arco della vita” comporterebbe di necessità l’indubbio vantaggio di un continuo arricchimento culturale precedentemente sconosciuto, in conformità alle sempre più cogenti esigenze di gestione, selezione e crescita del “capitale umano”.
A tutte queste chiacchiere sulla scuola di qualità sono sottese ben altre intenzioni, tutt’altro che innocenti. Per identificarle è necessaria una preliminare nota storica. La scuola tradizionale è in crisi, come tutte le altre istituzioni delle moderne società disciplinari foucaltiane a essa isomorfe: fabbrica, prigione, caserma, ospedale etc., tutti luoghi ben delimitati e chiusi in se stessi, realtà discrete, nettamente separate tra loro da soluzioni di continuità. Oggi, nell’epoca delle società del controllo (Deleuze), il modello di riferimento vincente è l’impresa che opera apertamente su un territorio. Analogamente, gli istituti educativi sono a loro volta chiamati a “estroflettersi” per interagire con enti pubblici e – soprattutto – privati.
2/3 Banche, organizzazioni come Confindustria, Federchimica etc., proponendo alle scuole corsi e iniziative formative di vario genere, hanno trasformato i percorsi PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento – ex alternanza scuola-lavoro) in cavalli di Troia per plasmare dall’interno l’istituzione scolastica secondo la propria agenda. L’alternanza scuola-lavoro è a riguardo assai indicativa di un processo ormai ampiamente conclamatosi, modulato e volto a illanguidire sempre più la delimitazione tra mondo dell’istruzione pubblica (democratica e libera, almeno secondo Costituzione) e azienda (privata, votata al profitto e certamente non democratica). La riforma dell’esame di Stato, che elimina la terza prova e che riorganizza l’orale attorno all’esperienza di alternanza scuola-lavoro raccontata in prima persona dal “maturando”, asseconda in tutta evidenza questi sviluppi, modulando gradualmente la trasformazione del colloquio d’esame in colloquio di lavoro, con effetti mutageni sullo stesso corpo insegnante, che si ritroverà nel tempo convertito – di fatto – in un gruppo di generici professionisti delle “risorse umane”. L’emergenza pandemica è diventata un’occasione per imprimere accelerazioni a simili processi ormai in atto da decenni, e specialmente osservabili proprio in quella parte – l’esame – in cui dialetticamente si manifesta il Tutto. Infatti, oltre all’abolizione – temporanea? – delle prove scritte, dal 2021 è diventata obbligatoria la redazione del curriculum dello studente.
3/3 Proprio in forza di questo “nuovo” paradigma, l’istituzione scolastica rischia di dequalificarsi completamente sotto forma di terziario a vantaggio del capitale globale, in un’ottica cioè di continua produzione e offerta di beni immateriali, ovvero di formazione che si suppone (tra l’altro con scarsissima lungimiranza) istantaneamente spendibile sul mercato del lavoro.
I governi italiani, come mostra l’ultima riforma, seguono e assecondano questi processi tentando di ridurre la professione a mera tecnica di misurazione di “abilità e competenze”. Coerentemente, gli insegnanti stessi andrebbero infine riconvertiti in puri certificatori e selezionatori di futuro personale. L’esercizio allo spirito critico, vero e concreto obiettivo di un’istruzione realmente democratica, è espunto dal testo della legge 105 (la famigerata “Buona Scuola”), e sostituito da un’ideologica e molto confindustriale educazione all’”auto-imprenditorialità” de* student*.
La scuola italiana è soggetta a destrutturazioni tali da renderla materia bruta, del tutto atta e disponibile ad assumere placidamente la forma del capitale e delle sue logiche. E questo ovviamente è verificabile analizzando anche l’altra figura ibrida, quella dello studente-lavoratore. L’alternanza scuola-lavoro è stata resa obbligatoria allo scopo di perseguire finalità soprattutto “antropologiche”, volte cioè a plasmare una forza lavoro imbelle, docile e sotto-pagata. Quanto più lo studente si de-forma in azienda, tanto più si sottrae al tempo d’istruzione, l’unico che gli garantisca la possibilità di un incontro con l’esercizio dello spirito critico. Il rapporto con l’azienda si risolve tutto a vantaggio di quest’ultima. Ci viene raccontato che scuola e lavoro devono imparare a parlare la stessa lingua che – guarda caso – è il linguaggio unilaterale dell’impresa e degli uffici marketing.
Siamo alla liquidazione di tutto ciò che finora abbiamo chiamato pubblica istruzione, presto destinata a dissolversi nel gorgo delle molteplici opportunità di offerta formativa. Il mercato ne è saturo, con l’unico risultato di drenare credito e fiducia ai lavoratori-liceali, che quanto più si formano e spendono, tanto meno – di fatto – lavorano.
Dice Sileri che le scuole non devono riaprire in gennaio. Dico io che se le scuole non riaprono in gennaio la luna di miele (if any) degli italiani (che non ho ancora capito chi e cosa siano) con il governo potrebbe finire molto molto presto. Il governo lo sa e ha paura. Lo si capisce ascoltando la radio. Al mattino, per essere sicuro di svegliarmi con una scarica di incazzina, ho la radio sveglia sintonizzata su radio 1 aka radio Draghi, e negli ultimi giorni noto un certo nervosismo. Sono tutti molto preoccupati che la risalita dei casi possa ostacolare l’elevazione di Draghi al quirinale. Fino a quando il contagio era limitato a Trieste, appendice infetta d’Italia come è stata definita, erano tutti tronfi e tranquilli. In Lombardia il virus si schianterà contro un muro di vaccinati, ho sentito dire. Ora che il morbo è arrivato a Milano e sta per arrivare a Roma, essi sono nel panico.
Venti di DaD spirano ovunque. Come scrive Tuco, la situazione si sta evolvendo molto rapidamente.
Pierpaolo Sileri ha annunciato che se la curva è fuori controllo bisognerà ritardare la riapertura della a Gennaio (chi l’avrebbe mai detto).
Nel frattempo Bologna rimane un ottimo punto di osservazione.
Il Sindaco Lepore ha fatto una leggera marcia indietro dicendo che vuole sentire le associazioni dei genitori (povero che me, escluso per non essermi riprodotto) per chiarire dialogare con loro.
Poi oggi ha scritto una lettera agli stessi genitori (oh, frega proprio niente di chi a scuola ci lavora) di bambini e bambine tra i 5 e 11 anni dicendo:
“considero la dad una soluzione assolutamente emergenziale che rischierà però nostro malgrado di diventare strutturale nel medio periodo se non si attueranno tutte le misure necessarie”
E poi
“proprio per difendere la scelta di tenere aperte le scuole, per difendere il diritto all’istruzione al pari del diritto alla salute, entrambi costituzionalmente riconosciuti, si impone un salto di qualità sulle vaccinazioni e per questo vorrei caldamente invitare tutti voi a prenotare quanto prima il vaccino anti-covid per i vostri figli”
Non è un ricatto.
Nel ricatto se tu fai quanto viene richiesto poi l’altra parte cede qualcosa.
Qui si sa già che le eventuali bambine e bambini vaccinati non saranno sufficienti, perché la curva è già “fuori controllo”.
Questa è una profezia che si autoavvera.
E la responsabilità è data all’ultimo anello della catena, le persone più piccole.
La lettera, da me ricevuta in quanto genitore, è terrificante. Ma forse sintomo, vorrei quasi sperare, di quella tensione che serpeggia nelle istituzioni che intuisce Tuco. Il sindaco (chi per lui) scrive con il cuore in mano, vuole apparire vicino e umano: compie questo gesto straordinario per il bene di tutti. Peccato che non credo di essere l’unica, fra i destinatari, che conosce attualmente diversi minori positivi EPPUR vaccinati: con conseguenti quarantene, DAD ecc.
Come la mettiamo? Vogliamo dire anche dei quattordicenni che con il vaccino almeno si sono risparmiati la terapia intensiva?
Scrivo qui un commento il più possibile sintetico che vuole però essere a 360, ma si riallaccia e parte dagli ultimi commenti qui sopra, perplessità espresse da Cugino, Albo e Trieste ed altri.
Ho sempre più l’impressione che, per portare in immagine figurata, questa pandemia-sindemia, stia diventando un grande albero sempre più ramificato, dalle radici alla sua chioma. E se la chioma è la punta dell’iceberg delle diatribe chiamiamole scientifiche/scientiste e risposte, più o meno virocentriche e via dicendo, le radici potrebbero rappresentare quanto tutto questo discorso pandemico si stia insinuando nelle radici profonde e già rimestate, della nostra società e sua organizzazione, sociale, produttiva, di classe, capitalistica, e via dicendo.
Più il tempo passa e più queste ramificazioni si estendono e diventano complesse anche solo agli occhi di chi volesse capirne o dis-velarne certi contenuti o nuclei di verità e portarli avanti.
Ramificazione, complessità interconnessioni via via crescenti, riassumendo.
Questo commento nasce anche dall’esperienza personale -pandemica- all’interno di una organizzazione estremamente complessa e per lo più gerarchica chiamata Ospedale, al cui interno tutto è strettamente correlato come potrebbe essere un porto (o il porto di Trieste, vedasi ultimo commento di alboliveri).
Nasce dall’ipotesi di chiusura prolungata delle scuole, (perché i sanitari non hanno figli?) dall’ultimatum di medici di P.s. ed anestesisti di sciopero, da varianti delta, omicron, dalla coperta che cmq la tiri e chiunque la tiri stante queste premesse rimane corta.
Si può rivoltare tutta la faccenda partendo dalle basi antropo/socio/politico/filosofiche della modernità ed oltre, studiarle con approccio scientifico, approfondirla con taglio mediatico/Mass mediatico e tirarne fuori tanta tanta roba. Interessante o dallo “smell of shit”.
Rimane tantissimo materiale, e se lo vogliamo realmente sviscerare, metterlo nel piatto, e rispondere anche a livello di lotta di classe, come fatto in altre lotte, (tac, Mosè e via dicendo) impossibile, temo, per una entità (sia esso singolo, collettivo, blog, sindacato di base) riuscire a districare la matassa da soli.
Il mio è un sincero appello di fronte alle macerie incombenti -sociali culturali economiche- che non vuole avere risposte univoche (+ o meno organizzazione, divisione in argomenti, soggetti che si occupino di sintesi, soggetti che facciano analisi..???).
Non ho risposte. Ma due sensazioni: l'”organizzazione” di questa “lotta” non sta avvenendo spontaneamente (almeno a sinistra), ed il fatto che questa lotta sia sempre più necessaria.
Non sono stata particolarmente chiara, forse, ma credo che il concetto di fondo di quello che voglio dire, o spero, sia più o meno nella mente di ciascuno di noi.
Se non proprio già a delle soluzioni, credo dobbiamo iniziare a dare delle “risposte” collettive, in una società sempre più individualizzata, cosa già non facile di per sé.
Questo commento nasce dalla pancia, da un grido di disperazione, da una “sinistra” che mi appare sempre più come uno specchio caduto. Dobbiamo, credo iniziare ciascuno a raccoglierne i frammenti, ricomporlo, e ricercare in esso i nostri obiettivi, sempre più improcrastinabili.
Ci sono a riguardo un milione di altre cose da dire, solo io stessa ne avrei contomila. Dalla scheggia più grande, al più minuscolo frammento di vetro. È una cosa enorme quella che sta andando in frantumi, enormemente complessa e ramificata.
Se a Genova in un certo senso tutta la nostra “contro-realtà” o chiamiamola come volete, si è in un certo senso saputa organizzare/autoorganizzare in qualche o mille modi, oggi mi pare che questo non stia avvenendo, o non cmq nelle dimensioni, nonostante lo sforzo di tutti, anche qui su Giap, che la situazione richiede..
L’ultimo “editoriale” di Peter Doshi sul British Medicali Journal, l’ultimo studio retrospettivo di università italiane sull’importanza della tempistica delle cure precoci rispetto all’insorgenza del Covid, l’ennesimo articolo sulla inesistenza di cure, la dichiarazione di Rasi in tivvu che dice che la Tachipirina è un antinfiammatorio (un po’ come se un membro dell’Accademia della Crusca dicesse che Pascoli ha scritto la Divina Commedia, gli ennesimo articoli su scienza/divulgazione/progresso prodotti da frange della sinistra, Oslo, invito a cena con omicron e dati epidemiologici e clinici su gravità non gravità della variante, solo per rimanere all’ambito scientifico.
Poi, chi siano gli anarco così, cosa abbiano scritto e tutti i commenti relativi dei giapster, perché Henryck abbia preso questa sbandata, chi è Hendricks?, piove o non piove e che fine faranno olio ed olive, il nuovo thread, i commenti relativi, i vari articoli di sinistra in rete.
Tutto questo da leggere nel ritaglio del tempo osservando i nuclei familiari a me vicini ed a cui appartengo rischiare di sgretolarsi dopo l’ennesima dichiarazione di chiusura delle scuole (appunto perché sanitari) tutto questo pulendo un bagno e l’altro o spingendo una barella in servizio e cantando nella mia testa, curami, curami, prenditi cura di me, e del mio animo in frantumi appunto come uno specchio.
I bambini che hanno smesso di baciarsi, di abbracciarsi perché c’è il virus.
Chi si prende cura me? Di noi? Di tutti quelli come me? Come noi?
Vaccino unica arma, virocentrismo, Sistema Sanitario e tagli, aziendalizzazione, dad, P2, po’iazza della Loggia..
Informazione, disinformazione, massa, bunker e debunker, Ucraina, Polonia, Afghanistan, Siria, Palestina, banchi a rotelle, minimo che la gente perda le sue, di rotelle.
Questo ha generato il mio commento della notte. In sottotetto il fantasma nell’armadio, la pianta morta con la prima ondata che mia madre mi ha regalato quando a vent’anni sono andata a vivere da sola, per citarne uno ed ognuno di noi ha qualche fantasma.
Curami
Curami
Curami
Verranno al contrattacco con elmi ed armi nuove
Verranno al contrattacco ma intanto adesso
Curami
Curami
Curami
Prendiamoci cura di noi..
nel frattempo la repubblica della merda in collaborazione con la scuola holden (che non è pike bishop ma un altro holden) ha in homepage tutta una sbrodolata su pandemia e riscoperta della spiritualità, le solite stronzate su come il lockdown ci abbia fatto riscoprire noi stessi, i valori, roba del genere, roba che immagino bisognerebbe scrivere con la maiuscola. e nessuno che abbia la sincerità di dire che il lockdown è stato soprattutto un’immensa rottura di maroni. tutto quanto, al netto del doveroso rispetto per i lutti, è un’immensa rottura di maroni. dall’epoca di mad max ci immaginavamo la fine del mondo come una roba molto avventurosa, con moto che rombano nel deserto e squinzie seminude coi capelli al vento. invece ci siamo ritrovati nelle grinfie dei ragionieri dell’apocalisse.
Scusate L’OT ma non riesco a trattenermi.
La res pubica il 16 Dicembre in prima pagina non riportava tracce dello sciopero generale MANCO IN FILIGRANA.
Riescono a sorpassarsi a destra da soli, continuamente.
Il sospetto che fossero più reazionari del re mi è venuto quando è incominciato ad aumentare il numero delle pagine a dismisura e malignamente ho immaginato che il giornale fisico, arrotolandolo stretto, diventa praticamente un manganello.
Un pensierino se fossi un inventore di complotti ce lo farei, buttato lì nel calderone:
“Al momento opportuno(in vista del reset) i lettori di repubblica soros-succubi saranno triggerati dalla combinazione vaccino-5g e usciranno a pistare i reprobi con copie del giornale arrotolato, tipo robottini della duracell”
A ‘sto punto si potrebbe anche inventare una storia in cui ci sono gang di tossici di una nuova droga chiamata vaxtamina, che si aggirano tra le rovine della periferia di Trieste devastata dalla guerra civile. Le cose erano andate così: il governo aveva imposto la terza dose dopo cinque mesi, la quarta dopo un ulteriore mese, e a quel punto milioni di persone avevano sviluppato una dipendenza irreversibile dalla sostanza. La maggior parte erano morti in seguito a terribili crisi di astinenza che provocavano allucinazioni insostenibili. D’altra parte gli straight edge erano stati tutti sterminati da una misteriosa malattia detta variante omega. I pochi tossici superstiti si erano organizzati in gruppi rivali in lotta tra loro, che si contendevano le fiale di vaxtamina saccheggiate nei depositi dell’esercito.
Una storia molto avvincente!
Si potrebbe continuare così..
..però dopo molte lotte gli anarco cosi scendevano dalle montagne dicendo di essere degli dei, riuscivano ad impadronirsi delle riserve della sostanza, ed imponevano un nuovo regno basato sul terrore e la dipendenza.
Quando il loro regno divenne abbastanza consolidato fecero erigere una nuova piramide ai loro nuovi schiavi coi rottami delle gru del porto, creando una nuova città stato sul mare protetta da anelli concentrici intorno ad essa ed al centro la grande piramide, faro e centro nevralgico ed ideologico della “nuova umanità” soggiogata..
Ok però trovatevi un dungeon dove giocare :-) Cerchiamo di stare nella discussione sulla scuola.
Mi permetto un’ osservazione: le divagazioni fantastiche e fantasiose sono la parte migliore e più interessante del discorso. Questo ha molto a che fare col metodo scolastico. Col la supremazia del metodo logico deduttivo su qualunque altro metodo. Con la rielaborazione delle paure senza necessità di ricorrere al debunking o al suo opposto delirante. Con la costruzione di strategie di rivolta. Questa è l’unica lingua, l’unico terreno, l’unico territorio su cui vale la pena fondare un dialogo con adulti, adolescenti e bambini per uscire da questo orribile presente. Queste divagazioni hanno molto a che fare con quello di cui parlava plv. Per sanare la frattura fra corpo e mente, per riscrivere la storia attraverso le storie. Senza negare ciò che il corpo e la mente insieme fanno emergere liberamente. Questo ha a che fare col piacere e con il piacere della discussione. La trasgressione dei limiti in una discussione in cui si parla, sì, di scuola ma in cui si discute anche il metodo scolastico.
Tutto c’entra con tutto, tutto è potenzialmente afferente a tutto perché quest’emergenza investe ogni ambito del materiale e dell’immaginario, e su un blog di scrittori la fiction ovviamente non stona. Però…
Però abbiate pazienza e seguite il filo della riflessione: se questo sotto-thread di fiction fosse sotto qualunque altro post sulla pandemia, cosa cambierebbe? Nulla. Ed è proprio questo l’aspetto che ci sforziamo di far notare: gli articoli che proponiamo non sono tutti uguali, ergo le discussioni in calce non sono tutte uguali, ognuna ha un focus diverso. Variazioni sul tema e brevi divagazioni sono inevitabili, ma viste le derive che qui troppe discussioni hanno preso, noi vogliamo evitare che le variazioni cancellino il tema e le divagazioni rendano la discussione informe.
Il motivo è anche di mera sopravvivenza nostra: noi facciamo una fatica enorme a seguire e gestire le discussioni, ricordiamo che noi riceviamo via email ogni singolo commento e non è che possiamo non curarci di leggerlo.
Come quasi tutte e tutti, siamo stanchi e provati. Gestiamo Giap come “politica di salute pubblica” dall’inizio della pandemia, lo facciamo sforzandoci di mantenere una specificità di approccio, e soprattutto ritagliando tempo dal nostro lavoro. In queste settimane siamo in seduta perenne da mane a sera sull’editing delle prime due parti del romanzo collettivo, e quando non stiamo facendo quello facciamo ricerche, abbiamo trasferte, sbrighiamo rogne quotidiane e, ripeto, come tutte e tutti cerchiamo di non cadere nella depre. Per fortuna il nostro lavoro ci piace e possiamo continuare a farlo, la stesura del romanzo ci sta dando soddisfazioni, ma il clima intorno preme come le pareti ne “Il pozzo e il pendolo” di Poe. In tutto questo noi dobbiamo curare questo blog. Se ci date una mano, se ci venite incontro, è meglio.
Ad ogni modo la realtà supera la fiction. Dalla repubblica della merda:
Verrà potenziato lo screening straordinario degli studenti. A supporto dell’attività di tracciamento dei casi positivi nelle scuole vengono stanziati fondi per il ministero della Difesa, implementando l’attività di diagnostica dei laboratori militari. In campo c’è anche l’ipotesi di un prolungamento delle vacanze di Natale fino al 31 gennaio attivando però la Dad per gli alunni delle scuole dalla seconda media in su o per quelli delle superiori.
riassumendo:
1) visti i problemi della scuola, si finanzierà il ministero della difesa
2) tutte le scuole chiuse fino al 31 gennaio, ma tranqui raga, dalla seconda media in su “verrà garantita la DAD”
ron goulart l’aveva previsto, che nel 2021 saremmo stati nella merda, o nel metaverso, che è lo stesso.
http://www.mondourania.com/urania/u741-760/urania753.htm
Sulla scuola ormai si dice tutto e il suo contrario. Per due giorni prima Bianchi e poi Draghi hanno affermato che non ci sarebbero state ulteriori chiusure. Ora già sembra si cambi.
Mi limito a osservare due elementi rispetto a quanto scrive Tuco:
– io sono favorevole allo Screening, ma se si fa solo nelle scuole allora saranno solo le scuole il problema. Il Nord Italia è pieno di capannoni, magazzini, industrie ad alta ci concentrazione di persone, dove le norme sulla sicurezza sul lavoro sono seguite in modo opinabile. Non si dovrebbe lavorare anche lì sullo Screening, per esempio?
– Dai dati pubblicati si capisce che le scuole dalle medie in su hanno meno contagi. Ci si arriva anche a logica. Per quanto i miei studenti e le norme anticovid vivano su universi paralleli, non c è quella promiscuità che c’è alla primaria. Inoltre buona parte della popolazione studentesca delle superiori alle è vaccinate (è da capire quali, ed è interessante e meriterebbe riflessionea parte). Quindi si tratterebbe di chiudere di nuovo i luoghi non primari per il contagio.
Oltre al problemino della sospensione del diritto all istruzione.
Qui i grafici della settimana scorsa:
https://infogram.com/report-covid-casi-in-ambito-scolastico-in-emiia-romagna-1h7j4dvogdky94n?live
“Quando ci si avvicina alla parte invisibile di sé stessi ciò che si trova può essere opaco e vario”. Viene da chiedersi (ancora): ma questa gente dove vive? Già lo scorso anno, qui su giap, si faceva notare la grande scemenza dello stare a casa dipinto come periodo catartico, di riscoperta delle gioie domestiche ecc, ma qui si va oltre. Io conosco gente che durante il confinamento si sbatteva per seguire i figli in DAD, per fare la fila al supermercato, per far quadrare i conti dopo avere perso il lavoro, per capire come fare per andare ad assistere i genitori anziani e malati. Nessuna di queste persone si è messa a scavare dentro sé stessa per trovare l’assoluto, nessuna ha improvvisamente scoperto il senso della vita, nessuna ha cercato di avvicinarsi “alla parte invisibile di sé”. Non ne avevano il modo, non ne avevano il tempo. O sono io che conosco solo alieni o c’ha ragione tuco.
Detto questo, riproporre ancora questa storia del lockdown come momento di spiritualità, è l’ennesimo episodio di mancanza di rispetto, anzi, di presa per il culo.
Varrebbe forse la pena di essere un po’ più scafati sul confinamento e questioni legate. Quella retorica che citi è idiota, infame, sbragata davanti al potere e tutto il peggio immaginabile.
Per chi ha avuto morti e malati, per chi lavora nella sanità, è stata una tragedia lacerante, punto.
Per chi vive in pieno neoliberismo (coabitazioni, precariato ecc.), per chi lavora nella produzione materiale, nella vendita diretta ecc. il confinamento, quando c’è stato, si è avvicinato alla perdita di ogni risorsa e il lavoro a un rischio continuo.
Per chi, magari per meri motivi generazionali, ha ancora la possibilità di vivere in un modo decente, che qualche decennio fa sarebbe stata la maggior parte delle persone, cioè con un lavoro a tempo indeterminato vero, e magari in un piccolo appartamento di proprietà, che non significa essere ricchi, ma non avere ansie almeno per l’affitto ma “solo” per il dentista e la perdita del bagno, che comunque non ha consumi ricreativi, perché appunto soldi non ne ha da spendere oltre alle spese incomprimibili e il tempo libero non puoi trascinarlo in giro a tutte le età e condizioni, specie se ti fai ogni giorno due ore di trasporti per andare a lavorare, puo’ aver rappresentato non certo un tempo di introspezione, ma la chance di prendere le distanze, o anche solo di rifiatare un momento, rispetto a un ambiente di lavoro oppressivo, volentieri mobbizzante, carico di frustrazioni, di adempimenti stupidi che possono diventare motivo di persecuzione di un capo imbecille (uno su tutti: l’orario di timbratura del cartellino), una coabitazione forzata in ambienti non idonei con persone con cui non si ha nulla in comune che succhia tempo e energie in ciacole e dispetti stupidi e inconcludenti. Il tutto malgrado l’angoscia per i vecchi e la fila al super,pensa un po’ come stiamo messi in quel quotidiano prossimo ai corpi che dovrebbe farci lieti. Gente che sarebbe immediatamente etichettata alla Monicelli, classificazione peraltro economicamente scorretta quanto falsa, perché la sx con costoro non ha mai saputo rapportarcisi e alla fine ha scelto di non vederli proprio più, non è gente abbastanza figa né sfigata e richiama pericolosamente, al narcisismo di un certo ceto intellettuale, il rischio concreto del proprio declassamento economico e sociale.
E per i bambini e i ragazzi? Per quelli coi genitori impanicati dev’essere stata angoscia bianca per due mesi. Per quelli coi genitori non impanicati “solo” una noia mortale. Io comunque mi rivendico per l’ennesima volta di aver violato il confinamento, di aver sfondato con un calcio il cancello del cortile di un magazzino abbandonato, e di averci portato i miei fgli a tirare calci a un pallone all’aria aperta. Mi rivendico di essere andato a portare i fiori alla lapide di Alma Vivoda il 25 aprile, e di essere sceso in piazza il primo maggio per la festa dei lavoratori e della liberazione dal nazifascismo, sfidando la digos e la riprovazione del 99% della compagneria italiana.
Aver vissuto cosi’ il confinamento non dovrebbe comportare l’idea di un’inferiorità mentale, deplorevole egoismo, inammissibile privilegio, fobie ubique nel “discorso” chic, dovrebbe essere visto come la condizione “normale” con cui poter guardare a un’emergenza. L’anormalità è dover vivere il luogo di lavoro come un disagio nelle peggiori condizioni, oltre allo sfruttamento, e il quotidiano come un’inquietudine.
Tutte queste situazioni si sono verificate, come è normale in una società stratificata, come quella di chi, minoritaria, se ne è stato in villa con le consegne dei fattorini ogni mezz’ora, il pettegolezzo al cellulare e la filosofia sul comodino.
Il tutto senza voler giustificare minimamente i runner inseguiti con i droni, la demonizzazione dell’aria aperta pure da soli mascherine incluse, la rivoluzione dal sofà come il caffè ecc.
Nel frattempo che noi sediziosi e disfattisti complottiamo, a ministeropoli sono parecchio avanti in un esperimento di pensiero collettivo per portare la scuola al prossimo livello. L’esperimento ha già prodotto un primo artefatto:
https://contropiano.org/news/politica-news/2021/12/22/il-miur-nel-lazio-chiede-sanzioni-contro-gli-studenti-che-occupano-le-scuole-0145115
Ovviamente la mia è un’amara ironia. Si tratta di una circolare dell’ufficio scolastico regionale del Lazio dove si invita a fustigare gli studenti impegnati nelle occupazioni, soprattutto quelli “più in vista”. Il motivo, sostiene la circolare, è che questi lederebbero il diritto allo studio di chi, invece, a scuola ci vuole andare. Non aggiungo altro perché se aggiungo qualcosa, è una bestemmia.
Qualcuno qui nei commenti a questo post aveva tirato fuori Foucault, la “messa in piega” sin già dalla struttura scuola… ecco, per l’appunto.
Per un certo tempo ho pensato che la Azzolina fosse la goccia che fa traboccare il vaso. Poi è arrivato Bianchi, e il vaso continua a riempirsi. C’è sempre stata la tentazione repressiva nei confronti delle occupazioni, ma in genere non era così smaccata, così palesemente “istituzionale”, almeno negli anni recenti. Dietro al principio (liberale?) della difesa della libertà altrui si può nascondere tutto: non puoi scioperare, ledi la mia libertà (di spostarmi, di usufruire di un servizio, di avere la città pulita, ecc), non puoi manifestare su suolo pubblico, ledi la mia libertà di fare shopping, non puoi riunirti per strada con gli amici, ledi la mia libertà di non sentire il rumore delle chiacchiere, e via dicendo.
Sul discorso scuola, sarebbe ripetitivo elencare ancora i danni della DAD “lato studenti”. Sul “lato docenti” a mio parere è dannosa tre volte. La prima perché li priva del rapporto vis a vis con i ragazzi che, per quella che è la mia breve esperienza, è di importanza decisiva per capire se ciò che si dice arriva. La seconda perché, dal punto di vista professionale, si insinua una specie di senso di impotenza, di perdita di controllo su quello che realmente si potrebbe fare, sulle potenzialità che si potrebbero esprimere e che rimangono represse, che non di rado si traduce in frustrazione (sensazione quasi sempre presente, ma che la DAD accentua in maniera esponenziale). La terza perché molti docenti vedono e sentono colleghi che invece sono entusiasti della DAD, perché hanno più tempo libero, perché la tecnologia del remoto migliora la vita, perché “non devo combattere quotidianamente con quegli stronzi di colleghi” (cit.), e magari poterla usare stabilmente e per sempre.
La DAD è il vaccino, è quel presidio/salvagente che consente alla politica di non fare nulla (come il numero chiuso all’università, come l’istituzionalizzazione del sovraffollamento nelle carceri, o l’ipocrisia dello staccare la spina basta non farlo vedere). Solo che mentre il vaccino, alla fine, non dovrebbe lasciare in eredità grossi strascichi, la DAD lascerà il deserto.
” C’è sempre stata la tentazione repressiva nei confronti delle occupazioni, ma in genere non era così smaccata, così palesemente “istituzionale”, almeno negli anni recenti”
In 3 righe hai detto perfettamente quello che avevo in mente.
Poco fa, mentre ero in macchina, ho ascoltato alla radio(24) prove tecniche di questurinismo applicato.
In sostanza c’era una preside(dirigente scolastica) capoccetta non so di quale associazione, già di suo iper-reazionaria, che parlava mortificata col conduttore(Milan) il quale la sferzava con frasi del tipo:
“[…] Secondo lei un’occupazione si può configurare come interruzione di pubblico servizio?[…]”
“[…] suvvia si conoscono le teste più calde… ma perché non denunciate?[…]”
“[…] provvedimenti disciplinari classici sarebbero in questo caso una carezza[…]”
Prepariamoci al peggio. Il preside questurino asceso al piano nazionale/istituzionale.
Riguardo al discorso sui lasciti nefasti di questa gestione pandemica, io già qui ci vedo parte del pattern che ha partorito il GP. Senza stiracchiare troppo il concetto siamo di nuovo di fronte al dipinto di una specie di enorme cooperativa a paradigmi ribaltati: invece di essere la scuola che salva l’alunno, é l’alunno che deve salvarla, insieme salvaguardando il diritto all’istruzione dei cooperanti tutti.
Ovviamente casca fuori dal dipinto che la scuola è diventata un votificio fatiscente e pericolante e che il diritto all’istruzione è già moribondo, nonostante stiano provando a mesmerizzarlo con abbondanti iniezioni di DAD.
Come già scritto a suo tempo, la soluzione per tenere le scuole aperte esiste.
Ci dicono di credere alla scienza ma l’unica scienza non è la medicina purtroppo per loro esiste anche l’ingegneria.
E l’eccellenza dell’ingegneria italiana e mondiale da maggio 2020 ha indicato la via da percorrere.
In Italia abbiamo un’eccellenza in merito che è il prof. Giorgio Buonanno esperto in aerosol. I suoi studi e i suoi articoli sul Corriere sono facilmente reperibili in rete. I suoi studi sono stadi ripresi da ISS a maggio 2021 e saranno alla base di un nuovo documento OMS.
La ventilazione meccanica controllata è l’unica soluzione
Come scrissi già a suo tempo:
25 banchi con le rotelle 200€x25=5.000,00€
25 alunnix200ggx0,50€=2.500,00€ all’anno di mascherine
Costo impianto VMC dai 5.000,00 ai 7.000,00€ ad aula.
Su questa cosa sto’ conducendo una mia battaglia personale epistolare in Veneto con ass. Lanzarin e presidente Zaia.
Per dire nella città metropolitana di Venezia nell’estate 2021 sono stati spesi quasi 2 milioni in appalti sotto soglia in affidamento diretto (da 100.00,00€) per cablare gli istituti superiori per la DAD.
Con gli stessi soldi si sarebbero potute rendere sicure a qualsiasi virus presente e futuro almeno 400 aule ovvero rendere la scuola migliore a circa 10.000 studenti.
@ Extradry grazie per le info sul lavoro di Buonanno, ho cercato e trovato cose molto interessanti. Mi piacerebbe sapere di più sulla tua personale battaglia in Veneto e sulla fattibilità nelle scuole. In particolare vorrei sapere se ci sono state scuole che lo hanno usato, i costi di gestione (bollette e co.), a chi si potrebbe chiedere un preventivo. Avevo letto di una cosa analoga: https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/coronavirus_a_scuola_senza_mascherina_a_portici_ultime_notizie_oggi-5506029.html addirittura a ottobre 2020!
E’ il mio primo commento su Giap, non so bene come funziona per mettersi in contatto diretto, sono una maestra della scuola primaria che da qualche mese si sta rifugiando in questo blog soprattutto quando fuori manca l’aria e sembra di parlare con i muri.
Si parla tanto del corpo nell’educazione ma a me sembra che oggi meno che mai, perché pure prima non è che fosse molto considerato, tra il distanziamento e la mascherina si stia davvero rimuovendo.
Sono davvero basita su come venga sottovalutato l’impatto della mascherina nelle scuole, soprattutto con i più piccoli, incredibilmente sembra che non interessi molto anche ad associazioni che hanno una lunga esperienza di educazione, ma non mi rassegno.
grazie
Come impattano sugli studenti le nuove regole governative sul super super green pass? Se non erro, il divieto all’utilizzo dei mezzi toccherà anche chi è maggiore di dodici anni e vorrebbe andare a scuola / università. Con la solita conseguenza che chi ha la tata-autista potrà continuare ad andare in classe, mentre cosa fa chi è appiedato?
Mi chiedo poi come ci si comporterà con i dodicenni che sono figli di genitori contrari al vaccino per i figli. Mica si pretenderà che quei bimbi si rivolgano al tribunale per i minori per farsi emancipare e vaccinare?
A me pare che proprio nella gestione della scuola diventano più vistose le inconsistenze e i vaneggiamenti governativi. Ora i quotidiani scrivono che il prossimo 5 gennaio ci sarà un nuovo “blitz” del governo per imporre nuove misure. Il lessico non mente. Invece di un blitz, facessero una bella marcetta e ci mettiamo il cuore in pace.
Ho letto con piacere e attenzione l’articolo che, tre le altre cose, mette al centro il tema del corpo di chi la scuola la abita. Io lavoro nella scuola, ma con i piccoletti, e quindi rispetto alle occupazioni e agli scioperi azzardo, ma da tempo credo che le aule non siano luogo di benessere, nemmeno quello clandestino della trasgressione, delle amicizie e degli scazzi. A scuola non si sta bene, per questo non la si occupa. Nessuno di noi vorrebbe passare ancora più tempo in un posto dove sta male.
Qualche tempo fa ho collaborato a un progetto che si è proposto di dare parola ai studentesse e studenti, di far emergere la scuola, o meglio, l’esperienza scolastica dalla narrazione-rammemorazione dei protagonisti e delle protagoniste. Ecco, anche qui mi piacerebbe leggere loro, direttamente. Sarà che a scuola non rientrerò, a causa dell’obbligo, ma la loro voce mi manca profondamente.
Che bello questo commento,che coglie i sentimenti di chi frequenta la scuola. È proprio vero, gli studenti non vengono mai ascoltati. Tutte le decisioni sulla loro vita, sul loro destino, sul loro futuro, vengono prese sulla loro testa come se fossero dei minus habens. Questa considerazione può portarti a due conclusioni: all’apatia o alla distruzione. Che poi anche l’ apatia è una forma di distruzione. Magari sarà per questo che in questo paese di zombies pochi si ribellano. È anche triste pensare che ci sia bisogno di un progetto per dare voce a chi la scuola la fa. Ed è anche un vero peccato che tu non possa lottare e sostenerli a causa di un obbligo.
Spiace molto leggere che la scuola dovrà privarsi di una persona capace di intensità e dolcezza come @jamijla.
I soliti quotidiani riportano sia in discussione il “doppio binario”: in caso di positivi in classe, la DAD toccherebbe solo ai non vaccinati. E, anche in questo caso, l’opposizione a quest’orrida, ignobile idea verrebbe dai più improbabili al governo, ovvero i razzisti e i populisti.
Che cosa è successo alla concezione della scuola della sinistra? Dobbiamo pensare che si trattava di una pseudo-sinistra, di una sinistra inventata, perché, al primo ostacolo, si è arresa su entrambi i fronti del diritto alla scuola e al lavoro per tutti?
Ho visto in un famoso social network, che ha come simbolo un uccello (padulo), che i compagni nerd-del-covid hanno ricominciato a implorare la DAD, sostenendo che gli studenti la vorrebbero tanto, ma il governo non gliela concede. Evidentemente io vivo in un universo parallelo, in cui i ragazzi piuttosto che tornare in DAD andrebbero a lavorare nelle miniere della Kolyma. Io stesso, piuttosto che insegnare in DAD, andrei a fare lezione in un’aula infestata dai ragni velenosi. Ho il vago sospetto che i suddetti nerd-del-covid amanti della DAD siano soprattutto insegnanti che detestano i ragazzi, e che vorrebbero tanto il ritorno della DAD per non dover più avere a che fare con loro.
E niente, siamo in loop. La fu sinistra di movimento ha ricominciato a chiedere insistentemente la DAD. Se siamo nella merda è colpa della scuola in presenza. La DAD è il bene. Il futuro. La responsabilità. Il comunismo. Di contro, la scuola in presenza è brutta, obsoleta, pericolosa, irresponsabile, fascista. Del resto, chi sono io per contraddire Michelangelo Agrusti, presidente di Confindustria Alto Adriatico (Adriatisches Kustenland, insomma) che giusto un anno fa tuonava contro la riapertura delle scuole, perché “metteva a rischio la riapertura delle fabbriche”…. https://www.ilfriuli.it/articolo/tendenze/per-agrusti–andrebbero-chiusi-anche-asili-ed-elementari-/13/234816
Sì, proprio quell’Agrusti che nella primavera 2020 voleva predisporre navi lazzaretto per i vecchi delle RSA da tenere ormeggiate in rada, e che un paio di mesi fa evocava il fantasma della fucilazione per i “disertori del vaccino”.
Chiudere la scuola per tenere aperte le fabbriche. A questo punto perché non:
chiudere i fruttivendoli per tenere aperti i macelli
chiudere le ferramenta per tenere aperte le salumerie
chiudere i cinema per tenere aperti i fast food
chiudere le strade per tenere aperte le piazze
chiudere gli stabilimenti balneari per tenere aperte le piste da sci
chiudere gli autobus per tenere aperti i treni
chiudere i cavalcavia per tenere aperte le gallerie
chiudere le biblioteche per tenere aperte le librerie
chiudere geriatria per tenere aperta pediatria
chiudere la cattedrale per tenere aperta la basilica
chiudere la camera per tenere aperto il senato
chiudere la camera per tenere aperto il bagno
Non sono sicura che siano proprio tutti insegnanti che detestano i ragazzi. Una buona percentuale dei colleghi che hanno amato la DAD (io ne conosco un tot) erano semplicemente pendolari che si erano liberati del tragitto fino all’aula, alcuni tra regioni o nazioni diverse (accade, soprattutto all’università). Poi, beh, c’è chi davvero semplicemente si trova meglio a parlare al computer dal suo ufficio anziché in cattedra. Non che questo giustifichi continuare a chiedere la DAD. Ancor meno quando si pretende che siano gli studenti a volerla. Io mi sono trovata a parlare con qualcuno che oltre a dire che bisognava continuare con la DAD perché, appunto, sarebbero gli studenti a richiederla, ne giustificava la necessità in quanto risolutiva per gli studenti disabili e per quelli che vengono da zone remote. Cioè io non ho parole, la soluzione per le difficoltà di accesso all’università dei disabili e di quelli che hanno la sventura di abitare a casa del diavolo sarebbe zoom. E questo nemmeno aveva il problema del pendolarismo. Ed era pure convinto di quel che diceva. Il talento degli esseri umani per persuadersi che la soluzione che fa più comodo a loro sia la più giusta in assoluto è davvero notevole.
Il fatto è che bisognava rifiutarsi di fare la DAD nel marzo 2020. La DAD è tipo “ti pianto ma restiamo amici” o “il cane è morto ma se vuoi lo facciamo imbalsamare e lo teniamo lo stesso”. Piuttosto che fare DAD è meglio non fare niente. Nel 1976 quand’ero piccolo dopo il terremoto del 6 maggio in FVG chiusero le scuole in anticipo. Se il covid fosse arrivato nel febbraio 1985 (per dire) avrebbero chiuso le scuole e viva là. E poi avrebbero preso provvedimenti per riaprirle in settembre, tipo individuare strutture e adattarle, eccetera. Ci avrebbero mangiato sopra un sacco di trapoleri, ovviamente, ma sarebbe stato comunque meglio di ‘sta merda (su cui del resto stanno mangiando sopra dei trapoleri di ordine superiore, anche se non si vede).
Centri il punto quando dici “Se il covid fosse arrivato nel febbraio 1985 (per dire) avrebbero chiuso le scuole e viva là.”
Ma mi spingerò oltre: se il Covid fosse arrivato nel 2001 la reazione sarebbe stata ancora vagamente sensata.
Il fatto è arrivato in un momento in cui qualunque shock avrebbe causato un’esplosione di panico morale, indignazione da Facebook, autoritarianismo ultracapitalista e soluzionismo tecnologico sempre capitalista, tutti insieme, grazie ad almeno vent’anni di merda sparata a cannone senza nessuno che vi si parasse davanti.
Cioè, qualcuno c’ha anche provato nei passati vent’anni, ma anche all’interno dei circoli non è stato a mio parere capito.
Almeno finchè qualcuno, troppo tardi, nel 2017-2019 ha iniziato a sentire un lieve odore di merda (mandando di corsa in stampa gli articoli coi whistleblower di Facebook e quant’altro), salvo poi fare retrofont e invocare i militari e Zoom entro pochi mesi.
Mi pare che il vecchio riassunto di XKCD sia vieppiù attuale: https://xkcd.com/743/
Centri un altro punto importante quando parli specificamente dei “nerd del covid”.
Non si può non trascurare come vi sia stato un mutamento culturale che, tra l’egemonia di Meritocrazia, Progresso, Scienza e Molteplici Film Su Steve Jobs — a seconda di gusti e inclinazioni — ha messo il secchione, ascetico, plurilaureato, informato ma senza coscienza, ben educato, che compra i dischi della ECM e scopa rispettosamente guardando negli occhi il partner, solo nella posizione del missionario, su un autoreferenziale piedistallo dell’umano perfetto.
Ci faceva caso The Atlantic nel 2016 in un pezzo che suggerirei di leggere con estrema attenzione: https://archive.is/w6IOw
Ebbene, per forza che ‘ste teste di cazzo pensano che la teledidattica, Zoom, il Mac, LaScienza, IlProgresso, allevare i bambini in batteria come robottini che soprattutto sanno-fare (mi ricollego all’intervento di Lello), siano non solo una figata ma la reificazione di veri e propri valori.
Non confondiamoci, esistono e ne conosco alcuni che frequentano (e in effetti ci hanno fatto carriera) i circoli del PD e rognosi distaccamenti giovanili.
Ultimamente mi torna in mente Chi Ha Incastrato Roger Rabbit, visibile a posteriori come un’argutissima e forse parzialmente involontaria metafora/satira delle tendenze peggiori e financo autodistruttive de IlProgressoLaScienza.
In particolare, la famosa scena in cui Valiant dice, circa, “Dovevo capirlo che eri un cartone! Solo un cartone potrebbe pensare a un’idea così idiota come un megasvincolo a dieci corsie!”.
Ecco, ogni tot mi viene in mente quella battuta declinata in “solo un cartone poteva pensare alla teledidattica come soluzione!” o “solo un cartone poteva pensare a contabilizzare il nucleare come energia verde (vedi notizie degli ultimissimi giorni sul Green Deal di stocazzo)”.
Quelli là devono essere cartoni animati, per forza.
A latere, quando qui si parla di “ex sinistra di movimento”, a dirla tutta, non so bene di cosa si parli.
Per me la sinistra in Italia è defunta da vent’anni, quando si è arresa ai cartoni amichetti di Blair e della DC che — in totale e sostanziale discontinuità, nonostante le parole e gli avvitamenti — gli avevano occupato le sedi ed ha dato luogo al secondo grande riflusso.
Non so dove l’abbiate vista tutta ‘sta sinistra negli ultimi vent’anni, davvero.
Dico la mia, ripensando a Dolci, Illich e Szasz…
«Mi rendo conto che quanto segue possa apparire una provocazione, e probabilmente lo è.
Ma è anche un sogno, un progetto, un’idea di come potrebbe essere la scuola. È nato in questi mesi di lockdown ed è, in qualche modo, la mia risposta ad una Ministra che mi chiede di diventare schizofrenico e far lezione ad una classe che è come un ‘grillo’ di Bosch, mezza fisica e mezza virtuale. Il sospetto è che questa idea sia figlia di quella stessa didattica delle competenze che da anni sta uccidendo la scuola italiana, per la quale l’importante è ‘saper fare’, e non, come sarebbe augurabile, riflettere su cosa fare e perché farlo. Buona lettura.»
http://www.lellovoce.it/Manifesto-per-una-scuola-della
Bellissimo manifesto!!! Io ci sto e mi piacerebbe comprendere meglio le pieghe del progetto, contribuire, collaborare. Sento spesso che la scuola e io abbiamo sempre meno in comune e questo mi tormenta, avendo anche due figlie adolescenti che vivono più ile fatiche che i piaceri del frequentarla. Eppure, se si lasciasse loro spazio, porterebbero dei contributi preziosi, stimolanti, anche sfidanti, almeno nella mia esperienza.
Se piò interessare, a te e a chiunque, lascio il link all’esito del progetto di cui ho parlato, una ricerca etnografica svolta tra gli studenti e le studentesse di un corso di Antropologia all’Unibo. A mio parere, ha il valore aggiunto di essere stato “costruito” proprio a partire dai racconti scolastici di chi ha partecipato e aver restituito loro il ruolo di protagonisti. Per me, è stato un po’ una linea di confine: ci sono state parole dette (e, quindi, scritte) che non smettono di risuonare e che mi hanno portata a ripensare attitudini e gesti quotidiani, non solo quando lavoro.
1/2 Complimenti all’autore per un articolo da cui traspare tutta la sua passione e impegno di insegnante.
Non conoscevo l’autrice ma ho letto distrattamente qualche pagina di autori della sinistra progressista americana degli anni sessanta e settanta oltre a “Deschooling society” di Ivan Illich.
Il confronto tra le tesi esposte nel libro e l’attualità scolastica così come vissuta da un insegnante è molto utile per riflettere sullo scarto tra ideale della scuola e realtà. L’autore non cela questo scarto e lo analizza con coraggio. Provo ad aggiungere un passo, evidenziando un equivoco di fondo nell’idea che abbiamo della scuola. In una dialettica che contrappone l’individuo alla società l’istituzione scolastica è quasi esclusivamente una macchina al servizio della società. Chi opera nella scuola in buona fede mettendosi al servizio degli studenti spesso cede alla tentazione di rimuovere tale constatazione. Un solo esempio per rendere l’idea.
L’istruzione elementare obbligatoria nelle società liberali dell’ottocento è stato un investimento che ha prosciugato enormi quote del bilancio degli stati, spesso ben superiori alle spese militari, e ha posto il potere centrale in forte tensione con le classi popolari, contrarie a questa requisizione coatta dei bambini dalle faccende domestiche. A che pro uno sforzo così titanico?
Le nuove società industriali, per svilupparsi e prosperare, avevano bisogno di un uomo nuovo. Nessuna politica di potenza sarebbe stata possibile senza la prospettiva di una nuova generazione di individui addestrati al nuovo ordine.
E allora scuola dell’obbligo. Che significava innanzitutto sradicamento dal contesto famigliare, linguistico e affettivo e in secondo luogo disciplina dei tempi e degli spazi.
“Bambino, a scuola ti è stata assegnata una stanza, un’aula, e un posto, il tuo banco. Lì dovrai rimanere seduto fino al suono della campanella, che scandisce i tempi della giornata. Non sei più un contadinello che passa la giornata seguendo i ritmi del sole, gironzolando senza meta tra la stalla e il pollaio, tra i campi e il cortile. Quando sarai diventato grande ti aspetteranno la città e la fabbrica. Là sarai assegnato ad un reparto e ad una macchina, e là dovrai restare fino al suono della campanella. Sarà una vita dura ma più onorevole di quella che ti potevano offrire i tuoi genitori. Quando sarai diventato grande potrai tornare da loro la domenica e guardarli dall’alto verso il basso”.
2/2 Dopo due secoli questa tendenza si è aggravata, venendo progressivamente a mancare tutti quei residui di spirito comunitario e di amore per il prossimo che in qualche modo umanizzavano la scuola e la rendevano occasionalmente un luogo gradevole per alunni e insegnanti. Con la pandemia gli spazi di autonomia per alunni e insegnanti si sono ristretti ulteriormente.
Ecco una delle più tristi realtà della nostra epoca industriale. Dentro di noi tutto porta ad affermare l’esistenza di una sfera di autonomia e di libertà personale. Fuori di noi tutto tende a negarla. Lacerati da questa contraddizione parliamo di scuola senza considerare il fatto che è da sempre uno strumento finanziato e diretto dal potere sull’individuo. Si rimuove uno dei due poli e ci si straccia le vesti nel constatare quanto poco si riesca a fare il bene dello studente.
Tornando all’articolo, quando si legge “i contributi dell’edizione italiana … offrono un buono stimolo per tradurre le riflessioni di hooks, anche se il contesto in cui viviamo semplicemente non offre spazio per dare corpo ad alcune delle intuizioni più felici del volume”, non si tratta di un semplice contesto sfavorevole ma della struttura stessa dell’istituzione scolastica. La si può distruggere o riformare alla meno peggio. L’importante è non occultare la tensione tra libertà e autorità: al limite è meglio farla esplodere.
No però aspetta un attimo. La scuola -che per me è tutt’altro che un luogo ameno- comunque sottrae le persone da una serie di alternative. Per esempio:
1. L’educazione religiosa
2. Il lavoro infantile
3. L’educazione data dai genitori.
Per me tutt’e tre queste possibilità sono drammatiche e credo che non ci sia bisogno neanche di una riga per spiegare le ragioni.
Certo, ci sono le scuole libertarie (che comunque sono “parentali”), ma come scritto in precedenti articoli, vanno considerate “esperimenti” anche perché sono di fatto escludenti, sia per chi le frequenta (hanno una retta mensile, neanche bassa) che per chi ci lavora, date le condizioni contrattuali cui spesso si è sottoposti.
Ora, l’idea che la scuola ti sottragga al gironzolare tra stalla e pollaio presentata nel tuo commento sembra un accanimento contro i bambini. Ma all’atto pratico (soprattutto dato che ti riferisci alle classi popolari) quella scena è piuttosto stereotipata. All’atto pratico il bambino tra stalla e pollaio lavora! Si chiama sfruttamento minorile. Dettato dalla famiglia. La quale molto spesso non è un luogo di gioia e comunque è sempre lo stesso guscio in cui sei nato: sei di Frittole e stai a Frittole!
La tensione tra libertà e autorità cui ti riferisci è praticamente inesistente: è l’autorità della tua famiglia che ti impone un lavoro. È difficile sottrarsi a questo da adulti, figuriamoci quando siamo minori.
Alcune studenti che ho avuto in DAD nel primo anno scomparivano. Col tempo diventava evidente che lavoravano per i genitori, altro che DAD. Alcuni di loro già lavoravano per i genitori anche prima della chiusura della scuola: lavoro casalingo, di cura, le “faccende domestiche”. Oppure in negozio, oppure in magazzino, oppure a stirare…
Ecco, con tutte le sue contraddizioni la scuola pubblica italiana fornisce ancora in parte un’alternativa a questo.
ps. Approfitto per ringraziare di tutti i commenti, ho avuto qualche giorno di assenza e li ho recuperati stamane, con calma riprendo i fili.
Molte critiche alla scuola pubblica contengono nuclei di verità storica e quotidiana – le magagne della scuola sono sotto gli occhi di tutti – ma sono formulate in modo astratto. E per varie ragioni – non sempre limpide – questi strali non prendono mai di mira le scuole private.
La scuola pubblica, con tutte le sue contraddizioni, e direi anche in virtù delle sue contraddizioni, continua a garantire l’incontro tra diversità, l’incrocio di traiettorie di vita che altrimenti non si sarebbero incrociate, la convivenza per diverse ore al giorno di persone provenienti da diverse famiglie (e molti contesti familiari sono da incubo e patogeni o comunque angusti, tarpanti le ali), da diverse classi sociali, e oggi diverse religioni e diversi paesi.
Molte figlie e figli di famiglie proletarie – e a scuola ci sono anche figli di famiglie sottoproletarie – non hanno altre opportunità di formazione multidisciplinare e lavoro di gruppo se non la scuola pubblica. Non solo formazione: anche esperienza di vita tout court. Quando mai, senza la scuola pubblica, andrebbero in gita, o a teatro? Ma così non rende ancora l’idea: i bambini della classe in cui insegna la mia compagna non avevano nemmeno mai visto il mare prima che ce li portasse lei. Che dico? Alcuni non avevano mai visto il centro di Bologna. Alcuni non avevano mai avuto in mano un libro non scolastico prima che lei istituisse la bibliotechina di classe. Togli a quei bambini la scuola pubblica, e gli togli socializzazione nella diversità, possibilità di incontrare altri mondi, potenzialità nella vita.
Molte ricostruzioni sul tumulto sociale nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta elencano tra i fattori determinanti la riforma scolastica del 1963, che unificò la scuola media, non più ginnasio per i figli dei borghesi e scuole tecniche per i figli dei poveracci, ma un unico percorso. I figli del ceto medio incontrarono i proletari per la prima volta, e in vari modi ne furono influenzati. Andando a trovare i loro compagni di classe fuori orario, incontrarono situazioni che non si erano mai immaginati. Dopodiché, siamo d’accordo tutti che la scuola media attuale è una schifezza, i tre anni passati lì sono spesso tra i peggiori della vita di chiunque. Ma è un altro piano del discorso.
Ora: questa dimensione socializzante ed egualitaria della scuola non era già implicita nell’istituzione scolastica: è il risultato di lotte dentro la scuola e contro l’istituzione scolastica così come l’avevamo ereditata dal fascismo. Una scuola classista, in cui si impartiva un’educazione autoritaria, sciovinista, sessuofobica ecc.
La ricostruzione storica di Alfeo è lacunosa perché si abbevera solo alle fonti – a certe fonti – sulla “descolarizzazione”, che però andrebbero integrate con quelle sul conflitto nella e per la scuola.
Le classi popolari hanno anche lottato per l’istruzione e per la scuola, il movimento socialista su questo ha scritto pagine importantissime fin dai suoi albori. Negli anni sessanta e settanta ci sono state lotte – tra le più vituperate da chi se la prende con «l’eredità del ’68» – che hanno almeno in parte “piegato” l’istituzione (non dappertutto, è vero), attenuandone il classismo, aumentando la democrazia interna e permettendo di inserire nei percorsi educativi elementi disfunzionali al sistema. In parole povere: si è potuto insegnare che nella vita non c’era solo lo “stare al proprio posto” di lavoratori, consumatori e interpellati dallo stato, ma anche la possibilità di sviluppare ed esercitare pensiero critico.
Questa dimensione della scuola, già precaria e continuamente negoziata col conflitto, oggi è ridotta ai minimi termini, perché da un lato le controriforme neoliberali degli ultimi due decenni l’hanno aggredita da ogni direzione, e dall’altro la società è cambiata e produce una soggettività docente più integrata nell’ideologia dominante. Ma esiste ancora. Il fatto che sia ridotta ai minimi termini non significa che vada attaccata insieme a tutto il resto. Bisogna saper distinguere tra la logica che seguirebbe l’istituzione scolastica col pilota automatico statale-capitalistico, e le contro-logiche a cui in parte è stata piegata.
@plv grazie, a nome di mia nonna, che avrebbe voluto studiare, e invece si era dovuta accontentare della terza elementare, fatta in un campo profughi della Stajerca, e una volta rientrata nella sua città – le cui macerie nel frattempo erano finite sotto occupazione italiana -, a 12 anni aveva dovuto andare a fare la sarta per portare a casa qualche soldo e aiutare a mantenere quel che restava della sua famiglia. E grazie a nome dei miei genitori, di mio padre che negli anni sessanta/settanta era andato a insegnare alle medie di Cave del Predil, ai figli dei minatori, e li recuperava casa per casa quando non venivano a scuola; e di mia madre, che prima e dopo il pensionamento andava a insegnare italiano ai migranti in carcere.
Spezzo una lancia in favore di Alfeo. In effetti non capisco perché la sinistra radicale non insista abbastanza sul proporre un modello alternativo alla scolarizzazione, ossia un modello scolastico autogestionario il cui unico organo riconosciuto sia l’assemblea composta in pari misura di studenti e insegnanti: replicare “a misura di bambino” le istituzioni informali e autogestionarie, antiburocratiche, non coercivitive, di democrazia di base, ecc. che vorremmo, così come fa la Scuola che è una replica in piccola scala dell’esistente. Veramente non capisco perché – almeno nei contesti di lingua italiana – i movimenti di critica radicale siano così poco impegnati nella quotidiana pratica autogestionaria e assembleare con i bambini e con i ragazzi. In rete si trova un bel documentario sul liceo autogestito di Parigi (il LAP), giusto per capire che cosa intendo. La “Scuola” per antonomasia non è che la scuola prussiana, ovvero quella “coercitiva per il popolo” su modello della ferma militare prussiana e della fabbrica: nei dibattiti europei degli anni ’60 dell’800 la si chiamava “la scuola tedesca” (vedi Lev Tolstoj, che la destestava, sulla rivista Jasnaja Poljana). Otto von Bismark, il fondatore del primo tentativo di welfare state, parlava in questi termini: “La mia idea è quella di corrompere le classi operaie, o per meglio dire conquistarle, vedere lo stato come un’istituzione sociale che esiste in funzione loro e che si interessa al loro benessere”. Il welfare state era – ed è – la risposta reazionaria alle scuole operaie, alle associazioni dei lavoratori, alle casse mutue, alle biblioteche, ai teatri e a tutto il processo di costruzione dal basso del socialismo.
In effetti c’è un vuoto di inventiva un po’ preoccupante nella ricostruzione della scuola.
Lo vedo da una grandissima differenza tra due movimenti che ho attraversato: l’Onda Studentesca e Priorità Alla Scuola. Per l’Onda (2008-2011) le idee di Autoriforma e di Autoformazione erano centrali: si doveva ricostruire esigere più fondi e contestualmente riformare la struttura universitaria.
Oggi lo scenario è molto differente. L’inventiva è molto più bassa rispetto a quel movimento, forse anche perché chi ha attraversato l’Onda non ha costruito l’Onda non sta attraversando i movimenti per la scuola e le ragioni di questo per me rimangono un mistero irrisolto.
Laddove ci sono discussioni sul cambiamento della scuola, non si riesce a dare loro spazio in termini di discorso e di organizzazione. Dentro Priorità alla Scuola ce ne sono molte in merito e c’è un tavolo dedicato all’argomento che ragiona attorno alla questione della valutazione, ma c’è grossa difficoltà a far arrivare il discorso altrove. Altri movimenti non si occupano dell’argomento, ma vedo un defluire allarmante verse la scuola parentale.
Tra i sindacati la questione è molto complessa e spesso ci si limita a dire “più spazi, più docenti”, cose giustissime, ma che non esauriscono il punto.
Molto lavoro dal basso è stato fatto rispetto alla questione di genere e gli incontri di “educare alle differenze” ne sono un esempio. Qui il link: http://www.educarealledifferenze.it/
Anche Non Una Di Meno, nel piano costruito all’interno del movimento, ha dedicato una riflessione alla scuola. Qui trovi il documento: https://drive.google.com/file/d/1r_YsRopDAqxCCvyKd4icBqbMhHVNEcNI/view
Gli Stati Genderali di Dicembre hanno dedicato un tavolo alla discussione sulla scuola e ovviamente anche lì è emersa tanta roba. Ancora il documento non è stato pubblicato.
Insomma, dei piani ci sono, non riguardano necessariamente i punti da te sollevati.
Rimane il problema che da anni molti movimenti hanno: dopo che le cose le hai dette e scritte, che si fa?
Con l’Onda era immediatamente chiaro cosa si dovesse fare, nei movimenti per la scuola un po’ meno.
@davidededed, in realtà l’Italia ha una storia piuttosto ricca di sperimentazione su scuole autogestite, università popolari, metodi pedagogici alternativi e quant’altro. Negli anni Settanta ci fu un fiorire di esperienze di questo tipo, nelle borgate, nelle fabbriche e un po’ ovunque.
Gli esperimenti ebbero luogo fuori dalla scuola pubblica, o ai margini della scuola pubblica, ma anche a complemento delle lotte che si facevano nella scuola pubblica, o tout court dentro la scuola pubblica (proprio dentro quegli edifici).
Questo per dire che quando c’è un subbuglio sociale, una fervida stagione di lotte e creazione collettiva, i suoi protagonisti non si pongono in modo astratto e dicotomico tipo: «questo lo stiamo facendo fuori dalla dimensione del welfare state ergo bene, quest’altro invece avviene dentro la dimensione del welfare state ergo male», non si fanno paralizzare da domande come «questa conquista ottenuta con la lotta non sarà in realtà una mera concessione del sistema?» ecc., ma ricombinano, scambiano le dimensioni, forzano gli spazi e i tempi ottenuti, sovvertono la dicotomia.
Pensa ad esempio alla conquista delle «150 ore» da parte del movimento operaio, la cui messa in pratica andò molto oltre la lettera della legge e i programmi immaginati all’inizio, e sfociò in una serie di corsi autogestiti in cui veniva messo in discussione l’esistente.
Quella frase di Bismarck torna sempre fuori, e non dice il falso, solo che banalizza la questione. Innanzitutto, Bismarck la racconta dal lato suo, ma appunto, va raccontata anche dal lato delle lotte, perché le pensioni, l’abolizione del lavoro minorile, la scuola e quant’altro furono ottenute dalle classi popolari con la lotta e con la minaccia del loro sbordare conflittuale, come un po’ ovunque. Nel raccontare questa storia, che è vasta e complessa, non dovremmo assumere solo il punto di vista del nemico di classe.
Anche l’anarchico più antistato se si rompe una gamba va al pronto soccorso pubblico. È una conquista. Anche i proletari anarchici, una volta finito di lavorare, se sono riusciti a maturarla si prendono la pensione senza per questo sentirsi dei traditori, dei “recuperatori”, dei succubi o che altro. È una conquista.
Lo scopo che aveva in mente Bismarck in quanto “implementatore” dei primi esempi di stato sociale non può riassumere la storia di come il movimento operaio e altri movimenti sociali hanno inscritto nello stato le proprie conquiste. Tra quella frase e il nostro presente ci sono due secoli e mezzo, durante i quali è successo di tutto, ci sono state rivoluzioni soppresse, due guerre mondiali, lotte radicali, sconfitte durissime ma anche vittorie i cui risultati hanno prodotto nuove soggettività… Gli stati-nazione europei hanno avuto diverse “costituzioni materiali”, ogni volta definite dai rapporti di forza instaurati nella società. Dal “compromesso keynesiano” si è passati allo stato ordoliberista ecc.
Detto questo, secondo me il punto problematico del tuo commento è l’incipit, in cui presupponi l’esistenza di una «sinistra radicale» italiana che possa porsi questi problemi e avviare nuovi percorsi di sperimentazione sulla scuola, l’educazione ecc.
Questo soggetto che evochi è del tutto fantomatico. A parte che l’espressione «sinistra radicale» nel corso degli anni è stata usata per indicare soggetti che di radicale non avevano nulla, semplicemente stavano un po’ più a sinistra del PD… A parte questo, se intendi una sinistra dal basso, rivoluzionaria o almeno antagonista, una sinistra di classe che rappresenti spinte anticapitaliste ecc., e pensi che questa sinistra possa mettersi a organizzare e gestire scuole libertarie ecc., io ti ricordo che il mondo che si autorappresentava in quel modo era già autoreferenziale e ridotto alla quasi-irrilevanza prima della pandemia, e la sua maggioritaria adesione alla pax pandemica – con gli scazzi divoranti che ciò ha causato – ne ha fatto praticamente tabula rasa.
Io penso che in qualunque ambito e per qualunque tema, se si avvierà una nuova sequenza rivoluzionaria, di sperimentazione sociale radicale, ciò avverrà altrove rispetto alla residuale «sinistra radicale» e in discontinuità con usi e costumi di quest’ultima. Lo abbiamo già visto succedere coi movimenti sulla questione climatica, i cui protagonisti sono in larga parte giovanissimi che non frequentano i centri sociali e i luoghi presuntamente “deputati” alla formazione antagonista, che ignorano bellamente la nomenklatura di movimento, la sua divisione in aree, le sue gergalità ecc.
WM1: “Se intendi una sinistra dal basso, rivoluzionaria o almeno antagonista, una sinistra di classe che rappresenti spinte anticapitaliste ecc., e pensi che questa sinistra possa mettersi a organizzare e gestire scuole libertarie ecc.”
Ebbene sì, intendevo proprio quella lì. Ma mi sa tanto che c’hai ragione tu.
Plv: “Altri movimenti non si occupano dell’argomento, ma vedo un defluire allarmante verse la scuola parentale.”
WM1: “penso che in qualunque ambito e per qualunque tema, se si avvierà una nuova sequenza rivoluzionaria, di sperimentazione sociale radicale, ciò avverrà altrove rispetto alla residuale «sinistra radicale» e in discontinuità con usi e costumi di quest’ultima.”
Un fenomeno nuovo di questi tempi che riguarda la scuola, soprattutto al nord (è un’impressione, non ho conferme) è la “grande defezione” e il confluire verso le scuole parentali (quasi mai rivoluzionarie ma anzi, quasi mai autogestite dagli studenti stessi ma estremamente familistiche) soprattutto per ragioni di contrarietà al vaccino e/o alle restrizioni. Ripesco e segnalo un articolo di Angela Pavesi e Michele Dal Lago uscito l’anno scorso su Dinamopress , dal titolo: “Una selva molto oscura. Il neoliberismo comunitarista delle scuole parentali e libertarie”.
https://www.dinamopress.it/news/una-selva-molto-oscura/?fbclid=IwAR3sft0KfGPiYPJaUA2z8tirxeGi2qzDMta7YICEQqhNo1vT4OvtV_14mtQ
che mi pare interessante soprattutto se confrontato con la risposta di Francesco Codello, tra le personalità più in vista di coloro che si occupano oggi di educazione libertaria in Italia: “Non solo di Stato vive la scuola. In difesa delle scuole libertarie” (le quali – pur essendo tecnicamente “parentali” in quanto a statuto legale – si pongono apertamente in una prospettiva rivoluzionaria. Però, a contarle, sono sei o sette in tutta Italia, quindi ultraminoritarie).
https://rivista.edizionimalamente.it/2021/03/31/non-di-solo-stato-vive-la-scuola-in-difesa-delle-scuole-libertarie/
Pongo alcune domande che assicuro non polemiche – non nel senso deteriore del termine, almeno – e che partono comunque dal dovuto rispetto per qualunque esperienza ed esperimento nasca dall’esigenza di contrapporsi allo status quo statale-capitalistico:
nelle scuole parentali/amicali e libertarie quanti figli di migranti ci sono? Quante figlie e figli di famiglie proletarie? Quante bambine e bambini che vivono in quartieri sgarrupati o in campi nomadi?
Lo chiedo perché mi sembra che in quelle esperienze manchino gli aspetti “di frontiera”, di incrocio imprevedibile di traiettorie individuali e collettive, di “schiusura di mondi” che comunque ancora caratterizzano la scuola pubblica, e che ho provato a descrivere nella mia risposta ad Alfeo.
Avverto fortissimo il rischio dell’educare/formarsi in una “bolla”, in un mondo che a dispetto della pluralità dichiarata appare molto omogeneo (etnicamente, ideologicamente, socialmente), dentro un’esperienza nata comunque dalla famiglia e dalla frequentazione reciproca di famiglie dove già la si pensa allo stesso modo.
La scuola libertaria (che in Italia è organizzata attraverso la Rete per l’Educazione libertaria) *non* è il frammentato, disperso e sommerso mondo della scuola parentale e alternativa (il cui più recente “censimento” è stato fatto da Tutta un’altra scuola). Per quello che ne so, la prima si pone da sempre – fin dai tempi di Alexander Neill e la scuola di Summerhill – l’annosa contraddizione di essere economicamente escludente, perché, niente da fare, c’è da pagare la retta: la bolletta dell’edificio a uso scuola si deve pagare, l’educatore deve portare a casa il pane. La REL ha racimolato tempo fa, mi pare, qualche finanziamento per borse di studio tramite casse di solidarietà/mutuo soccorso, ma sono spicci: chi versa qualcosa sono i vecchi anarchici fedeli alla causa. Povere cose. Il problema resta.
Non intendo confondere diversi fenomeni/movimenti, ma far notare che qualunque esperienza di istruzione/educazione fuori dalla scuola pubblica ci pone di fronte a un problema bello grosso, che per me riguarda non tanto e non solo questioni prettamente, tecnicamente economiche (es. la retta dove è prevista e chi possa permettersi di pagarla), ma la selezione sociale che c’è a monte, le reti di relazioni in cui queste esperienze nascono e a cui si rivolgono, il mondo in cui queste esperienze “pescano” i discenti. La scuola pubblica, con tutti i suoi limiti e le controriforme che ha subito, continua a pescare da ogni sorta di ambiente. La quinta elementare della mia compagna è formata da bambine e bambini provenienti da undici paesi e quattro continenti, più una bambina sinta che vive in un campo nomadi della periferia bolognese. Per quelle bambine e quei bambini, nonché per la mia compagna stessa (che era al primo ciclo completo di primaria), questi cinque anni di scuola pubblica sono stati un’esperienza avanzatissima di incontro di differenze e ibridazione, un’esperienza elettrizzante. E molti di loro hanno potuto vivere esperienze che in famiglia non avrebbero mai potuto vivere. Per me quest’aspetto è imprescindibile ogni volta che parliamo di scuola pubblica vs. scuole alternative, e al momento mi sembra insostituibile.
Io a sto punto tra l’altro vorrei capire: ma gli afroamericani che si battevano per poter entrare nelle scuole e nelle università dei bianchi negli stati del sud stavano sbagliando? Erano bismarckiani in camuffa? Erano dei coglioni? E gli sloveni di Trieste, che avevano lottato per avere le loro scuole sotto gli Asburgo, e poi le avevano perse con l’arrivo degli italiani, e avevano organizzato scuole clandestine durante il fascismo, e dopo il ’45 le scuole pubbliche in lingua slovena le avevano ri-volute, eccome? Bismarckiani anche loro? E coglioni noi a fare la colletta nel rione per comprare i libri di scuola al bambino rom che vive nelle case ater? Coglioni bismarckiani tutti quanti?
Allora sono bismarkiano e coglione pure io che insegno nella pubblica. Dico soltanto che il rituale globale della scolarizzazione di massa è storicamente connotato, la sua architettura interna rivela la sua genealogia e dovremmo recuperare archeologicamente le alternative all’educazione formalmente impartita… per salvarci. Ci sono alcune invenzioni, istituzioni, tecnologie che nascono in ambito militare e/o come risposta reazionaria, come il sistema postale, la scuola moderna, il pronto soccorso e la chirurgia d’urgenza, internet; si fanno fama di efficienza anche presso i movimenti rivoluzionari, che le rivendicano e le riutilizzano per scopi opposti, creativi o liberatori; diventano infine una nemesi vendicativa, un monstrum, un leviatano. Se faccio un frontale col motorino e vado in ospedale non sono un coglione militarista, nonostante l’ambulanza sia un’invenzione della sanità militare napoleonica. Però la “nemesi”, la vendetta storica del pronto soccorso è che adesso abbiamo il mondo bloccato da un’epidemia mondiale, o meglio, dalla rivendicazione del diritto di morire tra le mura di un ospedale e tra le mani di un medico chirurgo. Per quanto riguarda la scuola, se siamo d’accordo che l’assemblea vis-à-vis, consensuale, decentrata, priva di apparato coercitivo interno, sia un’istituzione politica umana, desiderabile e praticabile (ed effettivamente praticata all’interno dei movimenti), dobbiamo pure constatare un fallimento: che ci è mancato il coraggio di proporre a bambini e ragazzi una pratica educativa non coercitiva improntata sulla democrazia di base, diretta, assembleare e autogestionaria. E’ l’ultimo mio commento, passo e chiudo! (Grazie per il confronto)
Ma no, perché chiudere? È una discussione importante e utile, proseguendola possiamo chiarirci le idee (almeno un poco) su diversi nodi che non arrivano mai al pettine… perché manca il pettine.
D’accordo, in linea di massima, però riprendo ancora bell hooks. Che ci dice che dopo che gli afroamericani sono entrati nelle scuole dei bianchi con la fine della segregazione, la scuola ha cambiato di segno. Ossia, la scuola praticata da insegnanti neri nelle scuole frequentate da neri, aveva ovviamente un carattere rivoluzionario e antisismico. Quel portato si è liquefatto. È chiaro che siamo di fronte ad un avanzamento, però contemporaneamente c’è uno svuotamento:
“Con l’integrazione razziale, la scuola cambiò radicalmente. Lo zelo messianico, teso a trasformarci e a plasmare le nostre menti- che aveva caratterizzato le nostre insegnanti e le loro pratiche pedagogiche nelle scuole per neri- era finito. Improvvisamente la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente interpretata come una minaccia all’autorità bianca”.
Ci vorrebbero 100 rivoluzioni, si diceva da qualche parte. Il problema è che dato un cambiamento ce ne vorrebbero altri. Solo che bell hooks ragiona a seguito di un momento esplosivo. Noi siamo in piena controriforma, quindi gli avanzamenti sono difficili. Citavo la questione di genere perché è l’unica che in modo scomposto ha creato discorsi, ha dato vita a un po’ di organizzazione ed ha avuto carattere diffuso. Non altrettanto succede su altri temi, vedi la valutazione o i metodi di insegnamento. Su questo c’è molto da lavorare e molte poche parole d’ordine chiare.
@plv E’ vero, bell hooks ha alle spalle anni di insegnamento in periodi di creatività rivoluzionaria, emancipatoria, ecc. Io, che insegno alle medie in periodo di piena controriforma e china discendente, ho invece l’impressione che la scuola, se usata come strumento dell’emancipazione, si trasforma in idolo vendicatore a causa della sua natura intimamente disciplinare e gerarchica. Prendi i protocolli di sicurezza entro i locali scolastici, istanza di tutela dello studente e del lavoratore, hanno finito di recente per servire chi vuole più disciplina, più ordine, più controllo. Non parliamo poi dei protocolli di sicurezza anti-covid, che si innestano su quelli precedenti e che sembrano dei dispositivi ideologici fatti apposta per incrudire la repressione sessuale e castrare simbolicamente le nuove generazioni. Allo stesso modo le neuroscienze applicate alla didattica e all’insegnamento mi sembrano fesserie, dei dispositivi ideologici volti a rimuovere il dato di violenza strutturale (disciplinare, gerarchica, coercitiva, ecc.) del nostro rapporto con l’infanzia. Non me ne importa niente sapere quale pattern neurale si attiva nel cervello dei miei studenti se insegno così o cosà, se questi non sono liberi di andarsene dalla classe se io gli sto sui coglioni. La pedagogia lavora su dati falsati, su studenti costretti al banco. I famosi “disturbi dell’apprendimento”, apparentemente un avanzamento sul piano dell’inclusione delle diversità ecc., sono una patologizzazione psichiatrica che colpevolizza (e medicalizza) lo studente rimuovendo ideologicamente le carenze del nostro sistema educativo. Eccetera, potrei continuare… P.S. Philippe Ariès, oltre a scrivere la “Storia della morte in Occidente” che ci è tanto utile in tempo di pandemia, ha scritto un altro testo imprescindibile: “Padri e figli nell’Europa medievale e moderna”, utile per storicizzare la scuola, l’università, la famiglia, il concetto stesso di “infanzia”, e per capire quando e come si sia instaurato il moderno rapporto gerarchico insegnante-studente.
Però dipende anche dall’insegnante il tipo di rapporto che si costruisce con la classe, persino all’interno dei protocolli pandemici. Io insegno all’università ed è un po’ diverso, però per dire, oggi alla fine di una lezione sugli integrali piuttosto pesa, con le finestre in bascula per far girare l’aria (all’esterno c’era bora forte e temperatura vicino allo zero), una studentessa estone ha tirato fuori una bottiglia di grappa e dei bicchierini di plastica, e ha offerto un giro di bevute (- Prof, vuole assaggiare questa grappa di Tallin? ha 40 gradi, è anticovid. – Sì grazie, mi sa che ne abbiamo bisogno). Sarà una cosa piccola, ma in questo contesto conta molto. Mi ha fatto tornare in mente quel che raccontava Primo Levi sui momenti di serenità nel laboratorio di chimica all’università di Milano in tempi molto più bui di questo.
La risposta del mio socio WM1 è a davided, ma per certi versi potrebbe essere una replica anche a plv.
I movimenti della “fu” sinistra radicale degli ultimi vent’anni non hanno saputo investire le dovute energie nella battaglia per la scuola, perché al di là della retorica non hanno individuato nella scuola un settore strategico, fondamentale proprio dal punto di vista della costruzione politica d’immaginario e alternativa.
Questo è risultato in maniera lampante quando è arrivata la pandemia, ché le grandi emergenze hanno sto brutto vizio di far venire al pettine tutti i nodi, ma proprio tutti. A prendere posizione contro la DaD, prevedendone l’utilizzo come alternativa al fare ciò che si sarebbe dovuto fare (da sempre e tanto più durante una pandemia) per la scuola pubblica, sono stati troppo pochi. E il loro identikit sembra essere determinato dalla condizione esistenziale assai più che dai percorsi politici (anche questo è spiazzante e rappresenta uno dei “nodi” di cui sopra). È la genitorialità a schierare le persone in questo caso. Contro la DaD si sono espressi e si esprimono moltissimi genitori, un po’ di psicologi e pedagogisti, e una parte minoritaria dei lavoratori della scuola (appoggiati praticamente da un solo sindacato, i Cobas).
Per intenderci, gran parte del corpo docente – ad esempio quella che si riconosce nella CGIL-flc – ancora oggi, dopo due anni di questa indecenza, chiede la DaD fino all’ottenimento delle condizioni di sicurezza, senza capire, o piuttosto fingendo di non capire, che la DaD è appunto l’alternativa a quell’ottenimento e che se davvero si volesse fare sul serio e lottare per la scuola pubblica più sicura bisognerebbe non già chiedere la DaD, ma indire lo sciopero della DaD, rifiutarla, andare a fare scuola altrove, ecc.
Perfino oggi che sempre più studi scientifici ci dicono che Omicron non infetta i polmoni e quindi assomiglia assai di più a un’influenza, oggi che la stragrande maggioranza della popolazione è vaccinata… il coro per la chiusura delle scuole – e solo di quelle, guarda! – è assordante.
Mi dispiace doverlo dire, ovvero ripeterlo ancora dopo due anni, ma questo paese anziano, con un tasso di natalità sotto le scarpe, minacciato da un virus quasi innocuo per i più giovani, è stato capace di sviluppare un odio per loro che evidentemente covava da qualche parte.
Ecco i movimenti della “fu” sinistra radicale degli ultimi vent’anni non si sono posti a dovere il problema delle prossime generazioni e della loro istruzione, della prole, dei nuclei famigliari, dell’economia domestica… se non in caso di assistenza a migranti e italiani poveri. Bellissime esperienze in questo senso ne abbiamo viste eccome, ma episodiche, legate a emergenze sociali soprattutto, piuttosto che inscritte in un quadro complessivo di rivendicazioni concrete e pratiche sui modi del fare scuola, educazione, ecc. E magari però si è stati ben pronti a sfilare in corteo con musica e paillettes per rivendicare il diritto di omosessuali e lesbiche di mettere su famiglia, avere figli, ecc. o per l’introduzione di certe tematiche legate alle scelte di genere nella scuola. Tutto sacrosanto, certo. Ma sono due anni che la scuola è sotto le bombe, che i cicli scolastici sono fatti a pezzi, che i più giovani cittadini e cittadine di questo paese, nei loro percorsi formativi e relazionali, vengono lasciati appesi alle decisioni estemporanee dei governi e alle ondate di fobia. In quale scuola si parlerà delle tematiche di cui sopra? Cosa ne sarà rimasto dopo tre anni di questo trattamento che sembra il trampolino perfetto per la scuola parentale?
Avere lasciato che tutto ciò accadesse dà la misura della morte di un’intera area politica e di un’esperienza storica, che è arrivata al capolinea.
Come scrive il mio socio:
«Io penso che in qualunque ambito e per qualunque tema, se si avvierà una nuova sequenza rivoluzionaria, di sperimentazione sociale radicale, ciò avverrà altrove rispetto alla residuale «sinistra radicale» e in discontinuità con usi e costumi di quest’ultima.»
Da scolpire nella pietra, per quanto mi riguarda. Saranno i più giovani e le più giovani a presentarci il conto della nostra inadempienza, inettitudine, ottusità. Personalmente spero che lo facciano nel modo più impietoso possibile.
Non sei stato tenero nel salutarmi: non lo sarò con te.
L’ardire dei miei commenti è partito da uno spiraglio che hai aperto con il tuo commento qui sopra.
Ho letto le frase: “Avere lasciato che tutto ciò accadesse dà la misura della morte di un’intera area politica e di un’esperienza storica, che è arrivata al capolinea.” E ho pensato che questo capolinea potesse essere il punto di partenza di un ripensamento: se non ora, quando? E allora ho introdotto nel dibattito sulla scuola dei temi tabù, avendo intuito la vostra disponibilità a pensare ciò che fino a ieri era impensabile. Non credo di essermi sbagliato; piuttosto sull’insuccesso pesano i limiti del mio pensiero e soprattutto la scelta del blog come medium di comunicazione. Inoltre non avevo considerato bene il valore della tua ultima frase.
“ Saranno i più giovani e le più giovani a presentarci il conto della nostra inadempienza, inettitudine, ottusità. Personalmente spero che lo facciano nel modo più impietoso possibile”
Sei troppo intelligente e hai sufficiente coraggio per non attribuire solo agli altri (alla destra, ai capitalisti, a chiunque altro) la situazione orribile che si creata nella scuola e altrove. Ti assumi la responsabilità di membro di un’avanguardia fallita. Ti auguri di avere il privilegio ti poter pagare il tuo conto con la Giustizia di fronte alla nuova generazione che ti condannerà, il privilegio di poter vivere la tua Norimberga. Devi però mettere in conto un altro avvenire, ben più probabile: un lungo dormiveglia, prima del sonno finale.
E chi dice che non lo metto in conto? Il mio era un auspicio, evidentemente. Que sera sera. Ma a scanso di equivoci – caso mai si trattasse di questo – il fatto che tanto la sedicente sinistra riformista quanto la sedicente sinistra radicale in questo paese sia autoestinta o ridotta all’afasia non significa che per questo ci si debba aprire alle idee senza parole della destra. Non ci si cura con un male peggiore del male. Sembra lapalissiano doverlo ribadire qui su Giap, ma non costa niente farlo.
@ plv: sono d’accordo con te nel momento in cui parli di scuola come male minore (cosa succederebbe se non aessimo la scuola?). D’accordo: si aprirebbe un abisso da cui uscirebbero un’infinità di mostri. Io aggiungo solamente che l’istituzione scolastica è essa stessa un mostro.
Sul lavoro minorile accenno alle pagine del libro già citato di Ivan Illich e “La prima radice” di Simon Weil. Si pensa al lavoro così come lo abbiamo conosciuto nell’era industriale: insulso e alienante. Con la scuola vogliamo risparmiare i bambini da quest’inferno piú a lungo possibile, meglio se per tutta la vita. Non é sempre stato cosí. Prima era possibile (ripeto: possibile) avvicinarsi al lavoro durante l’infanzia con lo spirito poetico e giocoso tipico dell’età. Qualche giapster forse puó capire a cosa mi riferisco. Nel 2022 una possibilità del genere é difficile anche solo da pensare.
Infine un accenno alle scuole private. La scuola, pur generando volumo economici colossali, é l’istitituzione che meno di tutte si é prestata alla privatizzazione. Solo la chiesa romaba cattolica, altra formidabile organizzatrice di soicetà, si é dimostrata un vero concorrente dello stato. Men che meno nessuna esperienza dal basso ha avuto un successo duraturo nella scuola. Solo uno stato o una big corporation (che oramai sono quuasi la stessa cosa) si sono dimostrati in grado di portare avanti questa cosa. Se per caso la scuola parentale in Italia avesse un relativo successo sarebbe da aspettarsi ció che @Wolf Bukowsky ha profetizzato per i genitori “No Vax”: in nome dell’astratto primato della scuola pubblica la frequenza della scuola parentale sarebbe un’ulteriore prova della loro devianza. La stessa sorte che é già stata vissuta dalle scuole parentali islamiche in Francia.
@tuco: nessuno sta dando neppure per implicito del co…ne a nessuno. Piuttosto si può constatare come se si rimuove il sacro dall’orizzonte umano esso riappare sotto mentite spoglie e in forma molto più violenta della versione rimossa. Non ci saranno più religioni nell’avvenire, cantava John Lennon, e ora ecco che abbiamo trasformato la scuola di stato in una sorta di divinità laica, tanto che se si propone una critica che tocca la sua essenza si rischia di offendere la sfera personale di chi legge.
@Wu Ming1: la possibilità offerta dalla scuola di stato di mettere insieme nella stessa classe bambini di tutte o quasi le provenienze sociali è indubbiamente una qualità che manca a qualsiasi scuola non statale. E qui mi permetto di toccare un altro punto delicato. Questa qualità della scuola statale di permettere l’incontro con l’Altro sarebbe bellissima se il principale motore dell’integrazione e dell’inclusione sociale fosse veramente il piacere di un incontro tra identità diverse. Tanti portatori di diversi colori della pelle, provenienze di classe, gusti e orientamenti sessuali, tutti insieme in classe, ciascuno orgoglioso della propria individualità e al contempo aperto al confronto con l’Altro. Non nego che a volte questo miracolo si realizzi, a scuola come in altri contesti. Mi permetto però di constatare come il più potente motore dell’integrazione sociale oggi passi piuttosto attraverso l’abdicazione della propria identità. Non è più l’astrazione novecentesca della non discriminazione (facciamo come se fossimo uguali, anche se siamo fieri delle nostre differenze) oggi l’uguaglianza viene perseguita sul piano della realtà rinunciando ai nostri connotati, a quello che ci caratterizza. La rinuncia alla corporeità propria della DAD è da questa prospettiva un coronamento di un percorso che parte da lontano.
Detta come va detta, a me quest’argomentazione suscita solo ribrezzo.
I discorsi sulla “rinuncia alla nostra identità”, nel 99,999% dei casi (e sto approssimando per difetto), sono solo versioni eufemistiche del Blut und Boden. Si possono quasi sempre tradurre con “razza bianca”, “radici cristiane”, “primato dell’occidente” ecc.
Tutto deriva dal modo in cui la Nouvelle Droite post-evoliana alla de Benoist (e relativi emuli e discendenti) ha tradotto in termini meno biologizzanti (dunque apparentemente meno razzisti) il vocabolario del nazismo, favorendo un uso essenzialista di termini come “cultura” (la nostra “cultura” presuntamente minacciata nella sua assiomatica eppur vaga essenza, le diverse “culture” descritte come blocchi omogenei che possono solo esistere separati o collidere), “Europa” (continente dal manifesto destino di aristocrazia spirituale), “identità” (pseudoncetto, in realtà un simulacro, perché postula l’essere identici a se stessi, ma quel “se stesso” è riconoscibile solo dal proprio restare identico, dunque siamo sempre di fronte alla copia di un originale che non esiste).
Sotto la patina di rispettabilità filosofica che unge de Benoist e implicitamente legittima certe operazioni “metapolitiche” c’è sempre stato ben poco di “nouvel”. Basta poco per andare oltre perifrasi, circonlocuzioni, supercazzole volte a evocare “lusso spirituale” e ritrovare subito tutta l’usuale accozzaglia: il mito della “caduta” rispetto a un passato glorioso, l’invenzione della tradizione, l’implicita rivendicazione del colonialismo e del razzismo, le “idee senza parole”…
@Wu Ming 4: la lotta per i diritti di lesbiche e omosessuali di potersi fare una famiglia è giusta e sacrosanta anche dal mio punto di vista. L’amara constatazione è che la prevalente rivendicazione di quel movimento era una rinuncia e una richiesta di rinuncia. Una minoranza che chiedeva uguaglianza non attraverso il riconoscimento della propria specificità ma attraverso una propria rinuncia e una richiesta alla maggioranza di rinunciare alla propria. Non l’orgoglio di poter farsi una famiglia diversa, originale, con i colori dell’arcobaleno ma piuttosto di farla finita con la famiglia, come recita il titolo di un libro della stessa collana di quello recensito in questo post (https://www.meltemieditore.it/catalogo/per-farla-finita-con-la-famiglia/). Un libro del quale ho letto solamente una recensione ma che propone sin dal titolo un approccio che, pur nel suo discutibile proposito, ha il dono dell’onestà e della chiarezza intellettuale. Una minoranza chiede di farla finita con la famiglia: le maggiori forze sociali sono già in moto da tempo in quella direzione e l’obiettivo è ampiamente alla portata. Una volta realizzato, da figli di nessuno, ci sentiremo più uguali, meno discriminati. Anche a scuola e meglio se in DAD.
“Non l’orgoglio di poter farsi una famiglia diversa, originale, con i colori dell’arcobaleno ma piuttosto di farla finita con la famiglia, come recita il titolo di un libro della stessa collana di quello recensito in questo post (https://www.meltemieditore.it/catalogo/per-farla-finita-con-la-famiglia/). Un libro del quale ho letto solamente una recensione ma che propone sin dal titolo un approccio che, pur nel suo discutibile proposito, ha il dono dell’onestà e della chiarezza intellettuale. Una minoranza chiede di farla finita con la famiglia: le maggiori forze sociali sono già in moto da tempo in quella direzione e l’obiettivo è ampiamente alla portata. Una volta realizzato, da figli di nessuno, ci sentiremo più uguali, meno discriminati. Anche a scuola e meglio se in DAD.”
Prospettiva agghiaggiante. La collego ad un articolo di cui ho letto le primissime righe di un tale Camon (giornalista e scrittore con un Campiello in saccoccia) il cui titolo recitava: “Quando l’amore è dannoso”. L’argomento era relativo alla vaccinazione covid per i bambini e quello che ho letto nelle prime 10 righe mi ha mandato la pressione a 180: “i bambini devono capire che quel che vuole lo stato vale di più di quel che vuole il papà o la mamma”.
A me piacerebbe sapere quali sarebbero le fantastiche virtù del modello di famiglia che i difensori della famiglia difendono. Perché l’Italia è al tempo stesso il paese in cui ogni discorso ruota intorno a una visione idealizzata della famiglia nucleare (descritta come “naturale” nonostante sia recentissima e si sia affermata solo col capitalismo), e il paese in cui le famiglie reali sono spessissimo luoghi da cui non si vede l’ora di fuggire o in cui ci si rassegna a un tran tran annichilente, luoghi di castrazione psichica, luoghi di disparità tra i generi quando non di sopraffazione, di abusi e violenze (siamo il paese in cui si ripete ogni giorno che circa il 90% degli abusi sui minori avviene in famiglia e al tempo stesso si dice “famiglia” in modo prevalentemente acritico). Siamo un paese di familismo amorale ecc. Davvero scandalizza che qualcuno critichi l’istituzione-famiglia e cerchi forme di convivenza diverse? Davvero su Giap tocca ribadire simili ovvietà?
“il paese in cui le famiglie reali sono spessissimo luoghi da cui non si vede l’ora di fuggire o in cui ci si rassegna a un tran tran annichilente, luoghi di castrazione psichica, luoghi di disparità tra i generi quando non di sopraffazione, di abusi e violenze (siamo il paese in cui si ripete ogni giorno che circa il 90% degli abusi sui minori avviene in famiglia e al tempo stesso si dice “famiglia” in modo prevalentemente acritico). Siamo un paese di familismo amorale ecc. Davvero scandalizza che qualcuno critichi l’istituzione-famiglia e cerchi forme di convivenza diverse? Davvero su Giap tocca ribadire simili ovvietà?”
A me non scandalizzano le critiche – le problematiche che elenchi esistono, ci mancherebbe – ma che si dia per assodato che la famiglia ‘è un male’ e che si cerchi di ‘istituzionalizzare’ tale visione mi spaventa e non poco.
Se a te non scandalizza che ‘lo stato viene prima della famiglia’ buon per te. A me tanto, soprattutto dopo due anni del genere.
Scusa, ma che c’entra «lo stato viene prima della famiglia» con il desiderio diffuso di rompere la gabbia familiare in cui ci si sente prigionieri, con la critica anti-istituzionale della famiglia (critica che ha una storia lunga alle spalle), con la dichiarazione «la mia famiglia è quella che mi scelgo» che sta alla base di ogni sperimentazione di altre forme di convivenza affettiva?
Inoltre: in un paese dove la retorica di *tutte* le forze politiche è incentrata su un’idealizzazione della famiglia; in cui in nove spot elettorali su dieci appare essa, la Famigliola; in cui persino certi ambiti del mondo LGBTQIA+ accettano di discutere e lottare nel frame “famigliola è bello”… In un paese così, dire che si vuole istituzionalizzare la visione “famiglia è un male” è una forzatura non da poco, e suona come una fantasia di complotto… Cosa che in effetti spesso è. Tanto che ne parlo nella seconda parte de LQdQ. È la stessa fantasia di complotto che ha intorbidato le acque e impedito di capire la vera natura di quanto accaduto a Bibbiano.
P.S. Commentare la quarta di copertina di un libro che non si è letto, premettendo che non lo si è letto, e da lì partire per la tangente… Che modo di discutere è?
«P.S. Commentare la quarta di copertina di un libro che non si è letto, premettendo che non lo si è letto, e da lì partire per la tangente… Che modo di discutere è? »
Scusate se mi intrometto; riguardo al modo di discutere ed alla rilevanza o meno di questo sub-thread, credo valga la pena considerare che la sponda del pezzo di Ferdinando Camo che Bradipo cita nel suo intervento è materiale alquanto tossico, roba d’archivio:
https://web.archive.org/web/20220110142133/https://ricerca.gelocal.it/messaggeroveneto/archivio/messaggeroveneto/2017/09/12/nazionale-quando-l-amore-e-dannoso-02.html?ref=search
Per il resto, per quello che può valere, io la penso con la nonna di Filo Sottile che, come si racconta nelle pagine di Senza Titolo di viaggio sosteneva che:
«Il mestiere dei bambini è giocare»
@Wu Ming 1 – Adesso capisco a cosa ti riferivi nei precedenti post con l’espressione “reductio ad hitlerum”! Di Alain De Benoist e della nouvelle droite evoliana non so nulla a parte il nome. Sarebbe opportuno chiudere il cassetto delle etichette infamanti anche se capisco che il riflesso sia inevitabile. Un’etichettatura del genere sarebbe tra la l’altro una giusta punizione per aver sollevato un tema del genere così, en passant, in un commento ad una recensione su un libro sulla scuola.
In ogni caso il giudizio sul mio conto è cosa di poco conto e comunque concordo sulla tua stima del 99,999% arrotondato per difetto. L’importante è tenere gli occhi ben fissi su quel 0,001 arrotondato per eccesso. é da lì, da quel passaggio angusto, che prosegue una via di emancipazione. Si può percorrere solo da soli e ci si passa solamente a piedi.
Sul tema della famiglia la mia posizione è semplice: non la santifico (la famiglia naturale) né la demonizzo (un prodotto del capitalismo). é un’istituzione sociale come lo stato o la scuola. Forse ci sono più affezionato rispetto alle altre due ma sono certo che avrà il suo percorso di maturità ed estinzione come qualsiasi altra opera dell’uomo. Piuttosto ho preso sul serio dei propositi di riforma che mirano “a farla finita”, all’interno di un tentativo di fornire una chiave di lettura dell’evoluzione sociale, anche scolastica. Detta più chiaramente: mi sembra lecito proporre la distruzione della scuola tanto quanto farla finita con la famiglia. Poi queste proposte, dovendo sfociare in decisioni collettive, è bene che siano discusse, senza accuse reciproche di blasfemia o reductio ad hitlerum.
Un sacco di gente non conosce direttamente la Nouvelle Droite di de Benoist ma, senza saperlo, ne usa il lessico e l’armamentario retorico ogni giorno, perché è da anni l’armamentario di gran parte della destra europea e del “sovranismo”, Lega compresa.
De Benoist, tra l’altro, è uno dei casi in cui citare il nazismo non è mera reductio ad Hitlerum, dal momento che ripercorrendo a ritroso quel filone si arriva praticamente subito al collaborazionismo francese, ai vari Rebatet, Brasillach, Bardèche e compagnia brutta. A tutti gli effetti nazisti d’Oltralpe.
Il concetto di «cultura» come blocco trans-storico, omogeneo, etnicamente delimitato – e dunque perfetto per dire «razza» senza usare la parola – ha tristemente fatto breccia nel dibattito pubblico e ormai è “sdoganato”, ma risale precisamente al lavorìo con cui la nuova destra ha sostituito il vecchio lessico nazista con uno più “accettabile”.
Dire che la famiglia nucleare si afferma col capitalismo non è “demonizzazione”, è una mera constatazione storica. Almeno in Europa continentale, prima dell’avvento del capitalismo – “avvento” durato alcuni secoli, perché il nuovo modo di produzione non si è affermato in simultanea in tutto il continente – la famiglia formata solo dalla coppia di genitori e dalla loro prole era un aggregato domestico piuttosto raro. Si è affermato fino a diventare ultramaggioritario, onnipresente, perché era il più adatto a sopravvivere in una società basata sulla competizione tra salariati ecc.
Si può desiderare la morte di quel che si vuole, ma poiché di solito lo si fa in nome di qualcos’altro, qualcosa che si vuole difendere e affermare, qualcosa che dovrebbe vivere e sostituire ciò che muore, a me interessa sapere cosa si difende e in base a cosa. Dunque chiedo perché mai la famiglia dovrebbe essere un valore in sé, perché andrebbe difesa in quanto tale. Non riesco mai a ottenere risposte minimamente chiare.
Per quel che mi riguarda, si possono criticare al tempo stesso lo “stato etico” e il familismo. Anche perché sono sempre andati a braccetto, si sono sempre integrati a vicenda. Sono andati d’amore e d’accordo durante il fascismo, hanno continuato a farlo nell’Italia democristiana, continuano a farlo oggi.
Idem per quanto riguarda la difesa della «nostra identità»: ogni volta che chiedo in cosa consisterebbe, quest’identità minacciata, e perché sarebbe da difendere, ricevo due tipi di risposte:
1) quelle vaghe, tutte perifrasi, circonlocuzioni o parole non meno misteriose,
oppure
2) quelle tout court ripugnanti.
Rilevo anche che quasi sempre, in questi discorsi, «identità» è a poche parole di distanza da «immigrati» o da altre di quel campo semantico.
Anche in questo thread, l’espressione «abdicazione alla propria identità» (rafforzata con «rinuncia ai nostri connotati») è venuta fuori in esplicito collegamento con «tanti portatori di diversi colori della pelle, provenienze di classe, gusti e orientamenti sessuali, tutti insieme in classe».
Io ho fatto notare che nel 99.99% dei casi quest’accostamento non inconsueto, l’uso di certe espressioni, hanno una certa matrice e vanno in una certa direzione. Tu mi hai risposto che nel tuo caso non era così e che si tratta dell’altro 0,01%… però non l’hai mica chiarito, cosa siano quell’«identità» a cui il più delle volte si abdicherebbe e quei «connotati» a cui il più delle volte si rinuncerebbe stando in quelle classi.
Identità, cultura, famiglia… Continuo a pensare che, nella migliore delle ipotesi, si tratti di idee senza parole, inspiegabili perché indiscutibili perché ineffabili. È sempre implicito un «Dài, lo sappiamo tutti cosa vuol dire…», e così le si dà per scontate. Ma scontate non sono per niente.
“Dunque chiedo perché mai la famiglia dovrebbe essere un valore in sé, perché andrebbe difesa in quanto tale. Non riesco mai a ottenere risposte minimamente chiare”.
Risposta finale: non va difesa in quanto tale perché in sé e per sé non c’è nulla che meriti di essere difeso. Può essere difesa in senso contingente, secondo ragioni di opportunità, ma qui siamo veramente OT.
Riporto la discussione da dove era partita e dove poteva avere un’attinenza con il post. Una delle conquiste che animano i più appassionati operatori della scuola statale è l’integrazione e l’inclusione sociale che la sua organizzazione da molti anni nonostante tutto garantisce. Ribadisco che questa inclusione e integrazione sono mosse principalmente da una rinuncia reciproca, mentre il senso comune suggerisce che sia un desiderio di arricchimento reciproco. Un giudizio quantitativo di prevalenza e non di esclusività.
Da questa constatazione discende che alcune ultime evoluzioni nefaste della scuola, tra le altre l’avvento della DAD come quasi nuova normalità, non siano da attribuire solamente al nuovo ordine neoliberista degli ultimi trent’anni. Esse potrebbero radicarsi anche nelle conquiste figlie della cultura progressista dei diritti civili così come maturata fino ai nostri giorni.
Avendo scritto qui su Giap ho invitato a cercare il male anche in casa, tra le mura domestiche della famiglia progressista. E non per cercare rogne o divertirmi a suscitare reazioni violente ma perché a mio avviso fondamentale per trovare valide chiavi di lettura ai problemi della scuola italiana di oggi, essendo ancora figlia in larga misura di quella cultura progressista di cui giustamente andiamo orgogliosi.
Io di norma cerco di non usare il termine «integrazione» perché in esso è sempre implicito: integrazione delle diversità al modello dominante, delle minoranze alla maggioranza, delle culture altre a quella mainstream. Preferisco altri termini ed espressioni e anche nel porre come esempio l’esperienza della classe in cui insegna la mia compagna ho usato quelle. Però io continuo a non capire il discorso sulla «rinuncia reciproca», e non mi è chiaro perché, a monte, non mi è chiaro il discorso sull’«identità» a cui staremmo abdicando e i «connotati» a cui staremmo rinunciando.
“Però io continuo a non capire il discorso sulla «rinuncia reciproca», e non mi è chiaro perché non mi è chiaro a monte il discorso sull’«identità» a cui staremmo abdicando e i «connotati» a cui staremmo rinunciando”.
Un esempio tratto dalla scuola di provincia che frequenta mio figlio. Ad aspettare i bimbi ci sono molte mamme africane. Con il passare dei mesi nasce un po’ di confidenza: i nostri bimbi giocano assieme al parco nel doposcuola. Le chiedo da che nazione provengono. Imbarazzo e risposta stentata. Di che religione sono. Non capiscono la domanda. Che cosa si sono portati dall’Africa. Idem. Certo: sono spaventate e hanno paura dei miei pregiudizi. Allora parliamo di lavoro, di soldi, di opportunità di ascesa sociale dei nostri figli. Parliamo di calcio e di cartoni animati. Parliamo dell’individuo cosmopolita, riparati dentro l’immaginario modellato dal neoliberalismo. Così diventa tutto molto più semplice. E così mi guardo bene dall’accennare a tutto quello che mi rende italiano e maschio e bianco e diverso da loro. I preparativi in famiglia per il Natale? Lasciamo stare. Le mie preoccupazioni di genitore occidentale sazio e nichilista, angosciato dal plumbeo avvenire? Potrebbero generare equivoci. Restiamo nel campo comune, quello spoglio, quello della rinuncia reciproca, quello arido ma sicuro. Finita la conversazione ci salutiamo con l’illusione di esserci parlati; abbiamo soltanto riempito il silenzio.
Non è sempre così. A volte va meglio, ma la forza della rinuncia reciproca è cento volte più efficace del confronto tra individualità. A livello collettivo, per non dire di quello istituzionale, lo percepisco ancora più chiaramente.
Madonna santa… Come mai io, pur vivendo da più di trent’anni in una città multiculturale come Bologna, vivendo da più di dieci anni nel suo quartiere con più migranti ed essendo a contatto con la scuola più multietnica del quartiere e quindi della città, non mi sono mai trovato in una situazione del genere?
Scusa, ma non ti è mai passato per la testa che forse sei semplicemente tu a sbagliare approccio, ad avere preconcetti su cosa sarebbe “giusto” dirsi, magari a proiettare sull’altra persona un disagio che è tuo?
Perché dovresti impostare subito una conversazione sul tuo essere «diverso da loro» anziché su quel che potete avere in comune, come di norma si fa con chiunque? Con un inglese o un francese la imposteresti così?
Perché chiacchierare del più e del meno, come avviene potenzialmente con chiunque, se lo fai con un’africana dovrebbe equivalere tout court a parlare dell’«individuo cosmopolita modellato dal neoliberalismo»? E se il problema è che anziché parlare davvero si è solo “riempito il silenzio”, beh, avviene di continuo, anche tra soli italiani.
Perché dài per scontato che i tuoi preparativi per il natale siano un tabù? I genitori musulmani dei bambini delle scuole di cui parlo io fanno normalmente gli auguri di natale alle maestre, per dire. Ammesso e non concesso che la donna africana di cui parli sia musulmana. Pensi di trovarti tra gente non abituata ad altre religioni e festività? Guarda che è probabilissimo che sia tu, quello non abituato, non loro. Sei quasi certamente tu, quello che ha viaggiato di meno e conosce meno differenze.
Perché rammaricarti di non poter rovesciare addosso a quelle persone le tue preoccupazioni di «genitore occidentale sazio e nichilista»? Te ne rammaricheresti con chiunque altro? Dovrebbero ringraziarti per il fatto che non lo fai, dal momento che ti conoscono appena. Se io ti incontro in un parco e dopo poche frasi tu mi rovesci addosso il tuo sazio nichilismo, io mi spacco i maroni.
Infine: da tutto quel che dici risulta chiaro che dell’altra persona non sai quasi nulla, però 1) dài per scontato che anche da parte sua ci sia una “rinuncia”; 2) dài per scontato che tale rinuncia sia una cosa grave. Ancora una volta, prova a fare il test: se avessi chiacchierato del più e del meno con una persona italiana, o con una persona straniera sì ma europea e bianca, ti saresti fatto tutti questi crucci? Avresti tirato in ballo rinuncia, nichilismo, neoliberalismo e quant’altro?
Per la cronaca quello che ho scritto era un’invenzione. Non c’è mai stato nessun dialogo di questo tipo fuori dalla mia scuola con nessuna donna africana. Queste donne in effetti ci sono veramente fuori da scuola ed i bambini giocano insieme al parco, ma oltre ad un ciao ad un come va in due anni non mai siamo andati. Era un dialogo alla Luther Blisset.
Poi è chiaro che è colpa del mio avatar, che è un insensibile, che queste cose accadono solo ai reazionari che non sanno porsi in comunicazione con il loro prossimo. Quelli che non hanno viaggiato e che sono prigionieri della propria ignoranza.
Bene, le pedine si sono mosse, la partita di scacchi è stata avvincente. Ora arrocco e stallo. Fortifichiamo le nostre posizioni. E andiamo a preparare la cena.
Dunque il disagio, la “rinuncia reciproca”, l’incomunicabilità… Ed era tutto inventato! Bah.
Luther Blissett non c’entra granché e i toni vittimistici servono a poco: avevi premesso che era «un esempio tratto dalla scuola di provincia che frequenta mio figlio», e non c’era nessun segnale a far capire che l’esempio non fosse realmente preso dalla tua esperienza… che a questo punto si scopre non esserci. Ma allora su cosa basi ‘sti discorsi sulla rinuncia?
E niente, esempi di questi «connotati» a cui staremmo rinunciando e di questa «identità» a cui staremmo abdicando continuano a non pervenire.
Accusa te di arrocco sulla tua identità e sulle tue posizioni, dopo essersi lagnato della sua perdita di identità causata da tutte quelle donne di altra stirpe. Cioè cazzo, devi smetterla di chiuderti a difesa della tua apertura, e aprirti a difesa della sua chiusura.
p.s. Nel frattempo qua a Trieste abbiamo avuto 5 fatti di sangue brutti in poche settimane, l’ultimo in ordine di tempo riguarda un ragazzo diciassettenne di famiglia serba, strangolato da un amico fraterno di famiglia marocchina, a causa di una “rivalità in amore”, dice il pikolo. Cultura patriarcale, dico io. E il sindaco subito affonda le mani nel sangue per invocare il pugno duro contro i migranti. Ecco, ci sarà anche il covid del cazzo, il green pass del cazzo, eccetera. Times have changed. Times, maybe, not me. Per quanto mi riguarda, la pandemia e la sua gestione non mi hanno cambiato per un cazzo, sicuramente non mi hanno cambiato al punto da buttare nel cesso tutte le problematiche e relative analisi e prese di posizione di una vita, per aprirmi alla chiusura altrui.
Niente, l’esempio che ho scritto era per dimostrare che sono in buona fede e che merito un certo credito da questa comunità.
Stiamo affrontando questioni delicate: senza un’apertura di credito reciproca sulle nostre intenzioni pulite non possiamo avanzare di un passo. Da confronto di idee il nostro è diventato un duello retorico, dove tu mi sfidi ad argomentare le mio posizioni ed io gioco a fare le imboscate. Là fuori, forse, tanti tifosi silenziosi pronti ad osservare i prossimi episodi della lotta. Sono scappato dai social network per sottrarmi dal ridicolo e non vorrei tornarci sotto una nuova insegna.
Allo stesso tempo sarei felice di tornare a dibattere di questi con te e con voi prima possibile ma con altri tempi e altri contesti. A pensarci bene, prima di accettare di scoprire il fianco le persone hanno bisogno di conoscere chi gli fa una tale richiesta. Da cosa deriva una cecità ad una verità così banale? Dal mito della società aperta, talmente formidabile nel neutralizzare ogni dissenso che per una vita ci si sforza di trovare un modo per sferrarle un attacco al cuore, di creare un dissenso non riassorbibile. Ecco, non trovando un bersaglio soddisfacente lo stesso sforzo viene da rivolgerlo contro chi ha tutte le carte in regola per essere un compagno di viaggio! Un punto in più per l’open society.
Alfeo Castorini, sai perché non riesci ad accreditarti presso questa comunità? Dovrebbe esserti chiaro, ormai. Perché – senz’altro in buonissima fede – seguiti a gettare nella discussione categorie ed espressioni che per noi sono soltanto «idee senza parole», concetti vuoti, che evocano fantasmi ineffabili. Identità culturale, mito della società aperta, famiglia, ecc. Queste parole ed espressioni, senza ulteriori specificazioni, senza calarle in un contesto, fino a vederle incrinarsi e dissolversi nella realtà, restano quello che sono: poco più che astrazioni platoniche. Non si mette in dubbio che possano esprimere un disagio reale, ma le si respinge come inutili ai fini di capirci qualcosa di quello che ci accade attorno e nocive ai fini della battaglia politica (infatti sono patrimonio della cultura di destra).
Ecco perché non hai «tutte le carte in regola per essere un compagno di viaggio».
Ma per carità (e per fortuna), il nostro non è mica l’unico treno in partenza. E comunque con te qui stiamo pur discutendo, e in più di uno. Quindi non c’è da lamentarsi, direi.
Dopodiché, penso ti stia sfuggendo che stiamo parlando dei bambini. Dei bambini a scuola, più che delle eventuali chiacchiere dei genitori fuori da scuola. Che se ci sono va bene, tutto grasso che cola, ma il punto sono i bambini. Una classe con tanta diversità, una classe con bambine e bambini che creano di continuo intersezioni tra i diversi mondi è qualcosa che fa bene ai bambini stessi. Sono loro a fare amicizia, a imparare a convivere, a mediare al rialzo le loro relazioni ed esperienze. Questo a condizione – necessaria, anche se non sufficiente – che la classe sia ben condotta, che l’insegnante sia in condizione di cogliere e valorizzare quelle potenzialità. Il parametro di giudizio non può essere l’eventualmente stentata chiacchiera di qualche genitore fuori da scuola.
«Finita la conversazione ci salutiamo con l’illusione di esserci parlati; abbiamo soltanto riempito il silenzio».
Caro Alfeo, il problema siamo noi adulti. Perché se ci pensi bene ti accorgerai che, mentre il «[…] genitore occidentale sazio e nichilista […]» e le mamme africane, reali o immaginari che siano, si sforzavano di riempire silenzi «[…] nel campo comune […] spoglio […] arido ma sicuro», più in là, piccolǝ cuccioli di umani conoscevano il piacere dell’incontro con l’altro attraverso il gioco.
La mia compagna domani dovrà affrontare il funerale di un 17enne suicidatosi prima di Natale. Quest’anno è il quarto, di suicidio, che ci ha toccati. Ben tre erano adolescenti.
Mi vien da dire «bambini di tutti i paesi unitevi!», come recitava lo slogan del Piccolo Mondo Nuovo.
@Alfeo Castorini scusa se mi permetto, ma fare un parallelo tra 1)DAD come rinuncia della corporeità e le 2)forze sociali che sono in moto per diluire ed infine annientare la famiglia tradizionale, mi pare un ragionamento a corsie parallele, anche se, ammetto e non concedo giammai, fosse vero il secondo punto. Mai vista in Italia negli ultimi 30 sta guerra alla famiglia portata dalle forze sociali del male, tranne che in bocca ai soliti noti.
Le avvisaglie tipo spot per far vaccinare i bambini, strappare i figli ai no-vax e compagnia bella che avrai notato, o la classica DAD, sono solo denti digrignati del Capitale che se ne fotte se tuo figlio vuole socializzare, così come se ne fotte se sei in continuo precariato, così come se ne fotte…
Questo è: chiagne(di rado e con scopi precisi) e fotte(molto spesso). Scusate tutti se ho portato giù il livello del discorso :-).
Il tuo accenno ai diritti civili, come diversi da chissà quali altri, meriterebbe un approfondimento a sé, anche piuttosto cospicuo.
hahaha ma dio porco, la DAD come conseguenza del gender, lo sapevo che prima o poi si sarebbe arrivati lì. Beh, nelle mie classi in presenza a ingegneria e scienze ci sono un bel po’ di coppie lesbiche e gay. Come lo so? lo so perché l* vedo pomiciare. Eh sì, siccome sono comunista non rompo mai le palle a chi sta pomiciando, mentre i miei colleghi di destra (e anche qualcuno di sinistra, ok) intervengono sempre a separare le coppie, sia etero che omo, perché c’è il covid. Da dove cazzo sia venuta fuori l’idea che la cultura LGBT porti alla smaterializzazione dei corpi lo sa solo cthulhu.
@tuco ma hai tirato fuori Cthulu a caso o il riferimento a Lovecraft è voluto? No perché, senza ri-sottolineare le posizioni iper-reazionarie assodate di HPL, c’è un racconto dove si parla di un coacervo marcio che brulica sotto la città, una specie di fiume di melma che corrompe tutto e tutti, naturalmente già sappiamo a cosa allude HPL con quella metafora rispetto alla sua esperienza cittadina.*
Beh Alfeo questo racconto, fuor di metafora, assomiglia molto da vicino a quello che hai descritto te, infatti, non volendo, anche tu hai dato un connotato quasi “melmoso” alle “forze sociali in moto contro la famiglia”.
*purtroppo non ricordo il titolo, sono sicuro che qualcuno qui potrà aiutarmi
A dire la verità ho buttato a caso, con le balle girate, ma in effetti ci sta. Una divinità di merda, partorita dalla mente di uno scrittore ultrareazionario (che ahimé ci sapeva fare con le storie), diffonde credenze false e crudeli per diffamare una comunità oppressa e la sua cultura. Ma ci potrebbe stare anche essere Pennywise, che è notoriamente un manipolatore e vive nelle fogne. E S.K. non è un compagno ma almeno non è un reazionario.
p.s. Dylan Dog all’ epoca (anni novanta) piaceva anche a me, ho passato il servizio civile in biblioteca a leggere Dylan Dog, oltre a fumare cannoni.
Stephen King comunque viene dal movement americano e se lo rivendica e ne ha pure scritto varie volte. In Cuori in Atlantide ha scritto una delle cose più struggenti sul riflusso negli USA e il destino di chi aveva scelto la lotta armata, scelta che King racconta senza demonizzarla. Dulcis in fundo, ha chiamato uno dei suoi figli (oggi scrittore anche lui) Joseph Hillström King :-)
E del resto “From a Buick 8” è ispirato a “From a Buick 6” di Dylan… E come sappiamo, la Buick 8 potrebbe anche essere la macchina mitologica.
I got this graveyard woman, you know she keeps my kid
But my soulful mama, you know she keeps me hid
She’s a junkyard angel and she always gives me bread
Well, if I go down dyin’, you know she bound to put a blanket on my bed.
Well, when the pipeline gets broken and I’m lost on the river bridge
I’m cracked up on the highway and on the water’s edge
She comes down the thruway ready to sew me up with thread
Well, if I go down dyin’, you know she bound to put a blanket on my bed.
Well, she don’t make me nervous, she don’t talk too much
She walks like Bo Diddley and she don’t need no crutch
She keeps this four-ten all loaded with lead
Well, if I go down dyin’, you know she bound to put a blanket on my bed.
Well, you know I need a steam shovel mama to keep away the dead
I need a dump truck mama to unload my head
She brings me everything and more, and just like I said
Well, if I go down dyin’, you know she bound to put a blanket on my bed.
https://yewtu.be/IEad5dt1C_g
Non vedo l’ora di comprare e leggere il libro (nonostante l’articolo-recensione). Deve essere bellissimo. E illuminante.
p.s. non aggiungerò parole in più solo per superare il limite. Non rassegnerò commenti a raffica perchè questo non lo ho ben ponderato (interessante tra l’altro che il sito mandi un messaggio automatico che suggerisce di pensarci proprio bene a quello che si sta scrivendo, che forse è troppo poco, forse perchè uno non ci ha pensato bene… come se uno non potesse dire qualcosa di ponderato su qualcosa che abbia una durata inferiore al minuto di comunicazione ‘vocale’. Qual è l’unità di misura? WhatsApp?)
Volevo solo: a) ringraziare per la segnalazione del volume, che si presenta come molto interessante; b) manifestare, ma senza infilarmi in dibattiti da bar sul web, le (tante) perplessità dell’articolo-recensione che lo ha presentato. Stop.
a) prego, ma di ringraziamenti così si può anche fare a meno.
b) se volevi «manifestare» le tue perplessità, sarebbe stato più serio farlo. Ah, ma no, ti saresti infilato in «dibattiti da bar».
Il 2022 è appena cominciato, ma questo se la gioca già come commento più idiota dell’anno. Contento te, contenti tutti (si fa per dire).
C’è da sperare di non vedertici più, qui al bar.
Forse alla fine mi sono un po’ persa, o forse è proprio che la scuola, per sua natura, non può restare argomento di riflessione/discussione senza aprirne altri, apparentemente fuori tema. Per tenere insieme un po’ tutto, ho provato a seguire le varie deviazioni tenendo al centro quelli che per me sono il motivo per cui tali riflessioni andrebbero fatte, ovvero i ragazzi e le ragazze. Non voglio sottolineare di nuovo che sono loro i grandi assenti, ma vorrei suggerire quanto sia ambiguo parlare di educazione partendo dai nostri ideali, o principi, o visioni, e non dai loro bisogni, desideri, sogni, proiezioni. Possiamo antropologicamente dibattere sul concetto di famiglia, ma forse il nostro punto di vista di adulti, che hanno potuto più o meno metabolizzare quella d’origine e più o meno formarsene un’altra, quando lo avessero desiderato, è un po’ distante dal vissuto di un minore non accompagnato, costretto a diventare autonomo in fretta e per forza, o da quello di un bambino cui la DAD ha reso concreto il sospetto che la sua non fosse l’unico tipo di famiglia possibile. Io credo che sarebbe importante ascoltarli e, ancor prima, interrogarsi insieme a loro su tutte le questioni attraversate nei commenti qui sopra. Mi sembra il solo modo per non vestire i panni degli adulti che questionano di temi che suonano lontani ai giovani, mentre invece li riguardano eccome; un modo per renderli potenti, immaginifici, critici. E per rendere migliori anche noi, che non dobbiamo rinunciare al nostro percorso e a ciò che ha prodotto in termini di consapevolezze e certezze, ma ricordarci, di tanto in tanto, che sono appunto il frutto delle strade scelte, incrociato o abbandonate e, come tali, più personali di quello che forse vorremmo.
@ Jamijla
La speranza, che non è vero che sia l’ultima a morire, spesso anzi è fra i primi caduti, è che vi siano molti insegnanti come te, che, per sintetizzare al massimo, comprendono che l’educatore non è colui che “mette dentro” ma colui che “tira fuori”. Solo tirando fuori il valore e dando la sicurezza giusta al suo portatore, cioè consapevolezza del valore senza che con ciò il valore si proietti sulla persona che lo tiene, è possibile formare persone libere di potersi dedicare al bene comune. Per il resto, gli adulti responsabili dovranno sempre in qualche modo preoccuparsi della scuola, perché per una comunità la scuola è occuparsi del proprio futuro, è una questione di sopravvivenza. Ma gli adulti non sono tutti educatori (non riescono ad esserlo, non possono esserlo). Pur con tutta la buona fede, proietteranno le proprie visioni nella scuola, e implicitamente proporranno un modello funzionale di scuola connesso a ciò che la propria esperienza ha indotto a considerare il meglio. Gli adulti-non-educatori non sanno che i giovani hanno dentro di sé tutto quello che è importante, e non sanno che educare i giovani è il modo migliore per non perdere quella brillantezza originaria che solo i giovani hanno. Calati nella loro esistenza, vedono solo il bene immediato e materiale, e quindi riducono la scuola ad anticamera del lavoro, riducendo l’educazione ad istruzione e addestramento.
Ma per fortuna ci sono colonne di insegnanti che non mollano.
Mi piace il tuo commento e la tua riflessione sul tenere conto del punto di vista e dei bisogni dei ragazzi senza filtrarli e modellarli troppo sulle aspettative e vissuti di noi adulti, genitori o meno.
(Mi viene in mente la poesia “I figli” di Gibran, il pezzo che dice “Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercare di renderli simili a voi”).
Credo però che una delle “diramazioni” del commenti, che ho seguito con interesse e con un certo timore reverenziale, sia: “che fare quando e se la scuola diventa uno strumento di trasmissione di uno e uno solo punto di vista, visione del mondo, sistema di credenze?”
Sia che sia quello del potere, o che invece sia quello di una minoranza chiusa e ristretta.
Credo che sia comunque meglio la scuola pubblica, anche se vettore del pensiero dominante, perché come spiegato da altri più competenti sopra è un formidabile mezzo di incrocio di vissuti ed esperienze fra alunni provenienti da mondi e visioni molto diverse, anche al di là delle intenzioni del programma ministeriale più reazionario e allineato.
Però (e scusate sarà la mia fissazione del momento) la piega presa oggi sulla gestione della pandemia e su strumenti come il GP mi fa lasciare la porta aperta come via di fuga anche alle scuole parentali.
Di cui riconosco i difetti e dubbi sollevati anche da WM1, ma che non mi sentirei di demonizzare tout court: cosa si doveva fare nei tempi passati quando un regime voleva asfaltare diversità e minoranze? (penso alle scuole parentali linguistiche di cui era parlato tempo fa altrove).
Nell’esempio della gestione pandemica (in scala ovviamente minore), quante sono le aule con un clima come quello descritto da tuco poco fa, e quante quelle con maestri e professori (specie nelle fasi iniziali della pandemia) ossessionati dal timore del contagio, con pesanti pregiudizi sui vaccini, etc.?
E sopratt. in futuro, che piega si prenderà?
30 anni fa, per quanto la scuola avesse difetti, per ogni professore reazionario o bigotto, ne trovavi 2 più aperti o proprio di sinistra o estrema sinistra. Almeno questa è stata la mia esperienza dalle elementari all’università.
Oggi, per es. quanti sono i professori che si dichiarerebbero apertamente contro il GP? (non è domanda retorica perché non so la risposta)
Quanti non che contestino il modello di sviluppo avuto finora, ma che non cadano nel tranello della perpetuazione dello stesso modello nel green new deal turbocapitalista?
Che deve fare la minoranza di una minoranza di una minoranza?
«[L’] educazione alla valutazione […] ogni nostro istante deve essere valutato, giudicato e monetizzato».
Compito fondamentale, competenza di ogni persona adulta, genitore o insegnante che sia, in particolare di chiunque lotti per la realizzazione di una società egalitaria, dovrebbe essere l’agire in modo da favorire il formarsi, nei bambini, di un processo interiore di valutazione che sia poi in grado di esercitare un’azione antagonista nei confronti di quella che bell hooks chiamava the voice of judgement.
«La cultura dominante dipende dalla voce giudicante che ti dice che anche se ce la stai facendo, perfino se hai successo, non sei sufficientemente brav*».
Credo che tutto ciò sia valido in doppia misura in una società cattolica, profondamente catechizzata, come quella italiana.
Un caro amico di Gloria Jean, Cornel West sostiene inoltre che in realtà soltanto i giovani dell’alta società beneficiano pienamente della cosiddetta educazione, mentre la classe operaia deve accontentarsi di affrontare esami, abituandosi ad essere giudicata in continuazione in base al metro stabilito dalla classe dominante, capitalista, imperialista, bianca ed eterocispatriarcale, sia in ambito scolastico che, in seguito, in quello professionale.
The upper class get educated whilst the working class get tested.
Sviluppare una specie di intima sovranità sulle/dalle forme esterne di valutazione e giudizio rappresenterebbe quindi una potente strategia di emancipazione dal dominio in generale e da quello capitalista/ultraliberale in particolare.
Buonasera, qualcuno avrà sentito la notizia della preside di Bogliasco, in provincia di Genova, che ha chiesto ai genitori degli alunni la disponibilità per coprire eventuali carenze di personale:
https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/01/17/troppi-docenti-assenti-a-bogliasco-la-preside-scrive-ai-genitori-occupate-voi-le-cattedre/6458768/
In realtà, come si può leggere nell’articolo, la preside stessa ha precisato che per ora la situazione non è così grave, dato che per qualche tempo potrà ancora attingere alle graduatorie. Intanto però il sasso e’ stato gettato nello stagno, diciamo così. Non si tratterebbe comunque di volontariato ma di prestazioni regolarmente retribuite, a norma di legge.
Verrebbero in mente però tante cose in proposito, tra cui il pensiero un po’ paradossale se non malizioso che alla fine, dopo tante critiche e allarmi sulle scuole “parentali”, soprattutto per la sicurezza, anche la scuola pubblica potrebbe diventare almeno parzialmente parentale, se la situazione non migliora…Ma si può prenderla anche come una manifestazione di resistenza al sistema della Didattica a Distanza a tutti i costi, o come un’estensione delle attività e dei costi di cui i genitori già si fanno carico da anni, o forse solo come una boutade per alleggerire un momento così pesante.
Non so, tutte le interpretazioni sono aperte.
Io lo interpreto che la gente sta sbarellando, tutti quanti. I dirigenti scolastici sono quelli che sbarellano più di tutti. Anzi no, quelli che sbarellano più di tutti sono i nostalgici del confinamento di massa che scrivono sui social. Subito dopo vengono i dirigenti scolastici. Poi tutti gli altri: il governo, gli anarco-cosi contro le piattaforme di riprogrammazione cellulare, i nerd esperti di mascherine, i filatelici neoirredentisti, i carabinieri, il Doctor Strange, la mamma del milite ignoto, i piloti dell’ aereo madre, il tizio che vuole costruire un’ovovia per collegare il porto vecchio al formaggino, quell’altro che vuole andare su Marte…
Ciao Tuco, la perdita di contatto con la realtà ormai non è una spiegazione, ma un presupposto di tutto quel che è successo e sta succedendo. Non è alla didattica e all’educazione delle persone che si pensa, in una parola al loro futuro, perché, per quante lauree abbia, che cosa può fare un genitore che si siede in cattedra per qualche giorno senza preparazione, se non il baby sitter di passaggio che permette agli altri genitori di andare al lavoro senza dover stare a casa a occuparsi dei bambini in Dad. Il messaggio di certe iniziative come quella di Bogliasco, alla fine, mi sembra solo questo.
Arrivati qui, sarà qualunquismo o disfattismo, ma in situazioni di carenza di personale tanto varrebbe che i ragazzi si facessero lezione da soli, aiutandosi l’un l’altro in una specie di autogestione da anni 70, senza autoriduzioni o altri estremismi si intende. Sarebbe paradossale pure questo, ma ricaverebbero almeno un’esperienza di vita e una consapevolezza non da poco.
Ogni tanto mi sforzo di mettermi al posto di questi ragazzi, di pensare che cosa avrei fatto al loro posto, in una società del genere, se tutto questo fosse accaduto quando eravamo giovani noi.
Non ci riesco. Non riesco a immaginare una giovinezza del genere chiamandola giovinezza.
Concordo.
Al netto dei commenti sulla notizia in sè, che si commenta da sola, la progressiva perdita di contatto con la realtà (“in quella narrazione fattasi egemone”, aggiungo io) è il problema di tutto da un sacco di tempo, almeno un paio di decenni.
È quasi una necessità della narrazione egemone: non basta sparare stronzate, bisogna occultare o “spinnare” diversamente, fino allo stravolgimento, i fatti con cui si contraddice.
Non per caso “Metaverso” is the word.
A questo proposito, mi è appena venuto in mente qualcosa che ho letto o sentito una decina di anni fa — ma non so dove: avrei giurato Giap, ma ho appena controllato con cura e non c’è.
Steve Jobs fu uno dei principali architetti del metaverso sia dal punto di vista ideologico che squisitamente strutturale (La Morgia scriveva, in un bel post dieci anni fa: “la triade Iphone/pod/pad proietta verso dimensioni di un sistema di relazioni sociali ed umane completamente diverso, ridisegna e ripensa strutturalmente il bisogno primario dell’uomo rispetto alla comunicazione e quindi alla sua socializzazione”, e oggi aggiungeremmo una bestemmia a chiosa).
La prematura dipartita del suddetto fu un cigno nero in miniatura, un lutto piuttosto particolare per il suo aprire uno squarcio in una narrazione — quasi un’escatologia implicita nella narrazione tecnocapitalista: intanto preoccupiamoci dell’innovazione, basta innovare più velocemente della morte stessa, come Achille e la tartaruga.
Per questo la morte di quel figuro fu più traumatica di quella di Mike Bongiorno o Gerry Ford, che non erano i messia immortali di una narrazione con una sua propria profezia/escatologia.
Non a caso da gente come Vendola, doverosamente sbertucciato nel post, arrivarono messaggi di cordoglio che nessun altro imprenditore/padrone avrebbe ricevuto.
Questo accadeva per una curiosa coincidenza nel periodo tra l’estinzione dei partiti comunisti in Italia e la cesura del 2011-2012, una prima “rinegoziazione” dell’escatologia delle varie salse di liberismo — e soprattutto blairismo — e l’inizio della mostruosità totale in cui siamo immersi, a cui si è permesso così di mangiarsi gli ultimi brandelli di Scuola, ridotta a centro di formazione professionale, grazie alle ingerenze padronali.
Ravviso dei paragoni, peraltro, con la situazione socio-politica corrente (da QAnon a varie forme di totalitarismo alla sperimentazione in Occidente), cosa che suggerirebbe una rilettura di Festinger-Riecken-Schachter per chi avesse tempo e voglia…
Di Steve Jobs si era parlato qua https://www.wumingfoundation.com/giap/2011/09/feticismo-della-merce-digitale-e-sfruttamento-nascosto-i-casi-amazon-e-apple/
Se dobbiamo andare tutti nei matti, io voglio almeno farlo con un certo stile. Per questo ho deciso che se venderò l’anima al diavolo, non lo farò nel metaverso. Ho già trovato il posto in cui si svolgerà l’immondo mercimonio. Percorrendo il sentiero tra Gropada e Orlek, circa a metà strada si arriva a un crocicchio, vicino a un tiglio immenso (tutto intorno è pieno di foibe, alcune veramente belle). Lì.
Early this morning
When you knocked upon my door
Early this morning
When you knocked upon my door
And I say, “Hello, Satan”
I believe, it’s time to go
La mia interpretazione (a prescindere dalla naturale osservazione che anche con più lauree non ci si può improvvisare insegnanti) è che il volontariato è lo specchio di un sistema malato. In questo caso, anche se si tratterebbe di occupazione retribuita, sarebbe comunque l’intervento di privati cittadini che corrono a mettere una pezza alle manchevolezze dello stato, incapace di assicurare quello che dovrebbe assicurare.
E anche questo episodio testimonia dello sfascio del sistema. Quindi, più che una manifestazione della resistenza alla DAD, la vedrei come “un’estensione delle attività e dei costi di cui i genitori già si fanno carico da anni”. Il problema è che ormai ci siamo abituati a portare la carta igienica a scuola, e lo consideriamo normale. Non vorrei che i nostri figli saranno abituati a trovare normale, domani, dedicare parte del loro tempo ad insegnare al posto dei docenti di professione.
PS Si tratta, ovviemente, di una boutade, però, sinceramente, queste comode provocazioni senza seguito cominciano a stancarmi. O si denuncia esplicitamente la stortura, assumensodene l’onere, o si rimane a lavorare in silenzio nel sistema per il sistema.
> Non vorrei che i nostri figli saranno abituati a trovare normale, domani, dedicare parte del loro tempo ad insegnare al posto dei docenti di professione.
Non voglio nemmeno pensare a “quello che i nostri figli saranno abituati”, altrimenti ci sarebbe da buttarsi preventivamente giù da una rupe.
La questione più interessante — al di là del “volontariato” e all'”ormaitanto-ismo” che nasconde, vedi recente post sul voltafaccia della sinistra bolognese circa l’ecomostro — è che si considera _già_ da tempo “normale” fare mille lavoretti, lavorini, cottimo e spesso ripetizioni (succedanei in qualche modo dell’insegnamento).
Conosco almeno una persona che, con una laurea in tasca, campa (male) di un mix di freelance nella “sua” professione, ripetizioni e bassa manovalanza a chiamata, ovviamente in totale precarietà e impossibilità di fare i benchè minimi piani.
È la flessibilità, bellezza (c’è una bella striscia di Zerocalcare a tal proposito).
Non escludo che qualcuno metta nel mix anche lavorare per le piattaforme, e molti ci mettono già pure le supplenze e i contratti di insegnamento annuali/part time, che vanno pure a danno degli studenti perchè, come detto, “non ci si improvvisa insegnanti” più di quanto ci si improvvisi psicologi.
In questo senso la novità sembra solo essere il titolo non oneroso a cui i “volontari” presterebbero la loro opera.
E proprio la scuola, aggiungo a me stesso, è il luogo che ha visto il più elevato livello di scollamento dalla realtà proprio laddove si dovrebbe, tra le altre cose, insegnare “ad accostarsi alla realtà” (sintetizzo così perchè se no servono tre pagine per sviscerare anche ad un livello minimo), sia pure tramite astrazioni, ma che sotto abbiano la realtà.
Si insegnano invece le merdate neoliberiste e l’HTML (fosse almeno l’informatica…), quando sarebbe ben più beneficiale imparare, letteralmente, a zappare la terra (giusto per capire che il cibo che mangiamo viene dalla terra e non da IlMercato e che facciamo parte di un sistema che blablabla, che pare una grillata ma è infine molto vero).
Segnalo invece una storia vecchia ma tornata in auge, visto che è dell’altroieri l’approvazion del DDL alla camera:
https://www.roars.it/online/invalsi-in-arrivo-i-test-per-valutare-empatia-grinta-e-auto-controllo-del-futuro-lavoratore-ideale/
> E’ in arrivo la misurazione standardizzata delle soft skills degli studenti italiani, “quella gamma di qualità personali, spesso descritte come dimensioni non accademiche e non cognitive dell’apprendimento. Categorie come auto-controllo, benessere, perseveranza, felicità, resilienza, mentalità aperta, grinta, intelligenza sociale, “carattere” e tutto ciò che deriva dalla fusione “psico economica” della psicologia positiva con l’economia comportamentale”. Per la nuova “scienza delle soft skills” i “tratti” del carattere degli studenti sono veri e propri indicatori econometrici, da quantificare e ottimizzare fin dalla prima infanzia, perché determinanti del benessere prima individuale e poi sociale.
Vorrei far notare la prossimità ideologica alle arcinote categorie PensieroPositivo e StareBene!
EDIT: @tuco: Robert Johnson invece, PensieroPositivo un cazzo. Un colosso ancora non abbastanza (!) apprezzato a mio avviso, un dono della sintesi e dell’implicito con pochi pari.
Eccoci arrivati all’assurdo.
https://ilmanifesto.it/a-odessa-torna-la-scuola-a-distanza-e-la-voglia-di-normalita
“Ogni giorno si vede più gente in strada ed è stata riaperta una porzione del centro storico. Le amministrazioni locali cercano di coniugare controlli, reclutamento e produttività
[…]
«Ma come fai a tenere i tuoi figli tranquilli dentro casa?» chiedo a Mikhailo, mentre fumiamo una sigaretta durante la sua pausa dal lavoro. «Da oggi hanno ricominciato a seguire le lezioni scolastiche, per fortuna». «Ma come, con la guerra?» chiedo. «E cosa devono fare? La vita deve pur continuare, no? Dopo tutto io sto lavorando, la madre non si ferma un attimo al centro per i volontari e loro restavano in casa tutto il giorno senza far niente. Usano… come si chiama… Zoom, lo conosci?».
[…]
L’ha detto anche il presidente Zelensky, «chiunque non è impegnato nella difesa armata dell’Ucraina deve pensare a mandare avanti l’economia», in altri termini a lavorare, a produrre, a spendere. E le amministrazioni locali si stanno organizzando di conseguenza cercando di trovare un sistema per coniugare i controlli, il reclutamento e la produttività.”
La parte realmente inquietante (e correttamente prevista qui) è l’emergere di una continuità sinistra tra un letteralmente teatro di guerra e la “normalità” (una normalità sfigurata e disarticolata, in particolare come delineata da Draghi e draghetti, vedi: https://ilmanifesto.it/dal-primo-aprile-si-torna-alla-normalita-lincognita-scuola), a colpi di soluzionismo, di prodotti delle multinazionali tecnologiche e di Economia Che Deve Girare, al punto che non si capisce più cosa preluda a cosa.
P.s.: Congratulazioni per lo Stellfox Award ai padroni di casa.
La DAD è nata durante la pandemia, che è sempre stata descritta, almeno in Italia, come una guerra, con annessi morti, feriti, mobilitazioni ed eroismi. E a Odessa, probabilmente, si cerca di esorcizzare la paura tramite un ritorno alla normalità, tanto più se la normalità viene mediata da una piattaforma informatica prodotta da quell’occidente del quale tutta la nazione aspira a far parte.
E concordo perfettamente quando scrivi che “non si capisce più cosa preluda a cosa”. La DAD (e su Giap, come si ricorderà, è stato detto fini dall’inizio) è un tentativo di istituzionalizzare l’anomalia, la anormalità, per cui, creato il precedente, quando la situazione atipica si presenta, non c’è più bisogno di adoperarsi per riparare il guasto, basta aggirarlo, lo strumento adatto non solo è già pronto e collaudato, ma è stato assimilato. Per cui è l’eccezione che prelude alla DAD o è la DAD che prepara l’eccezione (o meglio, la normalizzazione dell’eccezione)? È il mondo dimentico del suo passato che ha preparato la guerra, o è la guerra che riporta il mondo ad un passato che pensavamo sepolto?
E se per un attimo fosse consentito (e non lo è) astrarsi dai profughi, dalle devastazioni e dalle violenze, si potrebbe legittimamente fare il parallelismo tra una pandemia che ha ridisegnato i paradigmi della vita sociale, e una realtà di guerra che vuole ridisegnare i termini di convivenza fra le genti europee. Singolare il fatto che in entrambi i casi non riusciamo a trovare niente di meglio di una piattaforma tecnologica per sognare il ritorno alla normalità.
PS Mi associo ai complimenti ai tenutari, che nel ’99 si ubriacavano, seppure in incognito, con i cioccolatini strega ad uno scialbo ceffè letterario torinese, e oggi varcano ancora ua volta l’oceano.