Fantasie di complotto sul clima. Un’inchiesta di Wu Ming 1 su Internazionale, prima puntata

Fantasie di complotto sul clima. Diaporama delle conferenze tenute da WM1 a Bruxelles e a Parigi, rispettivamente l'1 e il 4 dicembre 2023.

Diaporama delle conferenze tenute da WM1 a Bruxelles e a Parigi, rispettivamente l’1 e il 4 dicembre 2023.

[WM1:] Su Internazionale, edizione on line, è disponibile la prima parte di una mia inchiesta intitolata «Perché dobbiamo prendere sul serio le fantasie di complotto sul clima».

Su quest’argomento ho tenuto due conferenze in Belgio e Francia pochi giorni fa: la prima l’1 dicembre all’università Saint-Louis di Bruxelles; la seconda il 4 dicembre all’università Paris 8 Vincennes–Saint-Denis.

Dai materiali preparatori ho tratto anche l’inchiesta per Internazionale, divisa in due puntate. È un ulteriore sviluppo del lavoro portato avanti negli ultimi anni e sfociato nel libro La Q di Qomplotto.

La prima puntata prende le mosse da una storia circolata durante le alluvioni in Emilia-Romagna del maggio 2023: quella dell’«aereo di Red Ronnie».

Partendo dal singolo episodio, identifico un insieme di fantasie di complotto sul clima che definisco «di seconda generazione».

Diverse dal cosiddetto «negazionismo», queste narrazioni si formano intorno a importanti nuclei di verità, come l’uso militare di tecniche di cloud seeding, l’impatto climalterante del traffico aereo e i pericoli della geoingegneria solare.

Fantasie di complotto sul clima: un riquadro del diaporama

Fantasie di complotto sul clima: un riquadro del diaporama.

A proposito dei «nuclei di verità»

Il termine «verità», già appesantito da secoli di speculazioni filosofiche, deve ancora riprendersi dopo decenni di linguistic turn e sbornia decostruzionista. Per questo l’espressione «nuclei di verità» fa inarcare sopracciglia. Approfitto di questo spazio per una precisazione.

Non è una mera questione di fatti e di oggettività. La verità dei nuclei di verità è ovviamente relativa, situata. I nuclei di verità sono elementi che noi anticapitalisti possiamo riconoscere come parte della nostra esperienza e visione del mondo. Partendo da tali elementi, possiamo stabilire un contatto con chi crede a fantasie di complotto e cercare un terreno comune, senza ratiosuprematismo, senza complesso di superiorità, senza pensare di cavarcela, come fanno i debunker, forando palloncini.

Se l’espressione non piace si può sostituire con: «premesse che noi anticapitalisti accettiamo come altamente plausibili, in base alle quali possiamo relazionarci con chi crede a fantasie di complotto».

Io trovo più comodo chiamarli nuclei di verità.

Quando dico che dobbiamo confrontarci con queste persone, non mi riferisco ai mestatori e venditori di complotti a tempo pieno. Non è con gli influenzatori che dobbiamo parlare, ma con le persone incazzate e angosciate, umiliate e schiacciate dallo stato delle cose, che sentono sulla pelle quanto questo sistema sia truccato e distruttivo, e in certe fantasie di complotto pensano di trovare le spiegazioni di cui hanno bisogno.

Buona lettura.

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37 commenti su “Fantasie di complotto sul clima. Un’inchiesta di Wu Ming 1 su Internazionale, prima puntata

  1. Se posso permettermi uma critica (costruttiva): il livello dell’intervento é alto (come accade spesso), il link alla puntata di report lo abbassa. La transizione green capitalista dobbiamo criticarla perché, appunto, é capitalista e, in quanto tale, non é possibile preservare il pianeta dentro la logica dello sfruttamento (sulla natura e sull’essere umano). Detto in altre parole: non serve (a molto) avere la macchina elettrica o i pannelli fotovoltaici se il sistema continua con la stessa logica.
    Ma invece di inquadrare il problema cosí, la puntata di report é un pastrocchio che mischia varie cose (l’incidente che é costato la vita alla professoressa e allo studente a Napoli, le terribili condizioni – umane e ambientali – di produzione del nickel in Indonesia, le conseguenze della fabbrica Tesla in Germania, la giusta critica “di classe” alle ZTL) imputandole tutte alla transizione all’auto elettrica. Oltre ad essere un errore di impostazione generale (i capitalisti fanno cose schifose *qualunque sia* l’oggetto che fanno produrrre ai propri lavoratori; qualsiasi attivitá estrattiva, sotto il capitalismo e senza una forte lotta, é una attivitá distruttiva per l’ambiente e per gli esseri umani) é anche una sequenza di errori fattuali: per esempio, il 90% del nickel estratto in Indonesia serve all’industria metallurgica dell’acciaio, non per le batterie; ancora, il titanio che si vuole estrarre in Liguria ha poco o niente a che fare con la produzione delle batterie.

    • Stavo per rispondere: «Non hai tutti i torti», poi mi sono ricordato della massima di Martin Zanka: «La litote è la figura retorica dei paraculi», e allora ti rispondo che hai molte ragioni.

      Ho linkato l’inchiesta di Report en passant e a titolo informativo, senza esprimere giudizi perché in quel breve inciso non ci stavano e comunque ero impegnato in un’argomentazione più generale. I giudizi li esprimo qui: l’inchiesta purtroppo risulta sfilacciata, mette insieme troppe cose e i “riassuntini” di Ranucci tra una sequenza e l’altra sfilacciano ancora di più invece che unire. Di sicuro io avrei lasciato fuori tutta la vicenda dell’auto esplosa a Napoli, che è all’inizio ma è fuori fuoco rispetto alla tesi che ancora deve emergere, perciò risulta fuorviante, è anche molto lunga e soprattutto, come spessissimo fa Report, è virata in chiave di “legalità”, che è nella migliore delle ipotesi una contraddizione secondaria. Sì, la storia di quella sperimentazione raffazzonata è attaccata alla questione ZTL, ma con lo sputo.

      Il resto, però, al netto dei salti di palo in frasca e delle eventuali imprecisioni che dici (ne ha scritto qualcuno? hai fonti da indicare?), è comunque la rassegna di «costi esterni» dell’industria dell’auto elettrica finora più accessibile – e molto probabilmente la più vista – almeno in Italia.
      Quante spettatrici e spettatori sapevano che la filiera dell’auto elettrica è così sporca e implica il rafforzamento di rapporti neocoloniali, attraverso la creazione di nuovi “territori di scarto” in cui riversare le deiezioni della nostra coscienza green?
      Quante spettatrici e spettatori erano state esposte prima a un esempio di tracotanza muskiana tanto chiaro quanto quello che si vede qui (la risposta sprezzante e sghignazzante che Musk dà a una domanda sullo sperpero di risorse idriche da parte di Tesla nella regione tedesca in cui ha insediato la propria megafabbrica)?

      Ho sentito dire che dalla puntata sono rimaste fuori alcune parti, una ad esempio sul particolato. Ormai è noto, anche se non al pubblico più vasto, che la gran parte delle polveri sottili sparse dalle auto è dovuta non alla combustione ma all’usura degli pneumatici e dei freni. Anche l’auto elettrica ha freni e pneumatici che si usurano, ergo non solo la sua filiera ha «costi esterni» enormi, ma non risolve nemmeno il problema della qualità dell’aria nelle nostre città! A essere truffaldina è proprio l’idea che per risolvere i problemi causati dalle auto basti cambiare il parco auto et voilà, potremo continuare come prima, incentivando gli spostamenti privati su gomma. Soluzionismo tecnologico, appunto.

      Se la parte sulle polveri sottili fosse rimasta dentro l’inchiesta, il quadro sarebbe stato molto più chiaro. Ma anche così, secondo me, qualche pulce nell’orecchio viene messa, e a qualcuno potrebbe venire la voglia di approfondire, e magari troverà inchieste fatte anche meglio ma che se approcciate per prime sarebbero state di più difficile fruizione, mentre con alcune delle “basi” acquisite guardando Report risulteranno più accessibili.

      • Grazie per la messa a fuoco del problema!
        Non sono sicurissimo che la gran parte delle polveri sottili sia dovuta a pneumatici + freni (en passant, le pastiglie dei freni sull’elettrico si usano molto meno, visto che si usa in prevalenza il freno a motore rigenerativo), ma sono d’accordissimo con l’idea che l’auto elettrica, calata in un mondo che funziona nella logica capitalista, non sia la soluzione del problema (nessuna soluzione “tecnica” lo sará!).
        Per le fonti, (una critica diretta ad alcune inesattezze della puntata di report in questione), ci sarebbe un post di Nicola Armaroli su Feisbuc (non so come linkarlo ;-))

        • Questo vizio di scrivere le cose su Facebook, dove passano e vanno, e non sono quasi mai ricercabili coi motori di ricerca, e non sono linkabili su Giap… :-)

          Quest’articolo uscito l’anno scorso sul Guardian contiene link a vari studi sul rapporto tra usura degli pneumatici e particolato. Se i calcoli sono giusti, effettivamente il divario tra le polveri sottili che hanno quest’origine e le polveri che escono dai tubi di scappamento (quelli di oggi, non quelli di auto vecchie) appare enorme.

          Si fa anche notare che l’usura degli pneumatici produce quantità immani di microplastiche. Del resto, quando vediamo che la nostra auto – io non guido più da anni, è una prima persona plurale ipotetica – ha le gomme consumate, ce lo chiediamo mai dove sia andata a finire la parte che manca?

          • Il Guardian è tornato sul tema anche all’inizio di quest’anno.

            «Small particles separate from tyres as cars travel, become airborne and can be inhaled deep into the lungs. Air pollution causes 26,000 to 38,000 early deaths a year in England and particle pollution has been linked to a wide range of diseases. Larger particles of tyre wear are washed or blown into rivers and seas and are a significant component of the plastic pollution that has contaminated both people’s bodies and the planet, from the summit of Mount Everest to the deepest oceans.

            The Imperial College London report says 6m tonnes of tyre wear particles are released globally each year. In London alone, it says, 2.6m vehicles emit about 9,000 tonnes of particles annually.

            The particles may contain toxic chemicals including polyaromatic hydrocarbons and benzothiazoles, and heavy metals such as zinc and lead, the scientists said. But research on tyre wear and its effects had been neglected compared with work on fuel emissions, they said.»

            • Ci sono anche varie ricerche sull’inquinamento delle acque causato dalla polvere dei copertoni. Ad esempio qua:

              https://e360.yale.edu/digest/epa-tire-chemical-salmon-6ppd

              Qualche mese fa avevo letto (credo sul Guardian) una notizia simile su un fiume inglese ma ora non riesco a ritrovarla.

              In ogni caso i copertoni sono un prodotto della lavorazione del petrolio, quindi necessitano di tutto l’apparato chimico industriale legato ad esso: estrazione, trasporto, raffinerie ecc.. Le macchine elettriche inoltre pesano più di quelle a combustione, quindi producono più polvere di copertone. Invece i freni sono la vera figata, perché l’energia della decelerazione invece di disperdersi sotto forma di calore viene utilizzata per ricaricare la batteria.

              Il problema è che non se ne esce se non si cambia modello di sviluppo (e non è *solo* questione di capitalismo: anche l’economia socialista pianificata faceva disastri ambientali, si veda il prosciugamento del lago d’Aral). Insomma, dentro il capitalismo non è possibile risolvere la crisi climatica, ma uscire dal capitalismo non è di per sè sufficiente, se non si cambiano le priorità e si va avanti con l’estrattivismo, letteralmente come se non ci fosse un domani.

              • Semi-OT. Come ben sai, secondo diverse interpretazioni marxiste l’«economia socialista pianificata» dell’URSS era in realtà capitalismo di stato, in base al fatto che il capitalismo non si identifica unicamente con la proprietà privata dei mezzi di produzione – quella esisteva anche in modi di produzione precedenti – ma soprattutto con l’estrazione di plusvalore e lo scambio denaro-merce-denaro che alla fine del ciclo produce un aumento del capitale iniziale. Questo, ad esempio secondo la Sinistra comunista, non è toccato dalla statalizzazione (infatti anche gli stati borghesi all’epoca statalizzarono diversi settori delle loro economie, e nondimeno le aziende di quei settori continuavano a funzionare in modo capitalistico). Ciò comportava che anche in URSS la forza-lavoro – sfruttatissima, anche se lo sfruttamento era nascosto da cortine fumogene di ideologia, il Lavoro come missione eroica ecc. – fosse retribuita in misura inferiore rispetto al valore del tempo-lavoro impiegato, perché anche se l’azienda era statalizzata i beni andavano sul mercato e c’era da realizzare un utile. Ergo persisteva comunque un’estrazione di plusvalore, ergo c’era profitto, era di secondaria importanza che quel profitto andasse allo stato (comunque con una grossa cresta da parte dei membri della casta burocratica a ogni passaggio dall’azienda verso l’alto). L’ho tagliata con l’accetta, intendiamoci. Secondo questa lettura, in URSS sussistevano anche lo sperpero e la distruzione di forze produttive, naturali e umane dovuti all’«anarchia» del funzionamento del mercato. In quel caso il prosciugamento del lago d’Aral e altri disastri ambientali in nome dello sviluppo sarebbero esempi di tale distruzione. Dopodiché, secondo alcuni la casta burocratica era una vera e propria classe sociale e dunque classe dominante, così la pensava Castoriadis, che parlava di «capitalismo burocratico di stato». Secondo Bordiga invece no, non era una classe, ma qui le cose si fanno più intricate, e purtroppo nei dibattiti su tutto questo è sempre abbondata la lana caprina, soprattutto in ambito trotskista. Non so nemmeno se al momento abbia qualche utilità riprenderli.

  2. Due osservazioni:
    1) Ritengo fuorviante il confronto fra termico e elettrico. Non c’è tanta diferenza. Gli oggetti, tutti quelli che compongono il nostro ambiente costruito, sono merci. Sono pensati, progettati, costruiti e venduti a noi consumatori in funzione del solo valore di scambio. Se il valore d’uso è marginale o inesistente, ancora meglio. Nessun metaprogetto che non rientra nella logica del ROI ha mai visto a luce. Sono designer, art director e pubblicitario, credo di sapere di cosa parlo. Avevo ingenuamente immaginato che posizionarsi all’origine degli oggetti potesse interferire e modificare il modello di sviluppo. Mi sono sbagliato, e di grosso. Anzi, il meccanismo si è sempre più perfezionato e si è esteso alla modellazione dei consumatori. Il mercato crea e modella il suo ambiente per meglio prosperare (ed è quello che sta facendo anche la IA). Il sistema è così pervasivo che, come è stato affermato, è più facile immaginare la fine del Mondo che la fine del capitalismo. È davvero fuorviante perdersi in desiderata, come fa ad esempio Tuco, che scrive: “se non si cambia modello di sviluppo”…, il modello di sviluppo non si cambia se non con una impossibile sostituzione integrale (che in altri tempi si sarebbe chiamata rivoluzione) o con il collasso del sistema.
    Servirebbe ben altro spazio. Mi fermo qui.
    2) Mi pare che preoccuparsi delle condizioni dell’ambiente in cui si vive, pensare cioè in termini di territorio, di luoghi amministrativi e di confini, sia anche questo dispersivo e fuorviante. Proviamo invece a ragionare non tanto dell’ambiente in cui si vive ma dell’ambiente “di cui” si vive, ed ecco che le prospettive cambiano, e di molto. Pensiamo all’orso bianco con il ghiaccio che si scioglie sotto i suoi piedi. Un ambiente apparentemente semplicissimo. Di cosa vive l’orso bianco e dove si generano le variazioni indotte che devastano la sua esistenza? È un po’ più difficile localizzarle, comprenderne le interconnessioni complesse e le interdipendenze e le cause remote.
    Anche a noi, un po’ per volta viene a mancare non la terra ma la Terra di cui viviamo, sotto i piedi. Questa volta è toccato all’Emilia-Romagna, ma pensare localmente vuol dire ridurre il problema a un fatto di malcostume o malgoverno che rappresenta solo “l’apice marginale” di un oggetto di analisi molto più complesso. Non si risolve la crisi ambientale emiliana romagnola con, tanto per dirne una, le casse d’espansione.

    • Riguardo al primo punto, io invece trovo imprescindibile criticare la narrazione che accompagna l’immissione sul mercato dell’auto elettrica, perché rientra nel novero delle narrazioni diversive grazie a cui il capitalismo approfitta della crisi climatica, cioè crisi creata dai costi esterni della produzione, tramite altri costi esterni che poi nasconde.

      Queste narrazioni spoliticizzano il problema, si possono catalogare tutte come greenwashing, con sotto-categorie quali:

      – l’individualismo green: tutto andrà meglio se come singoli adottiamo comportamenti più “virtuosi” e consumiamo merci più “green”;

      – il soluzionismo tecnologico: il surriscaldamento globale è un problema dovuto a provvisoria inefficienza tecnica che si risolverà con l’innovazione;

      – il riduzionismo carbonico: parlare solo delle emissioni di CO2 nascondendo tutti gli altri aspetti della crisi come la distruzione di biodiversità, la cementificazione ecc.;

      – l’uso deresponsabilizzante del cambiamento climatico e degli «eventi estremi» per poter continuare come prima, come ha fatto la classe dirigente emiliano-romagnola dopo l’alluvione: che potevamo farci, erano precipitazioni eccezionali ecc.

      Il tutto si riassume così: spremere il limone del valore fino all’ultima goccia, fare profitti finché ce n’è, poi si vedrà. Volta per volta, per distogliere l’attenzione, si adottano narrazioni diverse. La narrazione che accompagna l’auto elettrica, nascondendo gli enormi costi esterni del suo ciclo di produzione e di vita, tiene assieme individualismo green e soluzionismo tecnologico.

      Per quanto riguarda il secondo punto, ritengo imprescindibile calare l’analisi “in situazione”, nei contesti concreti, che non hanno confini amministrativi ma confini geostorici e socioeconomici, come la val Padana, che copre parti di quattro regioni e una ventina di province. La crisi climatica si manifesta nei territori in modi simili eppure diversi, in base alle loro conformazioni e peculiarità, e alle varianti di sviluppo capitalistico che hanno conosciuto. La val Padana è divenuta la zona a più alta concentrazione di industrie – e di conseguenza il motore del capitalismo italiano – per via della sua conformazione e posizione. La sua parte orientale, la Bassa, ha ulteriori specificità: è in gran parte terra di bonifiche, tra la metà del XIX secolo e gli anni Settanta del XX si prosciugarono centinaia di migliaia di ettari di zone umide (paludi e, lungo la costa, valli salse). È un territorio precario, ingegnerizzato, che si regge su una delicata dialettica tra terra e acqua, rapporto che la crisi climatica sta già sconvolgendo.

      In un articolo di qualche mese fa abbiamo spiegato come mai l’Emilia-Romagna sia diventata un “punto caldo” della crisi climatica: dipende dalla sua storia, dalla sua conformazione e dalla sua economia reale, che è spacciata per insieme di “eccellenze” mentre è la peggiore possibile, la più inadeguata di fronte alla crisi climatica.

      Ricostruire queste condizioni e vedere come la crisi climatica le fa saltare in aria è determinante: parlando solo del “globale” si rischia di rimanere astratti, è più difficile far capire cosa sta succedendo, è più difficile far percepire il legame tra sviluppo capitalistico e crisi climatica, dunque è più facile alla controparte far credere che la crisi climatica si risolve con… più sviluppo capitalistico. Calando l’analisi in situazione, invece, si può far capire meglio, si può far sentire sulla pelle il nesso indissolvibile tra come si è sviluppato il territorio e come la crisi climatica impatta.

      • L’analisi puntata mi trova d’accordissimo.

        Io però noto invariabilmente l’emergere anche un altro meccanismo che chiamerei “ascetismo” e/o “Junior Anti-Sex League”.

        L’abbiamo visto durante la pandemia, sotto forma di “ma è proprio necessario l’aperitivo” e/o “obbiettivo contagi zero” e/o “dobbiamo saltare il Natale per salvare il Natale”.

        Esiste una folta schiera di invasati, che tipicamente operano pienamente dentro il realismo capitalista e hanno il cervello polarizzato, bruciato dai social (consiglio fortissimamente la lettura di The Chaos Machine, splendido saggio, per riconoscere certe dinamiche), e che sbraitano che possiamo permetterci solo “emissioni zero”, “inquinamento zero”, “esternalità zero” e che questi obbiettivi vanno perseguiti con mezzi draconiani, id est imponendo stili di vita individuali estremamente restrittivi, ma sempre entro il frame capitalista.

        Roba come “vietare le lavastoviglie” (e quando lavo i piatti se lavoro 8 ore al giorno + 2 di transito e ne impiego 2 a fare la cena e il pranzo per il giorno dopo?).
        A questo proposito mi è piaciuto molto l’inaspettato “mai far fare a un umano quello che si può far fare a una macchina” nel libro di Minnella).

        Credo che nel discorso sia necessario iniettare l’idea che non sia immorale godere dell’automazione, se è possibile farlo in modo vagamente sensato (per esempio riparando quella maledetta lavatrice anzichè cambiandola, ma vabbè, si torna al punto 3).

        Anche in mezzo a soggetti più moderati, trovo poi difficilissimo far passare l’idea, di cui sono fortemente convinto, che esistano attività improduttive, rese possibili dalle macchine e dalla civiltà industriale, che hanno comunque merito nonostante consumino risorse naturali impensabili per un Neanderthal, e che non siano qualcosa da vietare al più presto.

        I rave party, gli autoscontri, i concerti metal, le corse motociclistiche, gli spettacoli pirotecnici, a seconda di gusti e passioni individuali.
        Tutta roba che si fa forse con l’1% del tempo e delle risorse che il privato ha a disposizione, ma che riempiono la vita.

        Qui mi scontro con il fatto che a moltissimi soggetti nei movimenti queste cose semplicemente non piacciono (lo stereotipo dell’alternativo che ascolta Manu Chao e fa passeggiate in Graziella con pedalata da anziano è più realistico di quanto possa sembrare ;-), e scivolano velocemente nell’equazione “non piace a me => è immorale => non ce lo possiamo permettere”.

        • Premetto che in generale sono d’accordo. Anche questo che tu chiami “ascetismo” – su Giap tre anni fa abbiamo parlato di «ecosacrificio» – rientra nell’individualismo verde. Che è la più antica e consolidata narrazione diversiva a tema ambientale.

          Detto ciò, gli eventi che citi come esempi non sono tutti uguali, e dentro ciascuna tipologia troviamo eventi di dimensioni molto diverse tra loro, che anche a seconda dei luoghi e delle circostanze possono avere impatti maggiori o minori. Molti “grandi eventi” non sono che “grandi opere momentanee” che si svolgono in una logica da blitzkrieg: arrivano, colpiscono, ripartono e rimane la devastazione. La macchina dei “grandi eventi” consuma risorse enormi, vive in simbiosi con l’industria dell’usa-e-getta e alimenta sperperi immani.

          Un grande evento muove migliaia di automobili e convoglia decine di migliaia di persone spesso verso luoghi dove un evento del genere non dovrebbe nemmeno essere immaginato: svariate zone umide e protette lungo le coste, come il Jova Beach Party; il parco Bassani a Ferrara, che nel maggio scorso col concertone di Springsteen ha subito un colpo durissimo, ecc.

          Sulle corse automobilistiche e motociclistiche, mi viene in mente che l’autodromo di Imola nel maggio scorso è finito sott’acqua, perché lì quell’asfalto non avrebbe proprio dovuto esserci. Quell’area nell’ottocento era chiamata “parco delle acque minerali”, e se si chiamava così c’era un motivo. «Le acque stan via anni e mesi, poi tornano ai loro paesi».

          Però appunto, questi problemi non si possono risolvere incentrando tutto il discorso sulla scelta individuale. Se il Comune di Ferrara, contro tutto e tutti, organizza il concerto di Springsteen al parco Bassani, e nella società ferrarese non ci sono le forze per impedirlo, una volta che la megamacchina del tour del Boss si mette in moto, c’è poco da fare, non è che se io sottoscritto faccio il gran rifiuto, dico «non ci vado perché sono contrario alla scelta del posto», cambio chissà che. Anzi, non cambio niente.

          • Oh, non ho intenzione di impegnarmi in prima persona per difendere il Jova Beach Party e per i megaconcerti coi megaschermi, che (a costo di suonare come un alternativo in Graziella) sono quanto più distante da me.

            Quello che io vorrei salvare — quello di cui ho bei ricordi — è il concerto rock _provinciale_, quello a cui affluiscono gli spettatori dalla provincia, a breve raggio, in club e palazzetti di dimensioni umane, anche quando ad esibirsi è una band internazionale (che viaggia con un singolo tour bus insieme alle maestranze, con gli strumenti nella stiva).

            Quello dove in mezzo alla massa ritrovi la gente che conosci o con cui vai a scuola.
            Quello dove talvolta si radunava e si formava una sotto- o contro-cultura.

            Non certo la sua versione (il suo doppio?) ultraneoliberale, ad altissimo rendimento economico, fatta di due sole date coi megaschermi nel mezzo di un autodromo, verso cui si va in pellegrinaggio da tutta Italia e oltre, con i biglietti a 300 euro in prevendita su TicketOne 12 mesi prima, magari abbinati al biglietto per Italo.

            Ne voglio difendere la mostruosità che è un weekend di Formula 1 odierno, vera e propria “grande opera semovente”, con biglietti alle stelle e competizione riservata a figli di miliardari (Stroll, Sirotkin, Mazepin) e megacostruttori (anzichè progetti “da capannone” se non “da granaio”, alcuni fortunati, altri no, come potevano essere Minardi, Andrea Moda, Eddie Jordan).

            Oggi quel clima “da grigliata” lo si ritrova solo nei campionati minori, provinciali, arrivando a roba verace come il campionato Moped dove si corre con un vecchio Ciao radiato, una tanica di benzina per tutto il weekend e il papà o il fratello come meccanico e i tifosi sono gli amici di famiglia.

            Certo: inquina, fa “brum brum”, tutto quello che volete, ma sono bazzeccole.
            Probabilmente se lo potrebbe permettere una comunità Amish una volta l’anno mettendo da parte la centesima parte del raccolto e facendone etanolo.

            È quello che chiamo “piggybacking”, in ultima analisi questi svaghi campano degli scarti della civiltà industriale (o di quello che resta a fine mese, se vogliamo).

            In effetti, sono passioni che sono state a loro volta fagocitate, come tutte le altre cose, dall’avidità dei fondi di investimento, dalle compagnie petrolifere e dagli automaker (ironia della sorte, i costi delle massime categorie sono saliti alle stelle perché i produttori di SUV elettrici devono recuperare i costi di R&D).

            • Trovo abbastanza curiosa la coincidenza.

              Le esperienze che ho elencato nel commento precedente rientrano perfettamente nella definizione di “bello” riportata nella seconda puntata appena apparsa su Internazionale.

              “Perché il bello è solo / l’inizio del tremendo, che sopportiamo appena / e il bello lo ammiriamo così, perché incurante / disdegna di distruggerci”.

              La chiassosa Musica di Satana™ e la sua estetica estrema, lo spettacolo pirotecnico o il funambolismo motociclistico a 300 all’ora… ma anche una banale piega a 80 all’ora può essere bastevolmente terrificante per chi non è abituato: “proviamo paura per poi ammirare quel che ci ha impauriti, perché non ci ha annientati, siamo vivi, dunque possiamo contemplarne potenza e bellezza.”

              A parte andrebbe ragionato che è tutta roba sempre più di nicchia, rispetto al ruolo che aveva nell’immaginario collettivo fino a vent’anni fa.

              Evidentemente ci si nutre di paure altre rispetto alla daredevilry o alle copertine da film horror.

            • Ciao Rhino. Qualche nota sparsa su questi tuoi ultimi interventi.

              Ē importante ricordare che ci ritroviamo tuttx a dover operare «pienamente dentro il realismo capitalista». Non soltanto gli «invasati» (e le invasate) «con il cervello bruciato dai social».

              All’interno di questa realtà però credo valga la pena continuare a ribadire, ad ogni occasione, che la nostalgia in generale e quella per alcune passioni in particolare, e.g. il tanfo di carne animale bruciata anche quando accompagnata da dell’ottimo castrol oil™, è un illusione velleitaria e pericolosa. Esto “mal de corazòn” non fa per niente bene all’ambiente anzi, appesta e oscura l’atmosfera rendendo estremamente più problematico, per tuttx, l’esercizio di sentire e scrutare ciò che potrebbe esserci oltre questa uncanny valley nella quale ci stiamo affossando.

              • Ci ritroviamo tutti (scusa, ma “tuttcs” mi sembra scarsamente eufonico) a dover operare materialmente dentro il realismo capitalista.
                Alcuni, tuttavia, sono incapaci di immaginare un’alternativa.

                Temo di non cogliere pienamente il senso del resto del commento.

                Se stai dicendo che “sì ma ogni prodotto della civiltà industriale ha un impatto sull’ambiente maggiore di quella della civiltà preindustriale, che a sua volta faceva sembrare l’uomo cacciatore-raccoglitore una bazzeccola, dunque desiderarne i benefici è velleitario e pericoloso”, non posso, semplicemente, trovarmi d’accordo.

                Se mi stai dicendo che, magari a livello inconscio, certi passatempi possono piacere solo per ragioni nostalgiche (dunque velleitarie e pericolose), mi pare un po’ una corbelleria.

                Non capisco, soprattutto, l’alternativa che proponi (Graziella recuperata dalla discarica, chitarra in spalla e Inti-illimani? Occhio, ché le corde di nylon le compri dai fabbricanti di polimeri, e quelle di budello sono conciate con sostanze che non sono acqua fresca)

  3. Nel frattempo Elon Musk è andato alla festa di Cognati d’Italia, denominata Atreju, a dire che non c’è una vera crisi climatica, che la CO2 non è poi così tremenda, che gli ambientalisti vogliono distruggere l’occidente, che bisogna fare figli altrimenti l’Italia scomparirà. Ricordo che la Repubblica, durante il secondo lockdown, aveva pubblicato a puntate una biografia agiografica di Elon Musk. Tra le altre cose, Elon Musk produce auto elettriche. Condivide e propaga teorie cospirazioniste sulla sostituzione etnica (che poi sono la versione 2.0 del comizio dei neonazisti dell’Illinois nei Blues Brothers: “l’ebreo si serve del negro per combattere contro di te, uomo bianco”). Produce anche microchip da impiantare nel cranio delle persone per aumentarne la potenza di calcolo (sic). Ma a differenza dei microchip immaginari di Bill Gates da inoculare col vaccino, quelli di Elon Musk non suscitano grande preoccupazione tra i liberi pensatori.

    • A proposito di Tesla, sta uscendo sul mercato in questi giorni un mostro elettrico che si chiama Cybertruck.

      https://www.quattroruote.it/news/nuovi-modelli/2023/12/19/tesla_cybertruck_uscita_quando_in_italia_europa.html

      Pesa più di tre tonnellate ed è costruito in acciaio, quindi non assorbe gli urti, e per questo motivo difficilmente potrà essere commercializzato in Europa. Una bestia simile, oltre ad essere un’arma letale sulla strada, molto probabilmente ha un’impatto ambientale complessivo maggiore di una vecchia 600 da 7 quintali. O si pensa che la produzione di acciaio non produca CO2? E che per caricare le batterie a litio non sia necessario produrre energia elettrica bruciando petrolio, o scindendo uranio, o imbrigliando fiumi col cemento, o impiantando pale eoliche costruite in acciaio e altre leghe, o ricoprendo migliaia di ettari di suolo con pannelli solari costruiti in alluminio e acetato di vinile… Ma il greenwashing liberal riuscirà a far passare per ecologici anche questi veicoli, più simili a un blindato dell’esercito che a un’automobile, e ci riuscirà nonostante Musk odi i liberal, e sia lui stesso a dire *esplicitamente* che se ne sbatte della crisi climatica e dell’ambiente.

  4. Concordo sulla critica alla narrazione. Nella premessa ho dovuto fare dei tagli per non superare il numero di battute.
    Intendevo dire che per affrontare il problema dall’inizio occorrerebbe riflettere prima sulla mobilità, sull’esigenza di trasportare merci per migliaia di chilometri e sulla presunta necessità di spostarsi continuamente e a velocità sostenuta a bordo di veicoli pesantissimi. Solo dopo si dovrebbe valutare la fonte d’energia migliore (ammesso che), e in che modo configurare e comporre i veicoli. Il suv pesante 2800 chili, che sia a benzina o elettrico non fa gran differenza, tranne che nella narrazione, che non è fuorviante ma determinante per lo sviluppo del Sistema. L’agire individuale in un contesto capitalistico è finalizzato all’accumulo di capitale e tutto è modellato secondo questa ragione primaria, individuo compreso. Il quale è portato a credere che niente e migliore del suv. Non è sostenibile? Allora facciamolo elettrico. (Sto condensando facendo un discorso da bar).
    Lucio Gambi, Virginio Bettini, Eugenio Turri mezzo secolo fa ci hanno spiegato anche la Padania e l’illusorio modello dell’Emilia-Romagna, crisi climatica compresa. Mi chiedo dov’eravamo se ora riscopriamo l’acqua calda e se nulla è cambiato, anzi, se tutto è andato secondo i piani. Nessuno di noi ha mai deciso qualcosa circa i piani ur banistici e l’utilizzo del territorio e dei fiumi. L’urbanistica è stata asservita e usata per modellare il mondo affinché fosse sempre più rispondente al capitale e al suo problema dei rendimenti decrescenti (Bonaiuti). Non si spiegano diversamente i grattaceli, gli stadi con annessi centri commerciali, i Fico, il progetto di Elon Musk sull’autotaxi a guida autonoma (fine della proprietà privata individuale e della decantata libertà, ma inneggeremo anche a questa giravolta ) del molto prossimo futuro. E le alluvioni devastanti per i chiagne e fotte. Basta così, grazie per lo spazio e la pazienza, non so scrivere nei blog.

    • Grazie a te! Più che riscoprire l’acqua calda, facciamo notare che il dissesto del territorio era stato ampiamente previsto e denunciato decenni fa. Per questo Turri e Gambi li cito in ogni conferenza di “Blues per le terre nuove”.

    • > Intendevo dire che per affrontare il problema dall’inizio occorrerebbe riflettere prima sulla mobilità, sull’esigenza di trasportare merci per migliaia di chilometri e sulla presunta necessità di spostarsi continuamente e a velocità sostenuta a bordo di veicoli pesantissimi.

      Naturellement.
      Dimezzando la percorrenza si dimezzano le emissioni e i consumi di energia (che sia fossile, nucleare, da biomasse o da panneli solari).

      Giusto per capire e dare un’idea a chi non ha una cultura motoristica, raddoppiare l’efficienza in una macchina termica qualsiasi è roba decisamente non facile anche con la migliore R&D del mondo, e si potrebbe fare semplicemente smettendo di scacciare nelle estreme periferie gli abitanti delle città e svuotando i Paesi di tutti i servizi.

      Dimezzando il peso si dimezzano ancora una volta le emissioni.

      Il Toyota Chr ne pesa 1400 + 150~200 di due passeggeri.
      La Panda 4×4 del 1990 ne pesa 860; un motore moderno con materiali moderni (inquinanti ed energivori, ma si assume di fabbricarli una volta) potrebbe addirittura pesare meno a parità di potenza, male che vada ci metti un motore motociclistico Euro 5 e sei a posto.

      Abbiamo già quadruplicato l’efficienza.

      Ma non basta.

      Il Ciao Piaggio pesa 40kg a secco.
      Se tutti i viaggi a breve raggio (la maggioranza) e singolo passeggero fossero fatti con un Ciao anzichè un SUV, avremmo più che decuplicato l’efficienza.

      Ok, ok, il Ciao ha un motore monocilindrico raffreddato ad aria inefficientissimo, voglio essere pessimista.
      L’Honda Grom ha un motore Euro 5 e pesa 100 chili.
      Con un passeggero non troppo pesante e una borsa della spesa nel bauletto raggiungiamo comqunque 1/10 della massa spostata.

      Un taglio delle emissioni e del consumo di energia di un fattore 10 sarebbe considerato una specie di Santo Graal dai policy-maker.
      Dimezzando anche le distanze tramite un’oculata pianificazione urbanistica avremmo ottenuto un guadagno di fattore 20.
      E come bonus ritroveremmo i sedicenni in motorino davanti al cinema in piazza, anzichè portati dalle mamme in SUV al multisala in zona industriale.

      La brutta notizia è che il trasporto personale è una goccia nel mare, anche se è uno degli aspetti più visibili e uno di quelli su cui, da 40 anni, si insiste di più.

      • Rino, prova a rileggerti: hai affermato, mi pare, cose ovvie all’interno della logica pervasiva e totalizzante del sistema. E gli esempi che fai non si realizzeranno mai perché vanno nella direzione contraria del flusso. Sono come i mulinelli che si formano a volte nei fiumi. È come spostarsi verso i vagoni di coda sperando di ritardare e modificare così il percorso del treno.
        L’agire è guidato sempre da motivazioni, e le motivazioni del potere sono più potenti (ma guarda!).
        Il potere si manifesta e concretizza sia con le cattive, con l’uso smodato della forza, sia con –mi verrebbe da dire– la circonvenzione d’incapace, con la modellazione dei consenzienti. Non vedo grandi differenze fra missili a lunga gittata, carri armati, suv o tik-tok. Sono forme di costruzione della realtà finalizzate al dominio. Se ci va bene siamo dei protettorati. E complici. Ci viene ripetuto ogni minuto che siamo in democrazia. Balle: siamo in complicità. E andrebbe anche bene così se non fosse che la Terra non è piatta e infinita, come vorrebbe il capitalismo per dispiegare tutte le sue potenzialità, ma semisferica e limitata. ( Il capitalismo non è una entità astratta, è composto dalle pratiche quotidiane di chi è messo nella condizione di decidere per conto di altri. Anche piccole cose che però si sommano e orientano il mondo nella direzione del dominio). Cosicché, –fra ottimismo e pessimismo mi sforzo di essere realista– ci ritroveremo in tante strisce di Gaza e in tante fughe in pratiche esoteriche, che non è che siamo capaci di resistere mentalmente all’immondo senza inventarci un mondo fantastico alternativo. L’elettrico, il riciclaggio delle plastiche, l’islam in Algeria, le buone pratiche individuali, sono solo l’avanguardia della fuga dalla realtà.

        • Non ho mai sperato nemmeno per un secondo che qualcuno di potente e influente, magari anche con poteri magici, leggesse il mio commento e, magicamente, cambiasse qualcosa.

          Volevo solo, per esercizio e amor di scienza, fare due conti “de coin de table” (quando si parla di ordini di grandezza può bastare), per mostrare come si potrebbe e si sarebbe potuto, volendo, ridurre di 15-20 volte le emissioni del trasporto privato gratis, evitando al contempo le enormi esternalità della produzione di carrarmati elettrici e dell’infrastruttura relativa, senza aspettare chissà quale breakthrough tecnologico e senza “modificare le nostre abitudini” perchè “la normalità era il problema” (ah, ah!), semplicemente prendendo una rotta diversa rispetto a quella degli ultimi 10-15 anni (non un’enormità).

          E proprio il fatto che la strada presa sia radicalmente diversa è la prova che a nessuno frega una beneamata mazza.
          Nemmeno a quelli che prendono piccole decisioni per conto di altri.
          Forse perché sono troppo rimossi dalle conseguenze.

        • “E andrebbe anche bene così se non fosse che la Terra non è piatta e infinita, come vorrebbe il capitalismo per dispiegare tutte le sue potenzialità, ma semisferica e limitata.”

          scusate ma è bellissimo il lapsus freudiano sulla terra semisferica: in lapsu veritas, il capitalismo se n’è già mangiata metà :-)

          Sullo specifico dei suv: non dovrebbero esistere, né a benzina né elettrici. Tra l’altro chi vive in montagna spesso ha una panda 4×4 o una vecchia lada di fabbricazione sovietica. I fuoristrada e i suv di solito sono utilizzati per andare a fare la spesa al centro commerciale.

  5. Diverso nel contesto e nei contenuti quanto analogo nella conclusione generale è l’articolo di un collega nord-americano, pezzo pubblicato lo scorso Maggio. Collega che tra l’altro mi pare conosce e stima il vostro lavoro.

    Dell’inchiesta su Internazionale ho apprezzato in modo particolare l’osservazione, che nessun altro finora credo avesse fatto, riguardante il «passo avanti» fatto dalle/nelle fantasie e da chi le mette in giro, rispetto ad una prima fase definita, for lack of better words, “negazionista”.

    Quando si dice fare di necessità virtù: maggiore l’inevitabile catastrofe > maggiore il potenziale consenso > platealmente più sensazionalistica la “sparata”.

    La domanda sorge spontanea.

    Non vi sembra che nella politica italiana, sia parlamentare che “di strada”, stia diventando sempre più egemone quello stile paranoide a cui accennano sia Cory nel suo pezzo linkato sopra che WM1 nella QdQ (nel libro di WM, ovviamente, in maniera molto più articolata)?

    • Bello l’articolo di Doctorow.

      Parla, essenzialmente, di uno zoccolo duro di individui che acriticamente rifiutano qualunque piano calato dall’alto.
      E come si fa dargli torto?
      Un piano calato dall’alto è un piano calato da una classe dominante, mobilitata dall’automatismo capitalista, la quale fa rimpiangere — e parecchio — il feudalesimo.
      Oxford è Oxford, se in una città italiana si parlasse di “15-minute city” si sentirebbe la puzza di turistificazione e AirBnB lontano un miglio.
      Qualunque “rivoluzione green” altro non è che una scusa per percorsi cicloturistici a misura di, beh, turista.

      Se posso riallacciarmi alla discussione sotto il libro di Naomi Klein, una buona idea calata dall’alto non è forse inevitabilmente… il doppio distorto della buona idea, nella sua implementazione?

      Lo stile paranoide è la conseguenza dell’incapacità di rimettere insieme il modello di una società sempre più complessa, con meccanismi sempre più rimossi.
      Man mano che la complessità aumenta, ci troveremo tutti nella medesima condizione, nell’incapacità di comprendere.

      E gli “swivel-eyed loons” non si oppongono innanzitutto a… la complessità?

      Che poi, gira che ti rigira, non è distante da molte rivendicazioni delle piazze di vent’anni fa, rimaste poi disperse, frammentate, a volte antagoniste fra di loro.

      Gli SEL, a differenza delle precedenti, reclamano innanzitutto un mondo a misura di stupido in quanto locale, controllabile, gestibile (perchè si tratta pur sempre di quelli che si sono ritrovati dietro la lavagna con le orecchie da asino, anche quando benestanti: https://archive.is/BsR4Z).

  6. La prima puntata dell’inchiesta è ora disponibile in castigliano:

    Por qué tenemos que tomarnos en serio las fantasías de la conspiración sobre el clima

  7. Perdonate l’off topic, ma leggendo il commento di Tuco su Elon Musk e il riferimento alla storia del microchip di Bill Gates iniettato col vaccino, volevo fare una considerazione. Personalmente non ho mai letto nulla in proposito su questa cosa, anche se sono certo che vi sia chi ci crede e chi la diffonde. Quello che penso però è che dovremmo tutti fare uno sforzo (che credo sia quello che sta proponendo a suo modo anche Wu Ming 1) per rifiutare l’atteggiamento da debunkers e guardare oltre la vulgata. A saper cercare, dietro ogni fantasia di complotto si trova sempre materiale molto interessante per riflessioni non superficiali. Nello specifico io credo che dietro la storia del microchip iniettato col vaccino ci sia il progetto (reale) di inscrivere la storia medica di un paziente sulla sua pelle all’atto della vaccinazione. Qui fornisco due link in proposito.

    https://www.science.org/doi/10.1126/scitranslmed.aay7162
    https://news.mit.edu/2019/storing-vaccine-history-skin-1218

    Non ho verificato, ma c’è chi sostiene che il team di studiosi che ha scritto il primo articolo (quello su Science) è stato messo in piedi dalla Bill and Melissa Gates Foundation. Sinceramente, visto l’impegno di Gates in progetti come ID2020, la cosa non mi sorprenderebbe affatto.

    Ora, sarebbe anche troppo scontato ricordare che i tatuaggi (scansionabili o meno) sul braccio, ci riportano a pagine non proprio luminose della recente storia europea, ma non credo si possa prendere alla leggera un progetto del genere, che probabilmente in era post Covid viene già discusso a porte chiuse nelle maggiori istituzioni sovranazionali. A prescindere dalla motivazione con la quale viene proposto un codice a barre (o QR code) per marchiare le persone, si tratta in ogni caso di un procedimento che ha più a che fare con la zootecnia che con la sicurezza sociale. Credo sia inutile anche ricordare che quella del “bene comune” è stata la scusa con la quale si sono perpetrate le peggiori nefandezze della storia.

    • Che ci siano nuclei di verità nella faccenda dei microchip è ovvio. Come ho scritto sopra, non occorre fare chissà quali ricerche per scoprire che i microchip impiantati nel cranio e interfacciati col sistema nervoso/cerebrale di animali e umani sono già una realtà; ed è tutto alla luce del sole, pubblicizzato in modo entusiastico dalla stampa mainsteream già a partire dal 2019:

      https://www.wired.it/article/neuralink-persone-cavie-chip-cervello-elon-musk/

      Anche i problemi etici che queste tecnologie ci scaraventano addosso sono da tempo oggetto di dibattito (tutt’altro che limpido e democratico). Il punto è che questi microchip non c’entrano niente col vaccino, non stanno nel vaccino ma stanno altrove, e più che il pessimo Bill Gates, è il pessimo Elon Musk a presentarsi come guru di questa nuova era. Solo che Elon Musk in certi giri è considerato uno dei buoni, fondamantalmente perché “anche a lui non piacciono i negri e la teoria gender”. Quindi in quei giri tendono a glissare sui suoi trapolezi coi microchip da impiantare nel cranio. Dall’altro lato i liberal non hanno mai niente da ridire quando Bill Gates usa i nostri dati di navigazione per istruire le sue intelligenze artificiali, e anzi ti trattano con sufficienza se sollevi il problema. La realtà è che bisognerebbe prendere uno per battere quell’altro come diceva mia nonna. Questi miliardari della silicon valley sono tutti megalomani narcisisti e detentori di un potere enorme, un potere che nessuno dovrebbe mai avere, se la parola democrazia ancora mantenesse un qualche nucleo di senso, almeno come orizzonte.

      p.s. la storia del “microchip di bill gates nel vaccino” ha avuto un certo successo all’epoca https://www.ansa.it/canale_saluteebenessere/notizie/medicina/2021/02/16/la-figlia-di-gates-si-vaccina-e-ironizza-nessun-microchip_a5b18f7b-2a47-4407-991f-c49da5820279.html

  8. (1/2, scusandomi per l’abuso)

    > Questi miliardari della silicon valley sono tutti megalomani narcisisti e detentori di un potere enorme, un potere che nessuno dovrebbe mai avere, se la parola democrazia ancora mantenesse un qualche nucleo di senso, almeno come orizzonte.

    http://xkcd.com/743/

    È del 2011, tredici anni fa, ed è ancora estremamente rilevante.

    Io c’ero, tredici anni fa.

    E ventitre anni fa (!!) — dieci anni prima — ero il tizio nel fumetto, uno di quei nerd monomaniacali che insistevano perché si facesse uno uso responsabile e intelligente del mezzo “computer”, avendone necessariamente la comprensione dei meccanismi base per evitare di essere rinchiusi inconsapevolmente in quello che oggi chiameremmo “walled garden”.

    Capiamoci che vent’anni fa un file era un file, e si poteva scambiare in formati abbastanza standard tra PC, senza nemmeno un provider internet. O si poteva metterlo su un bel floppy e metterlo in mano all’altro.

    Le discussioni avvenivano su Usenet o sulle mailing list, tramite il provider e il client software che si preferiva (n.b.: in potenza su qualunque macchina, bastava implementare correttamente lo standard), e soprattutto senza algoritmi a distorcere pesantemente il contenuto e le modalità del discorso.
    Andare a rileggere oggi quelle discussioni e le dinamiche sociali che si creavano (che sfociavano spesso in pizzate e amicizie vere) è illuminante.
    E se volevo killare un subthread potevo farlo — opzione non prevista da chi campa sull’outrage e sui commenti con la bava alla bocca, naturalmente.
    A spiegarlo a un utente dei social oggi pare fantascienza pura.

    Microsoft, sopra a tutti, cominciava ad abusare in modo davvero pesante del vendor lock-in anche nello spazio personale, ma la cosa peggiore che poteva capitare era che dovevi chiedere di risalvare un file Word come RTF.
    Con MSN, dato in pasto soprattutto agli adolescenti, le cose cominciavano a cambiare: i “trilli”, gli “status” e cazzate varie plasmavano un nuovo modo di comunicare e un vendor lock-in pesantissimo: non “avere MSN” significava esclusione sociale.
    Parallelamente, iniziava l’erosione di IRC.

    Durante gli anni duemila, quella frangia che chiedeva più attenzione e consapevolezza sistematicamente non veniva ascoltata, mentre i GAFAM iniziavano a costruire walled garden intorno all’utente privato.

  9. (2/2)

    Le webmail oscuravano il funzionamento dell’email; su Usenet arrivavano carriolate di gente che usava un’interfaccia web che oscurava il funzionamento di Usenet, e sistematicamente cagavano fuori dal vaso (rispondendo al thread sbagliato, quotando alla cazzo o chiedendo “all’amministratore del forum” di zittire un utente).

    Ci fu un momento a fine anni ‘2000 in cui perdemmo definitivamente.
    Lo collocherei all’incirca nel momento in cui il TG1 riportava “le dirette su Facebook” di Matteo Renzi.

    Da quella volta, abbiamo sostanzialmente perso l’informatica come strumento emancipatore, o almeno come strumento di cui potevamo avere un controllo sostanzialmente totale, e ci siamo trovati a svuotare un’alluvione col cucchiaino, se non semplicemente a osservare le macerie.

    La maggior parte dei giovani adulti di oggi consuma compulsivamente internet ed è controllata dagli algoritmi, ma non è capace di capire come funziona un file system: https://archive.is/P5PSd
    Già al 2020 (pre-Covid) le coppie si formano per la maggioranza “online”: https://archive.is/wip/4YTOQ
    Si noti peraltro come la linea in quel grafico sembra formata dalla somma di due curve esponenziali: è così.
    La seconda curva, che arriva nel 2012 o giù di lì, è la curva delle app come tinder, ossia di coppie che si formano per scelta dell’algoritmo (e non perché ci si conosce sul newsgroup degli Iron Maiden, ci si trova al concerto e si limona); raccomando comunque di leggere il paper.

    Altro che “C’è Posta Per Te”.

    Ho del risentimento personale e profondo nei confronti di chi, all’epoca, continuò imperterrito sulla propria direttrice snobbandoci apertamente e consegnando le chiavi del mondo ai Zuckerberg, Musk, Gates.

    E ora beccatevi i menu col QR code, gli adolescenti che stanno a rota con TikTok, i cinquantenni paranoici e l’algoritmo, invisibile, che controlla la democrazia.

    Non posso raccomandare abbastanza The Chaos Machine, di Max Fisher, del 2022, per un’antropologia puntuale e documentata della Silicon Valley, a tratti sorprendente.

    • Vale per il 56K ed i floppy lo stesso discorso che per il motorino e la Panda 1000: il sentimento, nobile quanto si vuole, della nostalgia nei confronti di un passato che per la maggior parte della popolazione mondiale non è mai esistito è, nel migliore dei casi, un esercizio narcisistico fuori tempo massimo.

      È anche questa una forma di rimozione a monte.

      Torna molto più facile e persino piacevole chiacchierare di quanto fosse estremamente più sostenibile abbassare il finestrino o accendere il PC girando una manovella piuttosto che confrontarsi con un presente che ci parla di

      e s t i n z i o n e – d i – m a s s a.

      Comunque, don’t panic (yet); a fare da contraltare a questo abisso che ci si prospetta davanti, c’è già pronta un’ottima strategia frutto dell’adattamento in chiave cosmica della cosidetta bibbia della Silicon Valley.

  10. dude, credo che tu, semplicemente, non abbia capito di cosa stavo parlando e con chi.

    Partendo dall’intervento di Tuco, volevo rimarcare come sia stato possibile che “i miliardari della Silicon Vallery” abbiano raggiunto un potere superiore a quello dei Cesari a chi non avesse ancora inquadrato la questione (e detto fuori dai denti, probabilmente ne è stato complice inconsapevole, non necessariamente fra i commentatori abituali di questo blog).

    Non sono apparsi dal niente.

    Non ha proprio niente a che fare con la “sostenibilità” del floppy: qualunque cosa significhi (https://dothemath.ucsd.edu/2011/10/sustainable-means-bunkty-to-me/), l’unica tecnologia “sostenibile” è quella fatta di legno, e non mi interessa parlarne.

    Ora: puoi continuare a urlare “estinzione di massa” finchè vuoi, ma… non ti sentirà nessuno.
    O almeno non riuscirai a farci un discorso ragionato, sensato.
    Perchè Zuckerberg e Gates hanno monopolizzato i modi della comunicazione di tre miliardi di persone, e non hanno nessuna intenzione di permettertelo.

    Direi che questo è, ad oggi, il problema.
    Gli si sono consegnate, ancora più dei denari, le chiavi per dirigere la comunicazione tra i bipedi di tutto il mondo, specialmente nei paesi “in via di sviluppo” (vedi il capitolo sul Myanmar in The Chaos Machine), altro che Citizen Kane.

    Se non puoi comunicare, non puoi organizzarti.

    Se questa è “rimozione”, allora rimuoviamo.

    Non capisco perché, poi, la butti sempre sulla “nostalgia”: io sto parlando di pratiche del qui ed ora (o dell’altroieri).
    Riprendersi i centri e cacciare gli AirBnB e le hamburgheria gourmet è, in potenza, ottenibile collettivamente qui ed ora.
    Mollare Facebook e l’iPhone 347837 e usare la tecnologia necessaria è, in potenza, ottenibile collettivamente qui ed ora.
    Liberarsi dei SUV che portano un passeggero è, in potenza, ottenibile ora.

    Se ora mi vuoi dire che, a causa dell’estinzione di massa in corso, è necessario abbandonare le telecomunicazioni e tornare al tamburo, lo rispetto, ma non mi sembra una stategia viable and effective.

    Vivere individualmente in eremitaggio vestiti di pellami non aiuterà quando non ci sarà selvaggina da cacciare.

    E soprattutto, un voler riprendere le fila di un discorso perso almeno in età feudale, mi sembra infinitamente più nostalgico e inottenibile nelle condizioni presenti.

    Devi prima spegnere Facebook per farlo.

    Qui termina l'”incartamento”, da par mio.

    • Mi rimangio quanto già detto, e proseguo giusto per un attimo l’incartamento, credo sia importante.

      Come speriamo, dunque, di far fronte ad una crisi epocale se non in quanto società (non oso dire “specie” perché andiamo nel new age più spinto)?

      DI fronte a una crisi epocale, che società abbiamo bisogno di costruire?

      Se, volendo portare al massimo l’utopia, non ci organizziamo in comunità (per carità, non in senso di purezza fascista, ma in senso confederalista-democratico) e, coordinandoci (comunicando) tra di esse ci riprendiamo il controllo del locale, del commons, come speriamo di fare fronte ad una estinzione di massa?

      E come pensiamo di farlo?

      DI certo non a forza di isolamento suburbano e viaggi al supermercato in SUV, flame su Facebook comandati dall’algoritmo, meme di gattini, algoritmi che governano la collettività e strumenti che per trasmettere un messaggio di 60 caratteri obbligano al possesso dell’ultima cazzata Apple o Google, escludendo chi ha un apparecchio un po’ meno alla moda o una connessione che non pompa tonnellate di gigabit, o costringendolo a indebitarsi per comprarlo.

      I meccanismi della pandemia indotti dall’infrastruttura tecnico-sociale che domina la società occidentale dovrebbero essere stati di lezione a tutti: decisamente non sono quelli che vogliamo al prossimo profilarsi di una crisi all’orizzonte.

      Anche se la civiltà industriale difficilmente sarà eterna, non si creda che ci sarà un botto una notte e ci si ritroverà dalla sera alla mattina vestiti di pellicce a vivere come Mad Max (n.b.: Cuba ebbe la cosa più simile ad un siffatto “botto” con il crollo dell’Unione Sovietica e la conseguente fine del petrolio e del fosforo russo: si studi come negli anni ’90/2000 potè diventare un paese con HDI alto e consumi estremamente bassi).

      Se non ci sarà direttamente l’olocausto nucleare, anche nella migliore delle ipotesi ci sarà indubbiamente una discesa, in cui continueranno a servire tecniche, saperi e macchine da usarsi in modo frugale, efficiente, collettivo, spontaneo e possibilmente non troppo stalinista.

      A mio avviso sarebbe d’uopo occuparsene già da ora: i collettivi che “ci credono” dovrebbero spegnere Facebook, farsi amico un radioamatore e un meccanico e imparare a riparare un telaio o un trattorino (che case come John Deere, che da tempo praticano l’obsolescenza programmata, vorrebbero sostituire con macchine autonome che funzionano “a subscription”).

      Non farlo puzza assai di “meglio rossi che tecnici”, che fu il motto di Mao.
      Quello del Grande Balzo in Avanti, della guerra ai passeri, delle fornaci da cortile (esse stesse monito contro il DIY for the sake of DIY su vasta scala) e… della Grande Carestia.

      • Per rispetto dei padroni di casa, di chi ci legge del mio cane e per evitare un overdose di dopamina, scrivo queste ultime e poi mi dileguo.

        «Di fronte a una crisi epocale, che società abbiamo bisogno di costruire?»

        Domanda retorica, troppo filosofica considerando il contesto e la fase storica. Se ci stesse andando a fuoco la casa non andremmo dai vicini o su Meta a chiedere che fare.

        Comunque, suggerimenti a casaccio:

        Smetterla di prendere a prestito «parole di plastica [dalla] neolingua di una dittatura internazionale». Crisi, per esempio, bella parola che è però anche un clichè governativo.

        «De-colonizzare l’immaginario»

        «Spazzolare contropelo la storia»

        In chiusura: adottare una prospettiva di specie è tutt’altro che roba New Age.

        Ora vado a schivare merde di cane al parchetto.

  11. (1/2, scusandomi)

    @dude: Ho riflettuto a lungo (dall’anno scorso) sull’opportunità di questo commento, il quale non mi sembra in effetti derogabile.

    Credo che permanga un’incomprensione sostanziale.

    Riassumendo in parole semplicissime: non puoi decolonizzare un bel niente, men che mai l’immaginario, perché qui ed ora l’immaginario é qualunque cosa l’algoritmo di Twitter e Facebook decide che debba essere “trending”.

    La società occidentale litiga su qualunque cosa l’algoritmo di Twitter e Facebook decida di visualizzare a schieramenti già polarizzati per creare engagement.

    I legislatori legislano rispondendo alla qualunque domanda securitaria o al panico morale che dall’algoritmo di Twitter e Facebook induce.

    I media mainstream riportano la qualunque cosa che Facebook crea.

    Le opinioni sempre più polarizzate e la desensitization sono un effetto collaterale del funnel dell’engagement.
    L’algoritmo
    fabbrica più o meno accidentalmente pedofili, estremisti, autolesionisti e depressi tramite la Cura Ludovico di YouTube.

    Il risultato delle elezioni presidenziali americane o brasiliane è misurabilmente un effetto collaterale dell’algoritmo — si veda l’opera già citata per approfondire.

    Praticamente tutta la cultura occidentale del 2024 è un mero effetto collaterale dell’ottimizzazione di un numero ristretto di metriche da parte degli algoritmi; gli esseri di carne che camminano nel mondo materiale passano più tempo scrollando che sognando, e quando parlano nel mondo materiale lo fanno per parlare di quello che l’algoritmo gli ha detto.

    Organizzarsi è pressoché impossibile, perché l’algoritmo mobilita a brevissimo termine le masse suggerendo di unirsi a questo o quel “gruppo”o “evento”, e le induce alla fiaccolata, o alla protesta, o al vandalismo, e la mattina dopo tutto è dimenticato… sottraendo energia e risorse ad organizzare realtà vere, fisiche, di carne, di muri, nei luoghi, nei tempi, con le facce, coi legami, con i piatti di pastasciutta.

    L’armata zombi è arrivata ad attaccare il Campidoglio a Washington, ad applaudire in terrazza o a organizzare autentici linciaggi in Asia senza un coordinamento, un portavoce, una sede, una riunione, un piano… e si è dispersa il giorno dopo.

    Nel mentre, organizzare un comitato di quartiere, una squadra di calcetto o un motoclub è praticamente impossibile.

    • (2/2, scusandomi)

      Hanno un retrogusto amaro anche gli effetti più o meno “positivi”: l’Harvey Weinstein di turno se l’è spassata sulla sua isola privata per decenni… prima che l’algoritmo si accorgesse che spingere il tag #metoo poteva diventare una miniera di engagement.

      Plausibilmente se il Presidente della Repubblica, ex-democristiano, si è messo indirettamente a citare Shulamith Firestone nei suoi discorsi, è perché l’algoritmo si è messo a ottimizzare immediatamente uno specifico triste fatto di cronaca prima ancora che fosse un fatto di cronaca, ma semplicemente il post di un privato cittadino che aveva tutte le caratteristiche per la viralità (primo fra tutti, umilmente ipotizzo, la topologia della rete di contatti del medesimo).

      La questione, come si vede, non è nel merito.

      Gli individui e le società sono ormai attuatori passivi del Dio pazzo evocato dagli ingegneri di Palo Alto; da tempo non sono più utilizzatori attivi dei videoterminali che portano in tasca, veri guinzagli sebbene che senza fili. Invece da questi ricevono, più o meno inconsapevolmente, ordini spacciati per “suggerimenti”.

      Mi sembra, ad oggi, il problema numero uno.

      Come l’arcinota vignetta che ho linkato commentava (nel 2013!), questo è stato possibile perché qualcuno ha continuato, per decenni, a non interessarsi minimamente di cosa stesse succedendo, sovente ritenendo che saper configurare un client NNTP fosse roba da nerd, indegna dei propri studi classici, e che quello che passava attraverso i cavi non avrebbe avuto chissà che effetto sul mondo materiale.

      Trattare l’argomento con sufficienza nel 2023 mi sembra incomprensibile.

      Mi ha colpito la synchronicity con cui 4 giorni fa usciva un trafiletto (invero mal sviluppato) sul Post di Luca Sofri che sostiene un discorso non troppo diverso — sulla necessità di non derubricare a “nostalgia” la critica a uno dei tanti presenti che erano futuri possibili ieri, tracciando una linea di collegamento tra l’ambiente fisico (e il “degrado urbano” di cui abbiamo tanto parlato) e quello “logico”, mentale, dell’informazione: https://archive.is/GBsdy