Ancora a proposito della mostra romana «Tolkien: uomo, professore, autore», voluta dal ministro Sangiuliano e inaugurata lo scorso 15 novembre alla Galleria Nazionale, in questi giorni tocca sorbirsi il coro di lamentazioni perché in Italia si ricade sempre nelle stesse diatribe rispetto alla collocazione culturale di questo autore. E allora giù con il refrain «Tolkien è di tutti, non può essere rivendicato né da destra né da sinistra», eccetera eccetera.
Ma se si deve ribadire una cosa che parrebbe ovvia, quasi lapalissiana – e cioè che l’opera letteraria di un autore può essere apprezzata da angolazioni diverse, per motivi differenti, a seconda di chi la legge – è perché in questo caso ovvia non è. Nessun altro autore del Novecento oggi sarebbe costretto a subire un dibattito del genere. E allora forse, invece di lamentarsi, bisognerebbe arrendersi all’evidenza: Tolkien fa eccezione, in effetti. Questo perché la letteratura non vive in una dimensione astorica, è sempre calata in un contesto, e si sa qual è stata la storia editoriale e “politica” di Tolkien in Italia: da fornitore suo malgrado di un’ispirazione letteraria per la destra neofascista degli anni Settanta, a fornitore di “valori universali” per Fratelli d’Italia, affinché possano ancora raccontarsi di non essere completamente sottomessi al realismo capitalista.
Nemmeno un intellettuale di destra come Franco Cardini lesina sulle parole per dire che i meloniani invocano Tolkien come paravento del proprio essere tutt’altra cosa e da tutt’altra parte. Altro che difesa della natura, comunitarismo e radici della tradizione europea… Casomai neoliberismo e atlantismo.
La mostra romana è parte di questa autonarrazione farlocca, non già per i suoi contenuti, ma per le parole che Sangiuliano sta spendendo da settimane, e per il fatto di essere stata voluta, organizzata e curata da una specifica parte politica oggi al governo in Italia.
Prova del nove. Come abbiamo già fatto notare, nessuna delle tre grandi mostre su Tolkien tenutesi a Oxford, Parigi e New York negli anni scorsi è mai stata spinta e inaugurata da un primo ministro e da altri ministri e sottosegretari dello stesso governo, più vari esponenti del Parlamento, tutti appartenenti allo stesso partito; tantomeno ha visto scrivere nel proprio catalogo personaggi con un passato nella destra neofascista. Questo perché, appunto, la narrativa è sempre calata in un contesto, e il contesto italiano non è quello di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Il dato oggettivo e storico ci si dipana davanti agli occhi in questi giorni. E allora ecco non solo le lamentationes, ma anche le excusationes non petitae, e perfino un’indiretta presa di distanze di uno dei contributori dalle posizioni espresse da Sangiuliano. Se il ministro della cultura ha fortemente rivendicato il conservatorismo di Tolkien, il professore italiano con cattedra a Oxford e redattore del Journal of Inklings Studies che ha portato in dote alla mostra il bollino dell’accademia inglese ha sostenuto che Tolkien non era un conservatore, o almeno che non lo era nel senso che si potrebbe intendere… (cioè che intende Sangiuliano?).
Quando si ha una carriera accademica Oltremanica è comprensibile sentirsi un po’ stretti nell’attuale cornice “ministeriale” e governativa, anche perché nel caso in questione non si tratta di un personaggio con un background post-fascista, bensì di Comunione e Liberazione. Dopo gli articoli sul Times e sul Guardian (poi seguiti da altri quotidiani europei e statunitensi) che puntavano l’indice sulla cornice politica della mostra, inserendola nelle strategie di appropriazione culturale del governo Meloni, è stata necessaria quantomeno una blanda presa di distanze.
Se si guarda da vicino chi ha messo in piedi la mostra si ottiene più di qualche indizio: un ministro formatosi politicamente nelle file della destra neo e post-fascista; un imprenditore manager di mostre-evento buono per tutti i governi, che può fregiarsi del titolo di Commendatore al merito della Repubblica; un collezionista di libri tolkieniani, pure lui con trascorsi politici nella destra post-fascista e attualmente assessore in una giunta multicolore (non nel senso di arcobaleno, eh, ma di calderone destra-centro-sinistra), che ci mette la collezione, appunto, e che si fregia di essere membro della Tolkien Society britannica. Per chi fosse interessato, questo è il link al modulo d’iscrizione, costa 35 sterline all’anno.
Segue la partecipazione attiva – vedi catalogo – del professore ciellino già menzionato; di una professoressa emerita presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa; un frate campione di letture spirituali e confessionali dell’opera di Tolkien; un giornalista monarchico; uno dei padri della fondazione intitolata al pensatore razzista e antisemita Julius Evola; il fondatore di una casa editrice di ultradestra; un giurista, consigliere del ministro dell’Università; l’autore di un libro su Tolkien e la Tradizione (maiuscola d’obbligo); una musicologa e teologa autrice di un libro su Tolkien e la teologia. Ai quali si aggiunge un drappello più sparigliato, per così dire. Per la tematica linguistica: un dipendente della TIM (absit iniuria) dedito allo studio delle lingue elfiche; per le arti visive e i giochi: un collezionista di illustrazioni tolkieniane e curatore di un museo privato su Tolkien in Svizzera; una storica dell’arte indipendente; il presidente della Roma Film Academy; un fumettista e due inventori di giochi da tavolo a tema Terra di Mezzo.
Valore e prestigio dei singoli membri della squadra sono estremamente variabili, ma è del tutto evidente che la composizione non è particolarmente eterogenea, per usare un eufemismo, e che questa è stata selezionata, nella sua gran parte, in base a precisi orientamenti politico-culturali o religiosi. Legittimamente, per altro, dato che l’idea della mostra l’ha avuta Sangiuliano, i duecentocinquantamila euro ce li ha messi lui – non di tasca sua, in realtà di tasca nostra, ma sua è la decisione – e ha coinvolto chi voleva lui. Ci mancherebbe altro. Basterebbe soltanto essere meno ipocriti e non fingere un’imparzialità che su Tolkien non c’è mai stata in Italia e non c’è nemmeno stavolta, risparmiandoci l’italianissimo chiagni e fotti.
È altrettanto evidente che il confronto con il catalogo della mostra di Oxford del 2018 (pubblicato in Italia da Mondadori) è a dir poco impietoso. Lì ci scriveva il Gotha degli studi tolkieniani internazionali, mentre in quello della mostra romana, ehm… no. Ma anche senza nomi di levatura internazionale, si sarebbero almeno potuti coinvolgere alcuni pionieri degli studi tolkieniani nell’università italiana, come Piero Boitani, Carlo Pagetti, Oriana Palusci, Maria Elena Ruggerini, o gli autori di importanti saggi seminali già nei primi anni Ottanta, come Alessandro Portelli ed Emilia Lodigiani. Certo, non è detto che avrebbero accettato, considerando il taglio collezionistico-dilettantistico della mostra (vedi oltre) e la maldestra operazione politico-comunicativa che rappresenta. Invece alcuni di questi sono stati invitati dal summenzionato prof. italo-oxoniense a un convegno su Tolkien che si è tenuto a Milano due giorni prima dell’inaugurazione della mostra (ché ci vuole un colpo anche alla botte per poter nicodemiticamente rivendicare ecumenismo ed equidistanza). Un appuntamento che in una trasmissione su RadioRai3 il prof ha presentato come «l’unico convegno in cui si è letto Tolkien da un punto di vista scientifico-accademico». Seguono risate… Di convegni accademici su Tolkien in Italia ce ne sono stati almeno sei o sette negli ultimi dieci anni, in almeno cinque atenei diversi, ma evidentemente il prof era distratto, all’estero.
Detto questo, se si ripercorrono i nomi del dream team di Sangiuliano, c’è un’assenza che salta agli occhi. Quella di un allestitore.
Escludendo il supermanager degli eventi pubblici-privati, che a rigor di logica sembrerebbe doversi occupare dell’impianto generale della mostra, nel gruppo non compare un/a professionista del settore, un soggetto che sappia come selezionare e allestire una mostra e darle un senso.
Forse solo così si spiega quanto scrive Alessia de Antoniis in un articolo intitolato «I pericoli dell’ingerenza politica sugli intellettuali della storia: il caso della mostra di Tolkien a Roma», sul sito Exibart. È un articolo scritto da una persona che una mostra su Tolkien l’avrebbe voluta, ma fatta bene, ed è rimasta delusa dalla pochezza che ha trovato. De Antoniis afferma che, a discapito del titolo, nella mostra «non vi è traccia né dell’uomo né del professore» e che
«quella che occupa indegnamente alcune sale della Gnam sarebbe una bellissima mostra se fosse l’esposizione di fine anno di una scuola d’arte. Con tutte le opere che potremmo esporre in una sede di tale prestigio non si comprende come si possano sprecare risorse per una raccolta di libri, locandine di film e oggetti vari, spiegati male e con una indecifrata strategia espositiva».
E ancora:
«Ci si domanda dove questa mostra faccia un salto di qualità: al piano terra una sala con locandine di film della saga, qualche abito su manichini, un flipper a tema, giochi da tavolo, modellini, un Hobbit. Interessante la collezione di libri in bella mostra in teche cielo terra. Al piano superiore, una sala di “disegni della Terra di mezzo” realizzati in anni vari senza nessuna indicazione sul criterio di scelta, né sull’uso che era stato previsto. E ancora libri. […] una mostra morta che, vista la materia e le tecnologie a disposizione ormai usate in ogni mostra, ha perso la grande occasione di essere una mostra immersiva, risultando noiosa e senza un filo conduttore. Poteva essere una mostra anche multimediale e, vista tutta la tradizione di giochi di ruolo che traggono spunto dalle opere di Tolkien, persino collaborativa, partecipativa, sperimentale».
E conclude con un giudizio tombale:
«Tolkien è stato scrittore, filologo, linguista, docente universitario anche a Oxford. Ha creato lingue artificiali. Era un appassionato di letteratura fantastica e di mitologia nordica. Le sue storie narrano un mondo immaginario, popolato da umani, elfi, nani, hobbit e altre creature fantastiche. Tolkien è uno dei padri della letteratura fantasy moderna e uno dei maggiori scrittori del XX secolo. Le sue opere hanno ispirato film, giochi di ruolo, cartoni animati. Con un simile patrimonio, non si riusciva a costruire niente di meglio di una sfilza di teche con libri inanimati e disegni messi in fila alle pareti? Oggi che le mostre di maggior successo, che richiamano adulti, bambini e ragazzi, che avvicinano le nuove generazioni alla cultura, sono quelle che catapultano il visitatore nel mondo virtuale, siamo riusciti a sprecare tanto materiale per nulla? L’inaugurazione è stata una bellissima recita di Natale ricca di figure istituzionali in gran lustro. Tra tanti, purtroppo, un grande assente: J.R.R. Tolkien, la sua grandissima arte, i suoi potenti maghi, le sue straordinarie figure mitologiche e tutto il suo mondo popolato di figure magiche. Manca, in questa mostra, il senso dell’avventura, l’interesse di Tolkien per la storia medievale, per i miti, le leggende. Manca la genialità e l’originalità di un autore immenso che ha ispirato generazioni di artisti e di lettori. Manca la vita che è in ogni singola pagina che lui ha scritto e che i curatori di questa mostra non sono stati in grado di far rivivere nonostante tutta la tecnologia che abbiamo oggi a disposizione. Una grande occasione persa per far rivivere Tolkien, che qui giace sommerso dalla polvere di una cultura vuota e stantia».
Diverso, ma non meno critico, è il contributo inviatoci da R., che invece non è una cultrice di Tolkien, ma in compenso sembra avere una certa cognizione di causa della realtà museale romana. Lo riportiamo qui di seguito:
La mostra su Tolkien: ovvero la musealizzazione di Pino Insegno
Siamo stati alla mostra romana su Tolkien durante e dopo l’inaugurazione.
A margine del dibattito mediatico pensiamo sia opportuno spostare l’attenzione dall’autore – e dalla sua influenza su alcune aree della politica italiana – alla mostra a lui dedicata.
L’esposizione è ospitata in un settore della Galleria Nazionale di solito deputato alle mostre temporanee di grande richiamo (la precedente era Picasso metamorfico, opere grafiche provenienti dalla casa natale di Malaga) e di interesse storico-artistico. A parte questa zona del museo, una sala abitualmente destinata alla collezione permanente è stata disallestita per permettere la collocazione di una grande statua di Bilbo Baggins, un flipper e un’installazione video con Pino Insegno che legge Il Signore degli Anelli.
E veniamo allo specifico estetico, che è politico in altro modo. A chi si ostina a sterilizzare la discussione intestando a destra o a sinistra uno scrittore morto cinquant’anni fa, vorremmo evidenziare che in un museo come la Galleria Nazionale non dovrebbero coesistere Lucio Fontana e l’installazione video con Pino Insegno, Jackson Pollock e la statua di Bilbo Baggins. Di fronte alla sala con un grande Concetto spaziale di Fontana c’è una tenda – velo pietoso? – che separa un capolavoro dell’arte e della filosofia del Novecento da una statua che sfigurerebbe anche nel giardino di un asilo.
La questione non è Tolkien autore, ma quest’idea di mostra con nani, flipper e multiproiezioni in una sede istituzionale che dovrebbe promuovere le arti visive in ogni loro manifestazione senza sconfinare nel trash.
Il pubblico della mostra non è quello abituale del museo: le persone che ascoltano in cuffia Pino Insegno e si aggirano fra la riproduzione dello studio di Tolkien e i quadretti imbarazzanti che non si vedevano dai tempi delle aste notturne delle reti locali, poi ridono davanti all’orinatoio di Duchamp, guardano perplessi i Bachi da setola di Pino Pascali, e si avviano rapidamente al bookshop – senza fermarsi a guardare Burri o Klimt – per acquistare gadget o edizioni speciali della saga.
Un’operazione di questo tipo non giova né al museo né, in generale, alla cultura. Il richiamo del marketing della mostra non porta visitatori non abituali a interessarsi anche alla Transavanguardia o alla scuola di Piazza del Popolo: si tratta di un pubblico occasionale, da evento superpubblicizzato, che fa passare in secondo piano l’offerta culturale dell’istituzione.
Proporre la mostra in un museo nazionale di questo rilievo rappresenta per il ministro Sangiuliano e per la sua parte politica non solo un tributo alla passione giovanile di Giorgia Meloni, ma soprattutto un modo per diffondere e istituzionalizzare (nazionalizzare) un modello sottoculturale che è l’unico che conoscono: la baracconata immersiva, popolare in senso di allineamento al cattivo gusto post-televisivo, che al massimo avrebbero potuto proporre a Palazzo Bonaparte o al Chiostro del Bramante.
E veniamo all’aspetto della comunicazione, perché tanta mediocrità tuttavia è un capolavoro di marketing: probabilmente la metà del budget (250.000 euro, si dice) è stata impiegata nella gigantesca campagna pubblicitaria – manifesti ovunque e giornalisti di ogni testata che ne hanno scritto.
La mostra è stata voluta fortemente e realizzata con la supervisione del ministro Sangiuliano in un luogo che, da otto anni, ha uno statuto di autonomia amministrativa e scientifica.
Questa vicenda è la dimostrazione di come l’accentramento, abbattuto da Franceschini con un decreto ad hoc che ha polverizzato anche le Soprintendenze, all’occorrenza si possa recuperare per occupare ideologicamente un museo a cui Palma Bucarelli aveva dato una forte fisionomia antifascista.
⁂
Casomai ci fosse rimasto un barlume di curiosità per la mostra, questi pareri ce l’hanno spento del tutto. Del resto, nemmeno le parole di conoscenti romani che l’hanno visitata sono più incoraggianti. Si va dal più positivo: «non è poi così male, ma non vale un viaggio a Roma», all’intermedio: «un cumulo di oggetti targati Tolkien», fino al più lapidario e sintetico: «una poracciata». Costata un quarto di milione di euro, però. En passant, qualcuno ci ha fatto notare che «la tavola con il diagramma ad albero delle lingue di Arda contiene diversi errori». Pure.
A posto così.
Decisamente meglio restare a leggere, compulsare, tradurre. Ché la letteratura sta nei libri, non nelle baracconate di stato. Anche perché le mostre passano, i libri restano.