Forse con la sola eccezione della novella illustrata di Wu Ming 2 e Giuseppe Palumbo La battaglia della merda (2020), ricostruzione romanzata e romanzesca di un fatto di storia locale bolognese, dall’officina Wu Ming non era mai uscita una storia ambientata prima dell’evo moderno. Il nostro romanzo d’esordio Q raccontava proprio dell’inizio della modernità, con la Riforma protestante che ispirava il primo tentativo di rivoluzione in Germania. Da lì ci si è spinti sempre in avanti, spaziando tra gli ultimi cinque secoli, e quasi mai all’indietro.
La vera storia della Banda Hood si ambienta in Inghilterra, per la precisione tra Yorkshire e Nottinghamshire, sul finire del XII secolo e racconta la nascita della più celebre leggenda del Medioevo, giunta fino a noi. Probabilmente non è un caso che questa fuga all’indietro sia stata intrapresa da Wu Ming 4, reduce dallo studio dell’opera di J.R.R. Tolkien e dalla ricerca delle sue fonti d’ispirazione.
Benché il Medioevo raccontato nel romanzo non sia affatto edulcorato o esaltato, e anzi assomigli piuttosto al Far West leoniano, brutto sporco e cattivo, deve comunque qualcosa al medievalismo moderno, soprattutto a quello britannico. I personaggi femminili del romanzo – madonne incluse – sono ispirati a quelli ritratti dai pittori Preraffaelliti, e in un caso invece direttamente a un personaggio tolkieniano. Così come il punto di vista è vicino a quello del romanzo d’ambientazione medievale di William Morris A dream of John Ball (1888), assai più che a quelli filo-aristocratici di Sir Walter Scott – che pure è uno dei creditori, perché il suo Richard Lionheart in The Talisman (1825), pieno di prosopopea e retorica, è stato utile eccome.
Dai precedenti cinematografici su Robin Hood invece deriva un solo personaggio: il cantastorie, direttamente dal film Disney di Wolfgang Reitherman (1973), dove era rappresentato come un gallo antropomorfo.
Per il resto, la storia raccontata nel romanzo c’entra relativamente poco con qualunque resa precedente della celebre leggenda. Niente pulzelle da sposare, niente aristocratici passati dalla parte dei poveracci, niente “e vissero felici e contenti”, e perfino niente… ok, bona lé spoilerare.
Il medioevo, dunque, e il medievalismo. Non quello nostalgico e legittimista, appunto, ma quello giocato contro gli aspetti nefasti dello sviluppo capitalistico: sul piano estetico, il regresso innovativo della Confraternita Preraffaellita – fondata nel 1848, mentre l’Europa bruciava ed era percorsa da un celebre spettro…; tra il piano estetico e quello politico, il lavoro del già citato socialista rivoluzionario William Morris (1834-1896). Ma ci va aggiunto il fascino di una pre-modernità ancora in grado di rapportarsi all’ambiente come a un ecosistema di esseri viventi e di storie, prima che come mera materia da mettere a frutto economico, e dunque spendibile nella critica al dato attuale, alla catastrofe ambientale e climatica. Probabilmente senza un libro come Favole del reincanto (2020) di Stefania Consigliere questo romanzo non sarebbe mai stato scritto. E nemmeno senza la pandemia.
L’idea di questo romanzo risale più o meno a vent’anni fa, e i suoi primi capitoli a una dozzina d’anni fa. Poi la bozza venne abbandonata. Il motivo fu soprattutto una mancanza di chiarezza su quale fosse il tema cardine della storia. Questo per molti anni ha impedito che a partire dall’idea iniziale la trama potesse essere sviluppata fino in fondo. La lampadina si è riaccesa durante la pandemia, quando in Italia i giovani sono stati criminalizzati e moralmente ricattati dalla popolazione adulta, dai mass media, dallo stato, come “untori” del contagio, colpevoli di non ammalarsi e di mantenere un’egoistica voglia di vivere. In quei mesi, la rappresentazione plastica di una popolazione adulta al potere che trasforma il proprio terrore della morte in odio verso chi questo terrore non lo prova e soprattutto non può reagire a nessuna costrizione, potendo essere sadicamente conculcato, inutilmente segregato, e volenterosamente additato come pericolo pubblico, ha fornito una chiave di lettura della Banda Hood, sbloccandone la stesura. Idealmente dunque è un romanzo dedicato a quei ragazzi e ragazze della generazione covid.
A tutto questo va aggiunto che la storia presente non smette di attualizzare quello che si è scritto: tanto il pogrom con cui si apre la narrazione quanto il racconto delle stragi di civili inermi compiute dai pellegrini armati in Palestina richiamano inevitabilmente eventi in corso oggi negli stessi luoghi, forse perfino un loro lontano punto d’origine.
Ma non solo. Casualità vuole che il giorno dell’uscita del romanzo sia stato anche quello in cui un gruppo di abitanti di Bologna ha resistito alle cariche di polizia e salvato gran parte degli alberi che dovevano essere abbattuti in una porzione del parco Don Bosco. Quella in difesa del parco Don Bosco di Bologna è una piccola grande battaglia che nelle ultime settimane ha assunto una notevole valenza simbolica, perché rappresenta la volontà di affermare un principio urbanistico diverso, per non dire una diversa visione dello spazio pubblico e del mondo. Presidiare gli alberi che la giunta “progressista” Lepore-Clancy vuole abbattere per demolire le scuole Besta e ricostruirle lì accanto spendendo il doppio del necessario, anziché ristrutturare l’edificio in sede, significa resistere a un’idea nefasta e vetusta di sviluppo e di modernità. Un’idea che vede gli alberi come un ostacolo allo sviluppo, appunto, all’espansione edilizia, all’utilizzo e alla messa a profitto dello spazio urbano. Un’idea che nega agli alberi la propria natura di esseri viventi all’interno di un’ecosistema complesso, di cui i cittadini fanno parte e di cui godono. L’idea che, su una macroscala, sta portando il pianeta al collasso.
E siccome è sempre dall’attualità e dal presente che si rilegge l’intera letteratura, possiamo dire che La vera storia della Banda Hood parla anche di questo, di una foresta vista come un luogo minaccioso perché irriducibile alle logiche del potere, dove è custodita un’antica potenza che deve essere distrutta per poterne affermare l’inanità. È il luogo dove vanno i banditi, i ribelli, ma anche dove trovano rifugio le creature fairy, quelle del folklore popolare, insieme ai vecchi déi dismessi… e dove nascono le leggende.
La prima presentazione bolognese de La vera storia della Banda Hood, con letture di Marco Manfredi e sonorizzazioni di Stefano D’Arcangelo (laboratorio Melologos), si terrà martedì 7 maggio, al circolo AICS Nassau, via de’ Griffoni 5/2, ore 20:30 (ingresso con tessera).
Le prossime presentazioni sono elencate qui.
Allora, ho terminato qualche giorno fa la lettura de “La vera storia della Banda Hood”.
Va da sé che ci saranno spoiler, pochi, ma immagino che siano accettabili in recensioni ad un libro in uscita.
Partirei dalle cose positive o molto positive.
– Innanzitutto raccontare la storia di Robin Hood senza inserire il protagonista. Leggendo, l’attesa aumentava finché non mi è parso chiaro che non vi sarebbe stato spazio per l’arciere più famoso della storia (eccetto Orlando Bloom, ovviamente). E questa è un’idea geniale, perché scomodissima e anticlimatica al massimo. Questo rientra nel lavoro sull’eroe che WM4 ha compiuto negli anni (che riassumendo male e in fretta potremmo dire “Un eroe da solo non va da nessuna parte”). Di fatto gli unici accenni sono a Robin Hobgoblin, una figura silvestre, forse panica, di certo non in carne ed ossa.
– L’asciuttezza della storia. Che di per sé non è né un valore né un disvalore di un’opera, ma in questo caso si accompagna bene con la frammentazione della narrazione (che si dipana infatti su diversi anni). Restano così ben evidenziati nell’azione e nella memoria i “momenti salienti”. Il pogrom iniziale, la caccia ai ribelli, la nascita della banda. E’ vero che l’ambientazione è appena accennata, anche se mai raffazzonata. Ma l’autore non indulge in un Medioevo da “cartolina”, tratteggiando personaggi e paesaggi che potrebbero essere ancora oggi presenti se la Geografia del Mondo non fosse cambiata. Quindi troviamo i castelli, i cavalieri, le frecce, i monaci, le principesse… sì. Ma sempre messe in una penombra, mai esaltati. Mi ha ricordato, mutatis mutandis, il lavoro foto-scenografico di uno dei più bei film italiani di sempre, ossia “Il mestiere delle armi” di Ermanno Olmi. Ogni volta che un personaggio o un dettaglio rischiava di diventare “arrogantemente pomposo” WM4 lo ha spento.
– Il personaggio di Gisborne. Né un eroe, né un antieroe. Potremmo dire un dannato, più vicino alle tentazioni di Boromir che alla grandeure di Aragorn. Eppure, super affascinante. Non so se possiamo chiamarlo protagonista del romanzo, ma sicuramente è il personaggio di cui seguiamo l’arco completo (no pun intended). Si muove con scaltrezza, è il nostro guerriero che mazzola senza pietà (anche se lo vediamo molto poco all’epoca), ha l’aria di chi la sa lunga, sicuramente ha vissuto molte vite. Però è una canaglia, neanche troppo simpatica, e questo lo rende unico nel romanzo.
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– È stato già sottolineato. Ma sicuramente la foresta qui raccontata è molto più viva e animata di quella di Dumas o che si è vista nei film. Eppure non si è trasformata in Fangorn, resta comunque “credibile” e “realistica”. Peraltro è proprio un “topos” del Medioevo fiabesco quello del bosco incantato. Qui WM4 è riuscito nell’intento di farci entrare nell’incanto del bosco (in cui muori di fame e di freddo, o impantanato) senza però schiacciarci con il circo di fate, folletti e gnomi.
– Il ritmo. Perfetto. Grazie ad un montaggio sapiente che non si ferma troppo tempo su nessuno dei personaggi (anche se, credo, prediliga Gisborne).
Per quanto riguarda l’aspetto negativo, premetto che è del tutto soggettivo. E tenderei a spiegarlo come “WM4 è rimasto intrappolato nella Dea Bianca”. Ho notato infatti che tutti i personaggi femminili (tranne forse la serva di Marian?) sono in qualche modo depositari di un mondo infero e supero, sfaccettature di un divino incanto che le permea. Come se non fosse possibile avere un’umana “solo umana”. Ci deve essere vicino un aspetto di divinazione, di preveggenza, di sacralità. Alla lunga mi ha infastidito e infatti non sono riuscito ad affezionarmi a nessuna di loro, troppo distanti dal dover soddisfare i bisogni primari per poterci empatizzare.
In conclusione, una lettura da raccomandare. Con molti aspetti “politici” che qui ho evitato di sottolineare perché è già stato fatto. Spero che la Banda Hood possa diventare il ponte per un’opera ‘totalmente’ fantastica di WM4, perché mi pare pronto nella scrittura e nelle idee a fare il gran passo (no pun intended!).
Grazie della disamina, Ekerot. Vorrei chiosare – previa ALLERTA SPOILER- ma quasi più da lettore che da autore (ormai quel che è scritto è scritto), sulla criticità che indichi: «WM4 è rimasto intrappolato nella Dea Bianca». Senz’altro vero, se ammettiamo che mi sono voluto intrappolare, ecco, che è stata una scelta mirata.
Nel romanzo non ci sono personaggi femminili «solo umani» e questo probabilmente rende difficile affezionarsi a loro. I tre personaggi femminili preponderanti – Maud, Marian e Eleanor – sono specificamente i tre volti della Dea Bianca: madre natura, vergine siderale, strega inferica. O anche la giovane, l’adulta e la vecchia.
Credo però che ognuna di queste tre abbia un suo lato storico/umano ben visibile, o per lo meno un tema “umano” di cui è portatrice.
Maud è pazza, vive in un mondo suo, popolato di santi, fate e creature fantastiche, e per questo è stata reclusa dal potere maschile.
Marian è astuta, intelligente, e per questo anche lei è stata reclusa dal potere maschile, ma ha un desiderio di evasione, di affrancamento, che la portano a osare, a sfidare quel potere.
Eleanor è astuta, intelligente, colta, e per questo è stata reclusa dal potere maschile, ma ha saputo entrare nei giochi di quel potere e vincere alle sue stesse regole.
Poi ci sono altre due donne: la citata serva di Lady Marian, che è una figura meramente ancillare, ancorché strategicamente importante, e la ragazza “muta”. Dico subito che per me (qui siamo tutti lettori, remember) quest’ultimo è il personaggio femminile più importante. Anche lei è uno dei volti della Dea, riconoscibilissimo, che sta accanto a uno dei protagonisti dall’inizio alla fine determinandone il destino, ma è prima di tutto una figlia del popolo. Il fatto che non dica una parola, e che il suo comportamento nell’arco dell’intera parabola sia apparentemente contraddittorio, per me la rendono bellissima, umanamente bellissima, intendo.
È vero, non mi sono preoccupato di caratterizzarle psicologicamente in modo approfondito queste donne, così da stimolare l’empatia di chi legge. Ognuna di loro rimane con il suo tema, con la sua “cosa”, e attraversa la storia con quel portato. Ma in fondo, a parte il personaggio del leader della banda, che è più indagato emotivamente, anche tutti i personaggi maschili rimangono psicologicamente abbozzati, ovvero caratterizzati da un paio di pennellate precise e niente più. Perfino Gisborne rimane un mistero fino alla fine (e lo è stato anche per me, giuro).
Quindi incasso volentieri la critica, la capisco, ma la mia è stata una scelta a monte: la mia storia doveva parlare della potenza “divina” femminile e della conflittualità con il potere del Dio Padre e del patriarcato, e quindi di incarnazioni di quella potenza avevo bisogno.
Quanto al passaggio al “totalmente” fantastico, bisogna essere molto cauti, perché il rischio del “circo di fate, folletti e gnomi” o, mutatis mutandis, “elfi, nani e orchi” è alto. Per me ad esempio gli episodi in questo romanzo che si svolgono nella parte più mistica della foresta di Sherwood sono già narrativa fantastica. In fondo, l’Inghilterra del tardo XII secolo per chi legge qui e ora, è tanto più ordinaria e realistica di un paese immaginario?
Ad ogni modo, chi vivrà vedrà.
Anche per me la ragazza senza parola (non è detto che sia muta o magari non mi ricordo io) è il personaggio femminile più importante e uno dei più importanti del romanzo, per l’intreccio e per ciò che rappresenta.
Le donne del popolo nei vs romanzi riescono particolarmente bene e danno vita a personaggi plausibili quanto rari in letteratura. La ragazza senza parola giganteggia nel suo essere un macigno, impenetrabile, mai retorica e mai scontata, come Marie. Evita tutte le trappole, a partire da quella della vittima riconoscente innamorata e sottomessa o della duplicità. Semplicemente reagisce agli avvenimenti ogni volta che può.
Alla fine sembra un’adolescente che vendica un po’ goffamente i suoi compagni di origine anch’essi adolescenti.
Invece mi sarebbe piaciuta qualche parola in più su Aliénor, la sovrana lettrice anche nella tomba.
Intanto grazie mille della risposta.
Avevo dovuto scorciare il post per motivi di caratteri e tra le frasi tolte c’era un “sicuramente per scelta voluta”. Non avevo dubbi che fosse stata una precisa volontà quella di rispettare la “triade” della Dea Bianca.
Forse per il fatto che ne hai a lungo parlato in altri libri e saggi, forse perché poi mi sono andato a leggere “La figlia di Omero” e appunto “La Dea Bianca”, era un po’ come se mi aspettassi di ritrovare certe teorie anche nel romanzo, e quindi sperassi che invece tu le rivoltassi. Però è una mia faccenda assolutamente soggettiva. La bambina “muta” è l’esempio migliore e forse più originale di adattamento della figura della Dea (mi era venuta in mente la bambina di Léon, giusto per dirti). E in effetti lei, secondo me, resta impressa più a fuoco nel cuore rispetto alla triade “ordinaria”.
Sul “totalmente fantastico”, si tratta di un’etichetta sciocca, l’ho scritta giusto per risparmiare caratteri.
Molte parti di questo e di altri tuoi romanzi sono già letteratura fantastica. Non intendo in realtà un’ambientazione 100% fantasy, alla Tolkien, per capirci. Anzi. Per me tu sei più vicino alla Rowling (e lo dico con enorme ammirazione per la saga di HP, sia chiaro). Col fatto che anche in questo hai raccontato di ragazzi e ragazzini (con molta precisione), hai facilità a costruire mondi su quello che abitualmente abitiamo, io sento che tu abbia tutte le carte in regola, il talento e una sensibilità narrativa (per evitare alcuni inciampi in cui invece è caduta la Rowling) adatte per costruire una saga tutta tua. Anche ambientata nell’oggi, in Italia, o altrove. Lo dico da lettore, non da fan.
«[…] la mia storia doveva parlare della potenza “divina” femminile e della conflittualità con il potere del Dio Padre e del patriarcato […]»
Si potrebbe affermare che se esiste un luogo dal quale partire per fare ricerca sull’origine del conflitto di poteri tra patriarcato e divinità femminile, quel luogo è sicuramente la foresta.
A partire dalla parola stessa
foresta che ho scoperto essere un termine giuridico, introdotto con la conquista normanna, con il quale in pratica il monarca si appropriava dei territori circostanti gli insediamenti umani.
Giambattista Vico nella Scienza Nuova sosteneva che:
«L’ordine delle cose umane procedette che: prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l’accademie.»
Credo che Vico fornisca quindi l’ipotesi più plausibile sulla genesi del patriarcato quale forma di potere assoluto che và imponendosi a partire da traumi (religiosi) originatisi proprio nella selva oscura.
Il patriarcato si impone quindi nei secoli attraverso una forza distruttrice più che generatrice, una finta gestione (il moderno greenwashing) che è in realtà devastazione ininterrotta dell’habitat oltre che della memoria culturale in esso custodita.
Una curiosità: le mura che separano Maud e le sue compagne da John e dalla foresta rappresentano un’istituzione reale, storica tipo una prigione o un convento?
Sì, i Normanni introdussero in Inghilterra una serie di leggi “forestali”, e successivamente proprio la turbolenta dinastia dei Plantageneti (Enrico-Riccardo-Giovanni) andò a costituire le basi della nazione inglese facendosi forza anche del nuovo regime forestale. È probabile che l’associazione tra Riccardo Cuordileone e Robin Hood (del tutto assente nelle ballate medievali) nasca da un fatto storico, e cioè dalla decisione di Riccardo, all’indomani della riconquista di Nottingham, di visitare la “sua” foresta tanto decantata. L’idea dei banditi che trovano rifugio nella foresta del re, in absentia regis, e che in qualche modo gliela riconsegnano quando ritorna, venendo graziati come partigiani lealisti, deve essere nata da lì.
Va detto anche che i parenti di Riccardo di discendenza normanna nel meridione d’Italia adottarono politiche forestali molto simili a quelle inglesi. Potrebbe esserci stato un Robin Hood nostrano in un qualche bosco tra la Sicilia e la Puglia.
Per quanto riguarda Maud…non è rinchiusa propriamente da un muro, ma da una staccionata/recinto, comunque invalicabile. L’idea l’ho presa dalla fondazione nel 1130 di un monastero di suore benedettine, St. Mary in the Park, a Carlton in Lindrik, nel Nottinghamshire, cioè più o meno lungo il percorso che la banda fa spostandosi a sud dallo Yorkshire.
Dopo varie peripezie climatiche, “La vera storia della banda Hood” è stata presentata al Don Bosco. Sempre sul filo del rasoio, sempre sotto minaccia di sgombero a causa del sindaco più “progressista” ed “internazionalista” d’Italia… Sventolare la bandiera palestinese non gli servirà a nascondere le sue gravi responsabilità politiche nella gestione di questa città.
Il mio entusiasmo per questo libro è determinato da vari fattori e da una frase in particolare: “Qui non ci sono leggi, ci sono storie”. Una frase di Maud che mi è sembrata davvero l’ incredibile metafora di una stagione al Don Bosco.
Poi c’è Ned, un bambino gracile e farneticante, sull’ orlo del fanatismo religioso. Non un eroico ribelle, ma un bambino impaurito. Preda di un mondo magico. È l’ opposto di Gavroche, ma lo riporta alla mente.
Poi c’è il vecchio cieco, ruvido, affilato, sottile e ammaliante. Una figura topica della letteratura. Si colloca naturalmente nella schiera dei miserabili, ma è come una figurina staccata dal contesto, perché sa intuire i pensieri e la mentalità dei potenti.
Vede l’ invisibile.
E poi c’è la foresta. Carica di vita interiore propria, il racconto è costellato di espressioni affettuose per descriverla. ( “Ned toccò il tronco dell’ albero con la mano. “Emla è la nostra casa” bisbigliò. ” Qui nessuno può farci del male”)
E proprio come a Sherwood, a Bologna il 3 aprile è nata una piccola intifada silvestre. Che ha esteso il suo potere antagonista in maniera inattesa e inaspettata. Attraverso un modello che contraddice tutto ciò che viene descritto in maniera banalmente binaria e ineludibile.
Le mie uniche “riserve” sono sui personaggi femminili. E non perché non siano approfonditi, ma perché sono “simbolici”.
Come sempre la descrizione della condizione sub umana femminile porta con sé un retaggio vergognoso e scomodo. Difficile da accettare senza una qualche forma di “consolante” riparazione.
Detto questo, grazie per questo bellissimo libro.
È così faticoso, in un contesto di lotta eterogeneo come questo, distinguere tra “ambientalismo” ed “ecologismo”, per fare solo un esempio. Nello sforzo continuo di stabilire un linguaggio comune. Poi, per fortuna, l’ intensità narrativa di libri come questo restituisce, in maniera immediata e diretta, la verità del conflitto reale tra Sherwood e Nottingham ( con tutte le contraddizioni fertili contenute nella metafora). Senza mai trascendere nella fasulla complessità di astrazioni intellettuali e linguistiche. Assegnando, inoltre, alla foresta un’ anima non umana e un ruolo principale.
Precisazione molto interessante questa sulla legislazione forestale dei Normanni. Non ci avevo mai pensato, ma le basi giuridiche della società dove nascono le leggende meritano di esser scandagliate, al di là della questione fiscale che è l’aspetto più conosciuto.
Con totale anacronismo (atteggiamento che fra l’altro detesto) a me la prigione penetrabile di Maud ha invece evocato i magdalene, quei conventi-industrie per supposte peccatrici, disabili e quant’altro tra XIX e XX secolo, con le loro suore sfruttatrici, anche se qui il tema del lavoro non c’è. Non ho idea di cosa mi abbia fatto associare le due cose. Forse per via della relativa sorveglianza nei magdalene che permetteva la fuga ma dove le ragazze in realtà rimanevano per non sapere dove andare, per non potersi magari nemmeno pensare altrove. Del resto in un romanzo ai limiti del claustrofobico perché tutti i personaggi sono stretti in una morsa di violenza e di miseria senza scampo, per quanta intelligenza e ardire possano mettere in campo, quell’atmosfera aleggia comunque.
Oppure per via dell’ambientazione geografica nelle isole del regno britannico.
P.S.: questo commento andrebbe di seguito a quello di WM4 più su sulla foresta. Ma non c’è verso di farlo capire al s/w, per cui cedo l’arco e rimarrà qui. Non so se dipenda dal fatto che sto usando un IPad.